CONOSCERLE PER COMBATTERLE
Mario Capanna (n. 1945).
Il leader del Movimento studentesco del 1968, poi segretario di Democrazia Proletaria, Mario Capanna, affida alla propria pagina Facebook un intervento di critica e un guanto di sfida (o di dialogo) al ministro dell’Istruzione Giuseppe Valditara, che ha fortemente stigmatizzato le proteste e le occupazioni degli studenti universitari in solidarietà col popolo palestinese vittima del genocidio condotto dalla macchina da guerra israeliana.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Il SESSANTOTTO E IL MINISTRO
di Mario Capanna
L’acritico rispetto per l’autorità è
il più grande nemico della verità.
(A. Einstein)
“Dobbiamo ripristinare il principio di autorità (…) e noi dobbiamo sconfiggere quella cultura sessantottina che purtroppo esiste nel nostro Paese”: così irruppe l’altro giorno Giuseppe Valditara, intervenendo al congresso nazionale di DirigentiScuola.
Il ministro dell’Istruzione e del Merito (!?) è ossessionato dal Sessantotto. Come se un tarlo lo rodesse di continuo.
Infatti aveva già sentenziato: “Basta sessantottini, nella scuola tornino i doveri” (25 aprile 2024); “vedo le radici lontane del ’68 che hanno messo in discussione il principio di autorità in generale” (17 luglio 2023); “l’eredità del ’68 è la negazione dell’autorità, l’aver messo sullo stesso piano il messaggio di chi sta in cattedra, per insegnare, e le opinioni di chi sta sui banchi, per apprendere” (13 dicembre 2022).
La fobia del Sessantotto attraversa il tempo, e il ministro ha illustri predecessori.
Nicolas Sarkozy, in piena campagna per la conquista dell’Eliseo, mollò i freni: “Il Sessantotto ha imposto il relativismo intellettuale e morale, ha introdotto il cinismo nella società, ha abbassato il livello morale e politico” (30 aprile 2007). Le grandi lotte di allora peggio di Attila…
Lo seguì a ruota l’ex presidente del Consiglio Giuliano Amato, noto “riformista”: “Una delle ragioni per le quali gli studenti studiano male è perché alcuni insegnanti sono usciti da anni in cui le discussioni sul Vietnam avevano preso il posto dell’imparare” (23 maggio 2007). Ovvero: il “dottor sottile” divenuto così… sottile, da rendersi evanescente.
Anche Papa Benedetto XVI volle dire la sua, parlando di “cesura del Sessantotto”, vedendovi “l’inizio o l’esplosione – oserei dire – della grande crisi culturale dell’Occidente” (25 luglio 2007).
Almeno Joseph Ratzinger, sottolineando la cesura del Sessantotto, ne riconosce la grandezza. Al contrario degli altri, egli parlava per esperienza diretta, date le contestazioni da cui fu investito nel 1968 quando insegnava all’Università di Tubinga, e per essersi mosso poi in prima fila nel reprimere la teologia della liberazione in America latina (lui, che pure veniva catalogato fra i teologi “progressisti”).
Il fatto è chiaro: anche dopo più di mezzo secolo, il Sessantotto fa paura ai conservatori e ai reazionari di ogni risma. C’è da capirli, poveretti. Perché, come disse quello spirito profetico di Ernesto Balducci, “è da allora che il potere va in giro nudo”. Averlo spogliato di ogni sua aureola autogiustificante è uno dei meriti indelebili del Sessantotto.
Non la menerò, qui, sulle conquiste di allora – e dopo – nel campo dei diritti e della nuova visione del mondo, per cui, da quel momento, lo sguardo sulle cose – tutte le cose – non è più uguale a prima, nonostante la sistematica repressione scatenataci contro ovunque. In merito bastano, e avanzano, i miei libri.
Sottolineo solo che il termine contestazione viene da contestatio, che significa “affermazione”, e rinvia al verbo contestor (“chiamo in testimonianza”). Ha un’incredibile ricchezza di significati: contiene testis (“testimone”), rimanda a contineo (“contengo”, “racchiudo”) e a contexo (“tessere, intrecciare insieme”).
Sicché, per farla corta: ci chiamammo in testimonianza, simultaneamente nei continenti, a milioni – studenti, giovani, lavoratori, intellettuali – acquisendo ognuno la padronanza di sé (consapevolezza meravigliosa) e indicando un nuovo mondo possibile, al di là della guerra, dello sfruttamento del profitto capitalistico, per la giustizia e la fratellanza tra le persone e i popoli.
È, questa, una delle ragioni profonde per cui la rivoluzione culturale del Sessantotto è stata l’unica rivoluzione non consumata. Vale a dire: non finita stritolata nelle dinamiche simmetriche a quelle che intendeva combattere. Come accadde, per esempio, alla rivoluzione francese, a quella bolscevica ecc.
La questione dell’autorità sembra il chiodo fisso di Valditara. Parlamentare di lungo corso, prima militante di An e poi della Lega, è da supporre che per lui “Dio, Patria, Famiglia” costituiscano l’autorità triadica originaria.
Sembra non riuscire a capire che l’autorità ha senso, e merita rispetto, se viene usata per l’emancipazione di coloro verso cui si esercita. Se non svolge questa funzione, è autoritarismo, e va contestata.
Prendiamo il caso del rapporto insegnante-studente: l’autorevolezza del primo dipende dalla sua capacità di educare, vale a dire di e-ducere, “condurre fuori”, “estrarre” le potenzialità del discente. Per cui è buon docente chi impara mentre insegna, ed è buon studente chi insegna mentre impara. Esattamente il contrario dell’ossessione di Valditara, secondo cui uno è… autorità per il solo fatto che siede in cattedra.
Lo so, è duro da accettare e, soprattutto, da praticare. Ma: o ci si arriva, oppure ogni predica sull’autorità lascia semplicemente il tempo che trova. E fa ridere, per il suo semplicismo conservatore.
Sul tema “Il Sessantotto, la scuola, l’autorità” invito volentieri Valditara a un confronto pubblico diretto. Scelga pure lui il luogo e la forma. Non è una sfida, vuole essere un dialogo.
Spero che non si comporti come Indro Montanelli, che cannoneggiò ripetutamente il Sessantotto, da dietro la comoda trincea dei suoi giornali, e, invitato al confronto, non trovò di meglio che sottrarsi. A proposito di coraggio… delle proprie idee.
25 maggio 2024
Mario Capanna
(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore).
Inserito il 26/05/2024.
Valerio Romitelli, storico delle dottrine politiche, dei movimenti e partiti politici, ci aiuta a comprendere perché è più corretto riferirsi all’estrema destra di Meloni con l’espressione «neofascismo» piuttosto che «fascismo» e ci offre, al contempo, una lettura delle diverse declinazioni e trasformazioni che, nel corso degli anni, ha attraversato l’antifascismo italiano, processo che in qualche modo ha favorito la vittoria dei «neofascisti» alle ultime elezioni.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
(Neo)Fascismo e antifascismo, oggi
di Valerio Romitelli
La frase con cui Marx ne Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte riprende e rettifica Hegel per misurare le differenze tra Napoleone e il suo nipote Napoleone III è arcinota: «i grandi fatti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire, due volte […] la prima volta come tragedia, la seconda volta come farsa».
I
Ci si azzarderà allora a sostenere che la Meloni è la farsa di Mussolini? Il suo governo la caricatura di quello formato dall’allora futuro Duce nell’ottobre di cent’anni fa? Non esageriamo. Nell’ottobre […] 2022 il senatore Scarpinato1 in un memorabile discorso2 al parlamento ha messo i puntini sulle i. La tradizione che il governo Meloni incarna non è esattamente il fascismo, ma il neofascismo. Questa precisazione è decisiva. A partire da essa si spiegano molte cose.
Si spiega lo sbaglio colossale di tutti coloro più o meno «rosso-bruni» che hanno intravisto in questo governo una qualche possibile protezione nazionalista di fronte alle perversioni della globalizzazione neo-liberale. Si spiega perché questo governo non lasci la ben minima speranza a qualsiasi pur vaga nostalgia per l’autarchia degli anni Trenta. Si spiega come mai la leader di Fratelli d’Italia non abbia dimostrato alcuna riserva critica rispetto alla fedeltà atlantista che il governo precedente, l’indecorosa ammucchiata attorno all’ineffabile Draghi, aveva eretto a suo vessillo principale. Si spiega perché nel prossimo avvenire nulla possa moderare l’adesione italiana alle politiche europee di sostegno sistematico, fatto di armi e soldi, al governo Zelensky. Si spiega fino a che punto la sottomissione italiana ed europea alle strategie di guerra americane sia confermata e proiettata ad oltranza, costi quel che costi3.
Cosa vuol dire infatti che il governo attualmente in carica «da noi eletto» si situa nel solco del neofascismo piuttosto che del fascismo? Vuol dire che, se il fascismo di un secolo fa era stato (ahinoi!) un fenomeno comunque autoctono, deciso e strutturato dalle lotte sociali e politiche interne al bel paese, non così è stato per il neofascismo, né così è per il governo Meloni.
Chi sono stati infatti e cosa hanno fatto i neofascisti nel secondo dopoguerra italiano? Non solo e non tanto hanno militato per tenere viva la nostalgia per il Ventennio del Duce, ma hanno soprattutto tenuto fede ai sentimenti più primari che avevano dato vita allo stesso fascismo propriamente detto, quello che aveva fatto i primi passi nel corso del «biennio rosso». Sentimenti primari che andavano dall’antisocialismo e dall’anticomunismo più viscerali all’odio sistematico per ogni visione e lotta «di classe» intese in senso marxista. Il tutto galvanizzato dal rilancio dell’ideologia bellicista, già diffusasi nel corso della Grande Guerra. È proprio seguendo questa ostilità militaresca verso qualunque gradazione del «rosso», ma in un’Italia e un’Europa oramai completamente sotto tutela angloamericana, che i neofascisti nella loro maggioranza hanno finito per collaborare coi servizi segreti delle potenze anglosassoni, rafforzandone l’egemonia tramite quegli attentati, trame, complotti, depistaggi, assassini singoli o di gruppo, eccellenti o ignoti che hanno fatto la ben nota ma sempre faticosamente e solo parzialmente riconosciuta «strategia della tensione». Strategia da «guerra fredda» il cui unico senso stava nel fungere da opera di «contenimento» di quel comunismo dilagato nel frattempo in tutto il mondo proprio ad est dell’Italia e dell’Europa, nonché presente «da noi» col più corposo partito comunista di tutto l’occidente capitalista.
Questo il succo desumibile dall’ammirevole e coraggioso, quanto sintetico discorso dell’onorevole Scarpinato, di cui è consigliabile l’ascolto onde anche tarare l’interpretazione qui fornita.
II
Tutto ciò non vuol comunque dire che il governo Meloni sia da considerare un governo fantoccio, le cui fila sono tirate da Washington. Ma vuol dire che, lungi dallo spezzare o anche solo attenuare i condizionamenti globali subiti dai precedenti governi, l’attuale non promette alcuna discontinuità di rilievo.
Capitalismo sì sempre abbastanza ricco, nonostante tutto, ma anche sempre più disperso di altri, quello italiano pare quindi tutt’oggi destinato a restare quello che è sempre stato dal dopoguerra in poi: dotato di una potenza di secondo grado rispetto alle strategie globali, specie quelle decise dall’imperialismo yankee, per quanto declinante, sempre a capo del mondo.
Se novità ci saranno col governo Meloni, ciò dipenderà dal mutato «spirito del tempo» a livello globale. Spirito del tempo che pare caratterizzato anzitutto dalla conversione delle democrazie liberali ad immagine americana, in democrazie, sì sempre fondamentalmente neoliberali (specie sui luoghi di lavoro e nelle amministrazioni pubbliche al loro interno), ma anche e soprattutto sovraniste, specie in politica estera: aventi come ideale nelle relazioni internazionali, non più tanto il libero scambio di mercato, né l’impegno per una democratizzazione universale, ma la gelosa e intransigente difesa di una supposta identità etnica occidentale, sempre più esagitata e posseduta da una ostilità irriducibile nei confronti dei due maggiori concorrenti orientali Russia e Cina.
Chiaro esempio delle conseguenze di un simile contesto viene dalla Polonia. Se questo paese infatti, prima della invasione russa dell’Ucraina, si trovava non di rado criticato per il suo lacunoso rispetto dei valori democratici e liberali, dopo tale invasione pare essersi scagionato da ogni critica solo grazie all’impegno profuso nell’appoggiare la reazione militare di Kiev contro le truppe di Mosca. Ecco dunque un fatto caratteristico della presente epoca di sovranismo dilagante: il fatto che priorità obbligatoria nell’agenda di ogni governo occidentale sta nell’esibire la più ferma convinzione nel partecipare alla guerra verso l’oriente, oggi contro Putin, domani forse contro Xi Jinping. Se quindi, come pare, il governo Meloni proseguirà senza tentennamenti su questa via, si può stare certi che il suo background più o meno fascistoide sarà sempre meno problematico per l’Ue e la Nato.
III
Può allora insorgere la domanda: se questo background incide così poco sulle strategie del capitalismo italiano e occidentale, non hanno forse ragione i commentatori che ne banalizzano la particolarità ideologico-politica di estremissima destra, anziché perdere tempo a scandalizzarsi, denunciarlo e provare a soppesarne le conseguenze? Questa è in effetti la più certa conclusione cui si giunge se si crede che i destini del mondo siano sempre integralmente decisi dalle «operazioni del capitale» e dalle eventuali lotte contro di esse. Il discorso può prendere invece un’altra piega se si pensa che anche le ricerche e le sperimentazioni di alternative al capitalismo abbiano contato e possano sempre contare nel condizionare i destini del mondo.
È sotto questo profilo che l’andata al governo di Fratelli d’Italia appare in tutta la sua disastrosa rilevanza. Disastrosa rilevanza che chiama in causa un orientamento che dal secondo dopoguerra a oggi ha enormemente condizionato simili ricerche e sperimentazioni in Italia. Si tratta ovviamente dell’orientamento antifascista. Di quell’orientamento antifascista che di fronte all’immagine della Meloni a Palazzo Chigi non può non riconoscere una considerevole sconfitta. Così considerevole che se non viene discussa e rielaborata adeguatamente rischia di trasformarsi in una disfatta di lunga durata. È ben noto infatti che una volta superato un tabù, la tentazione di far saltare ogni altro limite può divenire incontenibile.
Sì, perché in tutta la storia dell’Italia repubblicana non è forse stato uno dei più solidi tabù anche solo la vaga idea che dei fascisti comunque travestiti potessero tornare al potere? Come non prendere atto che per quanto contrastato l’antifascismo dal 1945 a oggi sia stato uno dei primi, se non il primo orientamento culturale e politico di tutte le istituzioni pubbliche italiane? Come non sorprendersi che, dopo più di settant’anni di tale egemonia, sia proprio il suo nemico dichiarato a conquistare il potere di governo? Come non chiedersi se, dato un simile risultato clamorosamente negativo, non ci sia stato qualcosa di profondamente equivoco in tutto il discorso antifascista?
IV
Senza pretendere di affrontare le enormi questioni connesse a un tale doveroso quanto spinoso bilancio limitiamoci qui solo a qualche osservazione schematica, per così dire, di metodo.
Da quando l’antifascismo esiste (diciamo dal Manifesto degli intellettuali antifascisti del 1925 promosso da Benedetto Croce) esso è stato la posta in gioco tra differenti visioni, tra le quali due prevalenti.
A) Da un lato, la visione moderata, liberal-democratica, favorevole al capitalismo, che critica e combatte il fascismo proprio in quanto antidemocratico, illiberale, più protezionistico che aperto al libero mercato, ma che (come fecero Churchill e la maggior parte dei successivi primi ministri britannici assieme a tutti i presidenti americani a partire da Truman) lo considera «utilizzabile» in casi di «pericoli» supposti più gravi, quali il comunismo o oggi i «dispotismi orientali», Russia e Cina in testa.
B) Dal lato opposto, la visione più «intransigente», «di classe» e alla ricerca di alternative al capitalismo, che critica e combatte il fascismo in quanto una delle peggiori forme di governo dello stesso capitalismo (come teorizzò Togliatti nel 1935 a Mosca, ammettendo però poi una vasta gamma di compromessi).
Ora, queste due visioni A e B si sono contrastate apertamente durante l’epoca della «Guerra fredda» e i «Trent’anni gloriosi», tra il 1945 e il 1975, quando il comunismo era egemone in mezzo mondo e puntava a dilagare nell’altra metà, nonostante le politiche di «contenimento» da parte degli Stati Uniti e dei loro alleati, i quali appunto ricorsero al reiterato utilizzo di neofascisti per scopi terroristici.
Dagli anni Ottanta però la visione B ha perso quasi ogni supporto istituzionale, data la perdita di credibilità di tutti i regimi a direzione comunista, il crollo dell’Urss e l’adeguamento al capitalismo della Cina. Cosicché a difendere effettivamente questa visione da allora in poi sono rimasti solo movimenti più o meno antagonisti e alcuni intellettuali di prestigio internazionale.
Il tutto mentre invece la visione A ha conosciuto il suo massimo trionfo, supportando quella che è stata giustamente chiamata l’«epoca della democrazia», durante la quale la specificità stessa dell’analisi critica e del contrasto al fascismo è stata dispersa a profitto della identificazione di una categoria (fino agli anni Cinquanta inedita in tutta la storia del pensiero politico) designante il nuovo nemico ideologico delle democrazie con a capo quella americana. Sarebbe a dire quel «totalitarismo» che si suppone contenga e omologhi ogni forma di fascismo, nazismo e comunismo. Si è dunque avuta così una conversione di questa visione liberal-democratica dell’antifascismo in antitotalitarismo. Conversione la quale ha di fatto comportato la moderazione di ogni condanna del neofascismo, come quello di cui la Meloni è erede. È dunque anche da qui che viene una delle ragioni del suo successo.
La bruciante domanda che resta aperta è quindi, in conclusione: come non lasciare estinguere la visione più militante, anticapitalista dell’antifascismo, proprio ora che i neofascisti sono al potere e paiono persino aumentare i loro consensi? Di sicuro, vano non sarebbe adoperarsi per smascherare tutte le equivocità non solo della tradizione liberal-democratica dell’antifascismo, ma anche della sua più recente conversione in antitotalitarismo. E vano pure non sarebbe ripensare la tradizione di classe, anticapitalista dell’antifascismo, per farla riemergere dall’emarginazione politica e culturale che ha subito a partire dagli Ottanta in avanti.
2 gennaio 2023
Valerio Romitelli
(Tratto da: Valerio Romitelli, (Neo)Fascismo e antifascismo, oggi, in https://www.machina-deriveapprodi.com/post/neo-fascismo-e-antifascismo-oggi).
Note
1 Ex magistrato e senatore per il Movimento 5 stelle.
2 https://www.youtube.com/watch?v=oNabMzqHvH8
3 Se l’astensionismo alle ultime elezioni è risultato così alto non è da escludere che ciò sia accaduto anche perché Fratelli d’Italia si è presentato meno nazionalista e più europeista e atlantista di quanto le opinioni più critiche rispetto alla globalizzazione e all’egemonia americana potevano sperare.
Inserito il 23/05/2024.
Diciamo «No» al fascismo all’Università Statale Russa di Studi Umanistici.
Pubblichiamo un appello degli studenti dell’Università Statale Russa di Studi Umanistici (RGGU) per bloccare l’intitolazione della Scuola Superiore di Politica presso la medesima università al filosofo russo Ivan Aleksandrovič Il’in (1883-1954), che vide nel fascismo e nel nazismo gli strumenti ideali per combattere il bolscevismo in Unione Sovietica e nel mondo.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
STUDENTI DELLA RGGU CONTRO IL FASCISMO IN UNIVERSITÀ
Noi, studenti dell'Università Statale Russa di Studi Umanistici (RGGU) e cittadini preoccupati, esprimiamo la nostra sincera indignazione e il nostro turbamento in relazione alla creazione di un centro educativo e scientifico intitolato al filosofo di estrema destra Ivan Il’in.
Nel XX secolo Ivan Il’in giustificò le attività del regime fascista tedesco e i crimini di Hitler al fine di contrastare il bolscevismo e scrisse che era necessario un fascismo russo.
Il centro scientifico di una delle principali università del paese vittorioso sul fascismo non può portare il nome di un sostenitore delle idee fasciste, anche tenendo conto della situazione socio-politica in cui si trova attualmente il nostro Paese. L’università deve rimanere una sede di conoscenza e creatività, libera da congiunture politiche e propaganda. Siamo convinti che la filosofia di Il’in abbia poco in comune con i valori dell’umanità progressista, proprio come l’idea fascista, che è una costruzione politica innaturale.
Diversi mesi fa le azioni pubbliche e l'indignazione generale contribuirono alla sospensione delle procedure: l’amministrazione fu costretta a cancellare l’annuncio della dedica del Centro scientifico a Ivan Il’in. Ma quella vittoria del buon senso non fu definitiva. Come si è appreso dai media e dalle pubblicazioni ufficiali dell'università, la Scuola Politica Superiore “Ivan Il’in” è stata approvata con ordinanza del 23/07/23 N 01-546/osn.; il capofila di questa iniziativa è stato il filosofo di estrema destra Alexander Gel’evič Dugin.
Vogliamo credere che non siamo soli nel nostro impulso, e quindi chiediamo aiuto a tutti i progressisti!
Chiediamo di rinominare il centro educativo e scientifico e di organizzare un voto pubblico tra gli studenti per il nome della nuova Scuola Politica Superiore.
Firma la nostra petizione e aiutaci a spargere la voce https://chng.it/jWNPGpk8pR
Potete contattarci e aiutare l'iniziativa tramite messaggi pubblici. Garantiamo riservatezza agli studenti.
(in costruzione)
Denis Parfenov.
Fonte della foto: https://www.rline.tv/news/2024-04-26-d-a-parfenov-ilin-nam-ne-nuzhen-/
Dal sito della tv «Красная линия»
Gli studenti universitari hanno firmato una petizione contro la nascita di un centro universitario intitolato a Ivan Il’in in cui hanno sottolineato che il filosofo accolse positivamente l'avvento dei fascisti al potere, giustificò l'invasione dell’URSS da parte delle orde di Hitler con la necessità di combattere il bolscevismo, e in ogni il modo possibile promosse l'idea della necessità della nascita di un fascismo russo.
La risposta della direzione dell'istituto universitario non si è fatta attendere: dal punto di vista del rettore dell'università Alexandr Bezborodov la petizione sarebbe stata pubblicata da «agenti ucraini» e non da studenti. Il deputato del Partito Comunista della Federazione Russa Denis Parfenov si è espresso a sostegno dell’iniziativa studentesca e ha inviato un’interpellanza parlamentare al rettore dell'Università Statale Russa di Studi Umanistici per chiedergli conto della creazione di un centro educativo e scientifico intitolato al «filosofo fascista» Ivan Il’in.
A Nakanune.ru Denis Parfenov ha spiegato la sua posizione.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Denis Parfenov* (KPRF): «I filosofi fascisti vanno bloccati con tutte le forze disponibili»
– Ci racconti, perché ha deciso di presentare un’interpellanza parlamentare?
– In generale, il problema che i nostri governanti vanno in giro citando Il’in non è nuovo: un tempo veniva citato abbastanza attivamente, e ai massimi livelli. Ciò ha ripetutamente provocato, per usare un eufemismo, sorpresa, e tra molti aperta indignazione e anche rifiuto piuttosto duro, perché si tratta di un filosofo fascista con opinioni chiaramente di destra, colui che prima ha glorificato le Guardie Bianche, che erano, a suo avviso, «i fascisti più giusti», e poi ha accolto con favore l'arrivo di Hitler al potere, e anche dopo la seconda guerra mondiale, quando i crimini contro l'umanità commessi dai paesi dell'Asse avrebbero dovuto essere evidenti al mondo intero, Il’in ha continuato a tenere una posizione filofascista, a sostenere questa ideologia, questo sistema. E, inoltre, ha continuato a parlarne, dicendo che coloro che continueranno a professare questa ideologia devono tenere conto degli errori del passato, non chiamarsi più fascisti ma perseguire la stessa linea: chiamarsi in un altro modo e agire più astutamente dei loro predecessori.
Quando questa figura diventa una delle cornici ideologiche della politica in corso di attuazione, non sorprende che si alzino contro molte voci e che molti chiedano giustamente che da un filosofo con tali opinioni sia le autorità che la società si allontanino e trovino qualcuno più degno, con idee più adatte alla cultura e allo spirito della nostra società.
Pertanto, quando ora si è riproposta una situazione così scandalosa con il tentativo di aprire un centro educativo e scientifico, e non in un posto qualsiasi, ma addirittura presso l’Università Statale Russa di Studi Umanistici – una delle principali università – e di intestarlo a Il’in, non sorprende affatto che la comunità studentesca e ampi settori della nostra società si siano fortemente opposti. E spontaneamente è iniziata una campagna pubblica per scongiurare questa sciagura, si cerca di dare una spinta sia alle nostre autorità, che ancora tacciono, sia alla direzione dell’università, affinché si possa prendere una decisione diversa; dovrebbero trovare un nome più appropriato per tale istituzione.
– Cosa ne pensa del fatto che, secondo la direzione dell’università, la petizione contro il centro educativo non è stata stilata dagli studenti, ma da alcuni presunti agenti ucraini?
– Il fatto che in questo contesto ci siano tentativi, diciamo, di organizzare una sorta di opposizione a questa voce di giustizia che ora viene sollevata dai nostri cittadini, beh, questo ci pone, per usare un eufemismo, molte domande. C’è chi ha l'audacia di cercare in qualche modo di “smascherare”, sconfessare e contrastare i tentativi del tutto normali di riportare questa situazione al buon senso, alla giustizia storica e alla verità.
Vediamo una sorta di consolidamento del fianco destro della società, sono già in fase di stesura elenchi di alcune figure, organizzazioni, comunità, che ora sembrano essere per Il’in e stanno cercando in ogni modo di premere sia sul tema della Russia che sulla retorica patriottica. Si arriva al ridicolo quando persone di alto rango accusano coloro che giustamente sottolineano l’essenza fascista e la pericolosità politica di questo pseudo-filosofo di essere agenti dei servizi segreti stranieri, di lavorare per i servizi speciali dell’Ucraina.
Ma questa è un ritornello vecchio e banale di cui tutti sono già stufi, e sembra così frivolo che non è dignitoso parlarne.
– In Ucraina, come sa, tutto è iniziato più o meno allo stesso modo: secondo lei, la stessa cosa potrebbe accadere all’improvviso anche qui?
– In effetti, “all’improvviso” non succede nulla; si deve capire che in Ucraina questa storia è molto antica, c’era il movimento di Bandera che aveva un sostegno molto serio da parte dei tedeschi. Dopo la fine della Grande Guerra Patriottica ci vollero altri 10 anni di potere sovietico per sopprimere la resistenza armata dei nazionalisti ucraini – sottolineo, resistenza armata – e in seguito ci furono ancora molti nemici nascosti del sistema sovietico che avevano posizioni nazionaliste.
Dopo il crollo dell’Unione Sovietica questo pubblico ha suonato di nuovo con tripla forza, e i nostri avversari strategici non hanno perso tempo in questo senso: hanno comprato i media, sponsorizzato pseudo-storici che in ogni modo hanno portato avanti il tema dell’“indipendenza ucraina”. E, in generale, il loro tempo non è stato sprecato e anche il loro denaro è stato speso con grande “beneficio”. Sono stati in grado di allevare un’intera generazione che credeva sinceramente di essere quasi l’ombelico della terra e che la Russia fosse il principale nemico.
In questo senso, anche per noi le cose non sono rosee. Le ricordo solo che noi, in effetti, abbiamo un sistema oligarchico dalle caratteristiche molto simili a quello ucraino; anche il sistema economico coincide sotto molti aspetti – questo è lo stesso capitalismo di tipo semi-periferico, capitalismo arretrato, per molti versi decadente, ed è molto facile che su una base così instabile crescano fenomeni politici negativi: sono elementi di sovrastruttura che servono a questo sistema di parassitismo sociale.
Permettetemi di ricordare, forse semplificando un po’, che il fascismo è una sorta di capitalismo senza democrazia. In Ucraina, tutto questo è già chiaramente presente: non sono stati in grado di continuare a mantenere le stesse relazioni economiche senza ricorrere a un vero e proprio terrore politico, i loro nazionalisti sono riusciti a raggiungere alte cariche politiche e perseguono apertamente la politica nazista di Bandera. Su questo penso che altre interpretazioni siano difficilmente possibili.
Ma per noi tutto questo si è sviluppato nel corso del tempo in modo leggermente diverso. Tuttavia, per la Russia, le caratteristiche del nazionalismo sono più attenuate rispetto alle forme che vediamo in Ucraina o in altre repubbliche post-sovietiche; il nostro pubblico nazionalista e fascista è un po’ più timido; sembra cioè che seguano questa linea, ma un po’ meno assertivamente, non così sfacciatamente, e per questo motivo i nostri processi non sembrano aver raggiunto lo stesso stadio terminale di quelli dei nostri vicini, ma certe tendenze, purtroppo, prendono piede.
– Intende ad esempio la targa dedicata a Mannerheim?
– Non dovrebbero esserci illusioni qui, perché per molto tempo le autorità di propria iniziativa hanno elogiato tutti i tipi di leader del “movimento bianco”: quanti sforzi sono stati fatti per promuovere lo stesso Kolčak, questo assassino, boia e complice delle potenze straniere, abbiamo ancora un monumento ad Ataman Krasnov, oppure hanno cercando di installare una targa per Mannerheim, o di esaltare qualcun altro.
E tutto ciò rientra nella linea ideologica di servire gli interessi della classe dominante, che è profondamente disgustata dalle idee di giustizia sociale e collettivismo, in generale, tutto ciò su cui si è sempre basata la cultura e la vita del nostro popolo, e tutto ciò è così coerente sia con l'ideale comunista che con l’edificazione socialista.
È chiaro che, poiché le leve del controllo economico e politico sono detenute dalle grandi imprese oligarchiche, allora, ovviamente, cercheranno di combattere tutti questi valori. Di cosa dobbiamo tenere conto per questa lotta? Non hanno un arsenale così grande: è un’ideologia ultraliberale, ma non mette affatto radici in noi; se pensano di poter qui, come in Occidente, correre in giro con le bandiere arcobaleno, glorificando Dio sa quali fenomeni di permissività e licenziosità, sarà la nostra società, fortunatamente, a rifiutare cose del genere.
Oppure l’altro estremo è l’ideologia di estrema destra sotto forma di uno Stato forte dominato dal capitalismo. Uno Stato forte sotto il capitalismo è, di regola, uno Stato fascista. Pertanto, tendenze simili, purtroppo, in una certa misura si verificano. E sfortunatamente il nostro Paese, pur essendo il vincitore storico del fascismo, se rimane su una suolo capitalista non è, ahimè, immune dalla crescita di questi germogli putrefatti.
– Eppure la petizione firmata dagli studenti è un segno di buon senso.
– Il fatto che la nostra società si stia ribellando al tentativo di dedicare a Il’in a questo centro scientifico suggerisce che per noi, per la Russia, per il nostro popolo, per la parte pensante della nostra popolazione, per le persone dotate di coscienza e di buona volontà, non tutto è ancora perduto, c'è chi è pronto a lottare per qualcosa di buono e di luminoso, che capisce dove sono le forze del bene e della giustizia, e dove si concentra il potere delle tenebre, e che contro questo è necessario alzare la voce a più non posso, contrastarlo.
E in nessun caso si dovrebbe essere tacitamente d'accordo con il fatto che una figura del genere venga trascinata in una delle università più famose. Perché se siamo d'accordo con questa cosa adesso, domani si parlerà di nuovo della rimozione del corpo di Lenin dal Mausoleo, e poi di pari passo delle prossime “riforme” antipopolari come le pensioni o peggio. Possiamo andare molto, molto lontano in questo modo.
Pertanto, i filosofi fascisti devono essere bloccati con tutte le forze disponibili.
(Traduzione di Leandro Casini)
* D.A. Parfenov è deputato della Duma di Stato, segretario del Comitato Comunale di Mosca del Partito Comunista della Federazione Russa.
(Tratto da: https://www.rline.tv/news/2024-04-26-d-a-parfenov-ilin-nam-ne-nuzhen-/).
Inserito il 30/04/2024.
Dal periodico «Sinistra Sindacale»
Intervista a cura di Frida Nacinovich
Il professor Luciano Canfora è stato rinviato a giudizio dopo la querela di Giorgia Meloni che lui ha definito «neonazista nell’animo» in seguito alle parole di apprezzamento della Presidente del Consiglio per il battaglione neonazista ucraino Azov. In questa intervista al giornale della sinistra CGIL Canfora parla di fascismo presente e passato, di guerre e censura, di imperialismo e bellicismo.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Luciano Canfora, professore resistente
Intervista a cura di Frida Nacinovich
Professor Canfora, ma cosa ha combinato? È stato querelato dalla presidente del Consiglio, qual è la sua imperdonabile colpa? Averle dato della neonazista nell’animo per il suo appoggio alle imprese del battaglione Azov, formazione paramilitare ucraina di orientamento, appunto, neonazista?
Pare di sì. Evidentemente non è possibile entrare nel merito, perché ormai il giudizio che uno esprime di carattere storico, analitico o psicologico diventa rapidamente un reato. Questo è molto preoccupante. Direi che è un caso analogo a quello del rettore Tomaso Montanari dell’Università per stranieri di Siena, e della collega di filosofia teoretica di Roma, Donatella Di Cesare. Anche loro querelati per motivi molto simili. Allora il problema non è tanto la gravità o non gravità del giudizio che uno esprime, quanto di questa ondata che non so bene come definire: intimidatoria, o comunque intollerante.
Al solito lei è accusato di essere filoputinano…
Di solito ci si vanta della libertà di parola nel mondo cosiddetto Occidentale. A quanto pare non è proprio sicuro sia così. Mi viene in mente che in greco, la lingua da cui dipende il nostro linguaggio politico, si dice ‘parresìa’. Significa ‘tutto quello che uno ritiene di poter dire’. Dunque il problema è serio: o abroghiamo il diritto di critica, la libertà di parola garantita dalla Costituzione, oppure si devono rassegnare al fatto che la gente esprima il proprio pensiero senza mettersi a fare autocensura.
Che dire poi dell’informazione di guerra, sempre più “embedded”?
Questo è vero, e sta avvenendo su una scala molto grande, perché dal momento in cui è iniziata la fase guerreggiata, anche se in Ucraina il conflitto era iniziato dieci anni prima, i giornali grandi, medi e piccoli, e le emittenti televisive, hanno scelto di fiancheggiare anziché informare. Sono venuti meno al proprio compito prima ancora che scattasse in modo esplicito la censura di guerra, che di solito si instaura quando un paese ci entra. Noi formalmente non siamo entrati in guerra, anche se poi armiamo l’Ucraina sottobanco. Per quel che riguarda Gaza, gli Stati Uniti compiono un’operazione oserei dire ridicola, quella di comminare sanzioni a singoli deputati del Parlamento israeliano, il che non vuol dire nulla, ed a singoli coloni. Intanto continuano a stanziare miliardi di dollari per armare Israele. Quindi si è determinata una nuova pratica, quella della guerra indiretta, la guerra per procura. Per noi italiani non è guerra, perché la dichiarazione non c’è, e nemmeno il bombardamento sul nostro territorio nazionale. Però ci sono tutti gli altri comportamenti che ci sarebbero in caso di guerra.
Professore, non trova che la simbiosi di quel che è sopravvissuto al fascismo e l’oltranzismo atlantista costituiscano l’attuale terreno di coltura della destra mondiale?
Sarei d’accordo con questa diagnosi se non dovessi constatare che ancora più atlantista, se possibile, è una parte della cosiddetta sinistra. Non posso dimenticare che quando è iniziato il conflitto armato nell’est europeo, in realtà molto prima del 2022 ma comunque è entrato convenzionalmente in uso dire che è stato nel 2022, in quel momento c’era in Italia il governo Draghi. Un governo che aveva come pilastro il Pd diretto da Enrico Letta, che alle prime sparatorie ha chiesto le sanzioni più dure possibili nei confronti della Russia. Invece di lasciar fare il suo mestiere a chi l’ha sempre fatto, Letta si è messo non solo l’elmetto, ha scelto di mettersi in primissima fila. A questo punto per onestà dobbiamo riconoscere che questo atlantismo isterico non è soltanto della destra vecchia e nuova, in particolare di quella nuova, ma anche di una parte non piccola del Pd, e poi di Macron in Francia, dei Verdi in Germania, e potremmo andare avanti con l’elenco.
Dopo la raccolta di firme di Anpi, Arci, Cgil e Libera in suo favore, si è scatenato un altro putiferio.
Per forza, tanto più che ora i pacifisti vengono tacciati di essere la quinta colonna della Russia, un pugnale dietro la schiena. Quindi si utilizza il linguaggio che si usava durante la seconda guerra mondiale. Sono nato sotto il fascismo, anche se avevo solo due anni, e nei bar c’erano i manifesti “Taci, il nemico ti ascolta”, “Il nemico è tra noi”. Oggi i pacifisti sono trattati alla stessa stregua del “nemico ti ascolta”, il “nemico interno”. E questo è di una gravità estrema. Aggiungo che il principale sospetto pacifista a questo punto diventa il Papa attualmente regnante, il quale per fortuna riesce ancora a dire la sua ed essere ascoltato.
Passiamo a Mattarella e alle sue parole, chiare, sul caso Salis. Per non rischiare anche noi la querela, possiamo dire che questo governo ha un po’ di reticenza a intervenire sul presidente magiaro Orban? Possiamo dire che il limite di Giorgia Meloni è quello di non definirsi antifascista?
Quello non lo diranno mai, ormai lo abbiamo capito. Sono da un anno e mezzo al governo, e nessuno di loro accetta di definirsi antifascista in modo chiaro. Anzi, qualcuno ha avuto la trovata abbastanza penosa di dire “e lei è anticomunista?”. Poniamo anche, cosa inaccettabile, che ci sia un parallelismo fra le due posizioni. Ma resta il fatto che quella non è una risposta. Perché la domanda non è “cos’altro fai nella vita?” oppure “cosa altro pensano i tuoi amici?”. No, la domanda è “tu sei antifascista o no?”. E la risposta non arriva, e non arriverà.
Eppure all’insediamento del governo Meloni hanno giurato tutti e tutte sul testo della Costituzione della Repubblica, antifascista per definizione…
Aggiungiamo che per loro le occasioni pubbliche sono diventate un problema. Quando il 28 ottobre fecero un grande chiasso intorno alla tomba di Mussolini, la presidente del Consiglio era un po’ in difficoltà. Disse “sono distante da questa cosa in modo significativo”. Non si capisce cosa voglia dire “distante”: “distante” sì perché una sta a Roma e gli altri stanno a Predappio. È un imbarazzo che fa anche un po’ sorridere. Per non parlare del presidente del Senato, che essendo più ruvido, diciamo così, pochi giorni dopo ha parlato chiaramente nel 78esimo anniversario della fondazione del Movimento sociale italiano. Ha detto: “Io sono stato a lungo militante, e non rinnego nulla”. Ma il Movimento sociale si chiama così per il riferimento alla Repubblica sociale, è per questo che lo hanno chiamato Msi. E la Repubblica sociale a sua volta era uno stato satellite del Terzo Reich. Insomma 2 più 2 fa 4.
Quindi il 16 aprile prossimo la aspettano in tribunale, si è preparato per l’occasione? Offrirà un’altra lezione di storia alla sua accusatrice?
Mi preparo con grande pazienza e tenacia, perché sono convinto, come dicevano i latini che “gutta cavat lapidem”, la goccia d’acqua piano piano buca anche il sasso. Non ho il tempo, nemmeno la voglia, di sfogliare giornali praticamente inutili come «Il Foglio», mi risulta che non faccia altro che insultare tutti coloro che hanno un atteggiamento non sufficientemente atlantista. Con tanto di nomi e cognomi. In un certo senso io sono un prediletto del «Foglio». Tanto onore non me lo aspettavo, ma va bene così. È un clima di intolleranza aggressiva che si respira e che durerà, finché gli altri dormono.
Per quanto tempo continueranno a dormire, e da svegli a becchettarsi?
Come sempre nella vita politica, nella lotta politica, contano i rapporti di forza. I rapporti di forza in questo momento sono molto sfavorevoli per chi osa dissentire. Intanto per l’ondata di destra che indubbiamente c’è, in tante parti d’Europa. Ma anche per colpe specifiche: una legge elettorale assurda, e una volontà autodistruttiva e rissosa soprattutto del Pd verso i Cinque stelle, che ogni tanto ricambiano. Sono andati divisi ad una scadenza elettorale importantissima come era quella del settembre 2022. Del resto le elezioni sono sempre importanti, sono un esame diciamo così del corpo, dell’organismo. Ora c’è un problema serio, è in cantiere una riforma mirante a scardinare l’equilibrio costituzionale alla radice, con il cosiddetto “premierato”. Sarebbe bastato far sapere che dietro l’angolo c’era questo rischio per evitare divisioni esasperate. Invece hanno regalato agli altri una maggioranza parlamentare che non corrisponde ai rapporti di forza nella società, e nell’elettorato. Ma dà loro mano libera, e non sarà facile contrastare la presa demagogica di una proposta come il premierato. L’elettore non sufficientemente attento potrebbe credere di diventare improvvisamente padrone dei destini del paese. Anche se è vero il contrario.
Lei ha da poco pubblicato per le edizioni Dedalo un volume dal titolo Il fascismo non è mai morto, una ricostruzione della storia d’Italia più oscura, che in qualche circostanza sembra non essere ancora terminata. Puntuale come un temporale primaverile è arrivata la querela.
È stato un caso questo sincronismo. In realtà le persone che si informano, che cercano di seguire la storia della Repubblica, dovrebbero sapere che, fin dalle settimane seguenti alla caduta di Mussolini, si iniziava a discutere, a interrogarsi su quanto del fascismo fosse rimasto nel tessuto del paese, anche perché protetto da settori della classe dirigente. Già nella prima legislatura se ne vedono gli indizi, per non parlare di episodi clamorosi come quello del 1960, con il governo Tambroni, quando la Dc fa entrare i missini nella maggioranza con un ruolo determinante. Ne venne fuori una tragedia, ci furono morti per le strade. E ancora i tentativi sovversivi, come il golpe Borghese del dicembre 1970, fermato all’ultimo minuto. Senza dimenticare le infiltrazioni dei servizi deviati dentro il cuore dello Stato, con una manina negli attentati più gravi, da Piazza Fontana alla Stazione di Bologna. Tutto questo per dire che quelli che mettevano in guardia, come ad esempio Lelio Basso, importante esponente del partito socialista, “perché il fascismo non è affatto morto”, avevano ragione. Docenti universitari giovani e poco informati trovano che sia alla moda dire “per carità, quella del fascismo è tutta un’altra storia”. Temo che abbiano un problema di scarsa informazione. Di qui il mio ostinato tentativo di rinfrescare la memoria.
Siamo prossimi alla ricorrenza del 25 Aprile, quest’anno sarà anche il centenario dell’omicidio Matteotti.
Intanto hanno ritardato molto le regole applicative per utilizzare i fondi della celebrazione. Pare che ultimamente siano stati sbloccati, evviva. Però vediamo in concreto che cosa verrà fatto.
Il Papa parlava già dieci anni fa di una terza guerra mondiale a pezzi. Aveva ragione…
Certo. E il paradosso è che coloro che decideranno se spingere fino in fondo l’acceleratore, e quindi portarci tutti al disastro, non si regolano sui criteri, buoni o cattivi che siano, della diplomazia internazionale. Invece seguono le elezioni nel proprio paese, come sta accadendo negli Stati Uniti dove l’establishment è già in fibrillazione perché si vota a novembre per il prossimo presidente. In questo contesto noi restiamo un paese a sovranità limitata, e più limitata di così è difficile vederla, perché abbiamo le basi americane sul nostro territorio, e da lì può partire un aereo che provoca un incidente clamoroso, con l’inevitabile rappresaglia che piomba addosso a noi, non certo al di là dell’Atlantico. Tutto questo è gravemente pericoloso.
Frida Nacinovich
(Tratto da «Sinistra Sindacale», n. 07/2024, 8 aprile 2024).
Inserito il 16/04/2024.
Dal giornale «il Fatto Quotidiano»
a cura di Silvia Truzzi
In questa intervista il professor Canfora ci mette in guardia dall’illusione che fascismo e nazismo siano morti e sepolti da tempo. Il suo ultimo libro il cui titolo dice già tutto: Il Fascismo non è mai morto (Bari, Edizioni Dedalo, 2024).
«Ciclicamente rispunta una teoria autoconsolatoria che sentenzia: il fascismo è finito in un preciso giorno di 79 anni fa. Per chi abbia familiarità con i tempi lunghi della storia, questa appare però, senza eccessivo sforzo mentale, come una sciocchezza. E basterebbe del resto la cronaca del settantennio che abbiamo alle spalle per convincersi della vacuità di una tale teoria. Lo riprova inoltre quotidianamente la cronaca, che certo non ci rallegra: tanto più che – come un secolo fa – non si tratta di una questione solo italiana. Del resto, tutte le principali forze politiche del Novecento, dai cattolici ai neoliberali, passando per i socialisti, vivono, uguali e diverse, e variamente denominate, nel nuovo secolo. La partita, a quanto pare, è ancora aperta» (dalla quarta di copertina del libro).
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Luciano Canfora: “Non fatevi ingannare, nazismo e fascismo sono vivi”
a cura di Silvia Truzzi
Luciano Canfora, in libreria con Il Fascismo non è mai morto, inizia il suo libro con le parole del ministro dell’Economia del neo-atlantico governo finlandese, Wille Rydman («Corriere della Sera», 31 luglio 2023), riferite agli ebrei: “Questa spazzatura non piace a noi nazisti”. E allora, prima di arrivare al “nocciolo del Fascismo perdurante”, cominciamo da qui.
Professore, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina c’è stato un furibondo scontro anche sul Battaglione Azov, d’ispirazione nazista. Ci sono dei nazismi accettabili?
Negli anni ’50 il segretario di Stato americano John Foster Dulles andò a Madrid e strinse la mano a Francisco Franco. Il Senato approvò una mozione in cui si diceva che il regime del generale era “un pilastro dell’Occidente”. Credo sia difficile negare che il regime era fascistico e che Franco fosse stato aiutato dall’Italia fascista e dalla Germania nazista. Però ebbe la benedizione degli americani, a cui diede in cambio la possibilità di installare basi Usa in Spagna. Oggi la Finlandia, dove i ministri dicono queste belle cose, è intoccabile perché è entrata nella Nato. Quando Zelensky si è presentato in Vaticano aveva la felpa con i simboli runici… Si tratta di forme esteriori, urtanti e sintomatiche dell’orizzonte culturale. Il campionario è molto più vasto. Il quotidiano «Haaretz» definiva apertamente “fascista” Netanyahu. E quello che sta accadendo ora è impressionante: in Cisgiordania i palestinesi si trovano in una condizione simile a quella dell’apartheid sudafricano; a Gaza vengono ammazzate migliaia di persone in quanto palestinesi, bambini, donne inermi: non saranno tutti terroristi, no?
Lei dice: il Fascismo non è solo un fenomeno storico che appartiene al passato, ma esiste ancora, pur in forme diverse.
Diciamo che quello di oggi è un prodotto geneticamente derivato. In Italia abbiamo una prospettiva privilegiata: quando nasce l’Msi si chiama così con esplicito riferimento all’esperienza della Rsi. Gli uomini che danno vita a quel movimento avevano militato nella Repubblica sociale. Questi signori hanno avuto un ruolo significativo nella storia italiana: il governo Tambroni, nel 1960, nasce con il supporto decisivo del Movimento sociale, che in cambio ebbe l’autorizzazione a celebrare il congresso a Genova, città medaglia d’oro della Resistenza, sotto la presidenza del prefetto Basile, un massacratore repubblichino. La cosa suscitò un’ondata di sdegno: ricordo i cortei di protesta capeggiati da Parri, La Malfa, Pertini. La protesta fu repressa nel sangue, con diversi morti, non solo a Reggio Emilia. È un fenomeno che attraversa il Novecento alla grande. Giorgio Almirante nel 1987 a Sorrento dice “Il nostro traguardo resta il fascismo”.
Che effetto le fa che il presidente del Senato sia stato un militante del Movimento sociale?
Le rispondo con la frase finale de Il sospetto di Maselli: “L’ho sempre saputo”. Lui stesso l’ha più volte rivendicato.
La storia non ci ha insegnato nulla? O non abbiamo fatto i conti con il Ventennio?
Il Fascismo è stato un pezzo della storia d’Italia che ha conquistato strati larghissimi della popolazione, dando vita a una ricetta che viene ripresa altrove. Qual è la ricetta? Intercettare il disagio, alimentarlo accentuando il rancore contro coloro che vengono additati come colpevoli e proporre una soluzione nazionalista. Questi sono gli ingredienti. C’è una pubblicazione ufficiale del Pnf, del 1939, che si chiama Il primo libro del fascista, dove si può leggere: “Tutta la politica sociale del regime fascista è pensata per salvaguardare la razza italiana dai pericoli che la minacciano”. In queste tre parole c’è il succo del Fascismo. È una cosa seria, alla quale ci si deve applicare cercando di togliere questa formidabile leva di potenziale popolarità.
Alla fine ci accontentiamo di dire che le colpe del Duce sono state l’entrata in guerra e le leggi razziali…
Gobetti, prima di essere ridotto in fin di vita e poi morire, ha espresso la felice formula del Fascismo come “autobiografia della nazione”. La leggenda dell’Italia partigiana e antifascista ha il fiato corto, come tutte le propagande. Furono coraggiose minoranze a combattere la resistenza. L’attesismo, come si chiamava ai tempi, era l’atteggiamento più diffuso: stiamo a vedere come va a finire. Il 25 aprile è sempre stato percepito come una festa di parte. Quando iniziò la vita dell’Italia postbellica, di difficoltà e miseria, gli attesisti cominciarono a dire “si stava meglio prima”. È qui che si inizia a parlare dell’errore di andare in guerra. Lei ha generosamente aggiunto il capitolo delle leggi razziali, ma perché adesso non si può non citare. Però non è sempre stato così. Ricordo ancora, perché li avevo in casa, i volantini del primo congresso del Cln, nel 1944 a Bari: tra le colpe del regime non veniva citata la persecuzione antiebraica. Anche per loro, che erano in buonissima fede, c’era l’Ovra, la guerra, la soppressione delle libertà, lo scioglimento dei partiti, il delitto Matteotti…
Silvia Truzzi
(Tratto da: Silvia Truzzi, Canfora: “Non fatevi ingannare, nazismo e fascismo sono vivi”, in «il Fatto Quotidiano», Anno 16, n. 68, 9 marzo 2024).
Inserito il 12/03/2024.
Una manifestazione antifascista a Berlino.
Fonte della foto: https://www.linkiesta.it/2024/01/afd-nazisti-germania-piazza-protesta/
Dalla rivista online «Machina»
di Alberto Burgio
In due articoli per la rivista online «Machina» lo storico della filosofia Alberto Burgio riflette sulla crescita attuale delle tendenze neofasciste in Europa: «Sono convinto che oggi in Italia e in larga parte dell’Europa sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto sino alla metà degli anni Settanta. L’avanzata di Alternative für Deutschland in Germania e le riforme che sta portando avanti il governo Meloni sono, in tal senso, paradigmatiche».
di Alberto Burgio
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
«Saluto al Duce!»
Mi ha sempre colpito la miopia delle ultime generazioni di politici. In tempi lontani ho imparato che la politica maneggia materiali antichi, processi di lungo periodo. E che la cronaca è soltanto una figlia (spesso degenere) della storia. Quindi ho sempre pensato che «fare politica» sia impossibile o disastroso se non si è in grado di intendere la genesi degli accadimenti: le loro cause primarie, di norma profonde e non evidenti.
Come mi pare mostri la catastrofe della sinistra italiana ed europea, una politica del giorno per giorno è condannata a essere sempre in ritardo, ed è destinata alla sconfitta. Forse si può spiegare così anche lo scandalo politico-storico di questi decenni, uno scandalo di cui nessuno parla e al quale sembra ci si sia subito assuefatti. Intendo l’immediato, zelante, non di rado euforico ricollocarsi dei gruppi dirigenti della cosiddetta «sinistra moderata» (il personale politico e tecnocratico del Pd e dei suoi immediati antecedenti) nelle file dell’avversario storico del movimento operaio (il capitale) nella sua forma più selvaggia (il neoliberismo). Ma non è di questo che vorrei parlare oggi.
Oggi vorrei spendere due parole in margine all’ultimo avvenimento di queste ore: la sentenza della Cassazione a sezioni riunite in base alla quale d’ora in avanti in Italia ci si potrà romanamente salutare con il braccio teso – come ai bei vecchi tempi – senza temere conseguenze penali. Il saluto romano sarà punibile ai sensi della legge Scelba soltanto se lo si potrà dimostrare connesso a un «concreto pericolo» di riorganizzazione del Partito fascista, dunque alla flagrante violazione di quanto disposto dalla Costituzione repubblicana.
Non considero questa sentenza soltanto avvilente e pericolosa in presenza di un rigoglioso proliferare di bande neofasciste e neonaziste. La ritengo anche profondamente sbagliata, frutto della sottovalutazione di un male le cui cause vanno ben al di là dell’irresistibile ascesa dei post-fascisti al governo.
Mi sono tornati in mente in queste ore due episodi, nei miei ricordi connessi tra loro perché inerenti entrambi al fascismo e alla questione dei tempi lunghi della storia e della politica.
Il primo concerne una discussione alla quale presi parte una trentina d’anni fa. Era stato da poco pubblicato negli Stati Uniti un libro (The Bell Curve) che riesumava i più vieti luoghi comuni sull’inferiorità genetica degli afroamericani: anzi, dei negroes. Osservai che la cosa era sì vergognosa e inquietante, ma non sorprendente, perché negli Stati Uniti il razzismo restava vivo e vegeto, al di là delle lotte e delle conquiste dei movimenti contro le discriminazioni dei neri. Ricordo a quel punto la reazione stizzita (a dir poco) di Furio Colombo, che, pure, ben conosce la persistenza degli stereotipi razzisti: come mi permettevo di diffamare la Grande Democrazia d’Oltreoceano? Come osavo metterne in discussione le grandi conquiste civili?
Erano i primi anni Novanta, anni di grandi illusioni. Si invocavano le magnifiche sorti e progressive dell’«Ulivo mondiale». Si celebravano i fasti del nascente clintonismo, e chi aveva la memoria corta inclinava a facili entusiasmi. Eppure quell’aspra reazione – ricordo – mi colpì per quanto a mio giudizio rivelava: una sproporzione davvero sconcertante tra la lunga durata di un problema radicato nella coscienza collettiva e nella memoria culturale di diversi secoli, e i pochi, pochissimi anni – un battito di ciglia – delle norme «illuminate» che finalmente sancivano l’uguaglianza delle «razze». Possibile che anche una persona colta e sensibile come Colombo non percepisse la sproporzione tra queste grandezze e cadesse nella trappola di scambiare per realtà le proprie aspirazioni – le proprie illusioni?
L’altro episodio, di qualche anno precedente, riguarda ancor più direttamente il fascismo e il nazismo.
Era la primavera del 1990. Nel cimitero ebraico di Carpentras, in Provenza, erano state profanate una trentina di tombe. Lapidi erano state divelte. Svastiche naziste erano state disegnate sulle pietre sepolcrali. Era la prima volta in questa parte dell’Europa, mentre violenze neonaziste e gesti simili venivano susseguendosi nei Länder dell’ex Germania orientale. E il copione si ripeté. Questa volta tra gli interlocutori c’era Gian Enrico Rusconi, del quale avevo letto con interesse un libro sulla crisi della Repubblica di Weimar. Dissi che non c’era di che sorprendersi perché il fascismo è – come il razzismo e per ragioni analoghe – nella pancia delle nostre società, nei tessuti della nostra cultura e della mentalità collettiva. Rusconi reagì con veemenza, sostenendo che la Seconda guerra mondiale era stata una cesura e che grazie al cielo c’eravamo lasciati per sempre alle spalle quella storia e quegli orrori.
In entrambi i casi ricavai l’impressione di un impasto tra desideri e conoscenze – quello che gli inglesi chiamano wishful thinking – che non è propriamente un viatico verso l’intelligenza della realtà. Di certo Colombo e Rusconi davano voce a speranze condivisibili, ma secondo me quelle speranze non avevano molto a che vedere con la realtà. I loro discorsi non erano analisi di osservatori freddi. La realtà era altra secondo me. E oggi temo che quanto stiamo vivendo – tutto meno che accadimenti superficiali ed effimeri – lo dimostri.
Stiamo vivendo un incubo largamente annunciato.
Sono circa trent’anni che, anche grazie a Berlusconi e a Luciano Violante, in Italia il fascismo non è più soltanto un osceno ricordo. Le migrazioni, il neoliberismo, le «guerre umanitarie» e «democratiche» hanno sconvolto tutti i quadri di riferimento. La sinistra si è suicidata. Il sostanziale bipolarismo della cosiddetta Seconda repubblica ha tradotto il gioco politico nel pendolo tra la destra – dichiaratamente filofascista – e un centro conservatore nel quale pacificamente convivono gli eredi della sottocultura cattolica e i figli immemori della sinistra comunista e socialista. Sul piano internazionale il bipolarismo est-ovest è imploso. Nell’immaginario collettivo non vi è più traccia dell’idea secondo cui la lotta politica mette in gioco l’alternativa storica tra capitalismo e comunismo: tra una forma sociale che esaspera le disuguaglianze generate dallo sfruttamento del lavoro subordinato e una forma di vita fondata sull’autonomia del lavoro vivo.
In questo scenario era ben prevedibile che prima o poi cadesse anche il tabù del ritorno alle camicie nere, allo squadrismo e al saluto romano: del loro ritorno non nei salotti perbene e nel sottosuolo delle periferie, da cui non sono mai spariti; né nel Parlamento della Repubblica, dove sotto mentite o dichiarate spoglie allignano dal 1946. Ma del loro trionfale ritorno al comando del paese (anzi della «nazione»), con il lungo corteo di servilismo e di opportunismo che puntualmente ne consegue. Credo che in questo contesto si comprenda la sentenza delle sezioni riunite della Cassazione.
Qual è il punto, a mio parere?
Torno al tema dei tempi storici. C’è chi ancora pensa che l’accoppiata Meloni-Salvini (le due facce del post-fascismo italiano 4.0) sia un incidente di percorso. Non lo credo affatto. Penso al contrario che il loro successo politico, niente affatto effimero, sia l’espressione di una malattia endemica e cronica di questo paese e di questo continente – anzi, dell’Occidente nel suo intero –, di una malattia che ha a che fare con la modernizzazione e con i suoi drammi: la crisi delle identità, delle culture e delle forme di vita tradizionali; la crisi dei confini e delle appartenenze; la crisi delle gerarchie sociali e politiche, nazionali e internazionali. Sono almeno quattro secoli che queste crisi – in definitiva provocate da un pur lentissimo processo di unificazione dei corpi sociali e di eguagliamento delle condizioni materiali di vita degli esseri umani – generano reazioni violente, reazioni tra le quali ciclicamente si afferma il tentativo di restaurare quanto la modernità ha devastato o stravolto: l’ordine delle gerarchie; la stabilità dei rapporti di forza; le certezze delle appartenenze e delle tradizioni.
Il fascismo e il razzismo (contro i «negri», gli ebrei e i nomadi; ma anche contro trans, «devianti» e marginali) vengono da questa volontà di arrestare e rovesciare la tendenza storica verso l’eguaglianza. Che cosa accadrebbe ove tale volontà prevalesse è detto con chiarezza nel progetto nazista di un Nuovo Ordine Europeo: un misto di iper-modernità (la tecnologia al servizio esclusivo del dominio) e di arcaismo (una gerarchia cristallizzata delle popolazioni, con i popoli slavi ridotti in schiavitù dopo lo sterminio dei subumani). Fascismo e razzismo hanno dunque radici molto profonde. Seguono la modernità come un’ombra maligna. Non ce ne libereremo, né se ne libereranno i nostri figli e i nostri nipoti. Naturalmente la Cassazione nulla sa di tutto questo, o, se sa, non se ne cura. Ritiene di operare e di giudicare nell’attimo fuggente. A torto: in questa sua sentenza si riflette un movimento profondo di materiali storici che minaccia seriamente tutti noi.
Si dirà: è una visione disperata. Io ritengo sia soltanto realistica. D’altra parte, se non credo che la fine di questa brutta storia sia vicina, non per questo penso che durerà in eterno. Vale per il razzismo e il fascismo quanto Giovanni Falcone disse della mafia: sono fenomeni umani (storici); come hanno avuto un inizio, prima o poi finiranno. Ma appunto: come la mafia e ancor più di essa, il fascismo e il razzismo sono mali profondi, fenomeni storici di lungo periodo. Componenti nefaste ma stabili del contesto storico della nostra esistenza; mali contro i quali lottare per tutta la vita.
Ecco perché la superficialità di qualche alto magistrato e il fatuo ottimismo delle classi dirigenti «democratiche» sono colpe gravi. Non provocano soltanto errori giudiziari e politici, compromettono la sanità «intellettuale e morale» della nostra gente.
22 gennaio 2024
Alberto Burgio
(Tratto da: Alberto Burgio, «Saluto al Duce!», in: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/saluto-al-duce consultato il 06/02/2024).
Inserito il 13/02/2024.
di Alberto Burgio
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
La resa dei conti
Approfitto dell’ospitalità di «Machina» per tornare sui temi trattati nell’intervento precedente e provare a svilupparli.
Chiarisco subito il punto: sono convinto che oggi in Italia (come in larga parte dell’Europa e dell’Occidente) sia in atto un processo di neo-fascistizzazione delle liberaldemocrazie, e che in questo processo giunga a compimento una fase (ultra quarantennale) di reazione organica alle conquiste che il movimento operaio e i movimenti anticoloniali avevano ottenuto nei «Trenta gloriosi» (sino alla metà degli anni Settanta).
Sul piano economico la reazione alle conquiste del movimento operaio e alle lotte anticoloniali nel trentennio post-bellico (conquiste salariali e politiche; in termini di diritti, indipendenza e influenza politica) si è basata (1) sulla mondializzazione del sistema di accumulazione, che ha disarmato il lavoro salariato e (2) sull’egemonia del capitale finanziario, che ha sradicato la sovranità economica degli Stati nazionali.
Sul piano geopolitico questa reazione ha tratto vantaggio dall’implosione del bipolarismo est-ovest sancito a Jalta, implosione che ha dato il via a una serie ininterrotta di guerre (dall’Iraq alla Jugoslavia, dall’Afghanistan alla Libia, dalla Siria all’Ucraina) per mezzo delle quali si è venuto definendo un nuovo (alquanto precario) rapporto di forze.
Sul piano politico-istituzionale, nei paesi occidentali, la reazione si è avvalsa (1) della distruzione dei partiti di massa nati nel secolo scorso sullo sfondo del conflitto capitale-lavoro e (2) del progressivo svuotamento della rappresentanza democratica (nel caso italiano, la Costituzione è stata ampiamente sovvertita dalle riforme maggioritarie e dalle modifiche dei regolamenti parlamentari che hanno consolidato la subordinazione del Parlamento all’esecutivo).
Sul piano sociale, essa ha cavalcato la paura (mista a rancore) generata dai flussi migratori e dal venir meno della rappresentanza del lavoro subordinato, i cui presidi giuridici sono stati indeboliti e via via smantellati proprio mentre il lavoro veniva precarizzato e duramente colpito nei salari e nei diritti.
Sul piano culturale, infine, questa reazione ha messo a valore il disorientamento di masse in precedenza dirette dai partiti e dalle organizzazioni sindacali nel quadro della lettura classica del conflitto sociale e di lavoro. Anche a «sinistra» si è celebrata come una Liberazione la cosiddetta «morte delle ideologie», un mito ideologico che ha sancito il trionfo del pensiero unico thatcheriano. E anche su questo terreno l’implosione dell’Unione Sovietica ha svolto un ruolo importante considerato che nell’immaginario collettivo, nonostante le gravi colpe della sua dirigenza, l’Urss aveva rappresentato la possibilità di una forma sociale diversa – oltre ad aver costretto i paesi capitalistici a «civilizzarsi» (per riprendere Eric John Hobsbawm) allo scopo di evitare che il comunismo divenisse la Terra Promessa per le masse lavoratrici e le classi medie in Occidente.
Tutto questo è ben noto: in fondo è stato il paesaggio in cui è trascorsa la nostra vita negli ultimi 30-40 anni. Ma oggi mi pare emerga un aspetto che non avevamo previsto perché pensavamo che in Europa e negli Stati Uniti, dopo la grande paura degli anni Sessanta-Settanta, l’obiettivo delle classi dirigenti fosse ristabilire e proteggere le condizioni della gestione capitalistica, fatto salvo il quadro democratico.
La tesi secondo la quale proposito (utopico) delle classi dirigenti fosse sterilizzare la democrazia – non già revocarla, ma soltanto proteggerla dal conflitto sociale e politico rendendo la conflittualità compatibile e innocua – sarebbe corretta solo nella consapevolezza (non sempre data) che il termine «democrazia» copre uno spettro molto ampio di condizioni, che vanno dalla concreta sovranità dei corpi sociali (mai realizzatasi storicamente) al puro e semplice formalismo istituzionale che, nel simulare la sovranità popolare, maschera il comando autoritario delle élite.
Di fatto, a mio parere, in questi trent’anni la democrazia è venuta progressivamente erodendosi, sino a ridursi, da ultimo, a un simulacro. Oggi, al giro di boa di questa vicenda, siamo finalmente a una resa dei conti. Mi pare che il capitalismo abbia bisogno di controllo e comando senza mediazioni né compromessi: un po’ come cento anni fa, dopo la grande paura della rivoluzione che nei primi anni Venti del ’900 parve dilagare in tutta Europa. Ha bisogno di comando e controllo perché il fenomeno migratorio dal Sud tende a travolgere presupposti e vincoli della cittadinanza e della rappresentanza democratica, e anche perché le dinamiche geopolitiche spingono verso nuovi equilibri di potere globale (e di accesso alle materie prime) a vantaggio di potenze diverse da quelle che hanno sin qui guidato l’economia-mondo capitalistica. In questo quadro è in corso, in molti paesi tra cui l’Italia, una nuova fase di radicalizzazione delle logiche di dominio che può appunto comprendersi come un processo di neo-fascistizzazione.
Si può sostenere che il fascismo sia in essenza l’imposizione e la tutela militare delle gerarchie sociali e internazionali di contro alla dinamica di graduale eguagliamento (di inclusione universalistica) propria della modernità. Se si accetta questa definizione, sono molti gli indizi di un processo di neo-fascistizzazione in atto in molti paesi occidentali e in particolare nei paesi che, come l’Italia e la Germania, nel secondo ’900 hanno conosciuto conflitti sociali e politici radicali, che mettevano all’ordine del giorno il tema della transizione.
In Germania dal 1989 la destra radicale è in continua crescita. Nelle elezioni regionali del prossimo autunno Alternative für Deutschland (un partito di franca ispirazione neo-nazista) potrebbe conquistare il governo di Länder importanti come il Brandeburgo, la Turingia e la Sassonia. Finalmente nel paese, ancora scosso dal caso Aiwanger (la scoperta dei trascorsi antisemiti e neonazisti dell’attuale vicepresidente e ministro dell’Economia della Baviera), ci si domanda come scongiurare questo rischio con strumenti giuridici, ma la vera questione è come arrestare una tendenza all’aumento del seguito elettorale che a questo punto rende realistico persino l’incubo della conquista del governo federale da parte della destra radicale.
Proprio in queste settimane è all’ordine del giorno una questione che coinvolge la magistratura costituzionale tedesca. Metà della Corte costituzionale in Germania è di nomina parlamentare e se AfD conquistasse un terzo dei seggi (cosa tutt’altro che inverosimile) potrebbe agevolmente boicottare la scelta dei nuovi giudici o imporre una propria rappresentanza in seno alla Corte. Il che – come mostrano recenti accadimenti negli Stati Uniti, in Polonia e Ungheria – avrebbe ricadute tragiche sulle norme che in teoria dovrebbero prevenire il rischio di un ritorno a tempi bui.
Anche in Italia – dove la presidente del Consiglio e il presidente del Senato (seconda carica dello Stato) si guardano bene dal prendere seriamente le distanze dai propri trascorsi neofascisti – si moltiplicano i segnali di una ferma determinazione a manomettere l’assetto costituzionale della Repubblica sfruttando un quadro politico propizio alla regressione autoritaria.
La «riforma» della giustizia messa in cantiere dal ministro Nordio punta a introdurre la separazione delle carriere dei magistrati: una misura da sempre invocata dalla destra che, coi tempi che corrono, minaccia seriamente di porre la magistratura requirente sotto controllo governativo. L’«autonomia differenziata» voluta dalla Lega sarebbe (temo sarà) lo strumento per conseguire finalmente lo scopo originario del partito di Salvini, Bossi e Calderoli: la secessione dei ricchi e la scissione di fatto tra il Nord e il Sud del paese. L’obbrobrio del premierato architettato da Meloni e Tajani (non si dimentichi che il disegno «riformatore» è stato messo a punto dalla ex-presidente forzista del Senato) porrebbe lo scettro nelle mani di un Capo del Governo eletto direttamente da un «popolo» disinformato e circuito, senza che Parlamento e Presidenza della Repubblica possano interferire in difesa di principi costituzionali per ciò stesso destinati a essere travolti.
Ma la tendenza è globale, ha riguardato da ultimo anche Israele, l’Argentina, ovviamente l’Ungheria e la Turchia. Quanto agli Stati Uniti, basti considerare che Trump ha già avvisato che, ove fosse rieletto, non impiegherebbe l’esercito soltanto lungo il confine meridionale dello Stato, ma anche nelle metropoli più problematiche come New York e Los Angeles, a tutela dell’ordine pubblico. Andando al di là di quanto immaginato da Philip Roth nel suo visionario Plot against America, in un recentissimo comizio nel New Hamsphire Trump ha promesso di «distruggere i comunisti, i marxisti e i criminali di sinistra, insetti che infestano il nostro paese». Testuale: e non è complicato individuare la fonte della sua retorica.
Tutto questo stava sullo sfondo dell’articolo sui tempi lunghi dei processi politici. Sono queste le ragioni per cui la recente sentenza delle sezioni riunite della Cassazione sul saluto fascista mi è parsa indizio di una situazione allarmante, prima ancora che una decisione sciagurata e irresponsabile. Aggiungo due note conclusive.
In quell’articolo ho scritto che, se si vogliono immaginare le conseguenze di un ritorno del fascismo, si deve guardare al progetto nazista di Nuovo Ordine Europeo. Ovviamente non intendevo che si ripeterebbe oggi quanto accaduto in Germania tra il 1933 e il ’45, ma che la logica sarebbe quella. Appunto: gerarchia ferrea (dei popoli – delle nazioni e delle «razze» – e delle classi sociali) e militarizzazione del comando politico, cioè ricorso alla coercizione militare come strumento principe per la difesa dell’«ordine».
Infine: una decina di anni fa, sulle colonne de «il Manifesto», tentai senza fortuna di aprire una discussione su queste tendenze – allora incipienti – parlando di «morte della politica» nel nostro paese. A indurmi a quella posizione era stata la fulminea ascesa di Matteo Renzi, prima eletto segretario del Pd (il che metteva nero su bianco il senso dell’operazione prodiana di sussunzione della sinistra), poi arrivato addirittura al governo del paese. Si trattava di una vicenda talmente enorme – tragica e grottesca – che mi parve urgente una riflessione sulla cesura che rappresentava.
Dicendo «morte della politica» alludevo all’esaurimento del conflitto politico fondamentale in Italia. Era ormai evidente che, dopo un secolo, il tema della trasformazione fosse stato definitivamente derubricato. L’idea dell’alternativa di società, che aveva motivato la nascita della sinistra socialista e la sua storia politica, era scomparsa dal quadro di riferimento di politicanti interessati esclusivamente alla gestione del potere. La politica era diventata anche in Italia pura e semplice amministrazione. Ma il ragionamento non suscitò interesse, e in effetti, ripensata oggi, quella tesi aveva un limite evidente: un limite, però, che, se impone di integrarla, non mi pare la infici.
La politica era (ed è) effettivamente morta per noi, nel senso che – per le ragioni dette in precedenza – oggi non c’è spazio in Italia (in Occidente) per una concreta battaglia per l’alternativa di società. Ma non è certo morta in sé, visto che – scomparso ogni argine, accuratamente smantellato ogni punto di resistenza – negli ultimi decenni la destra ha lavorato, ha conquistato consenso sociale e spazi istituzionali, e ha modificato gli equilibri e i rapporti di forza, portando a compimento un processo che ancora dieci anni fa era largamente incompiuto.
In tutto questo, un fatto resta a mio giudizio indiscutibile e al tempo stesso misterioso. Non vi è stata nessuna resistenza. Forse nessuna intelligenza di quanto accadeva; forse nessuna intenzione di contrastarlo; forse persino la volontà di promuoverlo.
Non solo si è provveduto, dalla metà degli anni Ottanta, ad accuratamente smantellare tutti i presidi, gli strumenti, i luoghi di radicamento e orientamento, le sedi di accumulazione delle forze. Ci si è anche accaniti nel criticare, delegittimare, ripudiare le proprie stesse tradizioni, le proprie idee ed esperienze di lotta anticapitalistica. E a contrastarle attivamente, ove persistessero altrove, combattendole senza esclusione di colpi.
A ripensarci oggi a mente fredda si è trattato – credo sia il caso di cominciare a dirselo – di un’operazione talmente capillare da indurre più di un sospetto. E da autorizzare persino qualche temeraria ipotesi dietrologica.
29 gennaio 2024
Alberto Burgio
(Tratto da: Alberto Burgio, La resa dei conti, in: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/la-resa-dei-conti consultato il 06/02/2024).
Inserito il 13/02/2024.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Davide Conti
Breve anticipazione del volume di Davide Conti Fascisti contro la democrazia. Almirante e Rauti alle radici della destra italiana 1946-1976, pubblicato da Einaudi nella collana «Passaggi».
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Rimosso nazionale
di Davide Conti
Aldo Moro nel 1962 ebbe cura di soffermarsi sulla natura di quelle fragilità, tanto storicamente già emerse quanto potenzialmente emergenti, presenti nella struttura della giovane democrazia italiana all’alba degli anni Sessanta. Ammonendo i democratici cristiani a osservare le più attente «vigilanze e resistenze» contro il rischio di involuzione del sistema democratico della Repubblica, Moro disegnò un profilo identitario complesso e inquieto dell’estrema destra nazionale, specificandone una profondità di radici; un peso economico-sociale; una misura storico-politica e una estensione nella società italiana molto più diffusa di quello che lo stesso Parlamento fosse numericamente in grado di rappresentare: «L’entità di questo rischio per le istituzioni non si computa né in voti né in seggi parlamentari (…) esso non risiede intero, pur nell’innegabile riferimento ideale e storico che esso fa al fascismo, nel Msi. Sappiamo bene che (…) la radice del totalitarismo fascista affonda nel corpo sociale della nazione, là dove sono privilegi che non vogliono cedere il passo alla giustizia (…) là dove sono angustie mentali, egoismi e chiusure, là dove si teme la libertà (…) là dove ci si affida incautamente alla illusoria efficacia risolutrice della forza».
Il Paese si trovava in un significativo momento di transizione. Di lì a poco lo stesso Moro avrebbe guidato la formazione del primo governo di centro-sinistra, con la partecipazione diretta del Partito socialista italiano (Psi), della storia della Repubblica. Appena due anni prima, nel giugno-luglio 1960, si era consumata, nelle piazze di tutta Italia e in Parlamento, la crisi del governo presieduto dall’esponente democristiano Ferdinando Tambroni sostenuto in maniera decisiva dai voti del partito neofascista del Movimento sociale italiano. Un esecutivo che rappresentò, affermerà Moro nel «memoriale» scritto nel 1978 durante i giorni del suo rapimento ad opera delle Brigate Rosse, «il fatto più grave e minaccioso per le istituzioni intervenuto in quell’epoca». Quale percorso aveva seguito la democrazia italiana per giungere al punto, ad appena quindici anni dalla fine della Seconda guerra mondiale, di reimmettere uomini politici provenienti dal regime fascista e dall’esperienza collaborazionista della Repubblica sociale al vertice della Repubblica nata dalla Resistenza? Quale fu la traiettoria politica del Msi? Ovvero di un partito che, fondato il 26 dicembre 1946 in controtendenza storica rispetto ai processi in atto in Italia e ad essi apertamente ostile ed estraneo (l’uscita dalla guerra fascista e il difficile avvio della ricostruzione; l’elezione dell’Assemblea costituente; la nascita della Repubblica), nel breve volgere di tre lustri si ritrovò dalla clandestinità alle soglie del governo nazionale? La sua nascita, il suo ruolo e la sua funzione nel sistema politico-sociale italiano non furono limitati a semplice ridotta nostalgica, come la esigua delegazione parlamentare lasciava immaginare (nella I legislatura appena 1 senatore e 6 deputati).
Il Msi rappresentò: il segno dei mancati conti dell’Italia con la storia del fascismo, nella misura di un rimosso nazionale e collettivo che eluse l’assunzione di responsabilità rispetto alla pesante eredità del regime di Mussolini; la cifra della profondità delle radici fasciste nella società italiana, soprattutto nelle sue classi dirigenti e nei ceti sociali (piccola e media borghesia) che più erano stati organici alla dittatura e che Moro indicava nel 1962 come ambito più esteso della destra reazionaria nel Paese; il partito «reietto» e di minoranza su cui l’opinione pubblica poteva rivolgere i propri strali come forma di redenzione della nazione tutta per il consenso e il sostegno dato al regime di Mussolini durante il ventennio della dittatura. Ricorderà, anni dopo, lo scrittore ex saloino Carlo Mazzantini: «Io ho partecipato alla formazione del Msi come molti dei miei ex camerati, ho contribuito alla costituzione di quella sorta di ghetto nel quale dovemmo rifugiarci in quanto diventati le teste di turco sulle quali la nazione scaricava il suo senso di colpa. L’Msi (…) ha una funzione direi terapeutica (…) la funzione della sentina, nella quale gli italiani hanno potuto scaricare un sentimento di colpevolezza. Gli italiani avevano seguito il fascismo, se ne erano liberati, ma avevano bisogno di qualcuno che se ne assumesse le colpe. Allora ci fu questa rimozione, questo scarico su quella minoranza che lì si era barricata e lì aveva conservato le vecchie bandiere. I fascisti erano quelli».
Il partito missino è stato il «convitato di pietra» della nascita della Repubblica democratica. La sua stessa esistenza ha posto nel corso dei decenni questioni di rilievo rispetto alla natura, al processo storico di maturazione democratico-costituzionale del Paese e al suo profilo identitario antifascista entro cui si incuneò fin dall’inizio il baco neofascista: «Chiara fu la nostra origine e intonata a quella chiarezza è stata la nostra politica. La nascita del Msi non fu soltanto un atto di fede verso l’avvenire ma fu anche un fatto razionale (…) la politica dell’inserimento non cominciò con Pella, con Zoli, con Segni, con Tambroni, ma con la nascita stessa del Msi (…) essa era la sola che non rimanendo nello sterile cerchio di una rievocazione storica consentiva di proporre nostre idee, nostri postulati, nostre soluzioni (…) noi siamo passati ad un’intransigente opposizione non al sistema ma nel sistema».
Giorgio Almirante e Giuseppe Umberto (Pino) Rauti hanno rappresentato, in modi e tempi diversi, due delle principali anime della «comunità» degli «esuli in patria». Insieme ai due fondatori del Msi, Pino Romualdi (capo dei Fasci di Azione Rivoluzionaria, Far) e Arturo Michelini, hanno interpretato e risignificato la presenza dei «fascisti in democrazia» in ragione del fatto che la loro traiettoria biografico-politica ha finito (anche quando si collocarono all’opposizione delle segreterie «moderate» di Augusto De Marsanich e Michelini) per coincidere con l’azione di vertice del Msi per l’intera esistenza del partito.
I due dioscuri del neofascismo attraversarono la propria esperienza politica non sempre in sintonia, alternando momenti di stretta convergenza con fasi di aperto conflitto. Tuttavia il loro lascito esprime ancora oggi (più di quello di qualunque altro storico dirigente missino) le profonde radici culturali e identitarie nonché il carattere cui si ispira il postfascismo contemporaneo. Almirante fu il primo segretario del Msi, in quella fase (1946-1950) di riemersione dal gorgo della storia che fu per gli ex saloini il secondo dopoguerra, e tornò alla guida del partito nel giugno 1969 dopo la morte di Michelini, restandovi fino al 1987, quando lasciò le redini missine al suo “delfino” Gianfranco Fini.
Il giovane Rauti fu seguace del filosofo tradizionalista e filonazista Julius Evola, «un singolare pensatore di nobile origine siciliana, la cui dottrina costituisce uno dei sistemi più radicalmente antiegualitari, antiliberali, antidemocratici e antipopolari del XX secolo». Su queste posizioni, e in concomitanza con la parallela militanza nei gruppi eversivi dei Far che lo porterà in carcere nel 1951, Rauti appoggiò Almirante nella sua prima direzione del Msi per poi uscire dal partito, dopo l’ascesa al vertice di De Marsanich e Michelini, fondando nel 1956 il gruppo Ordine Nuovo che fino ad allora si era configurato solo come «centro studi». Farà rientro alla casa madre nel 1969 dopo il ritorno di Almirante alla guida missina, condividendo e alimentando il nuovo corso della politica del «doppiopetto» (subendo un nuovo arresto nel 1972 nell’ambito dell’inchiesta per la strage di piazza Fontana) che caratterizzerà la linea dei neofascisti negli anni Settanta.
Nel 1976, trentennale della fondazione del Msi, la scissione di Democrazia nazionale dal partito segnerà un passaggio periodizzante per la traiettoria politica del neofascismo. Proprio a partire dalla fine di quel decennio, in modo più accentuato dal 1977, sarà ancora Rauti a reinterpretare, stavolta in chiave polemica con Almirante, la nuova destra giovanile avviando un processo di lunga durata che lo porterà infine, seppur brevemente, a conquistare la segreteria del Msi nel 1990 dopo la scomparsa di Almirante. Sarà l’ultimo sussulto della radice biografica saloina del partito prima del definitivo e conflittuale passaggio di consegne, con il ritorno di Fini alla segreteria, lo scioglimento del Msi in Alleanza nazionale nel 1994 e la nuova scissione rautiana che diede vita al partito Fiamma tricolore.
Davide Conti
(Tratto da: Davide Conti, Rimosso nazionale, in «il manifesto», 12 novembre 2023).
Inserito il 08/02/2024.