Il rientro dei palestinesi sfollati nella parte nord della Striscia di Gaza (19 gennaio 2025).
Autore della foto: Omar al-Qattaa / AFP tramite Getty Images.
Fonte della foto: https://www.invictapalestina.org/archives/54320
Dal sito de «L’AntiDiplomatico»
di Chris Hedges*
Il vero responsabile dei disastri del mondo, secondo Chris Hedges, è l’Occidente dominatore del mondo.
«Dominiamo il mondo non per le nostre virtù superiori, ma perché siamo gli assassini più efficienti del pianeta. I milioni di vittime dei progetti imperiali razzisti in Paesi come il Messico, la Cina, l’India, il Congo, il Kenya e il Vietnam sono sordi alle fatue affermazioni degli ebrei secondo cui il loro vittimismo è unico. Lo stesso vale per i neri, i nativi americani e la comunità di origine. Anche loro hanno subito olocausti, ma questi olocausti rimangono minimizzati o non riconosciuti dai loro autori occidentali».
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La via occidentale al genocidio
di Chris Hedges*
Gaza è una terra desolata con 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Ratti e cani frugano tra le rovine e le pozze fetide di liquami grezzi. Il lezzo putrido e la contaminazione dei cadaveri in decomposizione emergono da sotto le montagne di cemento in frantumi. Non c’è acqua potabile. Poco cibo. Una grave carenza di servizi medici e quasi nessun riparo abitabile. I palestinesi rischiano di morire a causa di ordigni inesplosi, lasciati dietro di sé dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, raffiche di artiglieria, colpi di missili e scoppi di carri armati, e di una varietà di sostanze tossiche, tra cui pozze di liquami grezzi e amianto.
L’epatite A, causata dal consumo di acqua contaminata, è dilagante, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la diffusa nausea e vomito causati dal consumo di cibo rancido. Le persone vulnerabili, compresi i neonati e gli anziani, insieme ai malati, rischiano la condanna a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampati tra lastre di cemento o all’aperto. Molti sono stati costretti a spostarsi più di una dozzina di volte. Nove case su 10 sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università – Israele ha fatto saltare in aria l’Università Israa a Gaza City con una demolizione controllata – cimiteri, negozi e uffici sono stati cancellati. Il tasso di disoccupazione è dell’80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l’85%, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ottobre 2024.
La messa al bando da parte di Israele dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente – che stima che per liberare Gaza dalle macerie lasciate ci vorranno 15 anni – fa sì che i palestinesi di Gaza non avranno mai accesso a forniture umanitarie di base, cibo e servizi adeguati.
Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite stima che la ricostruzione di Gaza costerà tra i 40 e i 50 miliardi di dollari e, se i fondi saranno resi disponibili, richiederà fino al 2040. Si tratterebbe del più grande sforzo di ricostruzione postbellica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Israele, rifornito con miliardi di dollari di armi da Stati Uniti, Germania, Italia e Regno Unito, ha creato questo inferno. E intende mantenerlo. Gaza rimarrà sotto assedio. Dopo un’iniziale ondata di consegne di aiuti all’inizio del cessate il fuoco, Israele ha nuovamente ridotto drasticamente l’assistenza via camion. Le infrastrutture di Gaza non saranno ripristinate. I suoi servizi di base, compresi gli impianti di trattamento dell’acqua, l’elettricità e le linee fognarie, non saranno riparati. Le strade, i ponti e le fattorie distrutte non saranno ricostruite. I palestinesi disperati saranno costretti a scegliere tra vivere come abitanti di una caverna, accampati in mezzo a pezzi di cemento frastagliato, morire di malattie, carestie, bombe e proiettili, o esilio permanente. Queste sono le uniche opzioni che Israele offre.
Israele è convinto, probabilmente a ragione, che alla fine la vita nella striscia costiera diventerà così onerosa e difficile, soprattutto quando
Israele troverà scuse per violare il cessate il fuoco e riprendere gli assalti armati contro la popolazione palestinese, che un esodo di massa sarà inevitabile. Il governo israeliano si è rifiutato, anche con il cessate il fuoco in vigore, di permettere alla stampa straniera di entrare a Gaza, un divieto concepito per bloccare la copertura delle orribili sofferenze e della morte.
La seconda fase del genocidio israeliano e dell’espansione della “Grande Israele” – che comprende la presa di altro territorio siriano nelle alture del Golan (e le richieste di espansione verso Damasco), nel Libano meridionale, a Gaza e nella Cisgiordania occupata – si sta consolidando. Organismi israeliani, tra i quali l’organizzazione di estrema destra Nachala, hanno tenuto conferenze per preparare la colonizzazione ebraica di Gaza una volta che i palestinesi saranno stati ripuliti etnicamente. Le colonie per soli ebrei sono esistite a Gaza per 38 anni, finché non sono state smantellate nel 2005.
Washington e i suoi alleati in Europa non fanno nulla per fermare il massacro di massa trasmesso in diretta streaming. Non faranno nulla per fermare il deperimento dei palestinesi di Gaza per fame e malattie e il loro definitivo spopolamento. Sono complici di questo genocidio. Rimarranno complici fino a quando il genocidio non raggiungerà la sua triste conclusione.
Ma il genocidio a Gaza è solo l’inizio. Il mondo sta crollando sotto l’assalto della crisi climatica, che sta innescando migrazioni di massa, Stati falliti e catastrofici incendi, uragani, tempeste, inondazioni e siccità. Con il disfacimento della stabilità globale, la terrificante macchina della violenza industriale, che sta decimando i palestinesi, diventerà onnipresente. Queste aggressioni saranno commesse, come a Gaza, in nome del progresso, della civiltà occidentale e delle nostre presunte “virtù”, per schiacciare le aspirazioni di coloro, per lo più poveri di colore, che sono stati disumanizzati e liquidati come animali umani.
L’annientamento di Gaza da parte di Israele segna la morte di un ordine globale guidato da leggi e regole concordate a livello internazionale, spesso violato dagli Stati Uniti nelle loro guerre imperiali in Vietnam, Iraq e Afghanistan, ma che era almeno riconosciuto come una visione utopica. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali non solo forniscono gli armamenti per sostenere il genocidio, ma ostacolano la richiesta della maggior parte delle nazioni di attenersi al diritto umanitario.
Il messaggio che trasmette è chiaro: voi e le regole che pensavate potessero proteggervi non contano. Noi abbiamo tutto. Se cercate di portarcelo via, vi uccideremo.
I droni militarizzati, le mitragliatrici degli elicotteri, i muri e le barriere, i posti di blocco, le spire di filo spinato, le torri di guardia, i centri di detenzione, le deportazioni, la brutalità e la tortura, la negazione dei visti d’ingresso, l’esistenza di apartheid che deriva dall’essere privi di documenti, la perdita dei diritti individuali e la sorveglianza elettronica sono tanto familiari ai migranti disperati lungo il confine messicano o che cercano di entrare in Europa quanto lo sono ai palestinesi.
Israele, che come nota Ronen Bergman in Rise and Kill First, ha “assassinato più persone di qualsiasi altro Paese del mondo occidentale”, usa l’Olocausto nazista per santificare il suo vittimismo ereditario e giustificare il suo stato coloniale, l’apartheid, le campagne di omicidio di massa e la versione sionista del Lebensraum.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, vedeva la Shoah, per questo motivo, come “una fonte inesauribile di male” che “si perpetua come odio nei sopravvissuti, e nasce in mille modi, contro la volontà stessa di tutti, come sete di vendetta, come rottura morale, come negazione, come stanchezza, come rassegnazione”.
Il genocidio e lo sterminio di massa non sono dominio esclusivo della Germania fascista. Adolf Hitler, come scrive Aimé Césaire in Discorso sul colonialismo, è apparso eccezionalmente crudele solo perché ha presieduto “all’umiliazione dell’uomo bianco”. Ma i nazisti, scrive, avevano semplicemente applicato “procedure colonialiste che fino ad allora erano state riservate esclusivamente agli arabi dell’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri dell’Africa”.
Il massacro tedesco degli Herero e dei Namaqua, il genocidio degli Armeni, la carestia del Bengala del 1943 – l’allora primo ministro britannico Winston Churchill liquidò con disinvoltura la morte di tre milioni di indù in quella carestia definendoli “un popolo bestiale con una religione bestiale” – insieme allo sgancio delle bombe nucleari sugli obiettivi civili di Hiroshima e Nagasaki, illustrano qualcosa di fondamentale sulla “civiltà occidentale”. Come aveva capito Hannah Arendt, l’antisemitismo da solo non ha portato alla Shoah. Era necessario l’innato potenziale genocida dello Stato burocratico moderno.
“In America”, ha scritto il poeta Langston Huges, “i negri non hanno bisogno di sentirsi dire che cos’è il fascismo in azione. Lo sappiamo. Le sue teorie di supremazia nordica e di soppressione economica sono da tempo realtà per noi”.
Dominiamo il mondo non per le nostre virtù superiori, ma perché siamo gli assassini più efficienti del pianeta. I milioni di vittime dei progetti imperiali razzisti in Paesi come il Messico, la Cina, l’India, il Congo, il Kenya e il Vietnam sono sordi alle fatue affermazioni degli ebrei secondo cui il loro vittimismo è unico. Lo stesso vale per i neri, i nativi americani e la comunità di origine. Anche loro hanno subito olocausti, ma questi olocausti rimangono minimizzati o non riconosciuti dai loro autori occidentali.
“Questi eventi, che hanno avuto luogo a memoria d’uomo, hanno minato l’assunto di base di entrambe le tradizioni religiose e dell’Illuminismo secolare: che gli esseri umani hanno una natura fondamentalmente ’morale’”, scrive Pankaj Mishra nel suo libro Il mondo dopo Gaza. “Il diffuso sospetto che non sia così è ormai corrosivo. Molte più persone hanno assistito da vicino a morte e mutilazioni, sotto regimi di insensibilità, timidezza e censura; riconoscono con sgomento che tutto è possibile, che ricordare le atrocità del passato non è una garanzia contro la loro ripetizione nel presente e che le fondamenta del diritto e della morale internazionale non sono affatto sicure”.
Il massacro di massa è parte integrante dell’imperialismo occidentale come la Shoah. Sono alimentati dalla stessa malattia della supremazia bianca e dalla convinzione che un mondo migliore sia costruito sulla sottomissione e sullo sradicamento delle razze “inferiori”.
Israele incarna lo Stato etnonazionalista che l’estrema destra statunitense ed europea sogna di creare per sé, uno Stato che rifiuta il pluralismo politico e culturale, nonché le norme giuridiche, diplomatiche ed etiche. Israele è ammirato da questi proto-fascisti, compresi i nazionalisti cristiani, perché ha voltato le spalle al diritto umanitario per usare la forza letale indiscriminata per “ripulire” la sua società da coloro che sono condannati come contaminanti umani.
Israele e i suoi alleati occidentali, secondo James Baldwin, si stanno dirigendo verso la “terribile probabilità” che le nazioni dominanti “lottando per aggrapparsi a ciò che hanno rubato ai loro schiavi, e incapaci di guardarsi allo specchio, precipiteranno un caos in tutto il mondo che, se non porterà alla fine della vita su questo pianeta, porterà a una guerra razziale come il mondo non ha mai visto”.
Ciò che manca non è la conoscenza – la nostra perfidia e quella di Israele fanno parte della storia – ma il coraggio di dare un nome alla nostra oscurità e di pentirci. Questa cecità intenzionale e amnesia storica, questo rifiuto di rendere conto allo Stato di diritto, questa convinzione di avere il diritto di usare la violenza industriale per esercitare la nostra volontà segnano l’inizio, non la fine, delle campagne di massacro di massa del Nord globale contro le crescenti schiere di poveri e vulnerabili del mondo.
Chris Hedges*
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
* Giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il «New York Times», dove ha ricoperto il ruolo di redattore capo per il Medio Oriente e per i Balcani. In precedenza, ha lavorato all’estero per «The Dallas Morning News», «The Christian Science Monitor» e «NPR». È il conduttore dello show «The Chris Hedges Report».
(Tratto da: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-chris_hedges__la_via_occidentale_al_genocidio/39602_58977/).
Inserito il 04/02/2025.
Dal sito «invictapalestina.org»
di Raz Segal*
Lo studioso Raz Segal racconta la strana esperienza di essere stato attaccato come antisemita, nonostante fosse lui stesso ebreo e studiasse l’Olocausto e altri genocidi, per l’alto crimine di opporsi al massacro compiuto da Israele a Gaza.
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La negazione del genocidio negli studi sull’Olocausto
di Raz Segal*
Che cosa sta alla base del sostegno incondizionato che la Germania offre a Israele, compresi gli ultimi sedici mesi di assalto genocida di Israele a Gaza? Questa domanda rimane rilevante anche se l’attuale cessate il fuoco porrà fine al genocidio: affrontarla fa luce sul processo decennale del colonialismo dei coloni israeliani che ha portato al genocidio, una Nakba in corso che continua a svolgersi indipendentemente dal cessate il fuoco. In effetti, l’attacco di Israele ai palestinesi non è terminato e nella Cisgiordania occupata è addirittura aumentato da quando è iniziato il cessate il fuoco a Gaza, con attacchi mortali da parte dei coloni e dell’esercito israeliano.
Una stretta collaborazione tra studiosi dell’Olocausto israeliani e tedeschi offre alcune risposte inquietanti a questa domanda. In un evento web organizzato dal Programma di Studi sull’Olocausto presso l’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale il 19 dicembre 2024, tre relatori, Alvin Rosenfeld, professore di inglese e studi ebraici all’Università dell’Indiana, Verena Buser, storica tedesca che insegna a distanza all’Istituto, e Lars Rensmann, professore di scienze politiche all’Università di Passau in Germania, hanno attaccato gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio che hanno scritto e parlato del genocidio di Israele a Gaza, me compreso.
Sebbene l’evento fosse stato organizzato in onore di Yehuda Bauer, un padre fondatore degli studi sull’Olocausto, deceduto il 18 ottobre 2024 all’età di novantotto anni, i relatori hanno appena menzionato Bauer o il suo lavoro. Né hanno valutato la montagna di prove del genocidio in corso a Gaza dal 7 ottobre 2023. Invece, hanno optato per la negazione totale del genocidio.
Buser, ad esempio, ha affermato che gli studiosi che definiscono le azioni di Israele a Gaza come genocidio ignorano “le ampie critiche internazionali” sulla validità delle cifre delle vittime palestinesi che, ha aggiunto, “non distinguono tra combattenti e civili”. La verità è che esiste un ampio consenso internazionale sul fatto che Israele abbia ucciso più di 46.000 palestinesi. Le cifre effettive, inoltre, sono probabilmente molto più alte: un recente articolo sulla rivista medica «The Lancet» sostiene che Israele aveva ucciso oltre 64.000 palestinesi fino alla fine di giugno 2024, la maggior parte dei quali non combattenti, tra cui migliaia di bambini. Secondo Save the Children, “il territorio palestinese occupato è ora classificato come il posto più mortale al mondo per i bambini: circa il 30% degli 11.300 bambini identificati uccisi a Gaza tra ottobre 2023 e agosto 2024 avevano meno di cinque anni”. Israele aveva ucciso, inoltre, quasi 3.000 bambini palestinesi a Gaza che non erano stati identificati alla fine di agosto 2024.
La negazione del genocidio da parte di Buser si è estesa oltre la tipica minimizzazione del numero di vittime, che ha caratterizzato anche la negazione dell’Olocausto; ha anche fatto riferimento a “rapporti che mostrano che non c’è nessuna carestia a Gaza o che, se c’è, è causata dalle sfide logistiche della guerra”. Non ha indicato alcun rapporto specifico e non ha fornito alcun esempio specifico di sfide logistiche. Ciò non sorprende, poiché esiste anche un ampio consenso internazionale sulle politiche di carestia ben documentate di Israele, di cui i vertici militari israeliani hanno discusso apertamente.
La maggior parte degli studiosi nel mirino dei relatori dell’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale sono ebrei, me compreso, presi di mira per il modo in cui comprendiamo ed esprimiamo le nostre critiche alle atrocità di massa israeliane attraverso il prisma delle nostre identità ebraiche. A quanto pare, siamo il tipo sbagliato di ebrei. Ma accusarci di antisemitismo per il modo in cui ci identifichiamo come ebrei riproduce la visione antisemita che nega le identità ebraiche plurali per etichettare tutti gli ebrei come un’unica cosa, “gli ebrei”. In quanto tali, gli attacchi contro gli studiosi ebrei fanno parte della più ampia visione del mondo razzista dei relatori all’evento, mirata principalmente a denigrare i palestinesi.
La cosa più scandalosa è che lo storico israeliano Dan Michman, che è a capo dell’Istituto Internazionale per la Ricerca sull’Olocausto presso lo Yad Vashem, ha nominato nientemeno che Adolf Hitler per dare peso agli attacchi degli oratori.
Nessuno trova un problema con il termine palestinese. Ma se si torna indietro di un secolo, al Mein Kampf, per esempio, Hitler dice a un certo punto che i Sionisti vogliono stabilire uno Stato Palestinese per avere una base per le loro attività criminali. Ora, uno Stato Palestinese un secolo fa era uno Stato Ebraico. E il fatto è che durante il periodo del Mandato Britannico in Palestina, gli abitanti ebrei erano chiamati ebrei palestinesi, gli arabi erano arabi palestinesi. Nel 1948, Israele fu fondato e gli ebrei palestinesi divennero israeliani, quindi il termine palestinese fu lasciato in sospeso e solo dagli anni ’50 abbiamo iniziato a sentire parlare di palestinesi.
Sembra che Michman abbia voluto fare eco a Rensmann, che ha affermato nel suo discorso all’inizio dell’evento che “i nazisti erano apertamente, aggressivamente, fin dalle loro stesse radici, da Hitler nel 1920, apertamente anti-sionisti e hanno attaccato il potenziale Stato Sionista”. La logica in gioco qui è che se Hitler era un anti-sionista, l’anti-sionismo può essere solo antisemitismo, un’affermazione che gli oratori hanno ripetuto più e più volte. Così facendo, ignorano la ricca storia degli ebrei anti-sionisti e delle organizzazioni e dei partiti politici ebraici anti-sionisti, così come i molti ebrei anti-sionisti e le organizzazioni ebraiche in tutto il mondo oggi. Offrono invece una situazione bizzarra in cui un professore tedesco afferma di determinare per gli ebrei la legittimità o l’illegittimità delle loro identità ebraiche, appoggiato da uno studioso israeliano dell’Olocausto che finisce per riprodurre la logica del razzismo di Hitler.
Michman e Rensmann, inoltre, indirizzano le loro critiche non ai neo-nazisti e ai gruppi correlati di nuovo in ascesa in Germania e altrove, ma agli ebrei anti-sionisti. Michman e Rensmann si sono spinti in questo angolo paradossale per una ragione. Non possono tollerare gli ebrei anti-sionisti, compresi gli studiosi ebrei anti-sionisti dell’Olocausto e del Genocidio che osano sostenere che l’attacco di Israele a Gaza dall’ottobre 2023 rientra nel crimine di genocidio nel diritto internazionale.
Tuttavia, questi studiosi ebrei non sono soli. William Schabas, uno dei più importanti esperti di diritto internazionale sul genocidio, proveniente da una famiglia di sopravvissuti all’Olocausto, ha spiegato in un’intervista alla fine di novembre 2024 che:
“A Gaza l’infrastruttura è stata massicciamente distrutta, le persone non sono riuscite a scappare, e poi ci sono state le terribili dichiarazioni rilasciate dall’ex Ministro della difesa israeliano Yoav Gallant. Dichiarazioni provenienti da ministri, portavoce del governo e capi militari, tutti con influenza sulle truppe. Sono più frequenti e più gravi che in qualsiasi altro caso di cui io sia a conoscenza dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia. Insieme alla fame e alla mancanza di accesso all’acqua e all’igiene, alla distruzione sistematica di case, scuole e ospedali, emerge un’immagine che potrebbe essere interpretata come il risultato di un intento genocida”.
Per Rensmann, tuttavia, la “rivendicazione di genocidio contro Israele è parte integrante della storia dell’antisemitismo del ventesimo e ora del ventunesimo secolo”.
Buser ha preso spunto da Rensmann per liquidare gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio, per lo più ebrei, il cui lavoro attinge al vasto e crescente corpus di fonti sul genocidio di Israele a Gaza. Queste includono materiale istruito dall’accusa di genocidio che il Sudafrica ha mosso contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia; le numerose mappe, testimonianze di palestinesi, foto aeree e altre fonti nei rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch, Forensic Architecture e della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967; e le migliaia di video caricati con orgoglio sui social media da soldati e ufficiali israeliani in cui documentavano la propria violenza e i propri crimini.
Negando questa realtà ampiamente documentata, Buser afferma che gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio che lei intende screditare usano la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo (JDA), che “assolve l’anti-sionismo e i paragoni nazisti dalle accuse di antisemitismo”. La JDA, ha continuato, consente quindi a quegli studiosi di fare dichiarazioni anti-sioniste o suggerire paragoni storici che lei considera antisemiti, incluso, nelle sue parole, che “lo Stato di Israele è uno Stato bianco, colonizzatore, di apartheid che sta commettendo un genocidio a Gaza”.
La JDA stabilisce infatti che “criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo” non è antisemita, perché “in generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri Stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano al caso di Israele e Palestina”. In altre parole, se è legittimo criticare qualsiasi ideologia politica o politica di uno Stato, un diritto costituzionale protetto negli Stati Uniti, è legittimo anche nel caso del sionismo e di Israele.
La JDA conclude quindi giustamente che “anche se controverso, non è antisemita, di per sé, paragonare Israele ad altri casi storici, tra cui il colonialismo di insediamento o l’apartheid”. Buser, tuttavia, come i suoi colleghi relatori all’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale, equipara l’anti-sionismo all’antisemitismo, rendendo ai suoi occhi gli studiosi che prende di mira antisemiti. Le sue diapositive elencano gli undici più importanti di loro secondo lei, otto dei quali sono ebrei, me compreso.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto
Cosa pensare di questa alleanza di studiosi dell’Olocausto israeliani e tedeschi che attaccano gli ebrei per negare il genocidio israeliano e al contempo riprodurre il razzismo anti-palestinese eliminatorio che guida quel genocidio? Possiamo iniziare a sviscerare questa questione ricordando che l’evento dell’Istituto Accademico Israeliano mirava a onorare Bauer, lo studioso dell’Olocausto più associato all’idea che l’Olocausto sia unico nella storia umana. Questa idea, che ha guidato anche il lavoro di Rosenfeld e Michman, ha svolto un ruolo fondamentale nella politica e nelle società di Israele e Germania.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto nella storia umana fu facilitata dalla formulazione del concetto di genocidio nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio nel 1948, in seguito alla quale ciò che oggi chiamiamo Olocausto (allora nessuno usava quel termine) fu caratterizzato come più terribile del genocidio. Questa gerarchia, che in seguito arrivò a incarnare l’essenza del campo accademico Studi sull’Olocausto e sul Genocidio nel suo titolo, servì a un interesse cruciale per i vincitori della Seconda Guerra Mondiale: separò la violenza di massa nazista dalla lunga storia dei genocidi coloniali occidentali e dalla più breve storia dei genocidi sovietici che la precedettero.
Più immediatamente, ha anche distolto l’attenzione dai crimini di guerra su larga scala degli alleati occidentali e dei sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale, tra cui il lancio di bombe atomiche sul Giappone da parte degli Stati Uniti, che lo studioso del genocidio Leo Kuper ha poi descritto nel suo libro del 1981 Genocidio: Il suo uso politico nel ventesimo secolo (Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century) come atti di genocidio. Gli interessi comuni sovietico-occidentali sul nuovo crimine di genocidio finirono lì. In Occidente, questa gerarchia rese gli ebrei le vittime più pure, una mossa resa possibile dalla collocazione fondamentale degli ebrei nel mondo giudaico-cristiano. Come ha sostenuto il defunto storico dell’Olocausto Alon Confino in Un mondo senza ebrei (A World Without Jews), un brillante libro del 2014, i nazisti vedevano la distruzione degli ebrei proprio in questo modo, come essenziale per l’annientamento della civiltà giudaico-cristiana al fine di creare al suo posto una civiltà nazista. L’unicità dell’Olocausto ha quindi attinto e rafforzato l’idea che gli ebrei siano un popolo unico.
La vittimizzazione senza compromessi si è poi trasformata in una moralità superiore e si è unita a un elemento fondamentale del progetto sionista: confondere un popolo, gli ebrei, con uno Stato, Israele. Così è emersa la visione comune in Israele e in Occidente dell’esercito israeliano come l’esercito più morale del mondo. Di conseguenza, è diventato inimmaginabile che Israele potesse perpetrare qualsiasi crimine ai sensi del diritto internazionale, per non parlare del genocidio. Questa impunità per Israele nel sistema legale internazionale ha offuscato la riproduzione del nazionalismo esclusivistico e del colonialismo dei coloni nello Stato israeliano dalle sue origini nella Nakba del 1948, attraverso la Nakba in corso in decenni di violenza di massa israeliana contro i palestinesi, culminata ora nel genocidio israeliano a Gaza.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto ha anche plasmato l’impegno della Germania nei confronti di Israele, ciò che l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha notoriamente descritto in un discorso alla Knesset (Parlamento) israeliana nel 2008 come la “ragione di Stato” della Germania. Il defunto politico socialdemocratico tedesco Rudolf Dressler, che era stato ambasciatore della Germania in Israele dal 2000 al 2005, fu il primo a usare questa formulazione in un saggio nel 2005, e l’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz la ripeté nel suo discorso al Parlamento tedesco il 12 ottobre 2023. Cinque giorni dopo, in Israele, Scholz aggiunse che: “La storia della Germania e la responsabilità che ha avuto per l’Olocausto ci impongono di mantenere la sicurezza e l’esistenza di Israele”.
Ma un Olocausto unico funziona anche in modo più profondo nella politica e nella società tedesca. Rende anche il nazismo unico e quindi scollega il periodo nazista dal resto della storia tedesca, sia prima che dopo l’Olocausto.
Questa magia oscura i collegamenti tra il nazismo e il genocidio tedesco dei coloni contro gli Herero e i Nama nell’Africa Sud-occidentale all’inizio del ventesimo secolo. Allo stesso modo, scompare anche il nazionalismo tedesco esclusivista prima e dopo i nazisti, inclusa l’esplosione contemporanea di razzismo contro migranti e rifugiati. All’estremo, tale magia legittima il razzismo contro i palestinesi nel momento stesso in cui Israele perpetra un genocidio contro di loro. L’idea dell’unicità dell’Olocausto riproduce quindi piuttosto che affrontare il nazionalismo esclusivista e il colonialismo dei coloni che hanno portato all’Olocausto e che continuano a strutturare sia lo Stato dei perpetratori che lo Stato dei sopravvissuti fino a oggi.
L’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale, quindi, rifletteva ciò che Bauer aveva espresso un anno prima di morire, nel novembre 2023, in un articolo su «Haaretz». Utilizzando una terminologia coloniale, Bauer ha presentato l’attacco di Israele a Gaza come la protezione di “una società più o meno civile” contro la “barbarie di Hamas”, invocando “una lotta implacabile” tra “due visioni del mondo che fanno appello a diversi tipi di universo umano”. L’alleanza israelo-tedesca per gli Studi sull’Olocausto presso l’Istituto Accademico Israeliano esercita esattamente questa visione del mondo profondamente razzista, una visione che ha messo in pericolo gli ebrei in passato e ora li prende di nuovo di mira, a sostegno delle atrocità israeliane a Gaza, negando al contempo che costituiscano un genocidio.
27 gennaio 2025
Raz Segal*
(Traduzione di Beniamino Rocchetto - Invictapalestina.org)
* Raz Segal è professore associato di Studi sull’Olocausto e sul Genocidio presso l’Università Statale di Stockton, nella Contea di Galloway, New Jersey, dove dirige anche il programma di dottorato in Studi sull’Olocausto e sul Genocidio.
(Tratto da: https://www.invictapalestina.org/archives/54320).
Inserito il 05/02/2025.
Emmanuel Todd e il suo nuovo libro La sconfitta dell’Occidente (Fazi Editore).
Fonte della foto: https://www.analisidifesa.it/2024/10/la-sconfitta-delloccidente-di-emmanuel-todd/
Dal sito de «L’AntiDiplomatico»
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
“Stiamo entrando in un periodo in cui gli impulsi nichilisti di distruzione esistono indipendentemente dagli obiettivi razionali degli stati. Il nichilismo è il concetto corretto per comprendere la volontà degli ucraini di sottomettere i russi del Donbass. È il concetto corretto per comprendere le azioni dello Stato di Israele che non ha più obiettivi razionali”.
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Emmanuel Todd: “Possiamo salvarci solo accettando la sconfitta della NATO in Ucraina”
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
Incontriamo Emmanuel Todd nella sede romana di Fazi, l’editore che ha pubblicato la versione italiana del suo bestseller La sconfitta dell’Occidente. Storico, sociologo e antropologo francese di fama internazionale, ci colpisce per la disponibilità, umiltà e generosità con cui ci accoglie e con la quale ci permette di esaudire tutto il nostro fiume di domande e interessi. In Italia per presentare quello che è stato un caso editoriale in Francia e che è in procinto di essere tradotto in tante altre lingue, gli abbiamo esteso i nostri complimenti sinceri per il coraggio in una fase di appiattimento culturale e di chiusura ermetica delle idee nella parte di mondo che si autoproclama libero. Ma per Todd non è coraggio. Ci ricorda come suo nonno “Paul Nizan è stato un grande poeta, giornalista e scrittore che pubblicava con Gallimard. Il suo testimone di nozze era Raymond Aron ed è morto durante la seconda guerra mondiale. Mio padre Olivier era un grande giornalista del «Nouvel Observateur». L’agire nel portare avanti qualcosa in cui credo l’ho ereditato dalla mia famiglia e non lo vedo come coraggio, ma come il giusto modo di agire”.
Noto per aver previsto per primo, con anni di anticipo, il collasso dell’Unione Sovietica e la crisi finanziaria del 2008, Emmanuel Todd è una preziosa fonte per «Egemonia» per comprendere meglio i tempi in cui viviamo. […]
La sconfitta dell’Occidente è uscito in Francia prima della famosa controffensiva ucraina dell’estate del 2023, che era stata annunciata dalla stampa qui come l’inevitabile inizio della vittoria di Kiev. Quella che era una sua profezia allora, oggi è una realtà che però non viene accettata e si continua in un vortice di escalation apparentemente senza fine. Questa settimana, nuovamente, Ursula Von der Leyen ha parlato al Parlamento europeo di un sostegno economico e militare a Kiev “per tutto il tempo necessario”. L’Occidente accetterà mai la sconfitta?
Questa è la domanda centrale oggi. L’Europa l’accetterà oppure si troverà in una situazione in cui l’Ucraina verrà distrutta come entità statuale, con metà del territorio preso dalla Russia e l’altra metà trasformato in un regime fantoccio? L’Europa si lascerà trascinare ancora di più in questa spirale? Conosciamo già quale sarà il prossimo passo. La fornitura di missili a lungo raggio da lanciare in modo massivo sui territori russi, che equivarrebbe a una dichiarazione di guerra a Mosca. Ciò che colpisce nell’atteggiamento europeo, nelle ultime parole di Ursula von der Leyen citate ad esempio, è la totale assenza di contatto con la realtà. L’Occidente ha adottato sanzioni assurde contro la Russia, che hanno permesso a Mosca di ristrutturarsi attraverso un protezionismo efficiente, sostenuto dal resto del mondo, cinesi e indiani in particolare. Sanzioni che hanno distrutto l’economia europea. Siamo governati da dirigenti che distruggono la propria economia. Dirigenti che non sono nemmeno in grado di fornire le armi di cui l’Ucraina ha bisogno, e che parlano di continuare i loro sforzi. Vogliono solo continuare nella loro irrealtà.
Vede spiragli per una pacificazione nel breve periodo?
Le discussioni su come porre la fine alla guerra da parte degli occidentali sono sconcertanti. L’ultima fantasia tirata fuori sarebbe quella di accettare che l’Ucraina perda parte del suo territorio e, in cambio, entri a far parte della NATO. Sappiamo benissimo che i russi sono entrati in guerra per impedire all’Ucraina questo scenario. E discutono di tutto questo come di un “progetto di pace”, senza consultare la Russia, senza invitare il vincitore della guerra. L’idea di un piano di pace in assenza del vincitore è irrealtà. C’è un film straordinario sulla fine del regime di Hitler che mi torna alla mente spesso in questo momento pensando alle dichiarazioni dei leader occidentali. Si chiama La Caduta, dove si vede il leader nazista con i suoi generali nell’intento di gestire le divisioni della Wehrmacht… che nel frattempo non esistevano più. La situazione di oggi ancora più delirante. Sarebbe come se Hitler stesse discutendo le condizioni della pace da imporre agli americani e ai russi. È completamente folle!
Come illustrato in modo molto accurato nel suo libro, la guerra in Ucraina è stata voluta dagli Stati Uniti per staccare l’Europa (in particolare la Germania) dalla Russia. La firma del Nord Stream 2 è stato il momento chiave che ha spinto gli Usa ad agire. Come è possibile che la classe dirigente europea non sia più in grado di perseguire neanche lontanamente i propri interessi e si lasci distruggere la principale infrastruttura logistica del continente senza nemmeno aprire un’indagine?
Le classi dirigenti europee non hanno una visione geopolitica. I russi hanno una visione geopolitica, gli americani anche, perfino i giapponesi, ma qui no, niente. Semplicemente non esiste. Quando si parla di classe dirigente europea, mi concentro in particolare sulla Germania. Il vero obiettivo per gli Stati Uniti nel provocare questa guerra era quello di rompere la collaborazione tra Germania e Russia, che, alla fine, avrebbe portato all’uscita degli Usa dall’Europa. Lo choc della guerra per procura in Ucraina ha paralizzato la Germania e permesso agli strateghi statunitensi di distruggere il gasdotto Nordstream, simbolo dell’intesa economica tra Germania e Russia. Ma sono convinto che quando la sconfitta dell’Occidente si sarà palesata Mosca e Berlino torneranno ad incontrarsi naturalmente. È fisiologico. Nel frattempo, la situazione per le classi dirigenti tedesche è molto difficile e lo dico, prima di tutto, da antropologo che studia i sistemi di cultura autoritaria, dove la situazione dei leader è psicologicamente complessa. Tutti si sentono bene finché devono obbedire, ma quando devono guidare, sorge un problema. E i tedeschi oggi hanno paura di sé stessi, dopo gli errori della Prima e Seconda guerra mondiale… Penso che le élite tedesche abbiano paura di sé stesse. E quindi è difficile che possano essere in grado di rappresentare un contrappeso geopolitico efficace. Al massimo solo economico.
Professore quello che lascia realmente basiti nell’osservare l’atteggiamento delle classi dirigenti europee è l’assenza di una minima capacità di porre dei freni a qualunque decisione venga imposta da Washington. In un modo che non era mai stato così marcato in passato. Da che dipende secondo lei?
C’è un elemento molto importante che ho indagato molto nel dettaglio ed è il controllo finanziario da parte degli Stati Uniti delle classi dirigenziali europee. Controllo diretto. È molto interessante, è la seconda volta che ne parlo. Ne ho discusso in modo approfondito per un media francese, Elucid. Ho analizzato come le élite europee avessero investito molto denaro nel settore finanziario controllato dagli anglo-americani, rendendosi così vulnerabili all’occhio vigile di Washington. Erano controllati costantemente. Fornisco elementi di facile comprensione e che possono essere consultati da tutti. Parlo della NSA, ma ciò che più mi interessa, ciò che mi permette di affermare che l’ipotesi a cui sono arrivato sia assolutamente esatta, è che non sono mai stato criticato per quanto ho affermato. Normalmente sarei stato accusato di cospirazione, come avviene ogni volta che si affrontano questi temi. Questa volta no. Silenzio. Silenzio assoluto. Quindi penso di aver compreso dove nasce la sudditanza. È davvero una cosa dirompente e non dobbiamo parlarne!
Ragionando per deduzioni logiche, non possiamo non essere portati ad una visione pessimista della crisi bellica. Se è vero che per raggiungere la pace oggi, bisogna pacificare l’Eurasia. E se per pacificare l’Europa con la Russia (e poi con il prossimo bersaglio scelto dagli Usa: la Cina) le classi dirigenti europee dovrebbero assumere una posizione alternativa rispetto alle imposizioni degli Stati Uniti e della NATO, allora la conclusione è che senza uno scatto di sovranità, indipendenza e autodeterminazione delle classi dirigenti europee ci indirizzeremo verso una inevitabile terza guerra mondiale? È giusto affermare, in altri termini, che la pace nel nostro continente non sia possibile con la sopravvivenza dei due strumenti di controllo degli Stati Uniti sull’Europa: l’UE e la NATO?
No. Non è possibile. Lo penso in modo molto chiaro: la sconfitta della NATO in Ucraina rappresenterà un momento di svolta positiva e liberazione per l’Europa. Penso che gli europei siano ingenui, ma gli americani, gli inglesi, al contrario, siano eccitati dalla situazione e pieni di risentimento. In quei paesi c’è una spinta bellica, una spinta nichilista, che spiego nel libro analizzando i fattori culturali e religiosi che caratterizzano oggi il mondo anglosassone. Nell’Europa continentale invece non c’è questo impulso bellico. Prendete la Scandinavia. Come sostengo nel mio libro, l’evoluzione molto inquietante dei paesi scandinavi – Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, tutti paesi protestanti – è emblematica. Il punto nevralgico della questione è la disintegrazione del mondo protestante, il cuore evoluto dell’Occidente. La Germania è in teoria protestante per due terzi, ma il partito cattolico è stato dominante per molto tempo dopo la guerra. E naturalmente Francia, Italia e Spagna sono paesi cattolici. Se non lanciamo missili a lungo raggio contro la Russia, se non creiamo il pretesto di uno scontro termonucleare, entrando in un conflitto diretto con Mosca, è estremamente facile arrivare alla pace. Dobbiamo accettare che l’esercito russo arrivi al Dnepr, affinché Sebastopoli sia sicura. Vedremo subito come Mosca non abbia né la voglia, né la forza di andare oltre. E questo sarebbe uno shock assoluto per gli europei: si comprenderebbe immediatamente che non esiste alcuna minaccia diretta e, soprattutto, che la NATO non esiste per proteggerci. Esiste solo per controllarci. Un buon accordo diplomatico, una buona interazione diplomatica tra Germania, Italia e Francia, sarebbe sufficiente a garantire la pace, a garantire un contrappeso ai russi.
Che fase ci aspetta ora?
Stiamo entrando in un periodo in cui gli impulsi nichilisti di distruzione esistono indipendentemente dagli obiettivi razionali degli stati. Il nichilismo è il concetto chiave per comprendere la volontà degli ucraini di sottomettere i russi del Donbass. È il concetto chiave per comprendere le azioni dello Stato di Israele che non ha più obiettivi razionali. Quello che sta commettendo oggi non riguarda in nessuno modo la sicurezza. È guerra per la guerra. Perché gli israeliani non sanno più perché esiste lo Stato di Israele. È una nazione che non sa più cosa sia. Lo stesso si può dire per gli Stati Uniti. È meno grave del nazismo? Viviamo una fase meno grave della seconda guerra mondiale? Se non degenera in una guerra termonucleare, se gli europei non si lasciamo trascinare in una vera guerra con la Russia. Ma al contrario, se ci saranno ancora storici viventi nel 2030 o nel 2035, diranno, beh sì, è stata una cosa seria quanto il nazismo.
Nel suo libro pone al centro l’analisi della società anglo-americana e giunge alla conclusione che stiamo assistendo ad una sorta di santificazione del vuoto dovuto a pulsioni distruttive, che riguardano, scrive, cose, uomini e realtà. Sottolinea, nel portare avanti questa tendenza al nichilismo, come questo dipenda molto dal fallimento della religione protestante, riprendendo e attualizzando quanto teorizzato dal grande sociologo tedesco Max Weber. Applica il concetto di nichilismo alla politica estera Usa, alla questione ucraina e adesso, in interviste recenti, anche all’azione militare israeliana. Che ruolo hanno avuto i mezzi di informazione dominanti in Occidente nella diffusione del nichilismo e nella sconfitta di questa parte di mondo?
È una domanda a cui sento di poter rispondere con cognizione di causa perché il mondo dei media lo conosco a livello approfondito. Mio padre è stato un grande giornalista al «Nouvel Observateur» e anche io ho lavorato nella stampa all’inizio della mia carriera. Curavo una pagina culturale al quotidiano «Le Monde». Ho potuto percepire in prima persona come sia cambiato il giornalismo e come questo abbia cessato di essere un perno della democrazia liberale e del pluralismo delle idee. Le società occidentali erano ideologicamente pluralistiche, nel senso che erano presenti all’interno ideologie concorrenti che si scontravano. Prendiamo il caso che conosco meglio, quello della Francia: c’era il cattolicesimo tradizionalista, il Partito Comunista, la socialdemocrazia, il Gollismo. In Inghilterra c’era il conservatorismo classico che si opponeva agli ideali della classe operaia. E così negli altri paesi europei. I giornalisti, in quel contesto di società, prima di essere giornalisti erano collegati a quel mondo. Ed è così che i giornalisti hanno garantito il pluralismo: c’erano giornalisti comunisti, cristiani, nazionalisti, e insieme si sfidavano come in un concerto liberale in un festival. Ma poi tutte queste ideologie si sono disintegrate. E gli individui, i giornalisti in questione, liberati dalle loro credenze a priori, sono tornati ad una visione meramente tecnica della loro professione. Il giornalismo ha smesso di sostenere il pluralismo per divenire un pilastro dell’unica ideologia oggi esistente, quella del capitale.
Cos’è rimasto della libertà di informazione dunque in Occidente?
La libertà di poter dire ciò che si vuole, senza avere nulla da dire. C’è una specie di mimetizzazione della professione che amplifica lo stato generale atomizzato della società. E il potere che hanno assunto i media nella società di oggi è enorme. Viviamo un’epoca che definisco di narcisismo giornalistico. I politici sono terrorizzati dai giornalisti. Un giornale come «Le Monde» ha una capacità enorme nell’intimidire i politici, anche se chi scrive non ha nessuna prospettiva, non ha nessuna visione del mondo. Osservando il giornalismo qui in Italia nei giorni trascorsi nel suo paese, penso che sia lo stesso. Eppure, in passato non era così. Mi ricordo che ero a Firenze per concludere la mia tesi quando seppi del colpo di stato contro Allende in Cile. Lo lessi attraverso le pagine de «l’Unità», il quotidiano del Partito Comunista italiano. Qualunque fosse l’opinione politica, non si poteva negare che fosse un ottimo giornale e che mostrava in modo autorevole un’idea di mondo diversa da quella degli altri giornali di destra, nazionalisti, socialisti presenti in Italia. Esisteva un pluralismo dell’informazione, figlio di un pluralismo ideologico che oggi non esiste. E dal momento che non c’è più nessuna ideologia, i giornalisti rappresentano solo loro stessi e quello che scrivono fondamentalmente non significa nulla.
Alla base del nichilismo c’è sicuramente, come Lei espone in modo veramente efficace, la distruzione dell’industria, della classe operaia. E ancora la distruzione della democrazia e dei diritti sociali in Occidente. Quanto hanno pesato, per l’Europa, le scelte imposte dall’Unione Europea agli stati membri e l’imposizione di una moneta unica in tutto questo processo?
Il nichilismo è un concetto a cui sono appena arrivato nei miei studi. Sono un ricercatore, quindi anche quello che dico in quest’intervista mi permette di evolvere il mio pensiero. Nel mio libro è presente l’idea che il neoliberismo sia una delle prime espressioni del nichilismo, nel senso che alla base di quella dottrina non ci sia mai stata l’idea di riformare l’economia, ma di distruggerla. E l’idea l’ho maturata proprio nelle mie ricerche che ho svolto sul Trattato di Maastricht. Ho trascorso sette anni a scrivere un libro intitolato L’invenzione dell’Europa, 550 pagine in cui aveva diviso l’Europa in 483 province prendendo a riferimento come modello i dipartimenti francesi. Ho studiato religione, strutture familiari, le varie particolarità culturali, tradizioni, il sistema agrario ecc. prendendo a riferimento il periodo che va dal 1500 al 1970. Sono stato in grado di ricostruire la geografia politica interna di tutta Europa. In Italia ho evidenziato, per esempio, le ragioni del perché il comunismo si sia diffuso in tutta la Toscana tranne che nella provincia di Lucca e ho analizzato fenomeni similari in Svizzera, Finlandia, Germania. Quando ho visto che i francesi, i tedeschi e gli altri governi europei avevano ideato il Trattato di Maastricht e immaginato che una moneta avrebbe unificato un continente come quello, sono caduto dalla sedia e ho detto: sono pazzi! E in effetti quello che ho previsto si è realizzato completamente.
In che modo? E come questo l’ha aiutato a maturare l’idea di nichilismo per l’Occidente?
Il Trattato di Maastricht e poi l’euro hanno prodotto effetti completamente diversi da quelli attesi. Oggi abbiamo un’Europa che non funziona, si sono accentuati gli squilibri e distrutti i sistemi industriali. Allora, mi sono chiesto: perché hanno avuto questa idea? Da dove nasce questa concezione così palesemente fuorviante e dall’esito palese? Da quel momento ho iniziato a riflettere molto sulle scelte dei burocrati di Bruxelles e ho introdotto il concetto di nichilismo. Perché in realtà il vero obiettivo era quello di distruggere le diverse nazionalità. Vede, per rispondere alla sua domanda vorrei portare un esempio pratico. Una delle cose che mi colpisce è che ci sono atti così palesemente assurdi ideati da questi signori di Bruxelles che non ci può essere altra interpretazione se non la volontà di distruggere i vecchi schemi della convivenza sociale. Ho notato che anche qui in Italia, come in Francia, per uniformare le targhe delle macchine è stato cancellato il riferimento alle città o regioni di appartenenza. Perché? Mi chiedo e vi chiedo: perché? In Francia l’identificazione delle città di origine è così forte che le persone non hanno bisogno di vederlo scritto sulle targhe. Così come in Italia. Tanto è vero che in Francia, in molti, me incluso, hanno iniziato ad aggiungere manualmente il numero del dipartimento. Io ad esempio quello di Finisterre, in Bretagna, dove ho una casa. Ma la domanda è: perché i signori di Bruxelles lo fanno? La risposta è che tutte queste normative europee hanno l’obiettivo nichilista di favorire la scomparsa delle identità umane che hanno retto e fondato le nostre società.
Senza una classe operaia, partiti di massa in grado di offrire modelli alternativi possibili e una deindustrializzazione crescente ci ritroviamo immersi in una crisi che è politica, rappresentativa, economica e culturale. Dalla sua analisi emerge come gli Stati Uniti, dove si presentano due partiti identici come unica alternativa, non hanno alcuna speranza di guidare un cambiamento. Sull’Europa crede si possa fare qualcosa di pratico? Ci sono forze politiche che, secondo lei, in Europa sono in grado di combattere efficacemente questo nichilismo? Cosa pensa, ad esempio, del partito di Sahra Wagenknecht?
In realtà non ragiono più in termini di questa o quella forza politica. In passato ho cercato con tutte le mie forze di farlo, ma oggi rifletto piuttosto in termini di un possibile cambiamento ideologico generale. Su questo sono rimasto molto colpito da una formula dell’economista inglese Keynes, secondo cui, in realtà, non sono i politici ad essere al potere, sono le idee economiche a detenerlo. E attualmente viviamo in un’epoca di totale appiattimento. Avete notato che i lavoratori inglesi e i conservatori hanno le stesse idee economiche? Anzi, per essere più precisi, hanno le stesse non idee. Non pensano più nulla. Negli Stati Uniti credo che non ci sia poi così tanta differenza tra i trumpisti e i democratici nella loro concezione economica. Sono tutti gli statunitensi che sono coinvolti in un processo di decadenza intellettuale. Se penso all’Europa non sono così pessimista come per gli Stati Uniti, paese su cui ho cambiato idea più volte. Non è facile per me dire addio al mondo anglosassone. Ho studiato in Inghilterra, la mia famiglia si è rifugiata negli Stati Uniti durante la guerra. In un mio libro scritto dopo la guerra in Iraq mi auguravo un ritorno negli Stati Uniti ad una concezione nazionale ragionevole, piuttosto che al nichilismo imperiale che aveva iniziato a prendere piede. Avevo speranza. Oggi non più: per gli Stati Uniti è finita. A chi mi chiede cosa cambierebbe con Trump o con Harris al potere rispondo: “nulla, in ogni caso sarà orribile, poiché gli Stati Uniti disprezzano l’Europa, la sfruttano e la vogliono far marcire in guerra. Chiunque vinca”.
Per l’Europa è più ottimista diceva. Perché?
Per l’Europa sono più ottimista nella mia analisi. Il problema degli Stati Uniti, e anche dell’Inghilterra, è che sono paesi la cui ascesa storica è molto recente e dura da pochissimo tempo. In Europa abbiamo dalla nostra la storia, la cultura, ci sono paesaggi, monumenti, ci sono le città. Guardatevi qui intorno in Italia. Ci sono modi di comportarsi, c’è una relazione con il tempo che nel mondo anglosassone non esiste. In questa parte del mondo occidentale, c’è ancora speranza perché qui c’è molto da ricostruire. Il partito che lei ha menzionato prima, quello della Wagenknecht, rispetto a quanto ho detto, è molto poco. Lei è brava, dice cose interessanti ma non incarna, dal mio punto di vista, il processo a cui stiamo andando incontro. In Germania ritengo che forse sarà più l’Afd a farlo in quel cambiamento che produrrà il conservatorismo popolare. Ma su questo sto ancora riflettendo molto e non ho risposte precise al momento. Quello che è certo è che l’unica cosa che conta realmente è la lotta delle idee. È un fenomeno generale e non credo si debba ragionare sulla singola formazione politica.
Il grande assente del suo libro è la Francia. Perché il suo paese senza soldati statunitensi e con una deterrenza nucleare non è stato in grado di rappresentare un’alternativa alla supina accettazione delle imposizioni Usa sul conflitto in Ucraina?
È molto interessante che menziona il tema della deterrenza, perché la Francia è il primo caso nella storia a perdere la sua indipendenza nonostante il possesso di armi nucleari. È il trionfo del globalismo. Ci siamo resi conto che non basta avere le atomiche in un mondo controllato dall’economia finanziarizzata, dove le élite sono controllate dalla NATO o dalla FED e dalla NSA. Bene, abbiamo le armi nucleari in Francia. Abbiamo sottomarini, ma sono assolutamente inutili nella fase attuale. La Francia è un paese piccolo che è stato deindustrializzato e ha scelto la marginalizzazione. Per questo motivo non ne parlo nel mio libro. Nel mio paese si arrabbiano e un giornalista francese mi ha proprio sgridato in televisione su questo argomento. Gli ho risposto: “Perché parlare di un paese che non esiste?”. Macron è un personaggio psicologicamente labile. Per me è disturbato. Cambia idea in continuazione. Senza esercito, senza mezzi industriali e finanziari, allo sbando, ci troviamo di fronte a un paradosso: mentre aspettiamo ancora la disintegrazione del regime di Putin, stiamo assistendo a quella francese. Direi che la Francia sta diventando un riferimento, ma in senso negativo. Siamo il primo paese ad essere imploso dopo l’inizio della guerra per procura in Ucraina.
Un’ultima domanda allo storico Todd. Professore, se dovesse identificare un periodo del passato per descrivere ciò che viviamo oggi, quale parallelismo userebbe?
Questo è esattamente ciò che non si può fare oggi. È un’ottima domanda, ma quello che colpisce è proprio il fatto che non ci sia alcun parallelo possibile. Ho la reputazione di aver profetizzato scenari nel passato. È vero che avevo previsto la dissoluzione dell’Unione Sovietica. È vero che in un certo senso, con il mio amico Youssef Courbage, avevamo previsto la primavera araba. E poi il fallimento di Maastricht. Ma in realtà queste previsioni riguardavano paesi che non erano alla guida della scena mondiale. Oggi la crisi riguarda il mondo anglo-americano, l’Europa, i paesi più avanzati e ricchi del mondo. E non abbiamo mai visto popolazioni così ricche andare incontro ad un declino di questo tipo. Non abbiamo mai visto popolazioni così istruite farlo. E non abbiamo mai visto popolazioni così vecchie. Paralleli non sono oggi possibili.
12 ottobre 2024
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
Inserito il 19/10/2024.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Iain Chambers
«Siamo al punto che non ci è permesso condannare il caso di genocidio più pubblicizzato del secolo attuale. Anche solo nominarlo e sottolineare l’orrore e l’oscenità etica e politica di tutto ciò».
«Anche noi stiamo diventando Israele, una società controllata con una rigida ideologia militarizzata. Anche a noi viene chiesto di considerarci costantemente minacciati dai migranti, dall’Islam e dal mondo non bianco, mentre l’Occidente si contrappone al resto del pianeta. Ma le vittime della mappa coloniale non sono né bianche né europee. Sono arabe».
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L’ignavia dell’Occidente
Colonialismo e barbarie
di Iain Chambers
Siamo al punto che non ci è permesso condannare il caso di genocidio più pubblicizzato del secolo attuale. Anche solo nominarlo e sottolineare l’orrore e l’oscenità etica e politica di tutto ciò. Con alcune eccezioni, filosofi, accademici e rettori di università tacciono.
La comunità ebraica non permette alcuna critica; i partiti politici borbottano su soluzioni a due Stati che sono state strappate decenni fa dai coloni sionisti e schiacciate dai carri armati israeliani. Nel frattempo, i giornalisti mainstream e i commentatori televisivi trasmettono una narrazione mortale che rifiuta spazio alle voci palestinesi. I punti di vista alternativi sono considerati precursori del terrorismo e quindi triturati nella macchina mediatica prima di essere eliminati.
Il massacro in atto, la vita resa nuda e azzerata dallo Stato d’eccezione, la deliberata violazione del diritto internazionale e delle regole fondamentali dell’impegno militare e delle questioni umanitarie sono sotto i nostri occhi. Mentre l’«autodifesa» israeliana si trasforma in pulizia etnica, noi continuiamo a favorire il genocidio.
Continua il sostegno incrollabile al colonialismo impenitente dei coloni in Israele attraverso accordi commerciali, vendita di armi e programmi di ricerca accademica. Gaza è stata rasa al suolo e la Cisgiordania sta per essere ripulita dalla violenza sionista.
Il colonialismo, come ci ha informato molti decenni fa l’intellettuale ebreo tunisino Albert Memmi, è una forma di fascismo. Tutta questa violenza ora si ripiega su se stessa per suggerire che gli enti pubblici in Italia – università, partiti politici, media – stanno agendo in modo del tutto illegale. Secondo la legge italiana, l’apologia del fascismo è considerata un reato.
Le massicce dimostrazioni pubbliche di sdegno in tutto il mondo per i crimini di guerra commessi nel Mediterraneo orientale sottolineano che stanno anche perseguendo un mandato decisamente antidemocratico.
Anche noi stiamo diventando Israele, una società controllata con una rigida ideologia militarizzata. Anche a noi viene chiesto di considerarci costantemente minacciati dai migranti, dall’Islam e dal mondo non bianco, mentre l’Occidente si contrappone al resto del pianeta. Questo fornisce la licenza per la violenza a cui si ricorre per proteggere l’autorità morale della nostra narrazione.
***
Nel frattempo, le argomentazioni liberali, che vedono due lati in ogni questione, come se il potere fosse equamente distribuito nel mondo, e che insistono sempre sul fatto che le questioni sono «complicate», ora vanno in fumo mentre la struttura sociale e le infrastrutture di Gaza e della Cisgiordania vengono bombardate e brutalmente fatte a pezzi.
Tutto ciò è accompagnato dalla cinica chiarezza delle analisi geopolitiche, che analizzano l’escalation di morti, feriti, mutilati e la pulizia etnica della Palestina.
Ma le vittime della mappa coloniale non sono né bianche né europee. Sono arabe. Considerati al di fuori dei confini della civiltà occidentale (anche se qualcuno potrebbe ammettere che storicamente hanno contribuito in modo significativo alla sua formazione), la razzializzazione tecnologica della morte e i profitti della guerra per conservare uno stile di vita occidentale sembrano inarrestabili. Il modello rimane al suo posto. Il fardello dell’uomo bianco non può essere abbandonato. La sua autorità patriarcale e l’ordine politico con cui disciplina il mondo devono continuare a qualsiasi costo.
Come molti osservatori della situazione hanno osservato, Gaza e la Cisgiordania non sono realtà separate. Sono uniche, accorpate da mezzi e tempi differenziati per raggiungere un unico obiettivo: quello di eliminare la questione palestinese, strapparla dalla terra e sterminare per sempre i palestinesi. Non avrà successo.
Il potere coloniale, che sia in Algeria, in Vietnam o in Sudafrica, è sempre imploso in un’accelerazione di violenza. Da posizioni politiche molto diverse, sia lo storico israeliano dissidente Ilan Pappe che il generale Yitzhak Brick, intervistati da «Haaretz», hanno recentemente affermato questo scenario.
I fascisti del governo israeliano amano presentare tutto questo come una guerra tra civiltà e barbarie. Finora, il potere occidentale non ha confutato questa brutale affermazione. Al contrario, continua ad avallarla pubblicamente e a capitalizzarla economicamente. Ma chi sono, in tutto questo, i veri barbari?
Iain Chambers
(Tratto da: Iain Chambers, Colonialismo e barbarie, in «il manifesto», anno LIV, n. 209, 1 settembre 2024).
Inserito il 07/09/2024.
Letture economiche della fase attuale
Due articoli per interpretare dal punto di vista economico la fase attuale: la Terza guerra mondiale a pezzi nel suo pezzo economico-commerciale-finanziario, i rischi per l’Europa succube del bellicismo americano e per il mondo intero.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Emiliano Brancaccio
Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto proprietario.
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Il capitalismo rovescia i dogmi della proprietà
di Emiliano Brancaccio
Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto proprietario.
Prendiamo il diritto alla libertà dei commerci. Da Biden a Meloni, i leader del G7 lo menzionano ormai con malcelato fastidio, come fosse un idolo vetusto indegno di venerazione. Gli stessi leader si entusiasmano, al contrario, nell’annunciare nuove misure protezionistiche contro la Cina e contro altri paesi non allineati agli interessi occidentali.
I sette grandi giustificano le restrizioni commerciali lamentando il sostegno della Cina alla Russia guerrafondaia. In realtà, i dati indicano che il protezionismo occidentale è iniziato ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
Soprattutto a opera degli Stati Uniti, che tra il 2010 e il 2022 hanno introdotto ben 7.790 nuovi vincoli agli scambi internazionali. Ma anche l’Europa, pur riluttante, ha alzato da tempo barriere contro l’oriente. La tesi cara ai sette grandi, del protezionismo come mera conseguenza della guerra, è dunque smentita dai fatti. Le barriere commerciali, piuttosto, sono state premessa dei conflitti.
I grandi del G7 mettono sotto il tallone anche un altro vecchio dogma proprietario: il valore indiscusso del dollaro come moneta di scambio internazionale.
La Cina, i paesi arabi produttori di energia e in parte anche la Russia, hanno accumulato ingenti quantità di dollari grazie a decenni di esportazioni. Stando alla dottrina, questi paesi avrebbero ora il diritto di utilizzare a piacimento gli ammassi di moneta verde che posseggono, magari anche per acquisire aziende occidentali.
Il problema è che il protezionismo americano ed europeo glielo impedisce: le barriere commerciali e finanziarie bloccano gli acquisti.
La conseguenza è che i proprietari orientali si trovano ora con pile di dollari che non possono utilizzare come vorrebbero. Naturale, quindi, che perdano interesse verso la valuta americana. Se ci pensiamo bene, la causa prima della cosiddetta «de-dollarizzazione» è proprio il protezionismo di marca statunitense.
Ma non è finita qui. Al vertice pugliese i leader del G7 sono arrivati a sfregiare persino il massimo comandamento del capitale: il diritto di proprietà privata garantito a livello internazionale. I sette grandi hanno stabilito che il nuovo stanziamento di 50 miliardi per l’Ucraina sarà coperto da prestiti garantiti da un esproprio di profitti russi.
Si tratta di proventi sui famigerati 300 miliardi depositati in occidente da società russe e congelati dopo l’inizio della guerra. Su questo delicatissimo tema l’occidente capitalistico si è spaccato più volte.
Da Wall Street a Francoforte, i brokers occidentali avvisano che la violazione delle proprietà russe ha attivato un campanello d’allarme tra i capitalisti di mezzo mondo, che temendo ritorsioni anche nei loro confronti potrebbero abbandonare ogni prospettiva d’investimento in occidente. Il rischio è concreto, eppure alla fine si è deciso comunque di varcare la soglia proibita. Anche la proprietà privata subisce così un declassamento: da indiscusso diritto individuale a concessione del sovrano.
Questa colossale mutazione capitalista non sembra incontrare ostacoli di sorta.
L’Ue appare sempre più assuefatta alla violazione degli antichi diritti proprietari. Le stesse destre reazionarie in ascesa la assecondano ormai senza indugio. Né si intravede un demiurgo americano in grado di contrastare la tendenza. Trump vorrebbe fare concessioni ai russi di tipo territoriale ma rimarca l’intenzione di proseguire con le barriere commerciali e finanziarie verso la Cina e verso gli altri paesi non allineati a Washington. Chi pensa che una sua vittoria elettorale possa invertire il corso degli eventi è un illuso.
Una vecchia tesi di Marx suggerisce che il mutamento capitalistico stravolge di continuo la storia umana con una violenza che non risparmia nessuno, talvolta nemmeno gli stessi capitalisti.
La profanazione dei «sacri diritti di proprietà» sancita dal G7 è solo una prova fra le tante. È l’annuncio di una nuova epoca di accumulazione originaria, in cui le dolcezze dei liberi commerci lasciano il posto alla ferocia delle reciproche usurpazioni.
Emiliano Brancaccio
(Tratto da «il manifesto», anno LIV, n. 144, 16 giugno 2024).
Inserito il 16/06/2024.
Dal sito «ilsussidiario.net»
di Mauro Bottarelli
La Bce ammette che le sanzioni alla Russia hanno indebolito l’euro. Intanto i Brics procedono nel loro piano per creare la valuta alternativa al dollaro.
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La moneta dei Brics pronta a “cancellare” l’euro
di Mauro Bottarelli
Come volevasi dimostrare, la Fed ha lasciato che fossero Bce e Bank of Japan a fare il lavoro sporco. Tassi fermi. E un solo taglio nel 2024, almeno stando alla guidance uscita dall’ultimo board di mercoledì. E se prendiamo le prezzature futures, guarda caso quell’unico intervento è stato spostato da luglio a dicembre di quest’anno. Ovvero, dopo il voto presidenziale. Ovviamente, tutte coincidenze. Ma se volete davvero rendervi conto di quanto il gioco stia facendosi pericoloso, allora date un’occhiata a questo articolo. La fonte è Reuters. Quindi, potete stare abbastanza tranquilli rispetto alla sua autorevolezza. Tanto più che si basa su documenti ufficiali della Bce. Già, un bel report.
E sapete cosa c’è scritto? Che l’euro rischia di perdere posizioni e prestigio nel suo ruolo di valuta di riserva globale a favore di dollaro e yen, un trend che si è già sostanziato nel corso dell’ultimo anno, stando proprio a quanto rilevato dalla Banca centrale europea. E sapete cosa potrebbe cronicizzare e far peggiorare ulteriormente quel trend, sempre a detta dei cervelloni residenti a Francoforte? Il regime sanzionatorio verso la Russia! Ovvero, nel giorno in cui gli Usa annunciavano nuove e più draconiane limitazioni verso Mosca, al fine di deterrenza nei confronti di Paesi come la Cina che sostengono l’economia della Federazione Russa, la Banca centrale di quell’Europa sdraiata a tappeto in sede di G7 si lamenta. Dopo essere stata il braccio armato di deliranti, inutili e controproducenti mosse come l’estromissione delle banche russe dal sistema Swift e, soprattutto, del congelamento dei beni, i cui utili proprio il G7 in corso in Puglia destinerà ufficialmente al sostegno di Kiev. Ovviamente, tutto per volontà statunitense. E dopo l’altra, suicida mossa delle autorità comunitarie, quell’innalzamento dei dazi sulle auto elettriche cinesi che, di fatto, Pechino ha già bollato come sparo di Sarajevo di una guerra commerciale tout court contro Bruxelles. Cercavamo il chiodo nella bara della de-industrializzazione totale? Lo abbiamo trovato. Non a caso, la Germania si opponeva.
E voi vi preoccupate di chi guiderà la Commissione e dell’onda nera? Preparatevi al peggio. Perché mentre accadeva tutto questo, a Cuba arrivava la flotta russa per esercitazioni in quello che le autorità della Florida non hanno perso tempo a descrivere come uno scenario degno del sequel in potenza della crisi dell’ottobre 1962. E a Mosca si svolgeva il meeting dei Brics, da cui arrivava comunicazione di una lista d’attesa per nuove adesioni che segnava quota 59 Paesi pronti a presentare domanda. In grande spolvero l’Arabia Saudita, la quale ha reso nota un’altra bazzecola. Il 9 giugno scorso scadevano infatti i 50 anni del Patto fra Ryad e Washington che obbligava la prima a commerciare petrolio unicamente in dollari, mentre la seconda garantiva assistenza militare e politica. Di fatto, il sistema di relazioni binarie alla base del concetto geo-finanziario di petrodollaro. Bene, al termine dei 50 anni, l’Arabia ha di fatto stracciato quell’atto prodromico e statutario di un’intera era di relazioni internazionali e di mercato. Ora commercerà liberamente petrolio anche in altre valute. Fra cui lo yuan. E l’euro. Ammesso e non concesso che fra qualche mese la carta che portiamo nel portafogli abbia ancora un valore di denominazione internazionale e non conti quanto il denaro del Monopoli. O il rublo.
Ricordate, infatti? Grazie alle stesse sanzioni che ora la Bce vede come una criticità per la valuta comune, la divisa russa avrebbe dovuto tramutarsi in carta igienica e operare da detonatore del default dell’economia del Paese. Dopodiché, file ai bancomat, rivolte per il pane e finale alla Ceausescu per Vladimir Putin. Un po’ come doveva accadere in Siria per Assad, ricordate il mitico must go di Obama e Cameron? Ebbene, sempre mercoledì abbiamo dovuto prendere atto di altro. Consci da tempo e per ammissione dello stesso Fmi che la Russia tanto in crisi quest’anno crescerà del 3,4%, Mosca ha voluto reagire subito alle nuove sanzioni collettive annunciate e decise unilateralmente dagli Usa. Da ieri, 13 giugno, stop immediato alle transazioni in euro e dollaro sulla Borsa di Mosca.
Direte voi, poco male, quel mercato capitalizza meno di Nvidia da sola. Vero. Ma come segnale di finanziarizzazione del conflitto dovrebbe far riflettere. E far paura. Sicuri che non ci sia la Cina dietro questa mossa della Banca centrale russa? Sicuri che adesso Mosca e Pechino non cominceranno a picchiare davvero duro sul mercato delle commodities strategiche, in primis quelle alla base della rivoluzione tech dell’intelligenza artificiale ma anche oro e argento con il loro vaso di Pandora dei futures senza collaterale fisico? E poi, quale destino attenderà banche e aziende europee presenti in Russia, al netto di nazionalizzazioni forzate e congelamenti di conti già in atto, vedi il caso Unicredit e Deutsche Bank?
Insomma, il 12 giugno la Terza guerra mondiale ha messo il capo fuori dalla trincea della mera deterrenza. E lo ha fatto in perfetto stile 2.0 e post-Lehman. Per via valutaria e finanziaria. Oltre che commerciale. L’Europa, nemmeno a dirlo, è riuscita a risultare ancora più Tafazzi del solito. A tal punto da ammetterlo implicitamente, perché nel giorno dei dazi sulle auto cinesi e delle nuove sanzioni contro Mosca decise da Zio Sam, proprio la Bce ammetteva che queste ultime rischiano di minare il profilo di moneta benchmark e di riserva dell’euro. Chiunque andrà al potere a Bruxelles, temo che ormai sia tardi. Perché quando Pechino comincia a muovere le pedine in questo modo significa che il dado è ormai tratto. E alla riunione dei Brics è stata decisa e messa nero su bianco l’implementazione del sistema di pagamenti transnazionali che escludono il dollaro. La valuta dei Brics. Di fatto garantita dalle montagne di oro fisico accumulate da Cina, Russia e India in questi ultimi anni e trimestri. E dalle materie prime. L’euro poteva diventare moneta bilaterale privilegiata. E invece, puff.
Nel frattempo, l’unica notizia terminata sui giornali e relativa al 12 giugno è stata la decisione della Fed di tenere fermi i tassi. Tutt’intorno, guerra globale. Ormai quasi dichiarata. Ma state tranquilli. Il mercato azionario sale. E l’intelligenza artificiale risolverà ogni problema. Per gli Usa, sicuramente.
14 giugno 2024
Mauro Bottarelli
(Tratto da: https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-la-moneta-dei-brics-pronta-a-cancellare-leuro/2717615/).
Inserito il 16/06/2024.
Quanta retorica è stata spesa sui giornali borghesi in occasione del 75° anniversario della fondazione dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord! Fiumi di parole sono scorsi sulla salvaguardia della pace e della stabilità internazionale, e soprattutto nel continente europeo. L’esatto contrario della verità, perché nella storia di questi decenni la NATO ha condotto interventi militari unilateralmente considerati “legittimi” e guerre cosiddette “umanitarie” in vari scenari mondiali, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Jugoslavia, fino al palese coinvolgimento nell’attuale conflitto tra Russia e Ucraina e all’appoggio a Israele nel suo tentativo di genocidio e deportazione del popolo palestinese.
In questo contesto colpisce l’atteggiamento dei Paesi europei e in particolare dell’Italia, guidati da politici miopi che si sono posti al servizio della politica imperialistica del USA, che utilizzano la NATO come una clava per imporre al mondo il proprio dominio politico ed economico.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg.
Fonte della foto: https://www.adhocnews.it/nato/
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg.
Fonte della foto: https://www.quirinale.it/elementi/5696#&gid=1&pid=5
Dal giornale «il Fatto Quotidiano»
di Marco Travaglio
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella cerca di convincere il popolo italiano che l’Alleanza Atlantica sia al servizio della pace e della giustizia nei rapporti internazionali. Evidentemente deve aver vissuto su un altro pianeta…
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Uno smemorato NATO
di Marco Travaglio
Dopo giorni di tregenda e notti insonni per la dipartita di Amadeus dalla Rai, stavamo quasi per perderci le clamorose rivelazioni di Sergio Mattarella nel 75° compleanno della Nato. Che “non ha mai tradito l’impegno di garanzia per i 32 Paesi che ne fanno parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia”. Possono ben testimoniarlo i giornalisti e gli oppositori arrestati, i manifestanti repressi e i curdi bombardati nella Turchia dell’alleato Erdogan. Il Presidente, in vena di scoop, ha aggiunto che la Nato “non è mai venuta meno” alla “funzione deterrente di garanzia della pace in Europa” e a “regole e principi che trovano ancoraggio nella Carta dell’Onu” per “il diritto di tutti gli Stati all’autodifesa”, “a dispetto della retorica bellicista russa tesa ad attribuirle inesistenti logiche aggressive ed espansionistiche”. Certo, come no: la Nato è un’alleanza difensiva che attacca solo chi aggredisce un suo membro. Infatti nel 1999, senz’alcun mandato Onu, attaccò la Serbia di Milosevic che non aveva attaccato nessun membro Nato: oltre 2 mila morti, quasi tutti civili. Nel 2001, senza mandati specifici dell’Onu, invase l’Afghanistan dei talebani, che non avevano attaccato nessun membro Nato: oltre 200 mila morti, più 80 mila in Pakistan. Nel 2003, sempre senza avallo preventivo dell’Onu, Usa, Uk, Italia e Spagna invasero l’Iraq di Saddam Hussein, che non aveva attaccato nessun membro Nato: dagli 800 mila al milione di morti. Nel 2011, aggirando ancora l’Onu, la Nato bombardò la Libia di Gheddafi, che non aveva attaccato nessun membro Nato, ma fu messo in fuga dalle bombe e brutalmente trucidato.
Milosevic, Saddam e Gheddafi erano i migliori alleati della Russia in Europa, Golfo Persico e Nordafrica: infatti quei bellicisti dei russi si fecero l’idea che la Nato fosse un’alleanza offensiva contro di loro, che avevano sciolto il Patto di Varsavia nel 1991. Nel 1990 la Nato aveva pure promesso a Gorbaciov di non allargarsi di un palmo oltre il confine tedesco dopo la riunificazione delle Germanie. Poi purtroppo passò da 16 a 32 membri e nel 2008 annunciò l’ingresso di altri due vicini di casa della Russia: Ucraina e Georgia. Forse, mentre tutto ciò accadeva, Mattarella risiedeva su un altro pianeta o si occupava di giardinaggio? Macché: dal 1983 al 2008 fu deputato, poi giudice costituzionale e infine, dal 2015, capo dello Stato. Nel 1999, quando l’Italia partecipò ai 78 giorni di bombardamenti su Belgrado e il Kosovo, con 1.200-2.500 morti (quasi tutti civili) e fiumane di profughi, e chiamò la prima guerra in Europa dal 1945 “ingerenza umanitaria”, un certo Sergio Mattarella era vicepremier e subito dopo divenne ministro della Difesa. Ma magari era un omonimo.
Marco Travaglio
(Tratto da: Marco Travaglio, Uno smemorato Nato, editoriale de «il Fatto Quotidiano», 17 aprile 2024).
Inserito il 18/04/2024.
Dal settimanale culturale russo «Literaturnaja gazeta»
di Arsenij Zamost’janov
Un punto di vista russo sulla NATO e sulla sua sudditanza agli interessi degli Stati Uniti; la riproposizione di un documento d’archivio del 1954 con la richiesta di Chruščëv di aderire all’Alleanza per superare sul nascere le contrapposizioni della Guerra Fredda. Naturalmente la risposta fu negativa, e si arrivò nel 1955 alla firma del Patto di Varsavia tra i paesi del blocco socialista.
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NATO: 75 anni di espansione
1954: l’URSS chiede di aderire alla NATO
di Arsenij Zamost’janov
Nel marzo del 1949 i ministri degli Esteri e gli alti ufficiali militari di due paesi nordamericani e di dieci paesi europei discussero i dettagli del futuro Trattato Nord Atlantico, un blocco militare diretto contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati. Il 18 marzo venne pubblicata una bozza di accordo che venne sottoscritta solennemente il 4 aprile e che è tuttora in vigore. Il suo quinto articolo si è rivelato il più intrigante: stando ad esso, un attacco contro uno dei paesi della NATO è considerato un’aggressione contro tutti gli alleati.
Un’unione degli odiatori di Mosca
Preludio di questo trattato militare fu un evento avvenuto un anno prima, quando gli alti rappresentanti di Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo firmarono il Patto di Bruxelles, che conteneva i principi di autodifesa collettiva contro un possibile aggressore, che significava “Mosca Rossa”. Da soli, questi paesi non avevano abbastanza forza: non potevano fare a meno del sostegno americano. E non solo ci speravano, ma cercavano anche di costruire ponti con Washington. La stampa sovietica chiamò questa organizzazione Unione Occidentale e affermò direttamente che era diretta contro l’URSS. Mosca, secondo i dati dell’intelligence, era anche a conoscenza dei negoziati tra “Bruxelles” e canadesi e americani per un’alleanza militare più stretta che avrebbe unito i continenti nella lotta contro la “minaccia sovietica”.
I negoziati andarono a buon fine: gli europei erano pronti per il forte abbraccio americano. Tutto giustificava un’ipotesi della quale preferivano non dubitare: che i sovietici avrebbero conquistato tutta l’Europa e attaccato la Gran Bretagna subito dopo il 1945 “se non fosse stato per il deterrente della bomba atomica nelle mani degli Stati Uniti”, secondo le parole di Winston Churchill.
Churchill, che stava sostanzialmente perdendo l’Impero britannico, si considerava l’architetto di un nuovo ordine mondiale che sarebbe stato dominato dagli Stati Uniti, a quel tempo unica potenza nucleare sulla Terra e leader indiscusso dell’economia mondiale. Ma con lo status speciale di Londra come fornitrice di idee.
Churchill mentiva. Sì, Mosca era pronta a sostenere i comunisti in tutto il mondo, dalla Cina e Corea alla Francia. Ma i bolscevichi non fecero mai affidamento sulla forza militare e Washington, ai tempi del presidente Truman, decise di combattere l’ideologia comunista attraverso pressioni militari e finanziarie.
La richiesta di Chruščëv
Nel 1954, cinque anni dopo la firma del Trattato del Nord Atlantico, l’URSS fece una mossa intelligente: inviò una nota ai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia con una richiesta di adesione alla NATO. Si tratta di un documento interessante. Mosca in esso ricordava che alla vigilia delle due guerre mondiali era stata la creazione di blocchi militari a causare lo spargimento di sangue. Approvando la richiesta sovietica, le potenze occidentali avrebbero dimostrato che l’Alleanza non si poneva obiettivi aggressivi. Se l’Unione Sovietica avesse aderito all’Alleanza, l’umanità avrebbe ottenuto una reale garanzia contro una grande guerra.
Le parti tornarono su questa iniziativa due anni dopo, quando Nikita Chruščëv incontrò l’allora segretario generale della NATO Paul-Henri Spaak. Ma anche Chruščëv, incline a combinazioni inaspettate, capì senza ombra di dubbio che l’URSS non sarebbe mai stata accettata nella NATO. La lotta con Mosca era allora e rimane ancor oggi l’essenza di questa alleanza militare. Non è un caso che anche veterani hitleriani della Seconda guerra mondiale siano stati coinvolti nell’idea della NATO e – più tardi – nella sua leadership militare. Alcuni generali di Hitler hanno svolto un ruolo importante nella storia della NATO: oggi in Occidente stanno cercando con estrema cura di dimenticarsene. Per i veterani della Wehrmacht, dell’Abwehr, delle SS e della Gestapo, il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica era l’unica possibilità per restare a galla e mantenersi nella professione. E non si limitavano a sostenere l’idea di combattere “l’espansione del bolscevismo”. Vediamo “professionisti” come il generale Reinhard Gehlen tra gli iniziatori della creazione di un blocco militare che “collegasse” l’Europa occidentale con Washington. Gehlen fece carriera nell’intelligence durante la Seconda guerra mondiale, agendo contro l’Armata Rossa e la resistenza antifascista in tutta l’Europa orientale. Nel maggio 1945 offrì i suoi servizi agli americani e questi, dopo molti dubbi e verifiche, lo aiutarono a creare il proprio servizio di intelligence, che chiamarono Organizzazione Gehlen. Divenne uno degli architetti della NATO e l’ideologo del ritorno della Germania allo scontro con Mosca. Per molto tempo l’intelligence della Germania occidentale (e Bonn entrò nella NATO nel 1955) fu guidata da Gehlen e dai suoi allievi.
Tra le “stelle” del blocco atlantico figuravano anche “lupi hitleriani” come Friedrich Guggenberger, un comandante di sottomarino tedesco catturato dagli americani nel pieno della guerra. Passarono gli anni e, divenuto cittadino della Repubblica Federale di Germania, divenne vicecapo di stato maggiore delle forze congiunte della NATO nel Nord Europa.
Negli anni del dopoguerra non tutta l’élite militare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti sostenne sinceramente la svolta antisovietica. Ma il blocco del Nord Atlantico univa coloro che erano inconciliabilmente contrari a Mosca e alle idee del socialismo. Il primo segretario generale della NATO fu il barone e generale britannico Ismay, che simboleggiava con tutta la sua storia personale le tradizioni coloniali di Londra. Era nato in India, aveva iniziato lì il servizio da ufficiale e poi aveva combattuto in Somalia. Durante la Seconda guerra mondiale aveva guidato il quartier generale personale di Churchill e allo stesso tempo era riuscito a non avere quasi alcun contatto con gli alleati sovietici. Aveva supervisionato i rapporti con gli americani. “Non permettere all’URSS di entrare in Europa, garantire la presenza americana in essa e contenere la Germania”: si ritiene che questo motto appartenesse al barone.
Al giorno d’oggi
Con il crollo del sistema socialista Michail Gorbačëv, allora il beniamino dell’Europa occidentale, ricevette garanzie dai principali politici dell’epoca che la NATO non si sarebbe espansa verso est e che le armi nucleari non sarebbero state schierate sul territorio dei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Ci sono molte prove di ciò. In passato gli accordi tra Mosca e Washington, compresi quelli non firmati dai leader statali, venivano di norma applicati. Anche in quegli anni in cui le relazioni tra i nostri paesi lasciavano molto a desiderare. E ora tutto è stato calpestato molto velocemente. Abbracci ed esercitazioni congiunte si sono trasformati in niente.
Eppure, nonostante le marce trionfali, la NATO è non da ultimo una forza propagandistica. È riuscita a convincere quasi il mondo intero che far parte delle file del blocco Nord Atlantico significa garantire in modo affidabile la sicurezza. È come un’insegna pubblicitaria. In effetti, nel corso degli 80 anni della sua esistenza la NATO non ha ancora avuto l’opportunità di dimostrare il proprio valore e la propria efficacia. Si può solo immaginare cosa sarebbe successo se avesse avuto la possibilità di discutere seriamente l’attuazione del duro articolo 5.
Naturalmente gli Stati Uniti hanno bisogno della NATO, oggi come ieri. Ma… con riserva. In primo luogo, molti in America, come Trump, credono che nella NATO Washington stia alimentando parassiti che non saranno utili in tempi difficili. In secondo luogo, la NATO, nonostante la presenza in questa organizzazione di paesi seri con eserciti forti, è sempre stata e sarà più debole degli Stati Uniti sul piano militare. Basi militari americane, flotta americana, mezzi americani di distruzione di massa: tutto questo non è proprio NATO o non è affatto NATO. E l’America, per vari motivi, ha condotto le operazioni militari più difficili negli ultimi 75 anni senza l’aiuto della NATO, incapace di far fronte ai disaccordi all’interno del blocco.
Oggi la NATO si è espansa a tal punto che, da un lato, ciò non può che allarmare Mosca e Pechino, e dall’altro complica il sistema a tal punto da renderlo ingombrante e ingestibile. Il fatto più importante è che la NATO offre agli Stati Uniti l’opportunità di costruire basi militari, aeree e navali nei territori dei paesi membri del blocco. Ciò è difficile da spiegare con i compiti difensivi che inizialmente univano i paesi della NATO. Per Washington le alleanze militari con l’Europa sono sempre state uno strumento di espansione, proprio come il Piano Marshall, secondo il quale gli americani barattavano l’assistenza economica con il dominio politico nel Vecchio Mondo.
La NATO non può essere ignorata come realtà politico-militare, né può essere esagerata. Ma è più importante discutere, trovare un terreno comune e negoziare direttamente con Washington. La NATO è solo una delle sue maschere.
Arsenij Zamost’janov
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Arsenij Zamost’janov, NATO: 75 let ekspansii, in «Literaturnaja gazeta», n. 10, 14 marzo 2024; https://lgz.ru/article/-10-6925-13-03-2024/nato-75-let-ekspansii/).
Inserito il 05/05/2024.
Dagli archivi sovietici
70 anni fa, il 31 marzo 1954, il Ministero degli Affari Esteri dell’URSS in una nota ufficiale propose di considerare la questione dell’ammissione dell’URSS nella NATO al fine di prevenire lo scontro in Europa e di non creare blocchi militari reciprocamente ostili (vedi traduzione sotto). Questa idea fu respinta dall’Occidente.
«[…] Il Trattato del Nord Atlantico non può che essere considerato come un trattato aggressivo diretto contro l’Unione Sovietica.
È del tutto evidente che l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico potrebbe, in condizioni adeguate, perdere il suo carattere aggressivo se tutte le grandi potenze che facevano parte della coalizione anti-hitleriana vi aderissero. In conformità a ciò, il Governo Sovietico, guidato dai principi immutabili della sua politica estera amante della pace e sforzandosi di allentare la tensione nelle relazioni internazionali, si dichiara pronto a considerare, insieme agli altri governi interessati, la questione della partecipazione dell’URSS al Trattato del Nord Atlantico. […]».
Dal quotidiano «l’Unità»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«Oggi non c’è conflitto al mondo che non sia legato al grande equilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa degli Stati Uniti di risolverlo con il protezionismo».
L’economista Emiliano Brancaccio spiega le tesi contenute nel suo libro Le condizioni economiche per la pace.
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Emiliano Brancaccio: «La pace (come la guerra) è una questione di soldi»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
La Pasqua è passata, gli appelli alla pace si sono sprecati ma dall’Ucraina al Medio Oriente non si intravede uno straccio di trattativa per far tacere finalmente le armi. Eppure un sentiero per la pacificazione globale ci sarebbe.
L’ha indicato l’economista Emiliano Brancaccio nel suo ultimo libro, in uscita tra pochi giorni: Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano, 18 euro), che riprende e sviluppa l’omonimo appello internazionale che Brancaccio ha scritto l’anno scorso con Lord Skidelsky e che è stato poi pubblicato sul «Financial Times» e «Le Monde».
Professor Brancaccio, nel suo nuovo libro lei sostiene che gli attuali dibattiti sulla guerra sono del tutto inutili per individuare dei concreti percorsi di pace. Perché?
Perché ruotano quasi sempre intorno alle poche idee suggerite dai cosiddetti “geopolitici”. Da Alessandro Orsini a Vittorio Emanuele Parsi, si tratta di studiosi che pur assumendo posizioni politiche tra loro opposte sono tutti persuasi che la guerra possa in fin dei conti ridursi a una mera questione di dignità, di onore, di etnie, di confessioni religiose, al limite di difesa o di conquista di territori. Questa visione da saga medievale, un po’ alla Game of Thrones, oggi condiziona un po’ tutti, inclusi molti pacifisti. Ma è fuorviante, perché nasconde le enormi contraddizioni economiche alla base delle guerre moderne.
Nel libro e nell’appello che lo ha ispirato, lei e i suoi colleghi sostenete che le guerre attuali nascono dai problemi di debito dell’economia americana e dal tentativo degli Stati Uniti di risolverli con il protezionismo. Può spiegare?
In passato gli Stati Uniti sono stati fautori di una globalizzazione indiscriminata, ma alla fine dei conti sono usciti dalla stagione dei liberi commerci con molti problemi. In particolare, si sono ritrovati con un debito verso l’estero ormai vicino all’80% del Pil. In misura rilevante, questo debito è nelle mani della Cina e di altri paesi non allineati a Washington. Finché questi creditori cinesi, russi e arabi si sono limitati a usare i loro attivi per continuare a prestare denaro, o al limite acquisire immobili di pregio e magari società sportive americane e occidentali, la loro presenza nei gangli proprietari dell’ovest capitalistico è stata tollerata. Ma quando hanno iniziato a puntare sui settori strategici d’Occidente, dall’alta tecnologia all’alta finanza, il clima è cambiato. Gli americani hanno deciso di elevare barriere contro l’esportazione di capitali che veniva da oriente e hanno preteso che anche l’Ue facesse altrettanto. Ovviamente, a est questa svolta americana non è piaciuta, non l’hanno presa affatto bene. E ora cinesi e russi vogliono far capire al mondo che gli Stati Uniti non possono cambiare a piacimento le regole del gioco economico. Sta qui l’innesco chiave delle attuali tensioni militari.
Nel libro lei racconta che questa vostra interpretazione della guerra ha dato fastidio sia agli “atlantisti” che ai “putinisti”…
Sì, perché sgombra il campo dalle mistificazioni ideologiche degli uni e degli altri. Da un lato individua l’origine dei problemi nella svolta americana dal globalismo indiscriminato al protezionismo unilaterale, e dall’altro chiarisce che l’aggressione russa è ispirata da moventi capitalistici più che difensivi.
Voi, dunque, proponete una via di pacificazione mondiale che parta da un tavolo di trattative economiche. In cosa dovrebbe consistere?
Si tratta di promuovere uno scambio multilaterale: da un lato gli Stati Uniti rinunciano alle barriere protezionistiche con cui stanno bloccando l’export di capitali che viene da oriente, e dall’altro la Russia si ritira dai territori ucraini occupati e la Cina si rende disponibile a una regolazione politica e non di mercato dei crediti che vanta verso gli Stati Uniti e l’Occidente. A ciò bisogna aggiungere, ovviamente, che l’Ue deve rinunciare all’espansione ulteriore a est, in particolare agli accordi di integrazione economica con l’Ucraina che furono la miccia delle tensioni con la Russia. Se un’intesa del genere andasse in porto, le spese militari potrebbero esser dirottate verso un piano internazionale di ricostruzione dei vari territori martoriati dai conflitti. Sarebbe un primo passo verso un possibile nuovo ordine economico mondiale.
Perché la soluzione che voi avanzate potrebbe convincere Putin a ritirarsi dai territori dell’Ucraina occupati?
Perché risponde al movente di fondo delle oligarchie finanziarie russe. Putin non ha mandato decine di migliaia di giovani soldati a morire per territori di dubbia rilevanza strategica, che complessivamente non valgono nemmeno il dieci percento del Pil italiano. Gli apparati russi che hanno deciso l’aggressione all’Ucraina, e le varie diplomazie orientali che l’hanno avallata, si pongono un obiettivo molto più ampio, di portata storica: vogliono dimostrare che gli Stati Uniti non sono più nelle condizioni di imporre la loro egemonia nell’ordine economico mondiale. In particolare, non possono prima promuovere l’apertura globale dei mercati e poi, dopo avere accumulato ingenti debiti verso l’estero, cambiare idea e alzare barriere protezionistiche contro i capitali russi, cinesi e arabi.
Ma la Russia non va sanzionata per l’attacco all’Ucraina?
Certo, va sanzionata per la sua aggressione e per i massacri che ne sono conseguiti. Come pure gli Stati Uniti andavano sanzionati quando pretendevano di risolvere i vecchi problemi di deficit energetico mettendo a ferro e fuoco il Medio Oriente con scuse risibili. Ma un sistema razionale ed equo di sanzioni si costruisce solo nell’ambito di un nuovo ordine economico mondiale.
In cosa differisce questa vostra proposta da quelle già messe in campo finora, per esempio dalla Cina?
I cinesi hanno avanzato proposte sensate dal punto di vista territoriale e umanitario, ma sul terreno economico continuano a invocare un ritorno al vecchio ordine globalista del libero mercato. Presumo si tratti di un mero esercizio retorico: dovrebbero sapere che il libero scambio indiscriminato è parte del problema, essendo alla base dei grandi squilibri che sono poi sfociati nella soluzione protezionista americana. A questo punto, indietro non si torna più.
Nel libro lei sostiene che la vostra proposta di pace non solo serve a fermare la guerra in Ucraina ma è decisiva anche per interrompere gli altri conflitti, in corso o in preparazione: in Palestina, nel Mar Rosso, intorno a Taiwan, e così via. Perché tutto si collega alla trattativa sul protezionismo e sul debito americano?
Oggi non esiste conflitto al mondo che non sia in qualche modo legato al grande squilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa USA di risolverlo bloccando l’importazione di merci e capitali. Ormai tutte le vie commerciali, da Suez al Pacifico, sono diventate oggetto di contesa militare per verificare la tenuta dell’ordine protezionista americano. Per citare un esempio, le violenze di Hamas del 7 ottobre e i massacri di palestinesi a opera dell’esercito israeliano hanno sancito la crisi del corridoio IMEC tra Europa, Medio Oriente e India, con cui gli Stati Uniti speravano di costruire una linea commerciale alternativa alla nuova via della seta cinese. È questa la ragione di fondo delle attuali tensioni tra Israele e Stati Uniti, molto più della mera contingenza elettorale americana.
A proposito di elezioni, lei pensa che l’eventuale rielezione di Trump alla Casa Bianca possa aiutare la pacificazione internazionale?
L’amministrazione Biden ha fatto molto male alla pace ma si può fare anche peggio. Trump vorrebbe riesumare la vecchia strategia nixoniana: dividere Russia e Cina, questa volta blandendo Putin con concessioni territoriali e inasprendo invece il protezionismo soprattutto in chiave anti-cinese. Ma se accettiamo la tesi che i guai nascono dalla svolta protezionista americana, comprendiamo che la strategia trumpiana non risolve il problema di fondo. Anzi, rischia di aggravarlo.
Italia e UE potrebbero giocare un ruolo in questa trattativa di pace?
Finora noi europei abbiamo aderito alla politica di guerra economica e militare avviata dagli americani. Per adesso, quindi, rappresentiamo un problema più che una soluzione alla crisi internazionale. Eppure l’Italia e l’Unione europea non hanno rilevanti problemi di debito estero e quindi avrebbero più mano libera per sganciarsi dal protezionismo unilaterale USA.
Romano Prodi, con cui lei si è confrontato varie volte, la mette più sul piano del coordinamento militare: dice che se avessimo avuto l’esercito europeo la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina. Che ne pensa?
Io vedo un problema di fini, prima che di mezzi. Se l’esercito europeo venisse usato in chiave imperialista le cose potrebbero andare persino peggio.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee. Quale parola d’ordine per la pace?
L’Unione europea rischia di assumere nella prossima legislatura un profilo sempre più allineato alla politica protezionista americana e sempre più guerrafondaio. È una tentazione trasversale, che si diffonde tra le destre reazionarie, i popolari, i liberali, e anche presso alcuni spezzoni del partito socialista. I candidati al parlamento europeo che intendono contrastare questa deriva dovrebbero presentarsi con una linea di indirizzo alternativa, fondata su un obiettivo chiaro e netto: promuovere in Europa e in tutte le sedi internazionali una trattativa che parta dal ritiro della Russia dai territori occupati in cambio dell’abbandono del protezionismo unilaterale di marca americana. Se c’è ancora una possibilità concreta di pace, parte da qui.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da «l'Unità», 4 aprile 2024).
Inserito il 09/04/2024.
Dal quotidiano «l’Unità»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«I governi israeliani volevano cancellare l’identità dei palestinesi come popolo».
«Il sionismo sta portando alla distruzione dello statuto etico-spirituale dell’ebraismo. […] Netanyahu è la vera faccia del sionismo».
«Tre quarti della comunità internazionale la pensa come me. Ma non conta. Conta solo l’Occidente. L’Occidente è totalmente complice, perché ha permesso a Israele di calpestare la legalità internazionale».
«Ormai in televisione sono terrorizzati a chiamarmi. Perché io parlo così. In un dibattito, si fa per dire, televisivo c’è chi mi ha dato dell’antisemita. Una che non avrà mai letto neanche una riga dei grandi saggi che descrivono le cose, a partire da Chomsky e Pappé».
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Moni Ovadia: «Antisemita io? Chi nega l’etnocidio a Gaza è solo un vigliacco»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
Moni Ovadia è tante cose. Attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero, coscienza critica che sa andare controcorrente, alla faccia del pensiero unico veicolato dalla comunicazione mainstream. Su Israele, ad esempio. In morte del sionismo. “Da ebreo dico: quello che si sta compiendo contro il popolo palestinese è un etnocidio”.
Chi definisce genocidio ciò che sta accadendo a Gaza viene tacciato di antisemitismo.
È una colossale sciocchezza. Un’accusa vergognosa. L’antisemitismo è un crimine grave che consiste in questo: odiare gli ebrei perché sono ebrei. Non per quello che fanno ma per quello che sono. Questa è la differenza. I nazisti deportarono anche eroi di guerra tedeschi della Prima guerra mondiale perché erano ebrei. Questo è antisemitismo. Ma criticare qualcuno per quello che fa è tutt’altra cosa.
È il caso di Gaza?
Assolutamente sì. Il governo d’Israele sta compiendo un’operazione che qualcuno giudica che abbia un carattere genocidiario. Io sono tra questi. Ed è la conseguenza dell’aver sempre pensato ad un etnocidio.
Sostanzi questa grave accusa.
Etnocidio significa cancellare delle persone in quanto popolo. I governi israeliani volevano cancellare l’identità dei palestinesi come popolo. Rimanessero in Israele come dei paria, nei bantustan. Adesso l’etnocidio sta assumendo un aspetto genocidiario. Perché non si può far morire della gente, anziani, donne, bambini, di fame e di sete. Senza medicine. Donne che si sottopongono a un parto cesareo senza anestesia. Con un cinismo, una ferocia, una brutalità! Tutto questo, viene detto, sarebbe il seguito del 7 ottobre. Ma la storia non è iniziata quel giorno. Questa è una falsificazione. Un cumulo di bugie che circola nei media mainstream. L’accusa di antisemitismo sanno dove debbono mettersela. Se mi accusano di antisemitismo potrei reagire senza controllo. Come si permettono! Io sono ebreo come gli altri ebrei. I sionisti sono un’altra cosa.
Vale a dire?
Io ho cominciato prima a dirmi non sionista e adesso mi definisco antisionista. Il sionismo sta portando alla distruzione dello statuto etico-spirituale dell’ebraismo. Se l’ebraismo è ridotto a un nazionalismo furioso, isterico, che idolatra una terra, questo è contro lo spirito dell’ebraismo. Quello che sta succedendo a Gaza ha degli aspetti di una crudeltà terrificante. Alcuni ministri israeliani, veri e propri fascisti, l’hanno dichiarato apertamente. Si punta l’indice accusatore contro chi osa pronunciare la parola genocidio. Intanto si uccidono i bambini a migliaia, li si fanno morire di stenti, però dire genocidio, signora mia, che vergogna… Un orrore senza limiti. Con i soldati, vi sono foto e video in circolazione, che dopo aver combattuto, si riposano, postano selfie in pose trionfanti, con indumenti intimi femminili mostrati come trofei di guerra. In allegria. Se un giorno un tribunale della storia chiederà cosa avete fatto lì, cosa diranno i soldati israeliani, obbedivamo agli ordini? Ma come si può fare una cosa del genere? Quanto al 7 ottobre, non c’è stata un’inchiesta indipendente. Dichiarazioni di parte. Bisogna che ci sia una inchiesta indipendente ma il governo israeliano si guarda bene dal volerla. Il governo guidato da Benjamin Netanyahu.
Di lui penso il peggio possibile ma non che sia una escrescenza tumorale su un corpo sano. Una mela marcia in un cesto di frutti succosi. No, non è così. Netanyahu è la vera faccia del sionismo. Non ne è una deriva. Dico questo, perché la Nakba l’ha fatta Ben Gurion, non Netanyahu. E la Nakba è stata il primo atto di pulizia etnica, documentato da autorevoli storici israeliani come Ilan Pappé. Gli israeliani si sono mossi con una mastodontica propaganda, l’hasbara, con un cumulo di menzogne che non ho mai visto in vita mia.
Già ai tempi di Ben Gurion, ci fu una votazione in cui gli israeliani scelsero di non definire i confini dello Stato. Perché non farlo?
Domanda pertinente. E quale risposta si è dato?
Evidentemente perché li vuoi allargare, non certo restringere. Già allora pensavano di sfruttare tutte le situazioni possibili per portare via la terra ai palestinesi, come avevano fatto con la Nakba: case, ulivi. Hanno violato tutte le risoluzioni internazionali. Tutte. Quelle dell’Onu, le convenzioni di guerra, le norme del diritto umanitario… E poi si sono spinti, senza vergogna, a definire i territori palestinesi, territori contesi. Ma quando mai!
E la comunità internazionale?
Tre quarti della comunità internazionale la pensa così. Ma non conta. Conta solo l’Occidente. L’Occidente è totalmente complice, perché ha permesso a Israele di calpestare la legalità internazionale. Quella legalità che i governi israeliani hanno sempre dimostrato di disprezzare. L’unico leader israeliano che ci ha lasciato la pelle è stato Yitzhak Rabin. Per aver osato tentare una pace, per quanto imperfetta, è stato fatto fuori da un estremista israeliano.
Non era antisemitismo quando quelli del Likud, Netanyahu in testa, rappresentavano Rabin con la divisa da SS e il bracciale con la svastica!!! Allora non ho sentito gridare all’antisemitismo. Mi dispiace dire che a parte alcuni gruppi straordinari, come B’tselem, i refusnik, Breaking the Silence, verso i quali nutro un rispetto sacro, in Israele non c’è stata una vera opposizione. Hanno vissuto cinquant’anni con un popolo, quello palestinese, sottoposto ad un regime terrificante. Questo non lo dice Moni Ovadia che non conta niente. Lo dice Gideon Levy, il più informato giornalista israeliano, di cui meritoriamente l’Unità riporta articoli coraggiosi, illuminanti, che mettono in crisi la convinzione, propria anche dei cosiddetti moderati di sinistra, che Israele sia ancora una democrazia. Una democrazia non sottopone un popolo a ciò a cui è stato costretto il popolo palestinese: vessazioni, umiliazioni, arresti arbitrari, torture… Io sono furibondo!
E Israele, chi lo governa, dice di rappresentare tutti gli ebrei. A me col cavolo, per usare un eufemismo, che mi rappresenta! Io sono un ebreo della diaspora, sono legato alla cultura e alla spiritualità ebraica, ma il sionismo è un nazionalismo idolatrico e come tale antiebraico. E non sono l’unico a pensarla così. Lo pensano anche rabbini e anche ebrei ortodossi. Bisogna imporre all’esercito israeliano di ritirarsi immediatamente. Altroché far passare gli aiuti umanitari: bloccano il cibo e lo fanno artatamente, perché il loro scopo è di cancellare i palestinesi come popolo. E dietro ci sono anche ragioni economiche…
Quali sarebbero?
C’è gas nel mare di Gaza. E già sono partite le speculazioni per fare lotti lungo il mare di Gaza. L’accusa di antisemitismo è diventata una clava per silenziare persone perbene, oneste, che parlano solo perché coltivano sentimenti di umanità e di giustizia. Parlo per me, parlo di me. Io che interesse ho? Per le mie posizioni a sostegno del popolo palestinese, ho subito solo danni. Ormai in televisione sono terrorizzati a chiamarmi. Perché io parlo così. In un dibattito, si fa per dire, televisivo c’è chi mi ha dato dell’antisemita. Una che non avrà mai letto neanche una riga dei grandi saggi che descrivono le cose, a partire da Chomsky e Pappé.
E poi devo sentire giornalisti che in televisione ripetono, tra l’incredulo e lo scandalizzato, ma cosa si vuole imputare a Israele. Cosa? Lo dice la legalità internazionale! Su Israele, l’Occidente ha distrutto la legalità internazionale. Non siamo estremisti. Siamo semplicemente umani. Cosa che altri cominciano a non essere più, a non avere più quello statuto che attribuivamo all’uomo, secondo me erroneamente, la famosa umanità. Ma cosa dovrebbe dirti l’umanità? Che il tuo simile ha la tua stessa dignità. Gli israeliani stanno compiendo uno dei più grandi crimini che si possono commettere: punizioni collettive. La distruzione del principio più elementare del diritto. È possibile che siamo tutti cosi accecati, così vigliacchi da non gridarlo?
Quelli come me non li lasciano parlare, o se per sbaglio l’invitano, gli mettono intorno un po’ di mastini che provano a zittirli a colpi di “ecco l’antisemita”, “l’amico di Hamas”. E ora criminalizzano anche gli studenti che di fronte alla mattanza di Gaza hanno il coraggio e la determinazione di mobilitarsi, manifestare, trasformare l’indignazione in lotta. Io sto con loro. E con quei docenti e università che hanno rifiutato di partecipare ad un bando per la cooperazione scientifica con Israele in un campo in cui l’applicazione militare è nell’ordine delle cose. Dove sarebbe lo scandalo? Nel rifiutarsi di assistere in silenzio o addirittura di cooperare nell’etnocidio di un popolo? C’è poi un’altra vergogna di cui si tace.
Quale?
Il mezzo milione e passa di coloni in Cisgiordania che ci stanno a fare? Non c’è Hamas lì. Sono tutte scuse. Armati fino ai denti. Sputano sui bambini, assaltano villaggi palestinesi, bruciano gli ulivi. L’umanità ha davvero chiuso gli occhi. E l’Occidente che si riempie la bocca della parola diritti. Diritti di chi? Quando è scoppiata la guerra, ho ospitato a casa mia tre ucraini. Sono stati otto mesi e adesso verranno a fare le vacanze da noi, insomma abbiamo stabilito un rapporto familiare. Io l’ho detto in televisione: i profughi siriani, perché non li avete lasciati accogliere? Vi comportate così perché siete razzisti, perché non sono di razza bianca caucasica. I siriani, con quello che hanno subito. La retorica di un Occidente che è ormai marcio. Ricordiamoci che il 60% dell’umanità sta dall’altra parte. Ed è contro l’Occidente, quest’Occidente ipocrita, come ha mostrato il Sudafrica che ha portato Israele alla Corte internazionale di giustizia de L’Aja. C’è qualcuno che può parlare di apartheid più dei sudafricani? In futuro l’Occidente non avrà più diritto di aprire bocca. Con gli americani che continuano a fare la parte dei buoni. Perché nessuno li ha sanzionati quando hanno ammazzato un milione fra iracheni ed afghani per una guerra illegale. Adesso basta, con una narrazione miserabilmente compiaciuta dell’Occidente buono e giusto, a sostegno della sua propaggine mediorientale, Israele, basta con l’insopportabile politica dei due pesi e due misure, con l’inversione delle parti tra vittima e carnefice. Davvero basta. Lo grido da persona che possiede ancora un briciolo di umanità. Lo grido da ebreo antisionista.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da «l’Unità», 2 aprile 2024).
Inserito il 02/04/2024.
Dal sito «L’ospite ingrato»
Ritrova oggi tutta la sua attualità una “lettera aperta” agli ebrei italiani che l’intellettuale Franco Fortini lanciò dalle pagine del «manifesto» il 18 gennaio 1989 firmandosi anche con il cognome – Lattes – del padre di origine ebraica.
«Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti».
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Sotto il titolo La dissipazione di Israele - Lettera aperta agli ebrei italiani «il manifesto» del 18.01.09 ha ripubblicato, a firma Franco Lattes Fortini, il testo apparso il 24 maggio 1989 sullo stesso quotidiano, e successivamente ripreso da «La rivista del Manifesto» (21 ottobre 2001).
La Lettera, che riportiamo di seguito, è riprodotta integralmente in Franco Fortini, I cani del Sinai, Macerata, Quodlibet, 2002 (Appendice, pp. 85-90), attualmente in commercio; a questa edizione si rimanda anche per le notizie bibliografiche e documentarie della Nota al testo. Vedi anche, per la cornice biografica, F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003 (Cronologia, p. CXXVII).
Lettera aperta agli ebrei italiani
di Franco Lattes Fortini
Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza – lavoro palestinese, settanta o centomila uomini corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte della opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
Gli Ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa –, credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni “voce del sangue” e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; si che a partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o dal quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente, delle nostre parole e volontà. Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo “che danna un popolo intero intorno ad un patibolo”: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilona.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.
Franco Lattes Fortini
«il manifesto», 24 maggio 1989
(Tratto da: https://web.archive.org/web/20120404194005/http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Lettera_agli_ebrei.html).
Inserito il 28/03/2024.
di Alessandro Robecchi
«Se esiste oggi una perfetta metafora del capitalismo, è la guerra: la disperazione di molti e il guadagno di pochissimi, quelli che un tempo si chiamavano “i signori della guerra”, sempre più signori e con sempre più guerre su cui lavorare, perché se l’affare è la guerra, la pace fa male agli affari. Ai loro».
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Masters of war. La guerra, il business principale: così si spiegano i piazzisti
di Alessandro Robecchi
Insomma, la guerra. La guerra di oggi, anzi le guerre, il genocidio della potenza coloniale israeliana ai danni del popolo palestinese, la carneficina senza fine in Ucraina, le altre guerre sparse per il pianeta (parecchie) che nemmeno arrivano ai media, i massacri, le popolazioni colpite, gli effetti collaterali, fame, malattie, disperazione. La guerra, insomma, che sembra una componente naturale, endemica, delle faccende umane, in qualche modo accettata e – è storia recente e recentissima – benedetta e sostenuta da un apparato informativo che sembra proprio quel che è: l’ufficio stampa della guerra.
La guerra “giusta”, la guerra “nostra”. Piazzisti.
Strabiliante: non c’è attività umana che non venga letta in termini economici, che non venga analizzata per quel che produce o consuma in termini di ricchezza. Sappiamo tutto di industrie, di mercati, di speculazioni, di guadagni, di dinamiche macroeconomiche di ogni settore, e non sappiamo niente – è una specie di tabù –dell’economia della guerra, di chi la gestisce, di chi ci guadagna, di chi ne fa corebusiness. Il primo a nominare – e in qualche modo a battezzarlo – il “complesso militare industriale” fu Eisenhower, presidente americano che una guerra l’aveva vinta da generale. Correva il 1961 e lui metteva in guardia la prima potenza mondiale proprio da quell’intreccio inestricabile che poi avrebbe contagiato il mondo: la politica, l’industria bellica (nella neolingua tanto in voga da sempre, la guerra si chiama “difesa”), la finanza, alleate a gonfiare un apparato micidiale. Un sistema economico che doveva produrre armi, quindi usarle, quindi costruirne di nuove, quindi spingere sul comparto “ricerca e sviluppo” con esseri umani come cavie. E quindi combattere ogni voce di pace, quindi soffiare su ogni focolaio, su ogni principio d’incendio per farlo divampare.
Dalla guerra “Sola igiene del mondo” della macchietta futurista italiana, si è passati in pochissimi anni alla guerra come “Sola economia del mondo”. Difficile pensare a un comparto economico che aumenta il fatturato in doppia cifra ogni anno ininterrottamente da almeno trent’anni, il cui giro di affari è arrivato (fonte: Sipri, Stockholm International Peace Research Institute) nel 2022 a 2.240 miliardi di dollari l’anno (in vorticosa crescita), il 40 per cento dei quali americani (seguono Cina, che spende un terzo degli Usa, e Russia, che spende un decimo). Non solo armi, ma tutto quel che ne consegue, personale, strutture, ricerca, apparati, informazione. Parliamo insomma della prima industria mondiale, il che dovrebbe chiarire a tutti e per sempre che ogni discorso bellico favorevole a questo o quel conflitto (abbiamo in questi giorni luminosi esempi, quelli che non saprebbero gestire una gelateria ma danno lezioni al papa, per dire) può essere agevolmente letto come un’interessata attività di lobbyng, di sostegno a tassametro, degli interessi tesi alla realizzazione della guerra.
Si parla, infatti, di uno stato di guerra permanente, con vari fronti, con varie declinazioni e vari gradi di intensità, ma con tutte le guerre – tutte – ad esclusivo vantaggio di quell’apparato transnazionale controllato da non più di qualche migliaio di persone. Se esiste oggi una perfetta metafora del capitalismo, è la guerra: la disperazione di molti e il guadagno di pochissimi, quelli che un tempo si chiamavano “i signori della guerra”, sempre più signori e con sempre più guerre su cui lavorare, perché se l’affare è la guerra, la pace fa male agli affari. Ai loro.
Alessandro Robecchi
(Tratto da: Alessandro Robecchi, Masters of war. La guerra, il business principale: così si spiegano i piazzisti, in «il Fatto Quotidiano», 13 marzo 2024).
Inserito il 20/03/2024.
di Franco Berardi Bifo
«Per proteggere la nostra perfetta democrazia si uccidono sistematicamente i bambini palestinesi. Adesso quei bambini muoiono di fame, di sete, di freddo, di malattia e ovviamente di bombe.
I giovani marciano nelle città di mezzo mondo contro l’occupazione israeliana e la pulizia etnica. Buona parte della comunità ebraica d’Europa e degli Stati Uniti si rivolta contro il genocidio, ma gli ipocriti li accusano di antisemitismo».
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Lettera agli ipocriti d’Europa
di Franco Berardi Bifo
Un tempo credevo che i filosofi fossero i custodi della coerenza etica e della decenza intellettuale. Forse mi sbagliavo, dato che questa tradizione sembra completamente cancellata nell’attuale panorama culturale d’Europa.
Il conformismo e la complicità con la violenza hanno preso il posto del coraggio intellettuale nei media come nel mondo accademico. Qualche settimana fa un importante filosofo tedesco ha pubblicato un testo pieno di comprensione per Israele proprio nel momento in cui Israele lanciava una campagna di sterminio di massa che molte persone considerano un genocidio. In quel testo l’importante filosofo, e alcuni suoi colleghi scrivevano che “assimilare lo spargimento di sangue a Gaza a un genocidio va oltre i limiti di un dibattito accettabile”, ma tralasciavano di spiegare per quale ragione Israele può incarcerare milioni di persone, invadere e distruggere le case di milioni di palestinesi, uccidere diecimila bambini in un paio di mesi, ma non ci è concesso denunciare tutto questo come genocidio.
Israele colpisce indiscriminatamente i palestinesi che sono intrappolati nell’infernale prigione di Gaza, ma i filosofi, soprattutto in Germania, non posso chiamarlo genocidio. Perché?
Quando gli intellettuali tedeschi pronunciarono le parole: Nie wieder, io intesi (forse ingenuamente) che questo significasse. Mai più pulizia etnica, mai più deportazione di massa, mai più discriminazione razziale, mai più campi di sterminio, mai più Nazismo. Ma adesso, dopo avere letto le parole dell’importante filosofo e della elite politica europea, e dopo avere ascoltato il silenzio di tutti gli altri, capisco che quelle due parole avevano un significato differente. Capisco che da un punto di vista tedesco quelle due parole: Nie wieder, vanno interpretate in maniera differente.
Dopo avere ucciso sei milioni di ebrei, due milioni di Rom, trecentomila comunisti e venti milioni di sovietici, i tedeschi promettono che difenderanno Israele in ogni caso, perché i sionisti non sono più nemici della razza superiore, e gli riconosciamo il privilegio che noi abbiamo da cinquecento anni: il privilegio dei colonizzatori, degli sfruttatori, degli sterminatori.
Israele è stata cooptata nel nostro Club suprematista, per cui hanno acquisito il diritto di fare quello che noi abbiamo fatto ai popoli indigeni del Nord e del Sud America, agli aborigeni d’Australia, eccetera eccetera. Noi, la razza bianca abbiamo deciso che il nostro nuovo alleato può costruire un campo di sterminio sulla costa del Mar Mediterraneo orientale: chiamiamolo Auschwitz on the beach.
Gli intellettuali europei sono così silenziosi che sono giunto alla conclusione che la categoria è estinta, e deve essere sostituita dalla Corporazione degli Ipocriti.
In Francia e in Germania le autorità politiche sembrano intenzionate a impedire che qualcuno dica la verità su quel che sta succedendo a Gaza e in Cisgiordania: le voci dissidenti sono emarginate, i libri sono tolti dagli scaffali, e certe parole o frasi sono messe fuori legge, quando si tratta di settantacinque anni di violenza israeliana, quando si tratta dei massacri che gli Übermenschen compiono ogni giorno sugli Untermenschen.
Per proteggere la nostra perfetta democrazia le autorità tedesche si comportano come ai tempi della Stasi.
Per proteggere la nostra perfetta democrazia si uccidono sistematicamente i bambini palestinesi. Adesso quei bambini muoiono di fame, di sete, di freddo, di malattia e ovviamente di bombe.
I giovani marciano nelle città di mezzo mondo contro l’occupazione israeliana e la pulizia etnica. Buona parte della comunità ebraica d’Europa e degli Stati Uniti si rivolta contro il genocidio, ma gli ipocriti li accusano di antisemitismo.
Un tempo credevo che la ragione e i diritti umani dovessero intendersi come valori universali, ma adesso capisco che per gli ipocriti europei “universali” significa: bianchi.
L’ipocrisia ha nutrito l’onda di razzismo e l’aggressività che montano in tutti i paesi europei.
Voi, intellettuali silenziosi d’Europa, voi complici degli assassini siete responsabili dell’ondata di fascismo che sta prevalendo dovunque nel continente.
Horkheimer e Adorno scrissero nel 1941 queste parole:
“Il concetto di Illuminismo… contiene i germi di una regressione che si sta sviluppando in ogni luogo oggi. Ma se l’Illuminismo non accoglie la coscienza di questo momento regressivo, sta firmando la sua condanna a morte. Se lasciamo la riflessione sulla distruttività del progresso ai nemici del progresso, e che il pensiero sia accecato dal pragmatismo, perderemo la capacità di pensiero”.
Queste parole si possono ripetere oggi, se continuiamo a chiudere gli occhi alla realtà di migliaia di persone che annegano ogni giorno nel Mediterraneo, e alla realtà dell’Olocausto inflitto al popolo palestinese.
10 Gennaio 2024
Franco Berardi Bifo
(Tratto da: Franco Berardi Bifo, Lettera agli ipocriti d’Europa, in: https://comune-info.net/lettera-agli-ipocriti-deuropa/).
Inserito il 27/01/2024.
Militanti dell’Ezln.
Autrice della foto: Mariana Osornio.
Fonte della foto: https://www.dinamopress.it/news/il-chiapas-sullorlo-della-guerra-civile-comunicato-dellezln/
di Massimo De Giuseppe
Messico, 1° gennaio 1994. L’insurrezione del Chiapas scosse l’immaginario del mondo usando le tradizioni indigene e gli strumenti mediatici. Ora il leader ha abdicato: è una stagione esaurita?
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Il Chiapas, il subcomandante Marcos, la rivoluzione anomala
di Massimo De Giuseppe
Il 1° gennaio del 1994 in Messico il Chiapas riemerse improvvisamente da un passato misterioso per balzare all’onore delle cronache internazionali, in concomitanza con la rivolta di un fin lì sconosciuto movimento armato battezzatosi Ejercito Zapatista de Liberación Nacional (Ezln). Già il nome sembrava mescolare gli albori del Novecento (il riferimento è a Emiliano Zapata e al suo esercito di contadini in armi nella rivoluzione del 1910) con il suo crepuscolo, dandosi però un carattere indigenista e recuperando elementi delle tante rivoluzioni di ispirazione guevarista che avevano scosso l’America Latina nella stagione della guerra fredda.
Quella singolare sollevazione era d’altronde intrisa di elementi simbolici che miravano a scuotere gli immaginari: quello messicano, vicino ormai al crepuscolo del lungo dominio del Partido Revolucionario Institucional (Pri), alla guida del Paese dal 1929 al 2000, ma, forse ancor di più, quelli transnazionali. La rivolta coincise infatti con l’entrata in vigore del Trattato di libero commercio nord-americano, noto come Nafta o Tlc, a seconda del punto di osservazione. Un accordo che spostava la frontiera simbolica dell’America del Nord dal Río Grande/Río Bravo, che dalla guerra del 1846-48 separava gli Stati Uniti dal Messico, all’Usumacinta, un fiume perduto che tagliava le terre umide sospese tra Messico e Guatemala. In quello scenario post-bipolare, anche lo Stato più remoto del Messico contemporaneo, quello con la più alta percentuale di popolazioni indigene – quattordici ceppi etno-linguistici – irrompeva negli immaginari collettivi di un mondo sempre più globalizzato. Quando esplose la rivolta dell’Ezln, d’altronde, non si erano ancora spenti gli echi del 1992: delle voci contrapposte e delle proteste che avevano accompagnato le celebrazioni dei cinquecento anni della «scoperta» di Cristoforo Colombo e conseguente «conquista» del continente americano, culminate nella campagna 500 años de resistencia che avrebbe anticipato l’attuale dibattito intorno alla cancel culture. A questi fermenti si era aggiunta anche la risonanza globale ottenuta dal premio Nobel per la Pace assegnato nel 1992 alla maya quiché guatemalteca, Rigoberta Menchú Tum. Al capezzale della guerra fredda, spostare i riflettori dalla memoria delle terribili violenze commesse in Centroamerica nel decennio precedente – cristallizzate nei massacri di contadini, sacerdoti e catechiste in El Salvador e di indigeni in Guatemala – alle incongruenze del programma di modernizzazione del Messico sembrava la principale missione dell’Ezln e del suo architetto politico, il subcomandante Marcos.
Si trattava di un’azione mediaticamente ben costruita che intrecciava dinamiche locali relative alla situazione del Chiapas (lo Stato più povero e meridionale del Messico) a una dimensione sempre più globale del cosiddetto Washington Consensus che, a livello nazionale, riverberava nelle riforme neoliberiste intraprese dal nuovo leader del Pri, Carlos Salinas de Gortari, e proseguite dal suo successore Ernesto Zedillo. Nella cosiddetta Primera declaración de la Selva Lacandona, proclamata a San Cristóbal de las Casas nelle prime ore della rivolta, Marcos – secondo le autorità messicane alter ego di un ricercatore della Universidad Autónoma Metropolitana (Uam), Rafael Sebastián Guillén Vicente – esordì rivolgendosi «al popolo del Messico e ai fratelli messicani», invitandoli alla lotta per un «mondo nuovo». Questa narrazione collocava i ribelli in un filone storico che partiva dalla Conquista («siamo il prodotto di 500 anni di lotta»), passando per la stagione indipendentista, le guerre contro statunitensi e francesi del XIX secolo, la rivoluzione, la nazionalizzazione petrolifera del 1938, il movimento studentesco del Sessantotto, per legittimare l’insurgencia e avallare le richieste di profonde riforme sociali.
In realtà dietro a quella rivolta, inizialmente costata 57 vittime e concretizzatasi nel controllo (per pochi giorni) di alcuni municipi e (per un solo giorno) della più antica città dello Stato, San Cristóbal de las Casas, si celava uno dei più singolari ed efficaci esperimenti di mobilitazione glocal. A fianco della ribellione e delle rivendicazioni di alcune comunità indigene, si metteva infatti in moto una macchina mediatica capace di mescolare immaginari e confini, muovendosi tra mito, rito e mezzi di comunicazione di massa. Dietro ai ribelli in passamontagna si ritrovano infatti cavalli e cartuccere che richiamavano l’Ejercito Libertador del Sur e la piattaforma agrarista di Emiliano Zapata, ma anche rimandi a Che Guevara, alla teologia della liberazione (cruciale nella partita risultò la figura del vescovo indigenista del Chiapas, Samuel Ruiz García, in rotta con Giovanni Paolo II), alle campagne per la tutela dei diritti umani in Centroamerica; il tutto mescolato alle inquietudini sollevate dalla New Economy che scuotevano il nascente movimento No Global.
Se nella Tercera declaración, gennaio 1995, l’Ezln auspicava la creazione di un movimento di liberazione nazionale, già nella quarta (1996) s’attenuavano i toni. Quell’anno fu organizzato nella comunità di Oventic il Primo incontro intercontinentale dell’umanità e la comandante Ramona venne inviata nella capitale federale per presenziare al Congresso nazionale indigenista. Ci furono momenti drammatici – i massacri a opera di paramilitari di 17 contadini ad Aguas Blancas (28 giugno 1995) e di 45 indigeni dell’associazione Las Abejas ad Acteal (22 dicembre 1997) – ma anche la creazione di una commissione e l’avvio di un negoziato che avrebbe portato agli accordi di pace di San Andrés del 16 febbraio 1996.
Da allora le municipalità di Ocosingo e Chenalhó, ma ancor di più alcune aree della Selva Lacandona – una gigantesca foresta pluviale di quasi due milioni di ettari, costellata da alcuni dei più importanti siti archeologici del periodo maya classico – diventarono non solo territori di sperimentazione socio-politica di cellule dell’Ezln (i cosiddetti caracoles), ma soprattutto un luogo simbolico dell’immaginario che avrebbe attratto per diversi anni militanti, attivisti, cooperanti, eco-turisti, semplici curiosi, provenienti da tutto il mondo, ottenendo una particolare risonanza in Italia, dove si formarono circoli, gruppi di sostegno, cooperative di commercio equo e solidale, trasversali tanto alle nuove sinistre quanto al mondo cattolico. A fine millennio gli articoli di Marcos si traducevano in periodici e fanzine di mezzo mondo, le voci di Radio Insurgente erano riprese in canzoni di noti gruppi musicali (dall’heavy rock dei Rage Against the Machine al combat-folk dei Modena City Ramblers), mentre passamontagna e huipiles (vestiti tradizionali indigeni) avevano sostituito flauti e mantelli degli Inti-Illimani.
Il culmine della mobilitazione si raggiunse nel 2001, quando la comandante Esther si rivolse al nuovo presidente Vicente Fox, del Pan (Partido Acción Nacional, centrodestra), al termine della Marcha del color de la tierra che aveva portato le carovane zapatiste dal Chiapas a Città del Messico. A fine anno però l’Ezln ruppe le trattative con il governo federale per intraprendere una sorta di ritiro silenzioso nelle comunità controllate nella selva (Ocosingo, los Naranjos, las Margaritas, Altamirano). Poi, di lì a un paio di anni, sarebbe iniziato una sorta di declino a livello di impatto mediatico che avrebbe ridotto anche la capacità di mobilitazione del movimento che, nel 2005, annunciò la rinuncia alla lotta armata.
L’anno successivo rappresentò una sorta di spartiacque. Nella fase delle proteste seguite alla contestata vittoria del candidato del Pan, Felipe Calderón, Marcos e l’Ezln rifiutarono di appoggiare il candidato di sinistra, il tabasqueño Andrés Manuel López Obrador, difendendo l’idea di una Otra campaña che rimarcava l’estraneità del movimento alle logiche della politica nazionale. In una fase cruciale per la storia messicana, segnata dai primi effetti della guerra ai narcos lanciata da Calderón con il sostegno di Bush jr., l’Ezln cominciò a trasformarsi in un movimento sempre più residuale, nonostante l’attivismo sulla rete del portale zapatista e alcune sporadiche iniziative: la marcia del silenzio del 2012, in occasione del ritorno del Pri al potere con Enrique Peña Nieto o il cambio di nome di Marcos in subcomandante insurgente Galeano del 2014. Nell’ottobre del 2023, nel pieno della stagione governativa di López Obrador, alla testa del nuovo partito Morena, Marcos è tornato a farsi vivo con una lettera dai toni filosofici in cui, uccidendo Galeano, annunciava un ricambio generazionale nella comandancia. Ben pochi media hanno però diffuso la notizia, perfino in Messico.
C’è una foto di Pedro Valtierra scattata nel gennaio del 1998, quando la rivolta si era già fatta resiliente, che cattura un gruppo di donne tzotzil che affrontano alcuni militari messicani, sbarrando loro il passaggio, che racchiude il valore simbolico di quella vicenda apparentemente periferica. Un’esperienza che affastellava elementi del passato per promettere nuove utopie, mescolando richieste molto locali a una visione altermundista (il rimando all’«altro Occidente»), che nascondeva un’urgenza ma anche una serie di contraddizioni profonde: abilità mediatica e spregiudicatezza, prospettiva glocal e banalizzazioni antropologiche, ma anche la capacità di toccare una serie di nodi sensibili, utilizzando, come in una mostra fotografica globale, i negativi rivelati di una lunga serie di confini più o meno invisibili. Il Chiapas, sospeso tra il mondo degli altipiani (che si elevano fino ai 3 mila metri di altitudine) e quello delle foreste, tra passato e presente, in un certo senso sembrava riassumere tutte quelle infinite contraddizioni sedimentatesi nei secoli, e rigettarle nel mondo globalizzato di fine millennio.
Massimo De Giuseppe*
* Massimo De Giuseppe (Milano, 1967), è ordinario di Storia contemporanea alla Iulm di Milano, dirige la collana Americhe del Mulino ed è membro dell’Accademia Mexicana de la Historia. Tra i suoi volumi: Messico 1900-1930. Stato, Chiesa e popoli indigeni (Morcelliana, 2007), La rivoluzione messicana (Il Mulino, 2013), Storia dell’America Latina contemporanea (con Gianni La Bella, Il Mulino, 2019).
(Tratto da: Massimo De Giuseppe, Il subcomandante Marcos. Trent’anni dopo la normalizzazione ha sconfitto la rivolta zapatista, in «La Lettura», n. 630, «Corriere della Sera», 24 dicembre 2023).
Inserito il 07/01/2024.
di Luca Kocci
Il romanzo storico di Mario Balsamo I pirati della Selva. L’epopea del subcomandante Marcos e della rivoluzione zapatista in Messico (Roma, Red Star Press, 2023).
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Il subcomandante Marcos e il Messico di Fabiola
«La strada per Palenque è chiusa e abbiamo preso Ocosingo. Scusateci tanto ma questa è una rivoluzione». Così si sentirono rispondere i turisti occidentali che nei primi giorni di gennaio 1994 si trovavano nel Chiapas messicano e chiedevano spiegazioni dell’imprevisto cambiamento di itinerario al giovane e gentile guerrigliero che li aveva fermati.
Ed era vero. Perché in quel capodanno di trent’anni fa, nel giorno in cui entrava il vigore l’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) fra Usa, Canada e Messico – nuovo mattone del neoliberismo globale –, nel Chiapas la popolazione indigena era insorta, riversandosi in armi nelle strade di San Cristóbal de las Casas.
Una rivoluzione anomala quella degli zapatisti messicani, che ribaltava gli schemi di quelle scoppiate dal 1789 in poi. Una rivoluzione che non voleva prendere il potere per modificare la realtà sociale, ma che puntava a cambiare la società per cambiare il potere. Una rivoluzione guidata dal subcomandante Marcos, «sottocomandante» di un esercito nato affinché in futuro non esistessero più eserciti in un mondo in cui ci fossero lavoro, terra, casa, cibo, salute, educazione e libertà per tutte e tutti. Una rivoluzione fatta anche con le armi ma che non riponeva la propria forza nelle armi, bensì nella capacità di parlare ai popoli indigeni e all’umanità tutta, sempre più ingabbiata dal libero mercato. Una rivoluzione animata anche da centinaia di catechisti e fra i cui leader c’era un vescovo cattolico, Samuel Ruiz, convertito dal suo popolo al Vangelo dei poveri, come qualche anno prima era capitato al vescovo Oscar Romero, in Salvador.
Tutta questa vicenda viene narrata dal documentarista e scrittore Mario Balsamo, in un romanzo storico nel quale Fabiola – giovane maestra romana che nel 1994 lascia la capitale per rispondere alla chiamata dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale – attraversa il Chiapas in rivolta, dialogando con Marcos ma anche con Emiliano Zapata, rivoluzionario di inizio Novecento, e con don Chisciotte della Mancia, rivoluzionario senza tempo e fuori dal tempo (I pirati della Selva. L’epopea del subcomandante Marcos e della rivoluzione zapatista in Messico, Red Star Press, pp. 143, euro 15, postfazione di Alfio Nicotra).
Che ne è oggi della rivoluzione zapatista? «Più che una risposta, in questi tre decenni, lo zapatismo ha avanzato alcune domande fondamentali», scrive nella postfazione Alfio Nicotra. «Possiamo rassegnarci a un mondo in cui un pugno di persone ha in mano larga parte della ricchezza del pianeta? Possiamo lasciare che la biodiversità, l’acqua, le foreste, gli altri esseri viventi siano ridotti a merci?
Davvero pensiamo che la democrazia liberale, la cui crisi è sotto gli occhi di tutti, e i giochi elettorali siano ancora il terreno principale da scegliere per chi si batte per l’emancipazione degli oppressi? Iniziare a dare una risposta a queste domande può probabilmente aiutarci ad essere anche noi, nel nostro piccolo e nelle nostre comunità, dei pirati della selva».
Luca Kocci
(Tratto da: Luca Kocci, Il subcomandante Marcos e il Messico di Fabiola, in «il manifesto», Anno LIV, n. 5, 6 gennaio 2024).
Inserito il 07/01/2024.
di Nicolas Dot-Pouillard*
La difficile situazione delle sinistre dei Paesi arabi nella fase di massima egemonia delle tendenze islamiste.
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La sinistra nel mondo arabo tra passato e presente
di Nicolas Dot-Pouillard
Parafrasando il celebre incipit del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels (1848), possiamo ammettere che lo “spettro del comunismo” non si aggira granché per il mondo arabo. Allo stato attuale, le “sinistre plurali” arabe hanno un aspetto più simile a delle rovine, più o meno ben conservate: eredi di un comunismo filosovietico in crisi di modelli dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di una tradizione socialdemocratica ancora viva nel Maghreb, ma non in Medio Oriente, o figlie delle “nuove sinistre arabe” radicali della seconda metà degli anni ’70. Dalla crisi siriana che si è aperta nel 2011 all’islam politico, le sinistre arabe sembrano spesso non avere nulla in comune tranne il filo conduttore del sostegno alla causa palestinese.
L’ultima repubblica socialista del mondo arabo, lo Yemen del Sud, è finita nel luglio 1994 con lo scontro per una sanguinosa unificazione con il vicino Yemen del Nord. La brillante ascesa delle “nuove sinistre” arabe degli anni ’70, a volte ispirate dal maoismo e, in misura minore, dal trotskismo, è stata da tempo ostacolata da un autoritarismo post-indipendenza a lungo trionfante, da strategie di contro-insurrezione sostenute da Israele e dagli inglesi (come, ad esempio, in Oman durante la ribellione marxista nel Dhofar) o dall’ascesa di un Islam politico che ha ripreso, fin dalla fine degli anni ’70, la tendenza antimperialista della sinistra.
L’epopea nazionalista del popolo palestinese in Giordania e in Libano aveva mobilitato centinaia di combattenti marocchini, tunisini, iracheni ed egiziani, la maggior parte dei quali membri di formazioni marxiste, in una vera e propria Brigata Internazionale della Palestina nel corso degli anni ’70. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si era legata a doppio filo con la sinistra libanese guidata dalla figura del leader druso Kamal Jumblatt (1917-1977), del Partito Comunista Libanese (PCL) o dell’Organizzazione di Azione Comunista in Libano (OACL): una storia, però, finita tragicamente nell’estate del 1982, durante l’invasione israeliana del Libano. Col tempo, l’utopia islamista ha preso il sopravvento sul modello di città socialista, ma, soprattutto, i modelli di sviluppo terzomondista del passato sono stati sostituiti dall’ideale mercantile di un’economia di rendita all’interno di un sistema monarchico, un vero e proprio “stadio Dubai del capitalismo”, per usare la felice espressione del compianto teorico dello sviluppo urbano e sociogeografo americano Mike Davis (1946-2022)1.
Reminiscenza delle sinistre arabe?
Fine della storia? Sicuramente sconfitta, anche se qualche spettro della sinistra araba si aggira ancora. Dopo la caduta del presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali nel gennaio 2011, un fragile Fronte Popolare formatosi attorno alle grandi famiglie della sinistra radicale tunisina ha dato luogo per un certo periodo a un vero e proprio movimento elettorale. Il Forum Sociale Mondiale di Tunisi nel marzo 2013 è stata una rara occasione per creare un contatto tra molti movimenti arabi progressisti e la nuova sinistra no global. Il nasseriano Hamdin Sabahi ha ottenuto il 20% dei voti degli egiziani alle elezioni presidenziali del 2012, arrivando terzo e mobilitando sindacalisti e attivisti di sinistra egiziani. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) sopravvive ancora in uno scenario politico palestinese dominato da Fatah e Hamas, con un recente invito, che ha infiammato la Cisgiordania, a intraprendere la lotta armata e un’insurrezione contro i coloni israeliani e le truppe di occupazione israeliane. Il Partito Comunista Libanese ha mobilitato i suoi sostenitori durante il grande movimento sociale dell’autunno 2019 con la richiesta di abolire il sistema confessionale, mentre il movimento di cittadini ha chiesto uno Stato guidato da una figura integerrima della sinistra libanese, ossia Charbel Nahas – ex ministro del Lavoro – che ha offerto ai giovani ribelli del 2019 un programma economico e politico generale per far uscire il Libano da una terribile crisi finanziaria: programmi che però sono stati bocciati alle elezioni parlamentari del maggio 2022.
Negli ultimi anni, questi brevi momenti di risveglio politico dei movimenti progressisti sono stati accompagnati da un vero e proprio memoriale della sinistra araba, qualche volta fazioso, altre accademico. Oggi non mancano opere accademiche di qualità sulle ormai vecchie “nuove sinistre” arabe degli anni ’60 e ’70 o sulla storia dei partiti comunisti. Sono sempre di più, sostenute da una giovane generazione di ricercatori arabofoni che si discosta dalla tendenza accademica a insistere sull’“autoritarismo”, l’“islamismo” o le (quasi defunte) “transizioni democratiche”2. Ma è agli “anziani” che spetta il compito della memoria: è in voga, il genere autobiografico che permette agli ex leader dei principali partiti di sinistra di tramandare alle giovani generazioni di oggi una memoria militante troppo fragile3.
Temi ancora oggi attuali
C’è sicuramente uno scarto tra questa inflazione di memorie militanti, che portano con sé anche la loro parte di nostalgia rivoluzionaria, e una debolezza strutturale, e non più solo ricorrente, della sinistra nel mondo arabo. Ma è una questione logica. La vecchia generazione, che è stata interprete e testimone delle grandi lotte sociali e antimperialiste degli anni ’60 e ’70, si sta lentamente estinguendo; anche se vuole lasciare una certa eredità dietro di sé. Non è un’idea così astratta: nella critica dell’imperialismo, dell’autoritarismo e del confessionalismo, le sinistre arabe sono state spesso all’avanguardia.
La lettura di classe del passato oggi può essere ancora valida in un mondo arabo in cui le disuguaglianze sociali crescono sempre più. La questione del debito finanziario estero dei paesi arabi, della dipendenza militare e della vendita di armi con le “grandi potenze” o la gestione delle frontiere marittime per arginare l’immigrazione clandestina verso l’Europa occidentale sarebbero utili a riprendere il discorso sulle borghesie compradores4 locali. L’attuale impotenza delle sinistre arabe contrasta tristemente con l’attualità dei suoi temi chiave: l’antimperialismo e l’anticolonialismo, la lotta contro l’autoritarismo e le lotte femministe, la de-confessionalizzazione dei sistemi politici, la sovranità nazionale e la giustizia sociale.
Una crisi di modelli
Perché, allora, nel mondo arabo c’è un tale stato di debolezza delle forze di sinistra? Ci sono, naturalmente, ragioni strutturali: la principale è senza dubbio la caduta del blocco socialista all’inizio degli anni ’90, ma non è l’unica. A crollare non è stato solo un modello (relativo) – il Partito Comunista Libanese era stato critico nei confronti di alcune posizioni sovietiche sul Medio Oriente sin dal suo secondo congresso nel luglio 1968 – ma anche una manna finanziaria e militare ormai scomparsa. Non c’è niente di strano, perché la caduta del comunismo a Mosca è stata sentita in maniera altrettanto dolorosa dai partiti comunisti dell’America Latina e dell’Europa occidentale.
A monte, però, c’è anche un’altra crisi di modelli: la spinta propulsiva del maoismo e della lotta di liberazione nazionale vietnamita, entrambi modelli delle “nuove sinistre” arabe, si è esaurita alla fine della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (PCRG) e del conflitto sino-vietnamita del febbraio 1979. Il socialismo arabo si stava scontrando con le divisioni baathiste dell’Iraq e della Siria, mentre l’ideale socialista di sviluppo di Nasser si era concluso con la presidenza di Anwar Sadat (1918-1981)5, che aveva firmato un trattato di pace con Israele nel marzo 1979.
Mentre si assisteva al fallimento degli ideali socialisti alla fine degli anni ’70, la rivoluzione iraniana del febbraio 1979, seguita dall’ascesa di Hezbollah in Libano e delle correnti islamo-nazionaliste nella Palestina occupata, hanno preso facilmente il posto di un antimperialismo caro alla sinistra, facendole concorrenza sul proprio terreno ideologico e strategico. È come se il secolo breve, descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012)6, nel mondo arabo non fosse finito nel 1989, ma tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80.
L’islamismo, una questione irrisolta
Oltre a queste ragioni strutturali, in cui affonda la crisi della sinistra araba per un lungo arco temporale, ci sono anche una serie di fattori congiunturali, legati a contraddizioni più o meno importanti. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno riaperto la strada alle forze di sinistra nel mondo arabo. Ma ci sono state due questioni su cui si sono prontamente divise: l’Islam politico e la crisi siriana.
Fin dalle origini del comunismo arabo, l’Islam rappresenta una questione irrisolta: i comunisti arabi sono stati spesso accusati dai loro oppositori religiosi di essere degli irriducibili atei. Non mancano le riflessioni e gli scritti di pensatori marxisti arabi sull’eredità culturale e filosofica islamica, dal palestinese Bandali Saliba Jawzi (1871-1942)7, al libanese Hussein Mroueh (1908-1987), ex studente di studi religiosi all’Università sciita di Najaf in Iraq, che ha lasciato in eredità una monumentale opera sulle tendenze materialiste nella filosofia araba e islamica – purtroppo, mai tradotta.
Ma più che l’Islam, è l’islamismo la questione irrisolta per la sinistra araba. Le successive vittorie del movimento tunisino Ennahda alle elezioni per un’assemblea nazionale costituente nel novembre 2011, e poi del candidato dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, alle elezioni presidenziali egiziane del giugno 2012, hanno sancito per un certo periodo l’egemonia di un Islam politico di governo, che talvolta ha esaltato i meriti delle vecchie democrazie cristiane tedesca e italiana, o del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’AKP turco del presidente Recep Tayyip Erdoğan. In Tunisia, i socialdemocratici di Ettakatol (Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà) hanno sostenuto senza esitazioni una coalizione con il movimento Ennahda dal 2011 al 2014. Tuttavia, l’assassinio di Chokri Belaïd, leader del Partito unito dei patrioti democratici (Watad), il 6 febbraio 2013, ha messo la sinistra radicale e marxista tunisina contro Ennahda. In Egitto, il colpo di Stato del generale Abdel Fattah Al-Sisi del luglio 2013 è stato letto in due modi diversi dalla sinistra egiziana e, al di là di questo, da quella araba: Che fare? Opporsi al colpo di Stato in nome della difesa dei diritti democratici, o, al contrario, scommettere su un movimento popolare critico nei confronti dei Fratelli Musulmani, sostenendo una deriva autoritaria?
Per tutti gli anni 2010 e 2020, la questione dell’alleanza con gli islamisti ha continuato a tormentare le sinistre arabe: il Partito comunista iracheno ha stretto un’alleanza elettorale con il religioso sciita Muqtada al-Sadr nel maggio 2018, su un programma comune per combattere la corruzione e riformare lo Stato iracheno; la coalizione, però, è durata poco in Parlamento. In quanto minoritaria, la sinistra araba si sente intrappolata nella questione islamica: bisogna creare un’alleanza tattica con gli islamisti su ciò che li unisce, vale a dire la lotta contro l’imperialismo (americano), il colonialismo (israeliano) e, talvolta, la difesa dei diritti democratici di fronte a regimi monarchici o autoritari? O bisogna rompere in maniera sistematica con i movimenti religiosi sulla questione della laicità, dei diritti delle donne o del confessionalismo?
Pro o contro Damasco?
La seconda controversia che ha diviso, all’inizio degli anni 2010, la sinistra araba è stata la crisi siriana. Dal Maghreb al Mashrek8, negli ultimi anni la sinistra araba è stata spesso accusata dai Fratelli Musulmani di aver sviluppato una tendenza autoritaria nei confronti di Bashar al-Assad. Nella stessa Siria, la sinistra si è divisa in vari tronconi: il Partito della Volontà Popolare di Qadri Jamil e il Partito Comunista Siriano (Unificato) si sono alleati con il regime baathista, mentre il Partito Popolare Siriano Democratico di Riyadh al-Turk (ex Partito Comunista-Ufficio Politico Siriano), invece, ha preso una posizione netta sul movimento di protesta. Nel resto del mondo arabo, si è consolidata una certa solidarietà con il regime di Damasco, con l’eccezione, spesso, di piccole formazioni trotskiste legate al Segretariato Unificato della Quarta Internazionale (SUQI).
Dietro la crisi siriana, non c’è solo la questione dell’autoritarismo: ci sono anche divergenze sulla natura degli imperialismi contemporanei. Per alcuni, c’è un solo imperialismo: quello americano, e non c’è alcun paragone possibile con la Cina, la Russia o anche l’Iran, sia in termini di dominio e in campo militare su scala internazionale, sia in termini di egemonia finanziaria e culturale. Per altri, il sostegno russo, iraniano o persino cinese alla Siria di Bashar al-Assad rappresenta chiaramente l’ascesa di nuovi imperialismi. L’esperienza del “confederalismo democratico” dei curdi del Partito dell’Unione Democratica (PYD) nel nord della Siria non ha mai incontrato il favore della sinistra araba: sospettati di essere troppo vicini agli americani, ai curdi viene anche rimproverato dai movimenti progressisti, ancora molto legati al paradigma nazionalista arabo, di voler spartirsi la Siria – il tutto in uno scenario regionale fortemente frammentato da Stati-nazione iracheni e libici.
È per questo che oggi la sinistra araba appare così debole e divisa. Occorre, però, sottolineare che la loro crisi si inserisce anche nel contesto di “una destrizzazione del mondo” e di una crisi globale della sinistra: la perdita di spinta, se non la totale scomparsa di un vasto movimento no global che ha avuto il suo periodo di massimo splendore negli anni 2000, è solo un segnale tra gli altri. Ciò non significa, come cerca di dimostrare il presente dossier, che la sinistra non abbia più nulla da dire sul mondo arabo e sulla geopolitica regionale, e che la sua eredità sia perduta o che non ci sarà chi ne raccoglierà il testimone. La ricostruzione dei movimenti sindacali nel mondo arabo o l’assunzione delle istanze ecologiche (come, ad esempio, in Libano dopo la “rivolta dei rifiuti” del 2015) rappresentano, d’ora in avanti, dei cantieri aperti per la sinistra araba. Ma, per il momento, l’unico punto in comune tra le varie sinistre arabe fortemente indebolite resta la questione palestinese, l’unica su cui non si sono divise: è come se la spinta anticoloniale a sostegno della causa palestinese fosse ancora oggi l’unica questione a creare un orizzonte comune nel mondo arabo.
2 dicembre 2023
Nicolas Dot-Pouillard*
(Traduzione dal francese di Luigi Toni)
* Nicolas Dot-Pouillard è ricercatore associato presso l’Istituto Francese del Vicino Oriente (Ifpo) e consulente per varie organizzazioni internazionali. Vive a Beirut ed è autore di tre libri: Tunisie, la révolution et ses passés (Iremmo/ Le Harmattan, 2013), De la théologie à la libération. Histoire du Jihad islamique palestinien (con Wissam Alhaj e Eugénie Rébillard, La Découverte, 2014), La Mosaïque éclatée. Une histoire du mouvement national palestinien, 1993-2016 (Actes Sud, 2016).
(Tratto da: https://orientxxi.info/dossiers-et-series/la-sinistra-nel-mondo-arabo-tra-passato-e-presente,6911).
Note
1 Mike Davis, Fear and money in Dubai, in «New Left Review», 2006.
2 Laure Guirguis, The Arab Lefts. Histories and Legacies, 1950s–1970s, Edinburgh University Press, 2022; Laura Feliu et Ferran Izquierdo Brichs, Communist Parties in the Middle East. 100 Years of History, Routledge, London, 2019.
3 Georges Battal, Ana al-Shuyû’i al-wahîd (“Je suis le seul communiste”), Dar al-Mada, Baghdad, 2019. Georges Battal era un ex membro dell’ufficio politico del Partito comunista libanese.
4 Qui inteso come classe borghese senza autonomia materiale e soggiogata agli interessi del capitale esterno. [NdT].
5 Sull’affermazione nazionalista che ha motivato l’adesione ideologica al marxismo sotto Nasser, poi andata progressivamente attenuandosi sotto Sadat, si veda Gennaro Gervasio, Da Nasser a Sadat. Il dissenso laico in Egitto, Jouvence, 2007.
6 Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, 2014.
7 Autore di A History of Intellectual Movements in Islam (1928). Cfr. Simone Sibilio, Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese, Edizioni Q, p. 86. Si veda anche Camera D’Afflitto I., Cento anni di cultura palestinese, Carocci, 2007, pp. 35-6.
8 Il Mashrek, detto anche Mashriq o Mashreq, è l’insieme dei paesi arabi che si trovano a est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica. [NdT].
Inserito il 03/01/2024.
Yanis Varoufakis.
Fonte della foto: https://www.lettera43.it/yanis-varoufakis-moglie-altezza-libri-studi/
di Yanis Varoufakis
Le minacce commerciali dell’Unione Europea alla Cina sono ridicole; l’assoggettamento della politica europea agli interessi economici e geopolitici degli Stati Uniti è un triste sintomo della pochezza dei vertici politici dell’UE.
L'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis svela il bluff che i leader europei hanno giocato con la Cina nell’incontro con il presidente Xi Jinping: lamentandosi per gli squilibri di ordine commerciale e minacciando chiusure alle importazioni dalla Cina. Ma il problema è l’Europa, più che la Cina.
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Il pessimo bluff dell’Europa con la Cina
di Yanis Varoufakis
ATENE – Il 7 dicembre, i Presidenti del Consiglio Europeo e della Commissione Europea, Charles Michel e Ursula von der Leyen, hanno partecipato al 24° Summit Unione Europea-Cina per comunicare un severo messaggio al Presidente cinese Xi Jinping. Agli occhi dell’opinione pubblica europea ed americana, e nel contesto di una nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, è sembrato che le massime autorità dell’UE volessero aggregarsi alle pressioni americane sulla Cina lanciando minacce credibili sulla base di quattro lamentele. Ahimè, le autorità cinesi sono rimaste probabilmente più divertite che allarmate da quello che hanno udito.
La prima lamentela dell’UE riguarda il “commercio squilibrato”. Von der Leyen l’ha espressa in modo colorito sostenendo che “ogni tre container che vanno dalla Cina all’Europa, due tornano vuoti”.
Ovviamente, non c’è dubbio che i perduranti squilibri commerciali possano ben riflettere una strategia mercantilista per surplus permanenti. Ma l’UE che accusa la Cina di mercantilismo è piuttosto ridicolo. Nel decennio passato, il surplus del conto cinese delle partite correnti è stato in media dell’1,65%, mentre quello dell’eurozona si collocava al 2,24%. Nello stesso periodo, il principale motore dell’economia europea, la Germania, registrava uno strabiliante surplus del 7,44%.
La seconda lamentela dell’UE è che gli aiuti di Stato della Cina comportano vendite a basso prezzo delle esportazioni cinesi sui mercati dell’Europa. Indubbiamente, una tale lamentela aveva senso negli ultimi anni ’90 e nei primi anni 2000, quando, lungi dal lamentarsi per i bassi prezzi cinesi, l’UE – assieme agli Stati Uniti – si mostrava estasiata dall’introduzione della Cina nei circuiti occidentali dei commerci e dei capitali. Ma perché sollevare questa lamentela adesso, quando l’accusa di mercantilismo ha in realtà perso il suo fondamento?
Dopo tutto, le batterie o i veicoli elettrici cinesi sono competitivi in Europa non a causa dei sussidi ma a causa dei massicci investimenti cinesi nella loro produzione. Semplicemente, oggi i pannelli solari cinesi hanno raggiunto una qualità che l’Europa non può eguagliare, con o senza aiuti di Stato.
La Volkswagen, uno dei maggiori produttori di automobili all’interno della Cina [la Wolkswagen Group China, ndt], era solita importare sia componenti che robot industriali tedeschi. Oggi, la Volkswagen si procura tutte le componenti e i beni strumentali di cui ha bisogno per produrre automobili in Cina dalla Cina stessa, aumentando così i problemi commerciali dell’Europa.
E non è solo il surplus commerciale che si è invertito. Dopo essersi affidata per decenni a ingegneri tedeschi per progettare le sue automobili, la Volkswagen ha in corso l’assunzione di 3.000 ingegneri cinesi per la prossima generazione di auto interamente elettriche che essa programma di vendere in Cina e in Europa. Più in generale, a partire dal 2008, mentre l’UE stava imponendo una rigida austerità in tutta l’Europa, minimizzando in quel processo gli investimenti nelle sue industrie, la Cina stava sostenendo i suoi investimenti con una percentuale del suo reddito nazionale da record mondiale, del 50%.
Incolpare il mercantilismo cinese insospettisce, in particolare tra gli industrialisti tedeschi che hanno passato gli ultimi 50 anni sostenendo che il perdurante surplus commerciale della Germania col resto del mondo rifletteva la domanda globale per i prodotti di alta qualità tedeschi. Qualsiasi cosa la von del Leyen dica ai leader cinesi, questi stessi industrialisti sanno che le loro controparti cinesi che producono pannelli, solari, batterie e veicoli elettrici si sono guadagnati il diritto di avanzare una pretesa simile.
La terza lamentela di Michel e di von der Leyen è che le imprese europee hanno difficoltà nell’assicurarsi i contratti con il Governo cinese. Assieme alle due precedenti lamentele, queste sono le basi sulle quali i dirigenti dell’UE hanno costruito i loro argomenti a favore di misure punitive contro gli esportatori cinesi – in particolare, alte tariffe sui veicoli elettrici (e più in generale sulla tecnologia verde). Ma, mentre quei dirigenti citano l’indagine formale sui veicoli elettrici che è già in corso a Bruxelles, tutto ciò non sembra convincente.
I leader industriali europei con i quali ho parlato in privato ammettono che essi considerano queste minacce come la prova del panico tra i leader europei, nel momento in cui hanno compreso che l’Europa ha perso competitività in settori cruciali. Uno di loro si è chiesto retoricamente: “La von der Leyen crede davvero che la minaccia delle tariffe sui veicoli elettrici della BYD [produttore cinese di automobili, ndt] incoraggerà le esportazioni [europee] in Cina?”.
Di sicuro, le imprese europee si lamentano di una competitività distorta in Cina, in particolare quando si tratta degli appalti pubblici. Ma non possono comprendere come la situazione cambierà, in seguito alle enormi pressioni statunitensi, se i governi dell’UE escluderanno sempre più le società cinesi dai loro appalti. “Per non dire”, come uno di essi si è confidato con me, “che gli stessi governi dell’UE, a partire dalla pandemia, hanno fatto propri la politica degli aiuti statali come se non ci fosse un domani.”
La quarta lamentela che Michel e von der Leyen hanno espresso a Xi è stato l’insufficiente sostegno della Cina alle sanzioni dell’UE alla Russia, nel tentativo di fare un fronte comune per porre fine alla brutalità dell’esercito russo in Ucraina. A parte la questione dell’efficacia delle sanzioni, questa accusa mostra semplicemente ipocrisia: si condannano i bombardamenti degli ospedali e le fonti di acqua, di elettricità e di generi alimentari da parte di Putin (come tutti noi dovremmo fare) mentre si resta silenziosi quando Israele fa lo stesso, forse assai peggio, a Gaza.
Ovviamente, non è l’ipocrisia che sta provocando l’emorragia di capitali dell’Europa e la perdita del suo surplus di conto delle partite correnti. È la insulsa gestione della crisi inevitabile dell’euro di un decennio fa da parte dell’UE che l’ha provocata. I livelli di austerità da record, raddoppiati dalla massiccia creazione di moneta e dalla cronica incapacità di istituire una unione bancaria e dei mercati dei capitali, che ha fatto in modo che per i successivi 13 anni l’Europa avrebbe avuto una quantità di denaro senza precedenti e bassi investimenti nelle tecnologie del futuro, anch’essi senza precedenti. Questa è la ragione per la quale l’Europa sta rimanendo indietro sia rispetto agli Stati Uniti che alla Cina. Rispondere con la sottomissione all’America e con vuote minacce rivolte alla Cina è al tempo stesso triste e inutile.
24/12/2023
Yanis Varoufakis
(Tratto da: https://www.yanisvaroufakis.eu/2023/12/24/europes-bad-china-bluff-project-syndicate-op-ed/).
Inserito il 31/12/2023.
Charles Michel, Xi Jinping, Ursula von der Leyen.
Foto: Ansa.
Fonte della foto: https://www.rainews.it/articoli/2023/12/von-der-leyen-a-pechino-la-cina-garantisca-accesso-equo-ai-mercati-62d11e4f-7c24-40bb-a604-aa20417d3ff2.html
Sahra Wagenknecht (n. 1969).
Fonte della foto: https://openlibrary.org/authors/OL1498476A/Sahra_Wagenknecht
di Thomas Wieder
Lo spazio lasciato vuoto a sinistra dalla SPD non è mai stato occupato da Die Linke. La questione sociale torna ad essere centrale in un Paese uscito da anni di forte crescita. La scissione di Sahra Wagenknecht e la pressione sociale ed elettorale della destra presentano scenari imprevedibili per la sinistra tedesca.
Ne parla il corrispondente da Berlino del quotidiano francese «Le Monde».
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La crisi della sinistra tedesca
Un nuovo logo, nuovi volti e la martellante promessa di un «nuovo inizio». Riunitosi in congresso ad Augusta (Germania) dal 16 al 18 novembre, il partito di sinistra Die Linke ha lavorato duramente per smentire coloro che lo danno in uno stato di morte clinica dopo la clamorosa uscita della sua figura più popolare dal punto di vista mediatico, Sahra Wagenknecht. In aperto conflitto con la direzione, l’ex vicepresidente del partito ha deciso di sbattere la porta e di fondare un nuovo movimento il 23 ottobre, portando con sé nove deputati su trentotto. A causa di questa divisione, Die Linke non ha più abbastanza eletti per mantenere il suo gruppo al Bundestag. Dal 1960, è la prima volta che un gruppo parlamentare scompare nel corso di una legislatura.
La rottura tra Wagenknecht e Die Linke è un sintomo della profonda crisi che attraversa la sinistra tedesca, di fronte a una forte erosione della propria base elettorale, in concorrenza con un’estrema destra più che mai attrattiva e chiamata a dare risposte alle domande che oggi sono centrali nel dibattito pubblico, quello sull’immigrazione in primo luogo.
Per fare il punto su questa crisi dobbiamo tornare alle origini di Die Linke. Questa formazione politica nasce dalla fusione tra il Partito del Socialismo Democratico (PDS), erede del partito al potere nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR) dal 1949 al 1990, e l’Alternativa Elettorale per il Lavoro e la Giustizia Sociale, una variegata alleanza di partiti di sinistra socialdemocratici, neomarxisti e antiglobalizzazione della Germania occidentale. Die Linke si è formata inizialmente come gruppo nel Bundestag dopo le elezioni legislative del 2005, prima di diventare un partito nel 2007. Due anni dopo, ha ottenuto l’11,9% dei voti alle elezioni legislative, un punteggio che in seguito non ha mai superato. Poco sotto il 10% nel 2013 e nel 2017, è crollata nel 2021 (4,9%).
Se gli inizi furono promettenti, fu perché Die Linke seppe occupare, a sinistra, lo spazio lasciato vacante dal Partito Socialdemocratico (SPD). Gli anni 2002-2005, quelli del secondo mandato di Gerhard Schröder come cancelliere, furono un punto di svolta da questo punto di vista.
Furono anni caratterizzati da riforme strutturali di ampia portata, in particolare dalle leggi Hartz sul mercato del lavoro, che in effetti permisero all’economia tedesca una ripresa duratura, ma all’epoca furono difficili da gestire a livello sociale. Più social-liberale che socialdemocratico, l’agenda del 2010 di Schröder ha spostato la SPD verso il centro, dove è rimasta da allora.
Elettoralmente, però, lo spazio rimasto vacante a sinistra non si è mai trasformato in una passeggiata per Die Linke. Anche se l’SPD è in declino, non è crollata come il Movimento Socialista Panellenico (Pasok) in Grecia o il Partito Socialista in Francia, il che spiega in parte perché Die Linke non ha vissuto l’ascesa di Syriza o di La France Insoumise, nonostante il suo buon inizio.
Per Sahra Wagenknecht la ragione di questo fallimento è altrove. Secondo lei, Die Linke si è smarrita diventando l’archetipo di una «sinistra lifestyle», che pretende di essere «morale» ma dimentica il «sociale», che «vuole vietare la carne e guidare le auto elettriche», e che si è trasformata, allontanandosi dalle «categorie popolari» per parlare solo ai «radical-chic delle grandi città» e ai «figli annoiati dell’epoca della prosperità». Ai suoi occhi, questa «deriva verso il liberalismo di sinistra» spiega perché i partiti di sinistra hanno perso «interi settori del loro elettorato», facendo del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) il nuovo «partito dei lavoratori», come lei deplora nel suo discorso-libro Die Selbstge rechte («L’ipocrita», Campus Verlag, 2021, non tradotto), che ha avuto un grande successo di vendite.
Il dibattito sollevato da Wagenknecht va oltre la Germania e si estende a tutta la sinistra europea. Ma l’ex vicepresidente di Die Linke è andata ben oltre nelle sue conclusioni, mostrando in particolare posizioni molto ferme sull’immigrazione. Nel 2015 fu una delle poche a sinistra a criticare l’allora cancelliere Angela Merkel per la sua politica di accoglienza dei rifugiati e, da allora, non ha mai perso occasione per attaccare «l’ingenuità e la buona coscienza» di chi pretende «confini aperti».
Ideologicamente, ciò rende difficile la sua collocazione. All’interno della PDS e poi di Die Linke fu la leader dell’ala più a sinistra, la Piattaforma Comunista, che si definiva «marxista-leninista» e assunse parte dell’eredità della DDR. Ammiratrice dell’ex leader laburista britannico Jeremy Corbyn, lettrice del filosofo francese Jean-Claude Michéa, oggi difficilmente cita l’autore del Capitale. Secondo Thorsten Holzhauser, storico della Fondazione Theodor-Heuss, la sua difesa del «conservatorismo di sinistra, un misto di nazionale e sociale», la avvicina alla bulgara Kornelija Ninova o allo slovacco Robert Fico, con cui condivide posizioni filo-russe, che ha espresso moltiplicando le richieste di pace in Ucraina e opponendosi alla sua entrata nell’Unione Europea.
Con la sua uscita, il posizionamento di Die Linke diventa più chiaro attorno a una linea ultra-progressista sui diritti delle minoranze, sul clima e sull’accoglienza dei migranti, incarnata da Carola Rackete, sostenitrice di una lotta ecologica ed ex capitano della nave umanitaria Sea-Watch, che sarà capolista per le elezioni europee del giugno 2024, insieme al presidente del partito, Martin Schirdewan.
Al suo interno, anche coloro che difendono questa enfasi sui temi di moda sui social invitano, però, a non perdere di vista la questione sociale, che torna ad essere una questione importante in una Germania che esce da anni di forte crescita, è preoccupata per il futuro della sua industria e teme per la sua prosperità. Su questo punto Die Linke e Sahra Wagenknecht concordano: è a questa Germania, corteggiata dall’estrema destra, che la sinistra deve rivolgersi e offrire speranza.
Thomas Wieder (corrispondente da Berlino)
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Thomas Wieder, En Allemagne, la crise de la gauche et ses résonances, in «Le Monde», Anno 79°, N. 24539, 25 novembre 2023).
Inserito il 03/12/2023.
Moni Ovadia (n. 1946).
Fonte della foto: Pagina ufficiale di Moni Ovadia su Facebook.
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«Si sta rispondendo a un orrore con un crimine. I morti di Gaza sono benzina per il terrorismo. Netanyahu? Un fascista. Chi usa la Shoah per giustificare le azioni di Israele è il peggiore degli antisemiti. Due Stati? Scemenze».
Moni Ovadia è attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero che non ha paura di “provocare”. In particolare quando si parla di guerra, d’Israele e di Palestina. Ed è un ebreo “scomodo”. «Il popolo palestinese vive in prigione e in una condizione infernale: questo scatena la rabbia del mondo arabo. E l’Occidente mostra il suo doppiopesismo, sempre pronto a imputare la ferocia ai palestinesi, ma non batte ciglio sulla loro condizione di segregazione».
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“Seguo la lezione di Mosè, non sono un traditore”
Intervista a Moni Ovadia
Moni Ovadia è attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero che non ha paura di “provocare”. In particolare quando si parla di guerra, d’Israele e di Palestina. Ed è un ebreo “scomodo”. “Il popolo palestinese vive in prigione e in una condizione infernale: questo scatena la rabbia del mondo arabo. E l’Occidente mostra il suo doppiopesismo, sempre pronto a imputare la ferocia ai palestinesi, ma non batte ciglio sulla loro condizione di segregazione”.
Subito dopo l’attacco di Hamas aveva affermato, controcorrente: “Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esista, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano e la comunità internazionale è complice”, aggiungendo che “questa è la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione. La Striscia di Gaza non è un territorio libero, è una gabbia, una scatola di sardine: è vero che dentro non ci sono gli israeliani, ma loro controllano comunque i confini marittimi e aerei, l’accesso delle merci, l’energia, l’acqua. La comunità internazionale è schifosamente complice. Non a caso l’Onu aveva già dichiarato Gaza zona ‘non abitabile’. La situazione è vessatoria, dirò di più: è infernale”. Per poi rimarcare che la morte anche di una sola persona, “sia essa israeliana o palestinese”, è sempre una tragedia e va condannata con tutte le forze.
Moni Ovadia, come ci si sente quando si parla di lei come di un “traditore” d’Israele e del popolo ebraico sotto attacco di Hamas?
Queste accuse le ricevo da quando, dopo l’assassinio di Rabin, ho affermato, e ne resto convinto ancora oggi, che i peggiori nemici degli israeliani sono gli israeliani stessi. Mi riferisco ai governi e alla parte maggioritaria della società. Nel momento in cui l’unico totem intorno al quale ti prosterni è la forza, sei già perduto, come si vede adesso. Mi hanno detto di tutto. Mi hanno anche minacciato di morte. Io ho imparato una cosa dal magistero di Mosè.
La prendiamo da lontano, ma va bene. Cosa ha imparato?
Quando Mosè scese con le tavole dal monte, tutti gli ebrei erano inginocchiati davanti al vitello d’oro. Era rimasto un solo uomo a difendere l’ebraismo: Mosè. Si parva licet… Io sono passato dall’essere non sionista ad essere antisionista. Perché il sionismo è un pensiero idolatrico. E l’idolo che adora è la terra. Un importante rabbino antisionista è solito dire: perché Dio ha dato il sabato, shabbat, agli ebrei e non agli altri popoli? Perché gli altri popoli sono idolatri della terra. Sono caduti nella trappola dei nazionalisti.
Come definirebbe ciò che da venti giorni sta accadendo nella Striscia di Gaza?
Si risponde ad un orrore, l’assassinio di civili inermi, perché quello è sempre un orrore, chiunque lo faccia contro chiunque. Ammazzare civili inermi è una cosa inaccettabile. La risposta di Netanyahu, come era prevedibile, è una risposta criminale. Ammazza civili innocenti, tanto poi quelli di Hamas si riorganizzeranno, ricevendo finanziamenti da ogni parte. L’islamismo wahabita finanzia questi movimenti e così una parte del mondo arabo. Hamas continuerà ad essere finanziato, mentre i palestinesi innocenti moriranno. I bambini, le donne, gli anziani, mentre Hamas si rafforzerà. Il terrorismo aumenterà a dismisura con tutti questi morti a Gaza. Stiamo parlando di una terra che è già un inferno, un lager. In più massacrati, senza elettricità, senza luce. Gaza vive così, in una condizione di lager, da oltre mezzo secolo. Da oltre mezzo secolo, se non da 75 anni, i palestinesi vivono sotto occupazione. Per averlo ricordato, Guterres è stato crocifisso. Ciclicamente, gli israeliani bombardano e la situazione peggiora sempre di più. Benny Gantz, che ora si è buttato in politica, quando era capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, si vantava: li abbiamo riportati all’età della pietra. Quando ragioni così, hai smesso – questo è quel che penso – di essere ebreo. Non te ne sarai accorto, ma hai smesso di essere ebreo.
Perché?
La Torah è un grande libro. Che prima parla degli esseri umani e poi parla degli ebrei. Prima devi essere un vero essere umano, in ebraico la parola essere umano si dice “Ben Adam”, figlio di Adamo. Non c’entrano gli ebrei. Essere umano è “Ben Adam”. Perché noi, secondo la Torah, discendiamo tutti dalla stessa matrice, tutti gli uomini della terra scendono da questa matrice, Ben Adam. Non solo. I maestri di un bellissimo libro ebraico, Pirké avòt, “Massime dei Padri”, affermano: perché è stata detta una cosa apparentemente così insensata, che tutti gli uomini discendono da un suolo uomo? E sa qual è la risposta?
Qual è?
I maestri rispondono è stato fatto per la pace. Perché nessun essere umano possa dire ad un suo simile: il mio progenitore era migliore del tuo.
In questi giorni di guerra si torna, lo ha fatto anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a riesumare la soluzione a due Stati…
È una scemenza. Una scemenza che serve ai diplomatici ipocriti, falsi, per evitare il vero problema. Oggi c’è solo una soluzione possibile…
Vale a dire?
Uno Stato binazionale. Quello in cui io credo fermamente. Stesso Stato, stessi diritti. Una democrazia per i due popoli. Libertà religiosa. Quello che è una vera democrazia. Non quella israeliana. Quella israeliana è una democrazia etnica. Quando si dice e scrive “unica democrazia del Medio Oriente”, c’è da scompisciarsi dal ridere. Democrazia per gli ebrei. Subito dopo l’approvazione, nel 2018, della legge su Israele, Stato-nazione del popolo ebraico, Israele è diventato una “democratura”. Un mio amico israeliano, di cui non faccio il nome perché non voglio causargli guai, mi disse una volta: se Israele va avanti così diventerà l’Iran degli ebrei. Anche perché gli ebrei laici finiranno per andarsene.
Quanta responsabilità ha in tutto questo Benjamin Netanyahu?
Benjamin Netanyahu è un fascista. Nel senso stretto della parola. È un vero fascista. Un uomo che crede nella supremazia di alcuni rispetto agli altri. Viene dal revisionismo sionista, che era un sionismo di estrema destra, quello ispirato da Vladimir Zèev Jabotinsky, di cui il padre di Netanyahu fu adepto e segretario. Ben Gurion li chiamò fascisti. Netanyahu ha dimostrato che il sionismo revisionista è quella roba lì, fascismo. Una volta Ehud Barak, già primo ministro d’Israele, il militare più decorato nella storia dello Stato d’Israele, ebbe a dire, in una bellissima intervista concessa a Gideon Levy: se fossi nato a Gaza, se fossi stato palestinese, forse sarei stato un terrorista. Si può togliere il forse. È la stessa cosa che ebbe a dire Andreotti. Però se lo dico io sono un nemico del popolo ebraico, un assassino. Una volta mi è stato detto: Moni Ovadia studia l’yiddish per ammazzare più ebrei. Io non mi occupo di psicopatologia. Tutto questo non ha niente di politico. Non è un discorso sul piano della logica. È psicopatologia. Ci sono alcuni ebrei, anche in Italia, che vivono come se vivessero a Berlino nel 1935. Quando mai gli ebrei hanno avuto un esercito tra i più potenti al mondo? Quando mai? Quelli che usano la Shoah per giustificare Israele nelle sue azioni, li considero i peggiori antisemiti. Perché è come sputare sulle ceneri dei nostri morti, che erano davvero indifesi e abbandonati. Israele non solo è armato fino ai denti, anche con le testate atomiche, ma ha gli alleati più potenti della terra, gli Stati Uniti in primis. Gli antisemiti sono quelli. Quelli che coprono i crimini dell’oggi con la immane tragedia del secolo scorso. È un atto di blasfemia infame, tirare in campo ebrei che erano davvero indifesi, davvero vittime. C’è una differenza tra vittime e vittimisti.
Quale sarebbe?
Il vittimismo lo facevano anche i nazisti. Noi dobbiamo ammazzare gli ebrei, sterminarli, perché sennò quelli ci distruggono. Questo era il mantra dei nazisti. Perché ve la prendete con gli ebrei, cosa vi hanno fatto di male? Vogliono distruggere la Germania e impossessarsi del mondo. La propaganda di Goebbels si fondava su questo. Un vittimismo criminale che fece presa sui tedeschi.
Oggi quando tu dici distruggi mezza Gaza, e poi dici è successa questa cosa, chi è stata la vittima? Gli israeliani, ti dicono loro. Guai a questo vittimismo. Ricordo un’affermazione di un grande intellettuale palestinese scomparso, Edward Said: “la tragedia dei palestinesi è essere vittime delle vittime”. Che è altra cosa dal vittimismo giustificato, quando gli ebrei si dicevano giustamente vittime. Ma adesso, con non so quante centinaia di testate nucleari?
A proposito di immagini che lasciano un segno importante di speranza. Cosa ha provato nel vedere quel breve filmato dell’anziana signora israeliana, rapita il 7 ottobre da quelli di Hamas…
Ha detto shalom a quelli di Hamas. In ebraico le direi, abbracciandola se potessi farlo, kol akavod, tutto l’onore. Quella donna, in quella parola ha concentrato tutto il senso che noi dovremmo invocare per arrivare alla pace. E vedevo con che tenerezza l’uomo di Hamas le stringeva la mano per congedarla. Siamo in mezzo agli esseri umani. Anche il più feroce è un essere umano. Se non capiamo questo, siamo persi. Poi ho provato una grande emozione alle parole di Guterres. Naturalmente gli hanno dato subito dell’antisemita.
Le dico, in conclusione, come definirei in un dizionario l’antisemitismo. Metterei due voci. Una, quella vera. E l’altra direi: chiunque si opponga alla richiesta di totale impunità dei governi israeliani. I governi israeliani non vogliono difendersi. Vogliono avere l’impunità totale qualsiasi cosa facciano. Dispiace di essere così duro. Ma è ora di finirla con gli understatement. Vorrei dirlo anche a tanta brava gente che parla di pace. Però essendo stati understate hanno permesso agli israeliani di andare avanti fino a questo punto. I palestinesi sono le vittime. Fuori di ogni discussione. Ma la catastrofe sarà per gli israeliani. Quando imbocchi la strada dell’integralismo etnico-religioso, quando ai coloni criminali permetti di fare scorribande bruciando le case dei palestinesi, loro fanno i pogrom. Ma se li fanno gli ebrei, tutti zitti. Io non sono così.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da: Umberto De Giovannangeli, Parla Moni Ovadia: “Seguo la lezione di Mosè, non sono un traditore”, in «l’Unità», 28 Ottobre 2023).
Inserito il 05/11/2023.
Benjamin Netanyahu (n. 1949).
Fonte della foto: https://www.esquire.com/news-politics/politics/a45499605/haaretz-times-of-israel-netanyahu-critiques/
Come è successo per la guerra russo-ucraina, anche per il nuovo conflitto scoppiato in Medio Oriente, se qualcuno si azzarda a uscire dal coro di chi vuol dividere il mondo in buoni e cattivi viene ricoperto di fango, espulso da certe trasmissioni, invitato a dimettersi da certe istituzioni, emarginato e additato come «amico dei terroristi di Hamas» o «amico di Putin», che alla fine è lo stesso…
La miccia della nuova crisi israelo-palestinese è stata riaccesa il 7 ottobre 2023 dalle incursioni terroristiche di Hamas con stragi di civili e presa di centinaia di ostaggi, a cui è seguita la forte risposta del governo di destra israeliano, con bombardamenti a tappeto della “striscia di Gaza”, stragi di civili, chiusura dei confini, taglio di rifornimenti di acqua ed energia.
Il giorno successivo, mentre in Italia e in Europa (fari di civiltà) si issavano sui municipi bandiere con la stella di David accanto a quelle ormai stinte dell’Ucraina e si esaltava la dura reazione di Benjamin Netanyahu, che prometteva di cancellare Hamas a costo di cancellare tutta Gaza (e guai ad alzare il ditino per esprimere un dubbio sulla legittimità di tale risposta!), in quelle terre disastrate il quotidiano «Haaretz», uno dei più diffusi di Israele, si permetteva a caldo un editoriale contenente una lucida analisi sulle reali responsabilità del precipitare della situazione fino a un punto forse di non ritorno.
Riprendiamo la sintesi che di quell’editoriale dà il sito del giornale «Il Fatto Quotidiano», uno dei pochi organi di stampa italiani a dar voce anche a chi non partecipa ai cori “mainstream”.
L.C.
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“Netanyahu responsabile con il suo governo di annessione”: le critiche di «Haaretz» al primo ministro israeliano
“Il disastro che si è abbattuto su Israele durante la festività della Simchat Torah è chiaramente responsabilità di una persona: Benjamin Netanyahu”. Non usa mezzi termini l’editoriale apparso l’8 ottobre sul quotidiano israeliano «Haaretz»: per il quotidiano notoriamente progressista la causa principale dell’attacco di Hamas è il primo ministro israeliano e, più nello specifico, il “governo di annessione ed esproprio” che ha istituito dopo aver vinto di misura le ultime elezioni. Netanyahu, sostiene l’editoriale, “si vantava della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza”, ma “ha completamente fallito” nel comprendere verso quali pericoli stava conducendo Israele quando ha messo in piedi il governo più a destra della storia del paese, con gli estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir nominati in posizioni chiave e “una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi”.
“Netanyahu cercherà certamente di sottrarsi alle proprie responsabilità”, continua l’editoriale, “incolpando i vertici dell’esercito, dell’intelligence militare e del servizio di sicurezza Shin Bet”. Non che tali istituzioni siano prive di colpe, avendo queste sottostimato la probabilità di un’escalation. Un errore simile a quello compiuto dai loro predecessori alla vigilia della guerra dello Yom Kippur: “Deridevano il nemico e le sue capacità militari offensive”. Insomma, gli errori dell’intelligence e delle Forze di difesa israeliane verranno certamente a galla nelle prossime settimane, e un eventuale richiesta di sostituirli sarà certo “giustificata”. E tuttavia, sostiene l’editoriale, “il fallimento militare e dell’intelligence non assolve Netanyahu dalla sua responsabilità generale per la crisi”.
Il premier è infatti “l’arbitro ultimo degli affari esteri e di sicurezza israeliani”, ruolo in cui certamente Netanyahu non è un principiante, “come lo era Ehud Olmert nella seconda guerra del Libano”. E anche per quanto riguarda la materia militare, Bibi non sarebbe affatto ignorante, “come affermavano di essere Golda Meir nel 1973 e Menachem Begin nel 1982″. E tuttavia, il premier avrebbe commesso un errore fondamentale: quello di mettere da parte le posizioni caute sposate in passato, quando diceva di voler evitare guerre e vittime, abbracciando invece “la politica di un ‘governo completamente a destra’”.
Ed ecco che Bibi ha esplicitamente adottato misure “per annettere la Cisgiordania, per effettuare la pulizia etnica in parti dell’Area C definita dagli accordi di Oslo, incluse le colline di Hebron e la valle del Giordano”. A ciò si aggiunge “una massiccia espansione degli insediamenti e il rafforzamento della presenza ebraica sul Monte del Tempio, vicino alla Moschea di Al-Aqsa”. E ancora, il premier si sarebbe vantato “di un imminente accordo di pace con i sauditi da cui i palestinesi non avrebbero ottenuto nulla”. Tutte mosse che, secondo l’editoriale, non potevano non riaccendere le ostilità, cominciate in Cisgiordania e poi proseguite con l’attacco a sorpresa di Hamas.
E sul motivo per cui Netanyahu ha istituito “questa orribile coalizione” e ha intensificato le misure contro i palestinesi l’editoriale non ha alcun dubbio. “Un primo ministro incriminato per tre casi di corruzione” – continua infatti l’articolo – “non può occuparsi degli affari di stato, poiché gli interessi nazionali saranno necessariamente subordinati alla sua liberazione da una possibile condanna e dalla pena detentiva”. Di qui anche il “colpo di stato giudiziario” avanzato da Bibi, ossia la nuova riforma della giustizia, nonché “l’indebolimento degli alti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti, che erano percepiti come oppositori politici”. Insomma, Bibi non avrebbe pienamente compreso i pericoli cui condannava Israele mentre tentava di difendere la sua posizione. “Il prezzo”, ha concluso l’editoriale, “è stato pagato dalle vittime dell’invasione del Negev occidentale”.
«Il Fatto Quotidiano», 8 ottobre 2023
Inserito il 16/10/2023.
Karim Kattan (n. 1989).
Fonte della foto: https://www.fanpage.it/esteri/gaza-il-racconto-dello-scrittore-palestinese-karim-kattan-siamo-tutti-vittime-dellattacco-di-hamas/
Intervista a cura di Riccardo Amati
«Riconoscere un orrore non significa minimizzarne un altro», dice l’intellettuale. Egli ritiene quello di Israele «un colonialismo feroce» e al tempo stesso condanna la carneficina fatta dei terroristi. Nei territori occupati «regnano rabbia e disperazione». E il fondamentalismo «ha poco a che fare con la liberazione della Palestina».
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Gaza, lo scrittore palestinese Karim Kattan: “Israele colonialista feroce, ma il fondamentalismo non libera la Palestina”
«Fin da ragazzo, all’ombra del muro dell’apartheid a Betlemme, ho provato un senso di vulnerabilità, mi sono sentito indifeso»; ricorda Karim Kattan: «Gli stessi sentimenti confusi li provo oggi più forti». L’autore di Les Palais des deux collines, successo letterario in Francia, racconta a Fanpage.it come si vive da colonizzati e spiega che chiamare le cose con il loro nome «evitando i superlativi e privilegiando le sfumature» può essere «un mezzo di riscatto per colonizzati e colonizzatori». «I morti rimarranno morti e i mutilati saranno mutilati anche quando l’attenzione del mondo si volgerà altrove», dice del conflitto. E chiede all’Europa di pretendere la fine immediata del blocco di Gaza. Mentre «Israele deve finalmente render conto di ogni violazione del diritto internazionale».
Come si è sentito dopo gli attacchi di Hamas e la reazione di Israele?
Difficile esprimerlo, è tutto talmente estremo. Mi sento senza parole. E non posso davvero separare il periodo di questi giorni da altri periodi che l’hanno preceduto, in questa vicenda. Mi sento così da un pezzo, in realtà. È un sentimento intenso, duro da provare, che sfida il vocabolario perché si è sviluppato durante un lungo processo temporale di paure e aspettative. È un sentimento di impotenza, di disperazione, di vulnerabilità. Di essere indifeso e senza aiuto.
Vuol dire che, come palestinese, non ha provato soddisfazione per l’attacco terroristico a Israele? Non si è sentito meno impotente, meno vulnerabile?
Siamo tutti vittime collettive di ciò che ha fatto Hamas. La strage del Nova Festival (il rave party dove i terroristi hanno massacrato oltre 260 persone, ndr) è un orrore per israeliani e palestinesi. E ciò non significa ignorare il contesto: anche il feroce colonialismo di Israele è orrendo. Non c’è alcuna contraddizione. Riconoscere un orrore non significa minimizzarne un altro. Il destino del mio Paese e del mio popolo non può essere un gioco a somma zero. Perché il premio è la libertà della Palestina. Cosa che tra l’altro non implica necessariamente un perdente.
La politica di Israele nei vostri confronti è altrettanto orrenda quanto il massacro del rave party?
Vorrei evitare la conta dei morti da una parte e dall’altra. Non è proprio il momento per farla e comunque mi disgusta. Non si può distribuire il lutto tra chi se lo merita e chi no. Ogni singola vittima è una tragedia. Ma è chiaro che il rapporto di forza è asimmetrico e fortemente sbilanciato, e che i numeri rispecchiano necessariamente questa asimmetria. A sfavore dei palestinesi.
“Sapete chi vince nella guerra? Solo chi rimane vivo. Chi muore perde sempre, non importa di quale parte è”: è una frase di un suo collega, lo scrittore israeliano Roy Chen. Ha ragione?
Certo. E ci sono anche i feriti. I morti rimangono morti. I feriti non sempre guariscono. La morte di una persona ne colpisce decine, lascia in lacrime una famiglia e una comunità. E un ferito spesso significa un mutilato, con tutto quel che ciò implica anche economicamente e socialmente. Morti e mutilati resteranno morti e mutilati anche quando l’attenzione internazionale sulle nostre vicende si allontanerà.
Crede che ci sarà sempre la guerra tra israeliani e palestinesi?
C’è sempre stata una guerra contro di noi. Anche nei cosiddetti periodi di “calma”, quando i media sono meno interessati, la gente muore a Gaza, viene arrestata in Cisgiordania e così via. Ciò che dà la stabilità all’occupazione è la guerra contro i palestinesi. Quindi la guerra continua. Ma non sono così arrogante da tentare previsioni per il futuro.
Diceva del “feroce colonialismo di Israele”. Può elaborare?
Le realtà della colonizzazione sono quantificabili e verificabili: dall’assassinio alle mutilazioni, agli espropri, agli arresti. Con i conseguenti effetti psicologici. I mezzi che vengono utilizzati da Israele vanno dall’esercito ai posti di blocco, dagli insediamenti di coloni ai bombardamenti. Tra i più clamorosi, il blocco di Gaza a partire dal 2007. Tra i meno spettacolari, il crudele e umiliante sistema dei permessi che regolano la vita giornaliera dei palestinesi, o la divisione della Cisgiordania in diverse zone per facilitare gli insediamenti. Tutte cose che, insieme a molte altre, costituiscono il crimine contro l’umanità noto come apartheid, di cui numerose organizzazioni (tra queste, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, ndr) accusano Israele.
E com’è vivere da colonizzati?
È un mix di sentimenti confusi e strani. Tra i quali, certo, anche l’odio per l’oppressore e la gioia di vedere un muro cadere o un carro armato israeliano ribaltarsi. Questo non significa giustificare gli orrori di Hamas. Ma è chiaro che vedere un bulldozer buttar giù un pezzo del muro dell’apartheid ha un effetto, su un palestinese.
Lei da ragazzo abitava a Betlemme. Il muro dell’apartheid lo conosce bene…
La mia casa era proprio a ridosso del muro. Non riesco a ricordarmi la città prima che fosse deturpata da quella costruzione.
E com’era da ragazzini, all’ombra del muro?
Ricordo, per esempio, quando durante la Seconda Intifada (la rivolta dei territori occupati contro Israele iniziata nel 2000 e terminata nel 2005, ndr) Israele assediò la città. Andavamo a scuola illegalmente, eludendo il coprifuoco, evitando carri armati e posti di blocco, attraversando confini che in teoria non avremmo dovuto attraversare. Era una vita di costante pericolo, che per noi era diventato normale perché non avevamo scelta.
È fin da allora che ha sviluppato quel sentimento di impotenza e di mancanza di aiuto di cui parlava poco fa?
Certo.
Oggi ragazzi di Gaza sotto le bombe hanno sentimenti analoghi, secondo lei?
Credo di sì. Immaginatevi come dev’essere avere diciassette anni a Gaza. Per tutta la tua vita hai visto solo la guerra, hai vissuto in una prigione. E ora i bombardamenti, la mancanza di acqua. I tuoi familiari probabilmente morti. Non possiedi niente e vieni trattato come un paria da Israele e dal mondo intero.
E questo può portare alla radicalizzazione e alla violenza, ovviamente. Quanto conta il fondamentalismo, oggi, nella questione palestinese? È un mezzo un ostacolo per la creazione di un vostro Stato libero e indipendente?
È un problema ma non è il maggiore dei problemi. Prima di tutto bisogna vedere che cosa si intende per Palestina. Non c’è solo Gaza, dove governa Hamas. Ci sono i palestinesi di Gerusalemme. Ci sono quelli che vivono in Israele. E ci sono i palestinesi della Cisgiordania. Il cui governo è laico, buono o cattivo che sia come governo.
E lei è laico?
Sono cristiano. La mia è una famiglia cristiana di Betlemme. Sono cresciuto tra cristiani e musulmani senza che la questione religiosa venisse mai posta da alcuno. La rabbia, il sentirsi senza speranze e indifesi dalla violenza di Israele contro i palestinesi non dipendono da questioni religiose. Con questo non voglio dire che non ci sia stata una radicalizzazione, soprattutto a Gaza. Ma se è un ostacolo, non è il principale. La questione palestinese va oltre il fondamentalismo.
Lei si trova attualmente in Francia. Dove sono state vietate le manifestazioni pro-Palestina. Che ne pensa, di questo divieto?
Penso che sia pericoloso. Rende ancora più incandescenti gli animi. E mi fa sentire ancora più indifeso, per tornare al sentimento di cui più abbiamo parlato in questa intervista.
Cosa dovrebbe fare oggi l’Europa, per fermare la carneficina ed evitare che si ripeta?
Pretendere che venga tolto il blocco a Gaza, subito. E far sì che Israele renda conto delle sue violazioni del diritto internazionale. Ogni volta che lo viola.
E voi intellettuali, voi scrittori di una parte e dell’altra, come potete contribuire?
Usando parole precise per descrivere il mondo in modo accurato. In mezzo a questo sconquasso che è appena iniziato, in uno scenario politico e mediatico in cui imperversano i superlativi e le iperboli, le certezze e gli assoluti, sarebbe un atto rivoluzionario. Lo dico da scrittore e da umanista. L’umanesimo rende possibili nuance e contraddizioni. Rende possibile quindi riconoscere che le cose sono complicate, confuse e spesso insopportabili. E che pure dobbiamo cercar di comprenderle, con il coraggio di guardare in faccia la realtà. Sarebbe un mezzo di riscatto. Per i colonizzati come per i colonizzatori.
Inserito il 14/10/2023.
di padre Alex Zanotelli*
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Appello di padre Alex Zanotelli* ai giornalisti italiani
Rompiamo il silenzio sull’Africa.
Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto.
Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.
So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.
Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?
Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
Alex Zanotelli
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell’Africa e direttore della rivista «Mosaico di Pace».
Inserito il 30/07/2023.
Padre Alex Zanotelli.
a cura di Redazione Katehon
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Problemi del sistema finanziario statunitense
L’approccio per stimolare l’economia è chiamato politica monetaria o monetarismo. Il principale teorico della politica monetaria è stato l’economista liberale Milton Friedman, che l’ha formulata all’Università di Chicago negli anni Cinquanta. Friedman riteneva che la politica fiscale fosse largamente inefficace e sosteneva invece che l’offerta di moneta – la quantità di denaro in circolazione – fosse la chiave per mantenere un’economia stabile. Quando l’economia è debole, secondo Friedman, è necessario aumentare l’offerta di moneta. Con più denaro in circolazione, le imprese e i consumatori hanno più denaro da investire e da spendere, il che stimola sia la produzione che la spesa per beni e servizi. Friedman era favorevole al controllo privato dell’offerta di moneta, ma riconosceva anche che lo strumento per esercitare tale controllo era il Federal Reserve System (Fed) del governo. Il monetarismo, come teoria economica, presta attenzione solo all’effetto delle variazioni della quantità di moneta sul livello generale dei prezzi, rendendola una teoria puramente quantitativa al servizio dell’economia capitalista.
La Federal Reserve Bank fu fondata nel 1913, quasi mezzo secolo prima che venisse sviluppata la teoria monetaria liberale. La storia iniziale della Fed presenta diversi colpi di scena interessanti. Le origini della Fed risalgono al panico bancario del 1907, che minacciò il collasso del sistema bancario e con esso dell’economia americana. In relazione al panico bancario di quegli anni, emerse la parola “bankrupt”, quando furono le banche commerciali a fallire. “Bankrupt” significa letteralmente “banca fallita”. Per fare soldi, le banche prendevano depositi e poi li prestavano. Se una banca si tenesse tutto il denaro depositato, non sarebbe in grado di realizzare i propri profitti. Tuttavia, il fatto che le banche prestino la maggior parte delle loro attività significa che in qualsiasi momento hanno meno denaro di quanto devono ai loro depositanti. Se le persone, in una situazione economica tesa, si fanno prendere dal panico e pensano che il loro denaro non sia più al sicuro nella loro banca, si affretteranno a ritirarlo e la banca consegnerà presto tutto il contante che aveva in possesso. Altri depositanti sarebbero stati sfortunati e la banca sarebbe fallita, lasciandoli senza soldi. Questo è esattamente ciò che accadde nel 1907, e mentre una banca dopo l’altra chiudeva, il panico si diffondeva tra i depositanti. A questo punto John Pierpont Morgan, uno dei principali banchieri e finanzieri dell’epoca, riunì un gruppo di amici influenti e li convinse a mettere del denaro in un fondo da cui le banche avrebbero potuto prendere in prestito se avessero avuto problemi di liquidità. Il piano di Morgan funzionò e il panico si placò. Ma la decisione di Morgan rimase nella mente dei politici americani, ispirandoli a creare una banca da cui altri banchieri potessero prendere in prestito denaro. Morgan divenne il più convinto sostenitore del Federal Reserve System e ne prefigurò la nascita.
Caratteristiche del Federal Reserve System (Fed)
La Fed è un’agenzia federale indipendente che agisce come banca centrale degli Stati Uniti. I suoi membri sono le banche nazionali e le banche statali che si sono qualificate e hanno scelto di aderire. La Fed utilizza diversi strumenti per regolare l’economia americana. Per far fronte alla crisi economica, la Fed può utilizzare una combinazione di tre strumenti per aumentare l’offerta di moneta. In primo luogo, può abbassare il tasso di interesse che applica alle banche associate quando queste prendono in prestito da lei. Più basso è il tasso che pagano sui loro prestiti, più basso è il tasso di interesse che possono offrire ai loro clienti. I tassi più bassi incoraggiano i prestiti, che pompano denaro nell’economia statunitense, il che significa che questa misura mira ad aumentare l’offerta di moneta. La Fed può anche aumentare la quantità di denaro in circolazione abbassando il cosiddetto tasso di riserva. Le banche associate sono tenute a tenere in deposito una certa percentuale delle loro attività, che rappresenta il tasso di riserva. Quando la Fed abbassa il tasso di riserva, le banche membri possono prestare più attività ai clienti, immettendo così più denaro nell’economia e contribuendo a stimolarla. Infine, la Fed acquista e vende titoli, termine generico che indica molti tipi di investimenti: obbligazioni, titoli di stato, buoni del tesoro e così via. Durante una recessione economica può aumentare il suo potere d’acquisto. Quando acquista un titolo, dà al venditore del denaro, che il venditore può a sua volta spendere o investire, contribuendo a sostenere l’economia.
Si possono quindi individuare le seguenti caratteristiche della Fed:
Indipendenza: la Fed è un’agenzia federale indipendente che gestisce la politica monetaria degli Stati Uniti senza l’influenza diretta del governo americano.
Funzioni: la Fed svolge diverse funzioni, tra cui quella di regolare il mercato del credito e di garantire la stabilità economica del Paese.
Struttura: la Federal Reserve statunitense è composta da 12 banche regionali e da una banca principale, la Federal Reserve Bank of the United States (FRB).
Formato delle riunioni: il Federal Open Market Committee (FOMC) è il principale organo di governo della politica monetaria, che si riunisce sei volte l’anno.
Ruoli: i membri importanti del Consiglio della Federal Reserve degli Stati Uniti, come il presidente della Federal Reserve Bank e i membri del Consiglio dei governatori, sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti e confermati dal Senato.
Informazioni mensili: la Federal Reserve Bank statunitense pubblica informazioni sull’attuale politica monetaria e sulla situazione economica in rapporti mensili.
Situazione attuale delle banche statunitensi
Il 9 marzo si è verificato negli Stati Uniti il primo fallimento di una grande banca dal 2008. La Silicon Valley Bank (SVB), la 16esima banca del Paese, ha presentato istanza di fallimento dopo che i depositanti si sono affrettati a ritirare il loro denaro in seguito all’annuncio di perdite di circa 1,8 miliardi di dollari derivanti dalla vendita di investimenti. La situazione generale dei mercati finanziari e la stagnazione dei titoli e delle criptovalute hanno messo a rischio la SVB. La Silicon Valley Bank era un prestatore chiave per le imprese della Silicon Valley con 212 miliardi di dollari di attività, di cui 120 miliardi di dollari in titoli. La banca è stata a lungo considerata il centro dell’industria delle start-up negli Stati Uniti per la sua particolare attenzione alle imprese di venture capital. SVB deve ora più di 170 miliardi di dollari ai suoi clienti, il 93% dei quali non era assicurato.
Le ragioni del fallimento della SVB sono da ricercare negli errori della dirigenza delle società e nel forte aumento dei tassi di interesse della Federal Reserve per combattere l’inflazione. Nell’ultima riunione del Federal Open Market Committee (FOMC), il tasso di riferimento è stato portato a un intervallo di valori compreso tra il 4,5% e il 4,75%, il più alto dall’ottobre 2007. Si è trattato dell’ottavo aumento del tasso di riferimento statunitense dal marzo 2022 e da allora il tasso è aumentato cumulativamente di 450 punti base. L’errore del management è stato quello di investire decine di miliardi di dollari in obbligazioni, che hanno iniziato a rendere meno a causa del rialzo dei tassi della Fed.
La situazione di SVB ha segnalato un rischio significativo di collasso del sistema bancario nazionale. La prossima in ordine di tempo è stata la Signature Bank, che ha chiuso dopo la Silicon Valley Bank. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, la Federal Reserve e la Federal Deposit Insurance Corporation hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano che queste misure sono state adottate per evitare “rischi sistemici”. La situazione attuale è molto simile alla crisi del 2008, che ebbe un inizio simile. Per evitare il panico nella società americana, il Segretario al Tesoro Janet Yellen ha cercato di rassicurare gli americani che il crollo della SVB non avrebbe creato un effetto domino per altre banche, ma gli eventi si sono svolti in modo contrario alla sua dichiarazione.
Con l’emergere dei problemi con le banche, una soluzione potrebbe essere il “bailout”, ovvero una politica finanziaria che prevede l’acquisto da parte dello Stato dei cosiddetti “asset tossici” (prestiti inesigibili) da parte delle istituzioni finanziarie per evitare che vadano in bancarotta di massa e il collasso del sistema finanziario. Questa misura è stata fortemente osteggiata dai repubblicani, sotto le cui pressioni il Tesoro statunitense si è rifiutato di organizzare un “salvataggio”. Secondo il politico repubblicano Kevin McCarthy, il modo migliore per evitare il collasso delle banche della Silicon Valley, annunciato in precedenza dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), potrebbe essere l’acquisizione di SVB da parte di una banca o di un investitore più grande. Tuttavia, il governo intende salvare i depositanti della banca chiusa, ma non la banca stessa, che non riesce a trovare un acquirente.
Allo stesso tempo, i democratici incolpano l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il crollo della banca SVB. In un discorso tenuto lunedì mattina, Biden ha detto ai cittadini americani che i loro depositi sono al sicuro, ha invitato il Congresso a rafforzare le norme bancarie e ha accusato Trump di aver eliminato le restrizioni finanziarie regolamentari. Nel 2018, il Presidente Donald Trump ha firmato una legge che ha allentato la regolamentazione bancaria imposta dal suo predecessore come parte della riforma Dodd-Frank dopo la crisi finanziaria globale.
I problemi nel settore finanziario mettono a rischio molte banche regionali statunitensi e i mutuatari che si avvalgono dei loro servizi. Il Federal Home Loan Bank System (FHLB), una delle principali fonti di liquidità per i prestatori regionali, ha raccolto 88,7 miliardi di dollari vendendo titoli a breve termine per salvare le piccole banche. L’FHLB è una delle strutture create durante l’era della depressione che le banche private possono utilizzare per finanziamenti a breve termine senza dover prendere in prestito denaro dalla Federal Reserve. Inoltre, anche la stessa industria tecnologica è a rischio, poiché le banche della Silicon Valley hanno fornito fondi per molti progetti di start-up.
Le conseguenze globali del fallimento
Lo stato del sistema finanziario statunitense influisce anche sul funzionamento dell’economia mondiale. Il blocco delle banche può avere precise conseguenze globali. Il crollo dei titoli bancari europei è stato uno dei risultati legittimi del fallimento di SVB. Il commissario europeo per gli Affari economici Paolo Gentiloni ha dichiarato che la Commissione europea (CE) ammette l’esistenza di rischi secondari di peggioramento della situazione finanziaria nell’UE. L’unità britannica della fallita SVB è stata acquistata dalla banca HSBC per 1 sterlina e alcune aziende tecnologiche britanniche hanno dichiarato che “la perdita di depositi potrebbe danneggiare il settore tecnologico”. Sullo sfondo del fallimento di SVB, l’Autorità federale tedesca di vigilanza finanziaria ha imposto una moratoria sul trasferimento delle attività e delle operazioni della filiale tedesca della banca statunitense. Sempre a seguito del fallimento, le azioni della più grande banca svizzera hanno subito un calo di valore dell’11%, che ha rappresentato un forte shock per il settore bancario svizzero. La situazione di SVB ha iniziato a ripercuotersi anche sul mercato delle criptovalute, con la seconda maggiore capitalizzazione della steiblocoin USDC che ha perso l’aggancio al dollaro USA.
Possiamo quindi notare come la struttura del capitalismo globale o “turbocapitalismo”, caratterizzata dal dominio del settore finanziario, sia in gran parte predeterminata da azioni all’interno degli Stati Uniti. Il coinvolgimento del settore informatico di molte nazioni nelle strutture finanziarie statunitensi crea il rischio associato ai problemi di funzionamento della singola industria. Le conseguenze all’interno degli Stati Uniti potrebbero anche essere piuttosto imprevedibili e portare a una crisi finanziaria globale di dimensioni paragonabili alla crisi del 2008, iniziata con problemi locali negli Stati Uniti. Lo stato futuro delle cose dipenderà dalle misure adottate dall’attuale amministrazione, e decisioni poco lungimiranti potrebbero esacerbare una crisi politica interna, le cui origini possono essere fatte risalire alle ultime elezioni presidenziali statunitensi.
20 marzo 2023
Redazione di Katehon
(Tratto da: https://www.ideeazione.com/problemi-del-sistema-finanziario-statunitense/).
Inserito il 23/3/2023.
di Alessandro Volpi
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Re dollaro e il piano di pace cinese
Gli Stati Uniti devono attraversare una fase storica cruciale; battere la concorrenza cinese e quella europea. Per poterlo fare hanno bisogno di generare tanta spesa pubblica e attrarre tanti investimenti; una condizione possibile solo con il monopolio monetario globale. In altre parole, poter stampare dollari senza limiti, perché il dollaro è la sola valuta globale. Ciò diventa praticabile se nell’immaginario mondiale rappresentano la sola iperpotenza che impone le proprie strategie ovunque, con la guida delle organizzazioni internazionali e con le guerre ‘necessarie’.
Negli anni ottanta del secolo scorso il ‘Washington consensus’ serviva a costruire la centralità del mercato, oggi serve a sostenere il connubio fra finanziarizzazione e intervento pubblico in nome dell’‘American first’. Cinesi ed europei devono accettarlo o sono tacciati di essere contrari alla libertà e alla democrazia, naturalmente degli americani stessi.
Provo ad essere ancora più chiaro con due considerazioni specifiche. La prima ha un’evidenza numerica. Il debito pubblico americano è pari a 31mila miliardi di dollari, di cui circa 7mila sono in mani straniere. I cinesi ne hanno 800 miliardi, la metà di quanti ne avevano nel 2015. Questo debito lieviterà di 20mila miliardi nei prossimi dieci anni. Dunque, per essere finanziato, avrà bisogno di attirare capitali esteri in misura ancora maggiore. Gli alti tassi della Federal Reserve servono a quello ancor più che a contenere l’inflazione.
Per coprire il costo della gigantesca produzione di debito e, in particolare, della sua monetizzazione, senza aumentare le imposte, occorre così una grande produzione di dollari possibile solo se gli scambi in dollari crescono a livello mondiale. Sottrarre all’euro fette crescenti di geografie monetarie permette dunque di dollarizzare ancora di più il pianeta, e rende possibili i tassi alti che finanziano il debito Usa.
La guerra serve anche a questo: a riaffermare che solo il dollaro è la valuta globale, e quindi la merce più preziosa che gli Stati Uniti possono produrre senza limiti e vendere al resto del mondo.
La seconda considerazione riguarda il ‘piano di pace’ cinese. Tale testo ha certamente molte contraddizioni strumentali, tuttavia è un segnale importante e diretto alla Russia perché accetti di interrompere le ostilità. È evidente che la Cina teme un indebolimento delle sue relazioni con i mercati internazionali, avendo chiaro che non ne può fare a meno. Al tempo stesso con il suo piano la Cina vuol far capire a Putin che è difficilmente immaginabile un blocco cino-russo autosufficiente. Quindi, mi sembra di poter dire, semplificando molto, che quella cinese è un’apertura per rendere possibile un confronto.
La reazione statunitense è stata però molto dura, decisamente preoccupata, perché sembra sempre più evidente che l’amministrazione Biden vuole, come accennato, un mondo unipolare dove gli Stati Uniti attraggono capitali e risorse e forniscono al mondo moneta e finanza: si tratta della strada per tornare ad avere un secolo americano.
Di fronte alla Cina, il democratico Biden riprende le tesi neocon di Bush junior. In quest’ottica, l’Europa va disgregata, divisa, decentrata, come dimostra la visita del presidente degli Stati Uniti a Varsavia e non a Bruxelles. Ma, in un simile contesto, la posizione più incomprensibile è quella europea espressa da Josep Borrell, il “titolare” della politica estera dell’Unione, subito prona a quella Usa e ancora più duramente anticinese: una scelta che significa accettare la periferizzazione e la rinuncia ad ogni interlocuzione con la Cina, che dovrebbe diventare invece “la patria dell’euro” per consentire al vecchio continente di finanziare la propria indispensabile spesa pubblica e di non essere travolto dai colossali aiuti di Stato Usa, finanziati, appunto, con il dollaro.
L’Europa e la Bce sembrano invece invocare una nuova austerity, destinata a frenare l’inflazione e aumentare le disuguaglianze. L’istituto di Francoforte, infatti, alza i tassi e smette di comprare debito producendo un effetto immediato; i mutui costano di più, ed è probabile dunque che gli europei ne faranno di meno raffreddando l’inflazione e innescando spirali recessive, almeno per la parte più fragile della popolazione che non potrà reggere il costo dei nuovi mutui. Nel frattempo il rialzo dei tassi scatena gli utili delle banche – quelle italiane hanno fatto 12 miliardi di utili in pochi mesi - distribuiti in larga parte ai grandi fondi hedge, che sono nel loro azionariato, e gela la spesa pubblica, non più coperta dalla stessa Bce. In sintesi meno spesa pubblica e più profitti per pochi. Ma il problema sono i cinesi.
Alessandro Volpi
(Tratto da «Sinistra Sindacale», n. 05-2023:
Inserito il 13/3/2023.
Intervista a cura di Riccardo Amati
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L’allarme del politologo russo Ilya Matveev: “È una nuova guerra fredda senza ideali, la situazione è esplosiva”
Quella in corso è “la Nuova guerra fredda senza ideali” tra l’imperialismo di Mosca e quello di Washington. La Russia di oggi non è un’alternativa all’Occidente perché “è una caricatura del capitalismo americano”. Serve “una visione della Russia del futuro”: l’analisi del politologo russo Ilya Matveev
“Non ci sono segnali di uno sgretolamento del potere, le élite che il presidente ha selezionato lo sostengono compatte e il Cremlino non ha altra scelta se non la continuazione del conflitto”: Ilya Matveev, scienziato politico di San Pietroburgo, non è ottimista. “L’economia russa sta adeguandosi alle esigenze belliche”, nota. “Mentre la situazione finanziaria del Paese appare sostenibile e la vastità della sua popolazione in teoria permette di andare avanti all’infinito o quasi”.
E mentre in Ucraina si muore, “il mondo è alle prese con la Nuova guerra fredda”. Che, contrariamente alla prima versione, “non ha ideali, è combattuta solo per il denaro e il potere: è una guerra fredda ad alto livello di degrado”. A confrontarsi sono “due imperialismi in fondo simili”. Perché la plutocrazia di Putin “non è che una caricatura del capitalismo americano”.
Non è “un’alternativa credibile”. Unica differenza, “il tradizionalismo retrogrado che propone”.
Il politologo è profondamente contrario alle limitazioni della libera circolazione nell’Unione Europea dei comuni cittadini russi e alla fortificazione dei confini intrapresa da Paesi come la Finlandia: “L’Europa deve articolare una visione della Russia del futuro, con cui rapportarsi positivamente”.
Matveev, fondatore di testate come Openleft.ru e specialista dell’economia del suo Paese, oltre che della politica, è anche uno studioso del socialismo democratico. Fanpage.it lo ha raggiunto com una videochiamata nella località dove è emigrato dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe.
La guerra sarà lunga?
Lunga e terribilmente distruttiva. Catastrofica per l’Ucraina e, in modo diverso, anche per la Russia. Le statistiche indicano che la nostra produzione militare sta gradualmente aumentando: le forze armate avranno presto rifornimenti adeguati. Il commercio di idrocarburi continua ad assicurare una relativa stabilità finanziaria. E poi ci sono i russi. Il Paese è immenso. Solo una piccola parte della popolazione abile è stata mobilitata. Una nuova chiamata alle armi non porterebbe a niente di determinante, perché ritengo che Mosca non abbia comunque le capacità per ottenere una vittoria decisiva e definitiva. Ma ha certo la capacità di prolungare il conflitto.
Il prolungamento della guerra è un obbiettivo preciso del Cremlino?
È l’unico modo in cui il regime vede il futuro. Non ha altre scelte. Il compito è “non perdere la guerra”. Al Cremlino si è capito che non c’è la capacità per vincerla, anche se Putin in fondo ci spera ancora. Si vuole sole evitare la sconfitta. Questo dilata i tempi.
E se ci fosse una sonora sconfitta russa sul terreno?
Il potenziale offensivo dell’Ucraina non è esaurito. Una campagna come quella dello scorso autunno su Kherson è possibile. E una nuova vittoria sul campo potrebbe spingere la Russia ad avviare vere trattative. È possibile. Non estremamente probabile. Ma possibile.
Quali sono le implicazioni della guerra in Ucraina per il potere in Russia?
Non vedo alcun segnale di “sgretolamento”, per il potere di Putin. Si è circondato di persone obbedienti e codarde. Nei suoi 22 anni al comando, ha avuto tutto il tempo di escludere chi fosse abbastanza audace da criticarlo in modo diretto. Chi oggi fa parte del sistema non si oppone mai apertamente a Putin. Dice di sì a qualsiasi cosa. Non c’è alcuna frattura nella classa dirigente. Chi non era pronto a conformarsi è stato scartato. È in prigione, in esilio o comunque emarginato. Penso anche a gente fedele a Putin, ma non al punto da assentire su tutto.
Come Alexey Kudrin, l’ex ministro delle finanze “degradato” a manager di un’azienda privata?
Kudrin, è l’esempio più chiaro: è una delle poche persone che Putin abbia mai definito “un vero amico”. Per undici anni ministro delle Finanze, fu bruscamente accantonato. Messo poi a capo della Corte dei Conti, adesso è stato ulteriormente declassato a top manager di Yandex, il Facebook russo. Motivo: Kudrin pur non criticando direttamente la guerra in Ucraina ha osato avvertire delle conseguenze economiche negative, in un riunione con Putin, un anno fa.
Ma il fatto che personaggi vicini al regime siano colpiti da sanzioni personali da parte dell’Occidente non li fa dubitare nemmeno un po’ della opportunità di restar fedeli al capo?
Hanno tutti i loro “santuari”. Rifugi sicuri, come Dubai. E poi hanno permessi di residenza o seconde cittadinanze nei Paesi europei. Comunque, sono relativamente pochi gli associati al regime di Putin sotto sanzione. Molti possono ancora viaggiare tranquillamente in Europa. E le riviste patinate sui resort esclusivi, gli yacht e i marchi di lusso dell’Occidente continuano a essere pubblicate in russo: le vendite non sono diminuite.
Che ne pensa invece delle sanzioni contro i normali cittadini russi? Che non possono più entrare liberamente in Finlandia o nei paesi baltici, per esempio.
Questa guerra riflette le divisioni di classe. A chi è veramente ricco non viene rifiutato niente. Se sei russo e hai una villa in Finlandia, nessuno ti fa problemi alla frontiera. Ma se sei un poveraccio che deve viaggiare attraverso la Finlandia per raggiungere i tuoi familiari nell’Unione Europea, ti negano l’entrata.
La Finlandia sta costruendo una barriera di filo spinato sul confine russo. Non potrebbe provocare guai futuri, a guerra finita, in un ipotetico dopo-Putin? I fili spinati tendono a creare risentimenti duraturi.
L’Europa deve articolare la visione di una futura Russia democratica e pacifica, e di relazioni positive. Quella di non volerne più saper niente e di fortificare le frontiere è una pessima idea, anche se è comprensibile vista l’attuale aggressività di Mosca. Si rischia di creare una sorta di Corea del Nord. Ma con le dimensioni territoriali e militari di una superpotenza. Del tutto imprevedibile e in grado di provocare danni di ogni tipo.
Lei parla di una futura Russia democratica, però nel suo Paese nessuno protesta più. I sondaggi indicano che il sostegno a Putin e alla sua guerra è alto.
I sondaggi di opinione in Russia non hanno validità alcuna. Perché ogni critica alla guerra è considerata un reato ed è perseguibile penalmente. Anche per un post privato, rivolto solo ad amici, si può finire in galera. Cosa mai dovrebbe rispondere uno che viene raggiunto dalla telefonata di un centro statistico alla domanda “cosa pensi della guerra”? Nessuno dirà mai di essere contrario. Le statistiche erano sospette anche prima, perché i regimi autoritari sono di per sé un ostacolo all’attendibilità dei sondaggi. Ora sono del tutto inaffidabili.
La Russia è diventata uno Stato totalitario?
No. Il regime non ha ancora un controllo monolitico sulla società, né una ideologia strutturata. E non mobilita la popolazione attraverso organizzazioni ad hoc. Non ha al momento tutte le caratteristiche del totalitarismo.
Quindi resta “solo” un regime autoritario. Ha qualche somiglianza col fascismo, come ritiene lo storico americano Timothy Snyder?
È sicuramente un autoritarismo, dato che il potere è un mano a un gruppo di persone non responsabile di fronte alle istituzioni. Ed è un regime che si sta rapidamente “fascistizzando”: sta cercando di implicare sempre più persone nei crimini di Stato. Si impongono le lezioni di patriottismo e la versione putiniana della Storia nelle scuole, si spiegano ai bambini le falsità ufficiali riguardo alla “operazione militare speciale” in Ucraina, si incoraggia la delazione dei cosiddetti “patrioti” nei confronti di pacifisti e oppositori del regime.
Eppure in molti in Occidente considerano la Russia di Putin un Paese “di sinistra”. Un po’ per il retaggio sovietico, un po’ perché comunque si oppone agli Usa, con tutto quel che gli Usa rappresentano. Lei, come studioso del socialismo, che ne pensa?
La Russia di oggi è l’opposto di un Paese socialista. Ha il poco invidiabile record mondiale delle diseguaglianze e delle differenze di reddito. Lo Stato sociale viene costantemente indebolito. Il sistema è classista perché privilegia le élite vicine al potere e una cricca di miliardari e funzionari corrotti. A scapito del resto della popolazione.
Però Putin ha riportato allo Stato o a conglomerati riconducibili allo Stato le attività economiche strategiche. Non sarà socialismo ma nemmeno capitalismo. Che sistema economico c’è, in Russia?
La Russia di Putin è la caricatura di un paese capitalista. Il presidente e i suoi sodali hanno ereditato l’immagine del capitalismo creata dalla propaganda sovietica: una società di ricconi col cilindro in testa, macchine di lusso e residenze principesche mentre il resto della popolazione vive in povertà. E hanno deciso di costruire proprio questo tipo caricaturale di capitalismo. In cui quelli col coppello a cilindro, le Ferrari e i castelli sono loro. Davvero è una società enormemente iniqua.
Resta il fatto che in politica internazionale Putin propone un multipolarismo più o meno “terzomondista” che molti — anche in Italia — vedono come una valida alternativa all’ “eccezionalismo” americano.
La Russia non è un’alternativa. Il vero obiettivo di Putin in politica estera è la rivendicazione della sfera d’influenza russa nello spazio post-sovietico. In pratica, vuole un Paese che sia esattamente come gli Stati Uniti: un potere imperialista.
Ma lo scopo dell’invasione dell’Ucraina è solo difensivo, dice Putin. Si tratta di difendersi dall’espansione della Nato.
I motivi sono più profondi. Al Cremlino si ritiene che l’Ucraina sia parte dell’identità della Russia come grande e potente Stato imperiale. Si prende alla lettera quel che disse una volta Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Usa Jimmy Carter, ndr): “Mosca senza Kyiv non è una superpotenza”. Quindi, lo scopo della guerra è soggiogare l’Ucraina e farne, se non parte della Russia, uno Stato subordinato come la Bielorussia. Si tratta di un’aggressione imperialista dalle molte sfaccettature, in corso da decenni. Con una sua dimensione coloniale. Putin ha perseguito la destabilizzazione politica del Paese vicino sostenendo la presidenza Yanukovych, ha acquisito attività imprenditoriali per colonizzarlo economicamente, ha intrapreso misure attive con i suoi servizi di sicurezza. Visto che niente ha funzionato. Ha infine scelto la “soluzione finale”. Per ridurre Kyiv a una sorta di “dipendenza coloniale”. Come Minsk.
Insomma, la Russia di Putin secondo lei è un potere imperialista e quindi non rappresenta un’alternativa all’America. Ma l’Urss era anch’essa di fatto imperialista. E, a torto o a ragione, rappresentava un’alternativa per tanti.
L’Unione Sovietica, almeno con la retorica, un’alternativa la proponeva. Sosteneva in modo articolato di rappresentare un’opzione diversa rispetto all’ordine mondiale dettato dal capitalismo. I leader dell’Urss parlavano di una società egualitaria e di relazioni internazionali pacifiche. Putin, no. L’unica alternativa che propone è un retrogrado tradizionalismo: avversione al femminismo, alle persone Lgbt, al progresso sociale. Se vi piace un Paese così, allora la Russia fa per voi. Ma in politica internazionale, che attrazione dovrebbe mai avere Mosca? Il propugnato multipolarismo si riduce a uno scontro continuo e molto pericoloso tra due blocchi imperialisti. Nient’altro.
È in corso una nuova guerra fredda?
È in atto una lotta senza quartiere fra quello che in Russia chiamiamo “Occidente collettivo”, e Mosca. È la Nuova guerra fredda. Peggiore della prima. Perché allora c’erano periodi di distensione, mentre oggi le relazioni sono costantemente assenti o a livelli infimi. Inoltre, la Cina si avvicina sempre più alla Russia. E gli Stati Uniti sono sempre più in rotta di collisione con Pechino. La situazione è esplosiva.
Un’altra differenza, oltre a quanto ha appena detto?
Allora c’erano narrative ideologiche antagoniste. Ma nella Nuova guerra fredda la Nato e la Russia sono solo due imperialismi a confronto. È una guerra fredda senza ideali. Si fa tutto solo per il denaro e il potere. Si potrebbe dire che è una guerra fredda ad alto livello di degrado.
Riccardo Amati
(Intervista dell’11/03/2023 tratta da:
Inserito il 12/3/2023.