Nato a Torino l’11 maggio 1908, deceduto a Rho (Milano) il 29 novembre 1991, filosofo e matematico.
È considerato uno dei più importanti filosofi italiani del Novecento. Di famiglia valdese, si era laureato in filosofia all’Università di Torino nel 1930 e, due anni dopo, aveva conseguito la laurea in matematica. Durante il Ventennio, avendo rifiutato di iscriversi al Partito Nazionale Fascista, gli fu preclusa la carriera accademica; si mantenne insegnando in scuole private. Nel 1942 Geymonat aderì al Partito Comunista clandestino e, dopo l’armistizio, fece della sua casa di Barge il centro organizzativo delle Brigate Garibaldi della zona. I fascisti lo arrestarono nel novembre del 1943, ma il professore, incarcerato a Saluzzo, fu rilasciato per mancanza di prove. Prese così la strada dei monti e, con il nome di copertura di “Luca Ghersi”, divenne commissario politico della 55ª Brigata “Carlo Pisacane”, operante nella valle del Po. Dopo la Liberazione, Geymonat (che fu caporedattore dell’edizione piemontese de “l’Unità” e assessore al Comune di Torino) intraprese l’insegnamento universitario. Dal 1956 al 1978 tenne all’Università di Milano la prima cattedra di Filosofia della Scienza istituita in Italia. Partecipò anche alla fondazione del Centro di Studi metodologici di Torino e, nel 1963, cominciò a dirigere la collana di classici della Scienza della Casa editrice UTET. Negli ultimi anni della sua vita Geymonat lasciò il PCI, si avvicinò a Democrazia Proletaria e aderì, infine, al Partito della Rifondazione Comunista.
Grande divulgatore della storia della filosofia (molto diffuso nei Licei il suo manuale Storia del pensiero filosofico e scientifico), Geymonat ha lasciato molte importanti opere. Ricordiamo: Il problema della conoscenza nel positivismo (1931), La nuova filosofia della natura in Germania (1934), Studi per un nuovo razionalismo (1945), Saggi di filosofia neorazionalistica (1953), Galileo Galilei (1957), Filosofia e filosofia della scienza (1960), Scienza e realismo (1977). Di Geymonat sono anche i sette volumi della Storia del pensiero filosofico e scientifico, scritti tra il 1970 e il 1976. Del 1974 è Attualità del materialismo dialettico, in collaborazione con Bellone, Giorello e Tagliagambe, e del 1986 (con Giorello e Minazzi) Le ragioni della scienza.
(Tratto da: https://www.anpi.it/donne-e-uomini/490/ludovico-geymonat).
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1
Il materialismo è oggi una concezione del mondo basata su due principi generali: 1) esiste una realtà che trascende il soggetto umano e che può venire da esso conosciuta; 2) non esiste un mondo al di là di quello in cui l’umanità vive ed opera, mondo ultraterreno al quale occorrerebbe fare riferimento per comprendere la sorte degli individui umani.
Nel marxismo, cioè nel pensiero di Marx, Engels e Lenin, noi ritroviamo ampiamente sviluppati e approfonditi entrambi questi principi, e perciò possiamo asserire con sicurezza che tale pensiero è fondamentalmente materialista.
Conoscibilità del reale
Il primo principio è inteso come lo intende il senso comune (e cioè che esiste un mondo oggettivo non creato da noi, mentre è creato da noi il mondo delle nostre fantasie) e come lo intende la scienza. Lo sviluppo e l’approfondimento di esso dovuto al marxismo riguarda soprattutto l’affermazione che tale mondo oggettivo può venire conosciuto. In altri tempi questo conoscere veniva interpretato come un «fotografare», ma oggi, in seguito alle recenti critiche della scienza compiute sia nei paesi occidentali sia nell’URSS, l’analogia del fotografare è sostituita da altre più adeguate alla effettiva conoscenza scientifica. Così si prende atto che la conoscenza scientifica è soprattutto teorizzazione, e questa consiste essenzialmente nella modellizzazione dei fenomeni (oggi operata anche mediante calcolatori), modellizzazione in cui interviene come è ovvio l’azione del soggetto conoscente; intervento però che non cancella affatto l’esistenza di una realtà trascendente il soggetto stesso.
Di particolare importanza in questa prospettiva è il succedersi di una teorizzazione all’altra, cioè la sostituzione di un vecchio modello di un certo fenomeno con un modello nuovo. Il fatto stesso che si proceda a questa sostituzione dimostra che il fenomeno in questione non è soltanto immaginato da noi ma è qualcosa di dato, qualcosa di cui – volenti o nolenti – dobbiamo prendere atto.
Né va dimenticato che il marxismo rinforza e approfondisce il principio in esame (concernente l’esistenza di una realtà che trascende il soggetto conoscente) con la tesi più e più volte ribadita da Marx, da Engels e da Lenin dell’inscindibilità fra teoria e prassi. Mentre per il fenomenista «la pratica e la teoria della conoscenza sono due cose completamente diverse», per Lenin «non possono stare l’una a fianco dell’altra» senza che l’una condizioni l’altra. Questo intreccio fra teoria e prassi permette di comprendere perché la prassi costituisce un criterio – anzi, il criterio fondamentale – per la verità delle teorie; però – aggiunge Lenin – «non si deve dimenticare che il criterio della prassi non può mai confermare o confutare completamente una rappresentazione umana, qualunque essa sia. Anche questo criterio è talmente indeterminato da non permettere alla conoscenza dell’uomo di trasformarsi in un assoluto, ma nello stesso tempo è abbastanza determinato da permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell’idealismo e dell’agnosticismo».
Riassumendo, possiamo constatare che il marxismo accetta senz’altro il primo dei due principi generali sopra ricordati che caratterizzano il materialismo; le integrazioni che vi apporta (concernenti il succedersi delle teorie, il criterio della prassi e il carattere non assoluto di tutte le conoscenze) non sminuiscono la portata del principio stesso, ma anzi la rafforzano, cosicché se ne può concludere che, per lo meno da questo punto di vista, soddisfa tutte le condizioni per potersi dire materialista nel senso moderno del termine.
Possiamo ora prendere in esame il secondo dei principi generali ricordati all’inizio della nostra indagine; vedremo facilmente che anche esso è fatto proprio dal marxismo. Con ciò il marxismo non condanna chi si abbandona alla propria fantasia, sognando l’esistenza di un mondo ultraterreno abitato dai defunti, alcuni dei quali felici, altri dannati; né ignora l’interesse di molti problemi filosofici sorti lungo i secoli a proposito di tale fantasticata esistenza. Il motivo per cui respinge con risolutezza l’appello, in sede conoscitiva, al mondo ultraterreno è così riassumibile: tale appello giustifica, agli occhi del credente, l’accettazione rassegnata di tutti i mali e di tutte le ingiustizie che quotidianamente incontriamo entro la vita terrena nella convinzione che tali mali e tali ingiustizie verranno riparati nella vita ultraterrena.
A questa accettazione passiva il marxismo contrappone un complesso di iniziative volte a realizzare già nel mondo terreno la giustizia che il credente rinvia all’altro mondo. Si tratta di iniziative coraggiose, tenaci, rivoluzionarie, intraprese sulla base di una conoscenza precisa (razionale) del mondo in cui viviamo e operiamo.
È qui per l’appunto che interviene quanto abbiamo detto più sopra circa la conoscibilità del reale. Proprio perché i modelli, con i quali noi rappresentiamo la realtà, posseggono un autentico valore conoscitivo, noi dobbiamo adoperarli sistematicamente (via via perfezionandoli) per sapere come dirigere le nostre azioni al fine di correggere efficacemente le ingiustizie che popolano questo mondo terreno. E proprio perché sappiamo che non esiste una verità assoluta, non ci illuderemo sull’efficacia assoluta dei rimedi ideati per correggere i mali e le ingiustizie accennate, ma cercheremo continuamente di renderli più efficaci.
La tesi che il reale non è statico ma è in perenne divenire costituisce la base che sorregge tutto il materialismo marxista. È fondandosi su tale tesi che il marxista può guardare con fiducia il futuro, nella convinzione che esso non sarà necessariamente identico al passato, ma potrà venire da noi plasmato in modo da realizzare almeno parzialmente i nostri fini.
2
Una concezione generale dell’universo
Se è vero che il marxismo può dirsi a buon diritto materialista, non si può tacere tuttavia che esistano parecchi studiosi i quali, pur proclamandosi marxisti, rifiutano sostanzialmente il materialismo. O per lo meno accettano soltanto il così detto ‘materialismo storico’, il quale non intende pronunciarsi sulla esistenza di una realtà irriducibile al pensiero, ma sostiene che le vicende della società umana possono venire spiegate in tutte le epoche solo facendo riferimento alle strutture economiche della società stessa.
La distinzione fra struttura e sovrastruttura e la tesi che il decorso delle sovrastrutture non possa venire spiegato se non esaminando lo sviluppo delle strutture ad esse sottostanti, costituiscono senza dubbio dei punti essenziali della concezione marxista. Ma un conto è riconoscere la centralità di questa tesi e un altro conto è ridurre ad essa tutto il marxismo.
Per altro va preso atto che esistono delle motivazioni, non prive di valore, di questa riduzione. Oltre a quelle generali, ne esistono poi alcune particolari, specifiche per la cultura italiana.
Cominciando dalle prime, ne ricorderemo due fondamentali: 1) che il materialismo marxista aveva assunto, particolarmente negli scritti di Stalin, un carattere incontestabilmente dogmatico onde, per liberare il marxismo da questo carattere, la via più semplice parve quella di negare (o per lo meno sfumare) la tesi secondo cui il marxismo dovesse fondarsi su una concezione materialistica; 2) che la cultura filosofica moderna si è da tempo orientata verso concezioni idealistiche, sopra tutto per quanto riguarda la storia delle vicende umane, e oggi queste concezioni sembrano diffondersi anche in altri campi, perfino nell’interpretazione del mondo della natura, sicché per «salvare» il marxismo parrebbe necessario liberarlo da tutte le implicazioni materialistiche.
Non si può tuttavia dimenticare che secondo Lenin il materialismo storico senza il materialismo filosofico non regge: innanzi tutto perché l’uomo vive nella natura e opera in essa, cosicché non si può elaborare una concezione generale dell’uomo e della sua storia senza includervi anche una concezione generale della natura e dei suoi rapporti con l’uomo; in secondo luogo perché la scienza ci insegna che l’individuo umano non è soltanto il protagonista delle vicende politiche e sociali della storia ma è anche un essere biologico che per venire compreso richiede di essere studiato nella sua globalità (se volessimo usare il linguaggio tradizionale, dovremmo dire: nella sua globalità di spirito e corpo).
Se conoscere un fenomeno o un gruppo di fenomeni significa costruirne un modello, conoscere l’universo (che è il compito limite della conoscenza) dovrà significare costruirne un modello accettabile, anche se non assolutamente soddisfacente. Orbene, mentre la fantasia ha costruito – nel corso dello sviluppo dell’umanità – parecchi modelli dell’universo (modelli mitici di cui facevano parte esseri divini, forze occulte, conflitti cosmici, ecc.), la ragione scientifica non ha costruito altro che modelli materiali nel senso poco sopra spiegato del termine ‘materialismo’. Ovviamente questi modelli materiali potranno differire l’uno dall’altro su alcuni punti specifici, ma non potranno fare a meno di avere in comune i caratteri sopra delineati della materialità.
Stando così le cose, o il marxismo rinuncia ad avere una sua concezione generale dell’universo (lasciando alle varie tradizioni religiose il compito di conservare ciascuna la propria), oppure si impegna anche sul problema di elaborare una concezione siffatta, preoccupandosi comunque che in essa sia inquadrabile la concezione dello sviluppo dell’umanità difesa dal così detto ‘materialismo storico’. Il primo corno del dilemma, ossia la rinuncia di cui abbiamo parlato, è senza dubbio la soluzione più prudente, ma non sembra accettabile data la sua incompletezza e la sua, per così dire, mancanza di coraggio. Il secondo corno invece appare più soddisfacente, purché non si pretenda che la concezione generale dell’universo che si intende elaborare sia assolutamente valida, definitiva, intoccabile, dogmatica. Ma nulla ci dice che il materialismo, implicito nella concezione marxista, debba essere necessariamente dogmatico. Al contrario, se lo si è qualificato come ‘materialismo dialettico’, è proprio per sottolinearne il carattere critico, aperto, dinamico.
3
Eredità negative della nostra cultura
Per quanto riguarda il marxismo italiano, e la sua tendenza a respingere la connessione fra marxismo e materialismo, sarebbe necessario per spiegarla fare riferimento all’intero sviluppo della nostra cultura negli ultimi secoli. Basterà in questa sede ricordare che dal Seicento in poi essa fu largamente influenzata dalla Controriforma che le diede un orientamento nettamente spiritualistico-cattolico, pressoché incancellabile.
Lo stesso Illuminismo, che pure ebbe due centri assai vivaci a Napoli e a Milano, non riuscì ad incidere a fondo sulla cultura italiana, che continuò grosso modo a svilupparsi lungo le linee tracciate nel Seicento, con accentuato interesse per le discipline retorico-umanistiche e scarso collegamento con quelle scientifiche. Nel nostro secolo, poi, si ebbe per tutta la prima metà un indiscusso predominio dell’indirizzo idealistico sviluppato da Croce e da Gentile.
Questo indirizzo fece sentire il suo peso anche sui marxisti, persino su quelli – come Gramsci – che avevano compreso la necessità di liberarsi almeno parzialmente dalla tradizione retorico-umanistica. E, dopo la caduta della dittatura culturale di Croce e di Gentile, il marxismo italiano ha trovato modo di confluire con gli indirizzi filosofici europei più legati a una concezione idealistica del mondo.
Non possiamo quindi stupirci se in generale esso si è dimostrato insensibile alle esigenze del materialismo, sia nella forma del materialismo illuministico sia in quella del cosiddetto ‘materialismo dialettico’, caratteristica del marxismo classico. In particolare questa insensibilità ha condotto molti dei più noti marxisti italiani a disinteressarsi quasi completamente degli ultimi contributi dei marxisti sovietici alla critica epistemologica.
È inutile sottolineare che tutto ciò rivela una sostanziale debolezza teoretica del marxismo italiano che, mentre ha esercitato una profonda e feconda influenza sugli studi storici e letterari, è stato ormai pressoché emarginato dall’autentico dibattito filosofico: emarginazione che risulta manifestamente parallela a quella del PCI dalla scena politica italiana.
Non è il caso di discutere se l’emarginazione culturale del marxismo italiano sia causa o effetto dell’emarginazione politica del partito che avrebbe dovuto avere il marxismo come asse portante della propria ideologia. Si tratta invece di prendere atto con crudele sincerità della sconfitta subita negli ultimi decenni dal marxismo italiano malgrado che, nella veste di materialismo storico, fosse parso largamente vincente nel periodo immediatamente posteriore alla fine della seconda guerra mondiale.
Per riparare a questa sconfitta occorrerà ora riprendere lo studio del marxismo collegato strettamente a quello del materialismo: materialismo senza dubbio rinnovato ma non inficiato da compromessi con l’idealismo, con l’irrazionalismo, con le varie forme, oggi di moda, di fede in una vita ultraterrena riparatrice dei mali della vita terrena. Ma per conseguire questo risultato occorrerà uno sforzo tenace e coraggioso, trattandosi non solo di correggere gli errori degli ultimi decenni ma di rovesciare una tradizione secolare ancora oggi ben viva.
Ludovico Geymonat
(Articolo pubblicato in «Marxismo oggi», anno I, n. 1, novembre 1987).
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Uno dei più grandi filosofi della scienza affronta la questione della libertà.
Appena la filosofia approfondisce il concetto di libertà i problemi si complicano. Se non abbiamo la libertà, come ottenerla? E in questa lotta, che posto spetta alle armi, alla violenza?
Geymonat esamina l’idea alle radici e ne ripercorre le ramificazioni. Fino a trovarsi di fronte alla questione delle questioni, quella del Potere.
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I. La libertà come indipendenza
1. La libertà dei popoli, o degli Stati (che, per semplicità, possiamo supporre Stati nazionali), suole venire identificata con la loro indipendenza, cioè con il fatto che furono essi a darsi le proprie istituzioni e sono ancora essi a modificarle se lo ritengono opportuno, senza essere a ciò costretti da forze straniere. Accadrà così che Stati diversi, se indipendenti, avranno istituzioni differenti, religioni differenti, leggi differenti, ecc., che ciascuno Stato si sarà dato in via autonoma lungo il corso della propria storia.
Si tratta di una definizione molto semplice e naturale; ma scopriremo, se riflettiamo un po’ attentamente su di essa, che dà luogo a talune non banali difficoltà.
È notoriamente impossibile che un popolo viva in completo isolamento, senza contatti (commerciali, culturali, ecc.) con altri popoli, almeno con quelli che abitano territori limitrofi. Ne segue che alcuni individui, appartenenti al popolo preso in esame, si sentiranno spinti con tutta probabilità a fare un confronto tra il proprio modo di vivere e quello altrui. Ne sorgerà il desiderio di imitarli, di emularli, o di differenziarsi sempre più da essi.
Tutto ciò contrasta con il concetto di indipendenza poco sopra delineato, cosicché si dovrà attenuarlo, opponendo un concetto di indipendenza relativa a quello precedente, che potremo qualificare come indipendenza assoluta.
Nella nostra epoca non solo ha perso ogni significato il concetto di indipendenza assoluta, ma anche quello di indipendenza relativa ha subito molte restrizioni, cosicché in parecchi casi possono sorgere fondati dubbi se si possa ancora parlare di indipendenza, sia pure relativa.
È noto infatti che non di rado uno Stato cerca di imitare il modo di vivere di un altro per quanto riguarda l’organizzazione dei mezzi di produzione, di comunicazione, ecc. Orbene questa imitazione può essere attiva o passiva, e, se giungerà al punto di essere totalmente passiva, finirà di spegnere ogni originalità nel popolo che cerca di imitarne un altro. Allora potremo chiederci: questa perdita di originalità non finirà per significare perdita di indipendenza? Dove passa la linea di discriminazione fra adeguazione al modo di vivere e di pensare di un altro popolo ed effettiva perdita di indipendenza?
Quando si parla di indipendenza di uno Stato, ci si riferisce soprattutto alla sua capacità di difendere efficacemente i propri confini. Questa difesa viene di solito affidata alle armi, ma non solo ad esse. Può per esempio venire affidata alla diplomazia, alle alleanze, ad organismi internazionali, ecc. Non va però dimenticato che, se un alleato più forte corre in aiuto di uno più debole, questo aiuto finisce per costituire alla fin fine un pericolo per l’indipendenza dello Stato più debole, che si trova non solo aiutato ma schiacciato dal suo stesso protettore.
Ne segue che il concetto di indipendenza e quindi di libertà degli Stati risulta assai più difficile da definirsi di quanto ci era sembrato all’inizio del presente paragrafo. Il fatto è che all’inizio avevamo cercato di darne una definizione astratta, mentre ora constatiamo che essa non riesce ad adeguarsi a tutti i casi concreti.
In realtà, come ora vedremo, il concetto di indipendenza di un popolo (o di uno Stato) non può venire analizzato e precisato se non si fa diretto riferimento a tutta la sua storia, cioè alle complesse vicende che esso ha attraversato nei tempi trascorsi.
2. La cosa diventa ancor più complessa se riflettiamo sulla circostanza che il popolo preso in considerazione può essere suddiviso in varie fazioni in lotta accanita l’una contro l’altra, che si appoggiano a Stati esteri diversi, fra loro nemici. Allora è facile comprendere che i seguaci di tali fazioni intenderanno la libertà in modo del tutto diverso, cosicché quella che sarà proclamata indipendenza (o libertà) dagli uni verrà invece considerata dagli altri come autentica schiavitù. Gli eventi succedutisi in Italia durante l’ultima fase della seconda guerra mondiale ci forniscono, sull’argomento, molti esempi assai chiarificatori.
Pertanto può accadere che il senso della parola libertà (di un popolo) abbia significati molto diversi per la sue varie fazioni, cosicché i loro seguaci dichiarino tutti in buona fede di difendere la libertà mentre lottano ferocemente gli uni contro gli altri.
Questo dimostra soltanto che la libertà dei popoli è un concetto molto vago (che esigerebbe di venire rigorosamente determinato), e che, malgrado la sua vaghezza, si rivela del massimo interesse, onde può suscitare le più appassionate discussioni.
Anche il termine «schiavitù» si presta a parecchi equivoci, Infatti il dominio di un popolo sopra un altro, che sarebbe schiavizzato dal primo, non implica solo un aspetto militare ma ne coinvolge anche altri: per esempio l’aspetto culturale, quello linguistico, quello religioso, e così via. E in ciascuno di questi campi il dominio di cui abbiamo parlato può assumere gradi diversi, passando dalla semplice influenza a qualche forma di effettivo asservimento fino alla brutale cancellazione della civiltà propria al popolo dominato; come è ben noto, si hanno esempi significativi di questa cancellazione nelle conquiste coloniali.
L’affermazione che un popolo continua ad essere libero quando esso si trova sotto l’influenza (culturale, linguistica, religiosa, ecc.) di un altro, risulta molto problematica, poiché la sua verità o falsità dipende da qualcosa di assai vago: dal grado di tale influenza, e questo grado è assai difficile a misurarsi.
3. Sebene il predominio culturale di un popolo su di un altro abbia spesso minacciato la libertà di quest’ultimo, non si può negare che l’alternarsi di un predominio o di un altro abbia in parecchi casi così favorito, e non frenato, lo sviluppo della civiltà. La realtà è che questo sviluppo ha costituito un fenomeno tutt’altro che lineare, il quale si è realizzato attraverso alti e bassi, attraverso svolte imprevista, attraverso passaggi contraddittori. Si tratta insomma di un fenomeno estremamente complesso, come è complesso il concetto di libertà.
Per rendersi conto di questa complessità, basta riflettere con un po’ di attenzione sul complesso di eventi solitamente noti come opera di civilizzazione. Lo studio della storia ci dimostra che questa opera è sempre consistita in un’aperta imposizione, al popolo cosiddetto «meno civile», degli usi e costumi del popolo «più civile»; in particolare si è trattato per secoli e secoli dell’imposizione di una certa forma di religione.
Ma che cosa significa questa imposizione? Per lungo tempo l’argomento addotto era il seguente: noi che possediamo la vera religione (l’unica vera) abbiamo non solo il diritto ma il dovere di portarla anche ai popoli che non la conoscono ancora, cioè abbiamo il dovere di convertirli alla nostra religione.
Trattasi di un argomento che noi siamo soliti qualificare come medievale. Ma siamo proprio certi che, in termini diversi seppure analoghi, esso non abbia conservato una sua attualità?
Senza dubbio oggi non avrebbe più senso ricorrere alla forza per «convertire» un popolo alla «vera» religione, perché il diritto alla diversità delle fedi religiose è un fatto acquisito. Ma quanti sono veramente disposti a negarci il diritto di imporre i nostri costumi politici ed economici ai popoli che siamo soliti considerare a noi inferiori? La realtà è che siamo, o almeno sembriamo, convinti che i nostri costumi e le nostre istituzioni siano il meglio possibile in assoluto.
In effetti è innegabile che il nostro modo di vita presenta molti vantaggi, rispetto a quello di altri popoli, dal punto di vista della medicina, delle abitazioni, delle comunicazioni, dei trasporti, ecc. Ma perché mai non si vuole ammettere anche qui un diritto al diverso?
Effettivamente la pretesa di distinguere con sicurezza i campi nei quali possiamo ammettere il diverso da quelli nei quali non lo possiamo ammettere, è spesso molto dogmatica. Si tratta di un dogmatismo subdolo, nascosto, che venne denunciato con violenza alcuni anni orsono all’interno dei moti studenteschi; purtroppo anche coloro che vollero denunciarlo, si rivelarono spesso altrettanto dogmatici.
Se ne conclude che, nella definizione della cosiddetta opera civilizzatrice, sono effettivamente presenti alcuni lati oscuri, che ovviamente si ripercuotono sul concetto di libertà. Non potremo dunque stupirci se studiosi diversi possono ritenere libero o non libero il medesimo popolo, nelle medesime circostanze, avendo ciascuno qualche argomento non trascurabile a sostegno delle proprie tesi.
4. Gli uomini della mia generazione ricorderanno certamente che, all’inizio dell’infausta campagna italiana contro l’Abissinia, i «fascisti per bene» amavano presentare tale impresa come diretta a liberare quel paese dal regime medievale ivi imperante che faceva capo al Negus. Orbene è fuori dubbio che molti fingevano di credere in tale interpretazione, solo per paura o per interesse; altri però, specie fra i giovani, la condividevano in buona fede, convinti della missione civilizzatrice delle nostre truppe.
Nella loro incoscienza essi mettevano comunque a nudo un problema della massima gravità: se si abbia o non si abbia il diritto (e il dovere) di iniziare una guerra per imporre a un popolo di civiltà cosiddetta inferiore alla nostra un sistema di vita come il nostro, basato, almeno a parole, su una certa forma di sia pur limitata libertà.
Come già abbiamo rilevato, oggi è incontestabilmente riconosciuto il diritto al diverso nell’ambito delle credenze religiose, ma è molto meno riconosciuto il diritto al diverso nell’ambito delle leggi concernenti la libertà. Si direbbe che il culto della libertà (o meglio, di una certa forma di libertà) costituisca una religione universale, valida per tutti i paesi e per tutte le epoche.
Se riflettiamo sulle azioni compiute dagli spagnoli e dai portoghesi nelle terre di conquista del Sud America nei secoli XVI e XVII, non possiamo che rabbrividire. Ma siamo sicuri che azioni analoghe non verrebbero compiute oggi non più per diffondere la religione cattolica, ma per diffondere la presunta religione della libertà di cui abbiamo testé parlato?
Non vorrei che queste parole venissero interpretate come una mezza condanna delle guerre di liberazione dei popoli (io stesso ho partecipato, e credo con un certo coraggio, alla guerra di liberazione dell’Italia contro i nazisti e i fascisti), ma ritengo che, per comprenderne a fondo il significato e il valore storico, occorre sfrondarle di ogni retorica, ivi inclusa la retorica della libertà.
In realtà, gli atti di guerra compiuti in nome di una fede (religiosa o socio-politica) non trovano alcuna giustificazione se non in un dogma. E generalmente ci si rifiuta di analizzare tale dogma perché questa analisi sarebbe difficile oltreché pericolosa.
Concluderemo affermando che il concetto di libertà come libertà di popoli è indubbiamente vago e quindi non può essere assunto come fulcro di un nuovo dogma. La caratteristica di tale concetto è proprio quella di essere contrario a ogni dogma, sia esso religioso o politico. In realtà è una «libertà-contro», cioè una libertà che viene chiarita più determinando ciò contro cui combattere che non ciò che si intende proporre in positivo.
(La libertà 1/7. Segue)
Ludovico Geymonat
(Tratto dal volume: Ludovico Geymonat, La libertà, Milano, Rusconi Libri, 1988, pp. 13-23).
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II. La libertà degli individui
1. Per poter parlare di libertà di un individuo, occorre che questo si trovi di fronte a uno stato di cose (indicabile pure con espressioni diverse) partendo dal quale egli potrebbe assumere iniziative differenti; ma di fatto ne assume una di sua volontà. I costituenti fondamentali di questo concetto di libertà sono pertanto tre: lo stato di cose dal quale l’individuo prende le mosse, l’insieme delle iniziative compatibili con tale stato di cose, l’atto di volontà con cui decide di sceglierne una.
Il rapporto fra lo stato di cose e l’insieme delle iniziative con esso compatibili presenta alcune analogie con il rapporto fra la causa e l’effetto nei processi fisici; infatti in questi processi vi deve essere una causa perché si produca l’effetto e così nel nostro caso vi deve essere uno stato di cose perché si produca un insieme di iniziative possibili. Occorrerà poi un atto di volontà perché fra l’insieme di iniziative possibili se ne persegua precisamente una e non un’altra.
Quanto ora detto basta a dimostrarci che non si può parlare di libertà del presunto essere creatore dell’universo o almeno non se ne può parlare nel medesimo senso in cui si parla di libertà di un individuo umano. Infatti per questo presunto essere creatore non esiste lo stato di cose a cui, come abbiamo affermato, è necessario fare riferimento per definire la libertà dell’individuo; ed invero prima della creazione non esisterebbe nulla e quindi non esisterebbe neanche uno stato di cose.
Va notato che lo stato di cose che un certo individuo trova innanzi a sé è diverso da un caso all’altro.
Possiamo anzitutto illustrare la situazione con riferimento alla ricerca scientifica, per esempio alla ricerca matematica. Il ricercatore che vive in una certa epoca si troverà di fronte alla cultura matematica di tale epoca ed è da questa cultura che dovrà attingere sia i problemi da trattare sia i metodi con cui indagarli. Lo stesso accadrà per il fisico, il chimico, il biologo, ecc., e non si potrà rimproverare a nessuno di questi di non avere risolto problemi che emergeranno soltanto da uno stato di cose diverso (più maturo, più avanzato). D’altra parte, gli stessi risultati da lui conseguiti concorreranno a modificare lo stato di cose partendo dal quale essi erano stati conseguiti, e in taluni casi anche a rivoluzionarlo, sicché dallo stato di cose originario si passerà ad un altro stato di cose in cui opereranno altri ricercatori. Questo movimento dialettico non esaurisce il processo della libertà, ma senza dubbio ne è un momento essenziale.
Quanto abbiamo testé riferito a proposito del ricercatore scientifico vale anche per l’uomo politico, che trova innanzi a sé certi problemi della sua epoca ed è intorno ad essi che deve cimentarsi (non intorno ai problemi che caratterizzeranno altre epoche). Risulta pertanto vuoto di senso confrontare le sue azioni con quelle – poniamo – di Napoleone o di Cavour, che hanno operato entro uno stato di cose del tutto diverso. Eppure anche qui possiamo ripetere quanto abbiamo riferito poco sopra a proposito del ricercatore scientifico, e cioè che la situazione odierna, pur essendo manifestamente diversa da quella in cui operarono i politici del tempo passato, è manifestamente connessa alle soluzioni che questi diedero ai problemi della loro epoca.
Per scendere a problemi ben più meschini, possiamo notare che il cittadino italiano che oggi si reca a votare può senza dubbio scegliere il candidato a cui intende dare il suo voto, ma deve sceglierlo entro il quadro delle liste che gli vengono proposte (quadro che costituisce ciò che chiamiamo «stato di cose»).
Come abbiamo già detto, il secondo costituente del concetto di libertà è l’insieme delle iniziative, o linee di condotta, ciascuna delle quali compatibile con lo stato di cose di cui abbiamo fatto parola. Questo insieme deve contenerne due o più perché abbia senso parlare di scelta di una fra esse: scelta che deve essere autonoma affinché si possa parlare di libertà.
Ma che cosa significa «scelta autonoma»?
Questo aggettivo «autonoma» non è forse sinonimo dell’aggettivo «libera»? E se così fosse, non cadremmo in un manifesto circolo vizioso, consistente nel definire idem per idem?
Scelta autonoma significa scelta non determinata da fattori esterni a colui che sceglie, ma non va nemmeno confusa con «scelta casuale». Se si trattasse di scelta a caso, si escluderebbe l’intervento su di essa di qualsiasi influenza, mentre sulla scelta autonoma possono intervenire parecchie influenze, nessuna delle quali però determinante. Facendo ricorso a una vecchia e ben nota similitudine, potremmo dire che la scelta autonoma è paragonabile al nodo di una rete, nodo in cui convergono parecchi fili della rete stessa, i quali si fanno equilibrio gli uni con gli altri, senza che l’uno sia prevalente sui restanti.
2. Ai tre sopraddetti costituenti della libertà individuale possiamo far corrispondere tre fasi del processo concreto in cui si realizza la libertà dell’individuo; ed è importante averli distinti con nettezza, perché essi ci fanno vedere che tale processo non ha, considerato nella sua interezza, un carattere soggettivo. Se infatti possiede un tale carattere la terza fase, non lo possiede invece la prima, nella quale l’individuo della cui libertà si parla non ha altra funzione che quella di prendere atto che esiste un certo stato di cose indipendente da lui (per esempio, come già si è detto, il ricercatore matematico si trova di fronte alla cultura matematica della sua epoca, l’uomo politico si trova di fronte a certi problemi socio-economici della sua epoca, e così via). E anche l’insieme delle iniziative compatibili con il predetto stato di cose ha, in certo senso, un carattere oggettivo perché è legato a tale stato di cose da un rapporto analogo a quello causale.
È pertanto infondata la pretesa di ridurre la libertà individuale a un processo esclusivamente soggettivo.
Quanto alle iniziative che costituiscono la seconda fase del processo in cui si realizza la libertà dell’individuo, occorre aggiungere che esse non sono soltanto caratterizzate dal risultare compatibili con lo stato di cose che l’individuo trova innanzi a sé, ma sono anche caratterizzate dal fine a cui tendono: fine che può essere la conservazione dell’anzidetto stato di cose (con i suoi problemi e i suoi metodi di risolverli) oppure il suo graduale o rapido rovesciamento e la sua sostituzione con un altro stato di cose. È con riferimento a questo fine che si può giudicare il valore del processo in esame.
Non si può infatti sostenere che il processo in cui si realizza la libertà dell’individuo sia automaticamente provvisto di valore positivo: il nuovo stato di cose che intende sostituire al precedente può essere peggiore di esso, ovvero il fatto che sia nuovo non implica che sia il migliore. Certamente la libertà dell’individuo ha i suoi notevolissimi pregi; ma la libertà per che cosa? Per sfruttare gli altri individui? Per imporre ad ogni costo il proprio predominio?
Chi è vissuto sotto la dittatura fascista o nazista sa molto bene ciò che significava la libertà per i gerarchi di tali regimi, e non può avere dubbi che essa fosse un male.
Non ha senso fare della libertà dell’individuo un mito, se non lo si inserisce in un quadro di ben precisi doveri morali.
3. Sappiamo che l’opzione per una delle iniziative compatibili con lo stato di cose che l’individuo ha trovato innanzi a sé costituisce la terza fase (conclusiva) del processo in cui si realizza la sua libertà. Ma essa conclude tale processo solo per aprirne un altro, cioè per aprire il processo dell’effettivo conseguimento del fine a cui l’anzidetta iniziativa mirava. Accade spesso, però, che si incontrino lungo questo processo gravi ostacoli che lo frenano o lo fermano.
Orbene, l’autentica libertà si rivela nei tentativi diretti a superare tali ostacoli, cioè nell’atto in cui si lotta contro di essi. È nella lotta contro di essi che la libertà trova la sua piena espressione. Onde si può concludere che le anzidette difficoltà non hanno solo una funzione negativa, ma ne hanno pure una positiva: quella di stimolare la ricerca di mezzi idonei a conseguire il fine voluto. Proprio qui va cercata la ragione della positività del negativo.
La nostra analisi è certamente troppo breve per sviscerare le ragioni di questa positività, ma è comunque sufficiente a dimostrare l’insostenibilità della tesi che vorrebbe identificare la libertà con l’estinzione della lotta, con la morte dello spirito combattivo.
Al contrario, la libertà è lotta continua perché sono continui gli ostacoli che si incontrano sull’attuazione dell’iniziativa scelta dall’individuo fra le varie iniziative compatibili con lo stato di cose che egli ha trovato innanzi a sé. Si tratta di ostacoli ora più piccoli ora più grandi, ma pur sempre ostacoli, che verranno comunque superati.
La libertà è dunque costituita dalle tre fasi sopra elencate e in più da questa lotta ininterrotta. Il fatto che essa abbia tutti questi costituenti dimostra che non si tratta, come taluni sembrano ritenere, di un concetto semplice, pressoché evidente, ma di un concetto molto complesso, il quale richiede di essere analizzato con estrema cautela e attenzione, se non si vuole che diventi la fonte di gravi confusioni.
Questa analisi attenta e accurata è particolarmente necessaria quando esaminiamo la libertà politica, perché ci insegna a tenere ben distinti, per esempio, lo stato di cose a cui era connessa la libertà degli ateniesi nell’antica Grecia e quella a cui era connessa la libertà dei cittadini francesi durante la Rivoluzione. E soprattutto perché ci insegna a cogliere nettamente le differenze fra gli stati di cose formatisi in momenti diversi della storia dei popoli (attraverso lotte combattute di recente o combattute in un lontano passato) e l’incomparabilità degli sviluppi che ne derivano.
La libertà individuale non è identica in tutti i tempi e in tutti i luoghi, in quanto si ricollega a stati di cose diversi. Per esempio, oggi lo stato di cose che caratterizza un Paese civile non contempla solo il diritto a disporre del proprio corpo, ma anche il diritto al lavoro; e perciò la libertà individuale consisterà nello scegliere una fra le molte iniziative compatibili con quest’ultimo diritto, cioè una fra le molte iniziative capaci di garantire il lavoro.
4. Facendo seguito a quanto venne spiegato nel paragrafo secondo, possiamo ora dire che la libertà è lotta per superare gli ostacoli che si frappongono al pieno sviluppo delle iniziative sorte a partire dallo stato di cose (diverso da un tempo all’altro e da luogo a luogo) di fronte a cui noi ci troviamo.
Ma non ha senso parlare di lotta se non si indica con quali mezzi essa va condotta. Sorge cioè la domanda: sono lecite, oppure no, tutte le armi per combattere gli ostacoli, nella cui rimozione consiste in ultima istanza la libertà individuale?
A ben riflettere, la domanda si presenta subito come tendenziosa, perché orienta in via pregiudiziale la discussione verso la ricerca di un criterio di libertà universalmente valido, cioè valido in ogni tempo e luogo. Orbene, il concetto di liceità fa riferimento ad una legge che autorizza a fare una certa azione o a nutrire un certo desiderio; ma allora, per poter definire una liceità universalmente valida, occorrerebbe fare riferimento ad una legge valida per tutta l’umanità.
In effetti tutte le civiltà hanno ritenuto che una legge siffatta esistesse, e hanno ritenuto di poterne dare una formulazione soddisfacente. Per esempio, la società ebraica ha scorto tale formulazione nel decalogo che sarebbe stato dettato a Mosè direttamente dal dio ebraico.
In seguito il decalogo di Mosè venne accettato, almeno formalmente, da tutte le civiltà che si svilupparono a partire da quella ebraica, e in particolare dalla civiltà cristiana, cosicché tutti i popoli cristianizzati fanno ancora oggi riferimento ad esso come base del vivere civile.
Senonché la dura realtà storica ha dimostrato che né la legge mosaica né alcuna legge formulata da altri popoli furono effettivamente in grado di assolvere il compito che si era loro assegnato.
Va inoltre osservato che la legge mosaica (per fermarci ad essa) non è rimasta inalterata nel tempo. Basti pensare alle profonde, e in un certo senso rivoluzionarie, integrazioni che essa ha subito ad opera di Cristo e dei suoi primi discepoli.
D’altra parte sarebbe fin troppo facile dimostrare che nessun popolo – e, meno che meno, il popolo ebraico – ha veramente rispettato i precetti elencati nel decalogo. Prendiamo per esempio il quindo comandamento (non uccidere) e domandiamoci quante volte si ritenne non solo lecito ma doveroso infrangerlo.
Innanzi tutto nelle guerre, ove fu sostituito presso tutti i popoli da un precetto contrario (uccidi quanti più «nemici» ti è possibile). Inoltre nei procedimenti giudiziari che presso molti popoli ritenuti altamente civili possono concludersi con la pena capitale. Si pensi infine alle sottili e interminabili discussioni compiute dai più aperti teologi medievali se fosse o non fosse lecito uccidere il tiranno.
Taluno ha pensato di poter correggere il comandamento in questione limitandosi a fare divieto di uccidere gli innocenti. Ma chi sono gli innocenti? Forse che non lo sono gran parte dei soldati reclutati negli eserciti regolari moderni, che si trovano costretti a combattere solo perché glielo impongono i governi dei rispettivi paesi?
Non ha poi alcun senso il divieto di uccidere gli innocenti se si pensa di applicarlo agli aviatori che bombardano da grande altezza le città del paese nemico, e tanto più se le bombardano con ordigni nucleari, i cui effetti hanno una portata e un’estensione incontrollabili.
Nemmeno ci si può illudere, infine, di temperare il precetto in questione limitandolo a fare divieto di uccidere con tortura, poiché, a ben riflettere, l’uccisione di una persona implica sempre un certo tipo di tortura (in primo luogo la tortura del condannato, che sa di essere sul punto di venire ucciso).
In conclusione, una volta riconosciuto che la libertà è lotta, dobbiamo francamente riconoscere che è pressoché impossibile riconoscere quali siano i mezzi leciti – e quali gli illeciti – per condurre questa lotta. Anche questa liceità o illiceità infatti non può venire determinata in astratto, ma solo in riferimento allo stato di cose che costituisce la prima fase del processo a cui abbiamo dato il nome di libertà.
La via più semplice per eliminare tutte le difficoltà delle quali abbiamo parlato potrebbe essere quella di negare che la libertà sia lotta; ma in realtà non è una via praticabile, perché tutta la storia ci insegna che la libertà è ed è sempre stata lotta: lotta di un popolo che vuole liberarsi dalla sopraffazione di un altro popolo, lotta di un gruppo di individui che non intende accettare l’asservimento ad un altro gruppo, lotta di un individuo che vuole abbattere gli ostacoli frapposti da altri individui all’esperimento dei propri piani scaturiti dallo stato di cose che egli ha trovato innanzi a sé.
La tesi contraria, secondo cui la libertà non sarebbe lotta, è sostenuta di fatto da coloro che, avendo lottato e vinto in un passato più o meno lontano, hanno tutto l’interesse che non si lotti più, onde vengano conservati i loro privilegi.
(La libertà 2/7. Segue)
Ludovico Geymonat
(Tratto dal volume: Ludovico Geymonat, La libertà, Milano, Rusconi Libri, 1988, pp. 25-38).
Inserito il 25/02/2023.
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III. Libertà e violenza
1. Abbiamo visto nei due capitoli precedenti che il concetto di libertà (sia dei popoli sia degli individui) rinvia a quello di lotta, e quindi, direttamente o indirettamente, a quello di violenza. È su quest’ultimo quindi che dobbiamo ora dirigere la nostra analisi, nel modo più spregiudicato possibile, superando quel falso pudore per cui si preferisce fingere che la violenza sia un aspetto marginale della nostra società, agevolmente cancellabile.
Già sappiamo che il problema della libertà dei popoli coinvolge quello della guerra (di conquista o di liberazione), e la guerra non è neanche concepibile senza violenza, esercitata con mezzi primitivi o con sofisticatissime armi moderne. Ma la via migliore per analizzare in tutti i suoi aspetti il concetto di violenza non sembra quella che parte dall’esame del concetto di guerra fra i popoli, bensì quella che prende le mosse dall’esame del concetto di guerra civile, ammettendo che oggi si possa fare una netta distinzione fra i due tipi di guerra (cosa assai difficile in quanto la guerra civile fra due fazioni di un popolo rinvia sempre alla guerra, aperta o mascherata, fra gli Stati che porteggono l’una o l’altra fazione, come già si è accennato nel primo capitolo).
Fin dalla preistoria dell’umanità, noi troviamo numerosi esempi di guerra civile, quasi sempre molto feroci. Va osservato però che il concetto di guerra civile va oggi notevolmente ampliato. Mentre, fino a qualche tempo addietro, si parlava di guerra civile solo se le due o più fazioni in lotta si combattevano con squadre di uomini armati, formanti battaglioni abbastanza regolari, oggi si può parlare di guerra civile anche a prescindere da tale condizione. Esistono infatti anche altri modi di lottare, e aspramente, non con le armi ma con altri mezzi (per esempio, con lo sfruttamento economico, con il sabotaggio, con la propaganda, ecc.).
Se usiamo il concetto di guerra civile in questo senso ampliato – e tutto ci suggerisce di farlo – allora anche le lotte di classe, di cui Marx aveva giustamente sottolineato l’importanza decisiva nello sviluppo dell’umanità, diventano guerre civili. E non si tratta solo di un cambiamento di nome, perché questo cambiamento comporta anche molte conseguenze pratiche: per esempio, comporta il dovere di trattare gli arrestati come prigionieri di guerra e non come volgari delinquenti, e comporta il diritto di rifiutare certi mezzi di forzata persuasione in uso contro i partecipanti alle lotte di classe.
Da questo punto di vista, il dilemma che talvolta viene sollevato di fronte a certi eventi di storia, e che consiste nell’asserire «o si tratta di mera lotta di classe o invece si tratta di autentica guerra civile», non è più sostenibile, in quanto i due corni del dilemma non si escludono a vicenda o per lo meno si escludono soltanto in astratto se definiamo le due espressioni «lotta di classe» e «guerra civile» come le si definiva nel secolo scorso. Basta però guardare gli avvenimenti che giorno per giorno si susseguono nei paesi del cosiddetto «terzo mondo» per accorgersi che in tali paesi non si può fare una netta distinzione tra la lotta degli sfruttati contro gli sfruttatori e la guerra dei popoli per raggiungere la propria indipendenza.
In parecchi di questi casi si direbbe che il risultato di tale groviglio di lotte e di violenze non sia, a rigore, un incremento della libertà degli individui che vi partecipano, ma ciò accade solo perché si giudicano simili eventi dall’esterno, in base a criteri validi per noi e non per loro. Il giudizio sarebbe invece diverso se si tenesse conto delle esigenze di quei popoli, della loro storia, delle loro concezioni di libertà, dei loro costumi, delle loro religioni.
Il fatto è che i paesi cosiddetti civili, essendo nettamente più forti dal punto di vista economico e da quello bellico, possono pretendere di imporre che sia universalmente accettato come lecito il tipo di violenza da essi praticato e regolamentato dalle loro leggi nazionali e internazionali. Secondo loro, questo tipo di violenza sarebbe perfettamente compatibile con la libertà, mentre non lo sarebbe il tipo di violenza praticato dai popoli detti incivili. Ma su quale base possiamo distinguere i popoli «civili» da quelli «incivili»?
Nessuno può porre in dubbio il carattere relativo del concetto di civiltà che, a un esame oggettivo un po’ accurato, si rivela profondamente diverso da un’epoca all’altra e da un popolo all’altro. Se noi, malgrado la nostra consapevolezza critica, continuiamo a ritenere che la nostra sia la vera civiltà, e che perciò unicamente la violenza consentita in nome di questa civiltà sia compatibile con la libertà, è chiaro che ci rendiamo colpevoli di gretto immobilismo.
La nostra fede nel carattere civile delle nostre istituzioni e del nostro modo di vivere non è meno dogmatica della fede che avevano i nostri avi nella verità assoluta della loro religione. Essa ci ricorda il famoso detto del re di Prussia Gott mit uns (Dio è con noi). Oggi noi possiamo ridere di questo detto, ma dovremmo ridere con pari sicurezza della tesi, pur tanto diffusa, secondo cui «la civiltà e la libertà sono con noi».
2. Quanto ora esposto ci permette a questo punto di affrontare il delicatissimo problema del terrorismo.
In genere il ricorso ad esso viene considerato come un fatto estremamente incivile; il terrorismo infatti è un’arma che colpisce l’avversario in forma insidiosa, senza preavviso, senza rispettare alcun confine, senza il benché minimo tentativo di distinguere fra colpevoli e innocenti. Così almeno viene descritto (o, più precisamente, demonizzato) da coloro che ne sono il bersaglio.
Inoltre esso viene accusato di richiedere una forte dose di fanatismo, perché in molti casi il terrorista sa che anche la sua stessa persona potrà venire travolta dal disastro che egli si accinge a provocare. Non per nulla, quando il terrorismo viene usato in modo sistematico da uno Stato in guerra contro un altro Stato, si parla non tanto di terroristi quanto di «battaglioni suicidi».
Senza dubbio il fanatismo è riprovevole, ma, a ben riflettere, non è facile stabilire una netta differenza tra il fanatismo del battaglione suicida e il cosiddetto eroe, da tutti ammirato ed esaltato. Basti ricordare alcune delle azioni che fin da ragazzi siamo abituati a chiamare «eroiche»: per esempio, il famoso sacrificio di Pietro Micca. Se ci chiediamo che cosa distingue tali azioni da quelle compiute dai cosiddetti battaglioni suicidi (siano essi vietnamiti o giapponesi o iraniani), ci troviamo in grave difficoltà per dare una risposta soddisfacente.
Né si ha il diritto di rispondere che l’azione eroica è dettata da motivi razionali, mentre l’altra è dettata da motivi irrazionali. Con quale criterio infatti si può giudicare la razionalità di un’azione? Solo esaminando se l’azione, di cui intendiamo parlare, rientra o non in un piano espressamente delineato al fine di raggiungere un certo scopo. Ma l’esito di tale esame dipende in modo essenziale dal punto di vista in cui si pone colui che si accinge a compierlo. Potrà pertanto accadere che la medesima azione sia giudicata razionale o no, frutto di eroismo o di mero fanatismo, a seconda del punto di vista dal quale ci collochiamo. Né va dimenticato che in tutti i conflitti è sempre ritenuto valido il giudizio pronunciato da chi sta dalla parte del vincitore.
Parlare di razionalità o irrazionalità di un’azione è semplicemente un segno di ignoranza o di grave superficialità. Non ha quindi senso la pretesa di fare riferimento a tale presunta razionalità per decidere se un atto di violenza sia o no espressione di libertà.
3. La parola fanatismo è un termine spregiativo col quale noi «civili» miriamo a gettare discredito sulle persone che ci combattono. Secondo il linguaggio comune, il fanatico è colui che non riflette criticamente sui motivi delle proprie azioni, cioè agisce per istinto, lasciandosi guidare da una infatuazione cieca o da un odio altrettanto cieco. Ma, a ben considerare le cose, il comportamento (per lo meno in guerra) delle persone non fanatiche non pare differenziarsi molto dal comportamento delle persone fanatiche. Per esempio, il comandante militare che decide freddamente di bombardare una città, senza preoccuparsi se le sue bombe andranno a colpire soltanto i soldati nemici o anche cittadini innocenti, può non agire per odio (può anche agire per il trionfo della libertà), ma chi subisce gli effetti della sua azione non farà differenza a seconda delle intenzioni che hanno ispirato il bombardamento stesso. La differenza tra il freddo e cinico generale che ordina il bombardamento a tappeto di una città e il fanatico capobanda che guida i suoi uomini al saccheggio del paese nemico, è soprattutto una differenza di eleganza, non di contenuto civile. A rigore, ciò che fa ritenere più civile il comportamento del generale è soltanto la superiorità dell’esito al quale conduce.
Apparentemente l’operazione bellica razionalmente organizzata è meno violenta dell’azione mossa da fanatismo, anche se produce un maggior numero di morti (si pensi agli effetti dell’uso dei gas tossici nella prima guerra mondiale); proprio per ciò l’attacco di soldati fanatici che si scatenano in un corpo a corpo crudele viene guardato con una certa aria di superiorità da chi è in grado di combattere con armi automatiche che non insanguinano le mani. Ma si tratta di varianti della violenza, che non ne mutano il carattere di fondo. L’aspetto più o meno cruento di uno scontro armato non è qualcosa che possa interessarci.
La cosa che ci interessa è invece l’abbinamento tra violenza e libertà, che si intrecciano l’una con l’altra così strettamente da non poter venire prese in esame separatamente, per lo meno nel concreto della storia. Diversamente accade nell’utopia.
4. Tutti conoscono il significato del termina utopia. Ma non si riflette a sufficienza sui nessi tra utopia e libertà.
Questi nessi consistono nel fatto che, se vogliamo parlare della libertà senza riferimento alla violenza, ci troviamo nel mondo dell’utopia. Qualcuno potrebbe obiettarci che ciò non è necessario, bastando a tale scopo riferirsi ad una società ben ordinata, in cui la vita sia regolata da leggi precise, approvate da tutti. Rispondiamo che una società siffatta non esiste in realtà. Senza dubbio possiamo sognare una società che si approssimi ad essa, ma un esame spregiudicato delle società effettive ci dimostra che la realtà è ben diversa. Chi afferma il contrario, lo fa intenzionalmente, perché vuole nascondere a se stesso e agli altri gli aspetti violenti della società in cui vive; lo fa perché, sentendosi a proprio agio in essa, e nutrendo un’infinità di pregiudizi contro la violenza, vuole sostenere che è una società libera, in cui non alberga nessuna violenza.
Ma si tratta di una illusione, di un inganno perpetrato contro la ragione. Si tratta di una illusione particolarmente pericolosa perché ci distoglie dall’esaminare i caratteri concreti dell’autentica libertà, di quella libertà per cui si sono compiuti tanti sacrifici nel corso dei secoli, per cui si è tanto combattuto, si è versato tanto sangue, spesso in buona fede.
Senza dubbio l’utopia ha espletato funzioni assai importanti nello sviluppo delle idee, mostrando di volta in volta quali erano i punti più difettosi delle società vigenti nelle varie epoche storiche; ma ha pure avuto non di rado una funzione negativa, in quanto ha distratto gli studiosi dal prendere atto della realtà in cui vivevano.
Nel presente caso essa ha un merito: quello di mostrare che la libertà senza violenza è realizzabile solo in una società perfetta, ben diversa da quella in cui ci tocca vivere. Come in geometria non si può parlare di punti senza parlare anche di rette e di piani, trattandosi di concetti che non si possono definire se non tutti insieme, così accade nei problemi di cui ci stiamo occupando, nei quali non si può parlare di libertà senza parlare nel contempo della società perfetta nella quale essa si esplicherebbe.
L’esame dello sviluppo del concetto di libertà ci insegna che non solo filosofi ma anche uomini di azione hanno parlato di libertà in termini astratti, come se si trattasse di un concetto definibile isolatamente, senza riferirlo all’ambiente storico in cui tale libertà dovrebbe esercitarsi. Ma così facendo, essi non hanno dato alcun contributo serio all’analisi del concetto in questione.
Altrettanto può ripetersi del concetto di violenza, che a rigore non può venire analizzato e valutato (con una assoluzione o con una condanna) se non in stretto collegamento con il concetto di società. È sulla base di questa situazione parallela che qui abbiamo sostenuto l’inscindibile rapporto fra libertà e violenza.
Molte esaltazioni, per lo più retoriche, della nonviolenza intesa come bene indiscutibile, sono un segno di ignoranza più che un frutto di raffinata sensibilità e di alta civiltà.
(La libertà 3/7. Segue)
Ludovico Geymonat
(Tratto dal volume: Ludovico Geymonat, La libertà, Milano, Rusconi Libri, 1988, pp. 39-50).
Inserito il 07/04/2023.
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