Viaggiatori in arrivo da Israele al porto cipriota di Limassol. 21 giugno 2025.
Autore della foto: AP Photo/Petros Karadjias.
fonte della foto: https://www.timesofisrael.com/cyprus-chabad-inundated-by-thousands-of-israelis-trying-to-find-way-home/
Dalla rivista online «East Journal»
di Andrea Zambelli
L’opposizione lancia l’allarme sugli insediamenti israeliani in crescita sull’isola di Cipro. “Ci stanno portando via il nostro paese”.
Dal 2021, investitori israeliani hanno acquisito quasi 4.000 proprietà a Cipro, molte poi trasformate in comunità chiuse pressoché inaccessibili. L’opposizione ha denunciato la creazione di enclavi. Non sono mancate le critiche di antisemitismo.
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Cipro nuova “Terra promessa”?
Allarme insediamenti israeliani
“Ci stanno portando via il nostro paese”
di Andrea Zambelli
L’opposizione lancia l’allarme sugli insediamenti israeliani in crescita sull’isola di Cipro. “Ci stanno portando via il nostro paese”.
Dal 2021, investitori israeliani hanno acquisito quasi 4.000 proprietà a Cipro, molte poi trasformate in comunità chiuse pressoché inaccessibili. L’opposizione ha denunciato la creazione di enclavi. Non sono mancate le critiche di antisemitismo.
La denuncia dell’opposizione
“Investitori israeliani stanno acquistando ingenti appezzamenti di terreno e risorse economiche strategiche”, ha affermato a fine giugno al congresso del partito d’opposizione AKEL il leader comunista cipriota Stefanos Stefanou. “Stanno costruendo sinagoghe e scuole sioniste – così le chiamano – in enclavi recintate”.
“I giornali israeliani parlano di una politica mirata di espansione di Israele a Cipro”, ha detto Stefanou, denunciando la creazione di comunità chiuse a Larnaca e Limassol, “aree chiuse praticamente inaccessibili a chiunque non sia cittadino israeliano”.
È la prima volta che un partito cipriota solleva una questione politica sulle transazioni immobiliari con cittadini israeliani. “Non lo diciamo per xenofobia o antisemitismo”, ha aggiunto Stefanou, sottolineando che “Israele ci sta occupando” e “a un certo punto scopriremo che la nostra terra non ci appartiene”.
Gli investitori israeliani operano a Cipro attraverso il programma Golden Visa, che consente di acquisire la residenza sull’isola investendo nell’immobiliare. Cipro ha rilasciato migliaia di questi visti con scarsi controlli. AKEL ora propone di limitarne la concessione. “Cipro ha una superficie ridotta e si trova in una regione turbolenta. Il governo deve adottare misure”, ha detto Stefanou alla radio CyBC.
Un esodo in tre ondate
Nel 2018 circa 6.500 cittadini israeliani risiedevano a Cipro. A metà 2025 erano più del doppio, circa 15.000, e in crescita. Tra questi, intere famiglie, imprenditori e coloni in fuga dagli insediamenti illegali in Cisgiordania.
La presenza israeliana a Cipro si è espansa in tre ondate distinte. In primis, durante il Covid-19, molti israeliani benestanti hanno rifuggito i rigidi lockdown e un sistema sanitario sotto pressione per raggiungere gli standard di assistenza sanitaria e lo stile di vita rilassato di Cipro. Le vendite immobiliari sono aumentate vertiginosamente in città turistiche come Pafos e Limassol. Quindi, con le proteste contro le riforme giudiziarie di Netanyahu del 2023, migliaia di persone iniziarono a tutelarsi acquistando case all’estero. Cipro, a soli 40 minuti di volo, divenne una popolare alternativa.
Infine, la guerra di Gaza e i recenti attacchi all’Iran hanno messo in rilievo la crescente vulnerabilità di tutta Israele, con le rotte aeree interrotte e attacchi missilistici anche su Haifa e Tel Aviv, e altre migliaia di israeliani hanno cercato riparo all’estero.
“Più di 12.000 ebrei israeliani sono passati per le nostre sei case in 10 giorni durante la crisi iraniana”, ha affermato il rabbino Zeev Raskin di Chabad Cyprus. “Molti di loro non avevano intenzione di tornare”.
“Abbiamo provato a tornare in Israele in yacht, in elicottero”, aveva affermato un evacuato israeliano a «The National». “Ma Cipro ci è sembrata più sicura. Per ora, restiamo”.
Una seconda Israele
Secondo un agente immobiliare sentito dal «Cyprus Mail», “gli israeliani tendono ad acquistare grandi proprietà recintate con spa e resort”. A Pyla, loro centro principale, ma anche a Larnaca: “c’è la sinagoga, è vicino all’aeroporto, e le proprietà sono tra le più economiche di Cipro”.
Secondo i dati pubblicati dalle autorità, gli israeliani sono al quarto posto tra gli investitori stranieri, dietro britannici, russi e greci. Solo a Larnaca, gli israeliani hanno acquistato oltre 1.400 immobili, con numeri simili a Limassol e Pafos.
AKEL denuncia uno schema familiare. Nascono enclavi. La gente del posto viene esclusa per via dei prezzi. Infrastrutture – sinagoghe, supermercati kosher, scuole private – vengono costruite rapidamente. Lo stesso modello coloniale di insediamento utilizzato in Cisgiordania sembra ora radicarsi in luoghi come Pyla e Limassol.
“A un certo punto scopriremo che la nostra terra non ci appartiene”, ha detto Stefanou. “Non sono case-vacanze. Sono insediamenti a tutti gli effetti”.
Tra Mossad e basi britanniche
I timori di AKEL non si limitano al settore immobiliare. Nel suo discorso di giugno, il partito ha sollevato questioni di sicurezza nazionale, giustizia sociale e sovranità culturale.
Il partito denuncia il rischio di “enclavi-satellite” di influenza israeliana, potere economico e potenziale infrastruttura di intelligence, appena oltre la portata dei missili.
Anche gli esperti di sicurezza hanno espresso preoccupazione. Un articolo di «Haaretz» del 2023 confermava che il Mossad è attivo a Cipro e utilizza l’isola per “operazioni di rifugio” e punti di sosta. Cipro ospita anche la RAF Akrotiri, un’importante base militare britannica utilizzata per missioni di ricognizione su Gaza, complicando ulteriormente il quadro geopolitico.
A Cipro Nord, sotto amministrazione turca, gli acquisti di terreni da parte di israeliani sono stati drasticamente limitati. Ma nelle aree sotto amministrazione greco-cipriota non esistono vincoli, e gli accordi bilaterali tra Cipro e Israele stanno impedendo di imporre controlli al boom immobiliare.
“Cipro non può permettersi di diventare una base operativa avanzata per un altro Stato”, ha avvertito un funzionario della sicurezza europea. “Si rischia di destabilizzare l’isola e comprometterne la neutralità”.
Una nazione a un bivio
Quello che era iniziato come flusso turistico si è trasformato in un vero e proprio cambiamento demografico. E per Cipro, un paese ancora alle prese con la propria divisione e una storia di interferenze straniere, i segnali d’allarme sono chiari.
Come ha affermato Stefanos Stefanou: “Tutto ciò non può che allarmarci. Dobbiamo chiederci: stiamo vendendo case o stiamo svendendo la nostra sovranità?”.
30 luglio 2025
Andrea Zambelli
(Tratto da: Andrea Zambelli, Cipro: Allarme insediamenti israeliani. “Ci stanno portando via il nostro paese”, su: https://www.eastjournal.net/archives/144267).
Inserito il 01/08/2025.
Dal sito «antropocene.org»
di John Bellamy Foster
In questo articolo sul movimento MAGA pubblicato sulla «Monthly Review», John Bellamy Foster esplora il drammatico cambiamento dell’imperialismo statunitense iniziato con la prima presidenza Trump e accelerato con la seconda. Il cambiamento, spiega Foster, non è guidato dall’antimperialismo e dall’antimilitarismo, ma rappresenta piuttosto un forte spostamento a destra, alimentato dall’ipernazionalismo e dall’obiettivo di riconquistare il potere degli Stati Uniti sulla scena mondiale.
Viste le dimensioni del saggio, per renderne più agevole la lettura abbiamo pensato di suddividerlo in paragrafi intitolati dallo stesso autore.
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La dottrina Trump e il nuovo imperialismo MAGA
di John Bellamy Foster
Prima parte
Il drammatico cambiamento dell’imperialismo statunitense sotto la presidenza di Donald Trump, sia nel suo mandato iniziale che ancor più in quello attuale, ha creato una grandissima confusione e costernazione nei centri di potere istituzionali. Questa improvvisa modificazione della politica estera statunitense si manifesta nell’abbandono sia dell’ordine internazionale liberale costruito sotto l’egemonia statunitense dopo la Seconda Guerra Mondiale, sia della strategia a lungo termine di allargamento della NATO e della guerra per procura contro la Russia in Ucraina. L’imposizione di elevati dazi doganali e il mutamento delle priorità militari hanno persino messo gli Stati Uniti in conflitto con i suoi alleati di lunga data, mentre si sta accelerando la Nuova Guerra Fredda contro la Cina e il Sud globale.
Il cambiamento nella proiezione di potenza degli Stati Uniti è così estremo, e la confusione che ne è derivata è così grande, che persino alcune figure, da tempo associate alla sinistra, sono cadute nella trappola di vedere Trump come isolazionista, antimilitarista e antiimperialista. Per questo, il dissociato esponente della sinistra Christian Parenti ha sostenuto che Trump «non è un anti-imperialista nel senso che gli da la sinistra. Piuttosto, è un istintivo isolazionista dell’America-First», il cui obiettivo, «più di qualsiasi altro recente presidente», è «smantellare l’impero globale informale americano» e promuovere una nuova politica estera «antimilitarista» «che si opponga all’impero».1
Tuttavia, lungi dall’essere anti-imperialista, il cambiamento globale nelle relazioni esterne degli Stati Uniti sotto Trump è dovuto a un approccio ipernazionalista al potere mondiale radicato in settori chiave della classe dirigente, in particolare nei monopolisti dell’alta tecnologia, così come nei sostenitori di Trump, in gran parte appartenenti alla classe medio-bassa. Secondo questa prospettiva neofascista e revanscista, gli Stati Uniti sono in declino come potenza egemonica e minacciati da nemici potenti: il marxismo culturale e gli immigrati “invasori” dall’interno, la Cina e il Sud globale dall’esterno, mentre sono ostacolati da alleati deboli e dipendenti.
A partire dalla prima amministrazione Trump del 2016, il regime ha sostenuto una netta svolta a destra, sia a livello internazionale che nazionale. A livello globale, tutte le risorse disponibili devono concentrarsi su un aumento a somma zero del potere degli Stati Uniti e sulla sconfitta della Cina, nuovo rivale emergente. La Nuova Guerra Fredda contro la Cina è stata di fatto lanciata durante la prima amministrazione Trump, con il concomitante spostamento verso la distensione con la Russia.2 Sebbene l’amministrazione Biden abbia poi continuato la precedente guerra per procura pianificata da Washington contro la Russia (iniziata con il colpo di Stato di Maidan del 2014 in Ucraina sostenuto dagli Stati Uniti), la stessa amministrazione Biden ha seguito quella di Trump nel proseguire la Nuova Guerra Fredda contro la Cina, confrontandosi contemporaneamente con le due grandi potenze eurasiatiche. Una volta tornato al potere, Trump ha cercato di porre fine alla guerra per procura della NATO in Ucraina, rivolgendosi con maggiore decisione alla lotta in Asia. Persino il Medio Oriente, dove il regime di Trump bombarda lo Yemen, aumenta la pressione sull’Iran e sta sostenendo apertamente lo sterminismo – ovvero la completa eliminazione e rimozione dei palestinesi da Gaza in nome della “pace” – è visto come secondario rispetto alla Nuova Guerra Fredda contro la Cina.3
La nuova strategia imperialista, radicalmente nuova, rappresentata dall’amministrazione Trump e in particolare nel suo secondo mandato, si basa sul concetto di “America First”. Ciò costituisce un rifiuto del tradizionale ruolo degli Stati Uniti come potenza mondiale egemone in favore di un ipernazionalista America First imperium. Una manifestazione di ciò è l’attacco degli Stati Uniti alle organizzazioni internazionali su cui non hanno un dominio completo o su cui presumibilmente gravano oneri sproporzionati, come le Nazioni Unite o persino l’alleanza NATO. Inoltre, le relazioni commerciali sono trattate non tanto come processi di scambio reciprocamente vantaggiosi (che in realtà vanno principalmente a vantaggio delle nazioni più ricche), quanto piuttosto come relazioni transazionali da determinare esclusivamente sulla base della potenza nazionale.
In questo contesto, l’imposizione di dazi da parte del regime di Trump su tutti gli altri Paesi – compresi dazi elevati su una sessantina di Paesi (nella sua lista del 2 aprile: “il Giorno della Liberazione”) – non è una semplice questione di ricerca di un vantaggio economico, ma deve essere vista come un gioco di potere attraverso il quale assicurarsi il predominio geoeconomico e geopolitico. Nell’ambito della strategia “America First” di Trump, Washington cerca di ottenere tributi dai suoi alleati, che d’ora in poi dovranno pagare in un modo o nell’altro il sostegno militare statunitense, con il conseguente insorgere di nuove forme di conflitto interimperialista (o intraimperialista).
Riguardo al conflitto con la Cina, la proposta ufficiale di bilancio per la spesa militare di Trump per il prossimo anno fiscale prevede un aumento di quasi il 12%, fino a 1 trilione di dollari (le spese militari effettive ammontano in genere al doppio di quelle ufficiali).4
Il risultato più probabile di questi sviluppi – se non verranno fermati – è una Nuova Età della Catastrofe, su una scala non dissimile da quella degli anni ’30 del secolo scorso, caratterizzata da distruzione bellica, economica ed ecologica.5 Ciò porterà non a un aumento del predominio degli Stati Uniti, ma a un suo declino accelerato, dato che l’egemonia del dollaro e le istituzioni internazionali su cui il potere degli Stati Uniti si è storicamente basato saranno ulteriormente minate. All’interno dello stesso regime di Trump, i tentativi di Washington di proiettare il proprio potere a livello globale non faranno altro che intensificare i conflitti interni tra il capitale monopolistico-finanziario, con i suoi interessi economici globali, e il movimento più strettamente nazionalista “Make America Great Again” (MAGA) sul territorio. Tutti i tentativi di tenere insieme un regime così reazionario richiederanno un aumento della repressione, mentre il futuro dipenderà dalla portata della rivolta che questa repressione susciterà, sia a livello nazionale che globale.
(1/6. Segue)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
1 Christian Parenti, Trump’s Real Crime Is Opposing Empire, «Compact», 07.04.2023.
2La distensione con la Russia, come parte del lancio di una nuova Guerra Fredda con la Cina, è stata al centro della prima amministrazione Trump. Vedi John Bellamy Foster, Trump in the White House, Monthly Review Press, New York, 2017, pp. 50-52, 74-75.
3 Trump ha minacciato di bombardare l’Iran se non farà un accordo con gli Stati Uniti sul suo (inesistente) programma nucleare, dichiarando all’inizio di aprile: «Se non faranno un accordo, ci saranno bombardamenti. Saranno bombardamenti come non ne hanno mai visti prima». Doina Chiacu e David Ljunggren, Trump Threatens Bombing if Iran Does Not Make Nuclear Deal, Reuters, 30.03.2025; Chris Bambery, Trump’s War Plans for Iran: Opening the Other Gates of Hell, «Counterfire», April 4, 2025.
4 Leo Shane III, Trump Promises $1 Trillion in Defense Spending for Next Year, «Defense News», 08.04.2025; Gisela Cernadas e John Bellamy Foster, Actual U.S. Military Spending Reached $1.537 Trillion in 2022 — More than Twice Acknowledged Level: New Estimates Based on U.S. National Accounts, «Monthly Review» 75, n. 6, novembre 2023, pp. 18-26.
5 Sull’“Età della Catastrofe” 1914-1945, vedi Eric Hobsbawm, The Age of Extremes, Vintage, New York, 1994, Parte I.
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Seconda parte
La dottrina Trump
Ironia della sorte, le affermazioni più forti e controverse riguardo alla natura pacifica e antimperialista del regime di Trump sono state introdotte da figure dell’ex sinistra come Christian Parenti. Scrivendo nel 2023 su «Compact», rivista egemonica del MAGA, in un articolo intitolato Il vero crimine di Trump è opporsi all’Impero, Parenti sosteneva che Trump fosse a favore di una politica estera anti-Pentagono e «antimperialista», mostrando un totale «disprezzo per il ‘Complesso della Sicurezza Nazionale’».6
Tuttavia, nel definire Trump come anti-imperialista, Parenti sembra aver dimenticato l’intera struttura dell’imperialismo, che ha a che fare con lo sfruttamento/espropriazione globale e con le strategie di dominio mondiale. Trump non solo ha introdotto un aumento storico delle spese militari nella sua prima amministrazione ed ha fatto ricorso alla forza letale a livello internazionale in numerose occasioni (tra cui l’allentamento delle restrizioni ai bombardamenti sui civili), ma anche, e soprattutto, ha avviato la Nuova Guerra Fredda contro la Cina.7 La seconda amministrazione Trump sta nuovamente aumentando massicciamente la spesa del Pentagono e promuovendo un conflitto con la Cina su scala ancora più ampia. Ciò che Parenti e altri vedono come una forma di anti-imperialismo è in realtà una nuova strategia imperialista globale a livello nazionale e internazionale, volta a invertire il declino egemonico degli Stati Uniti e a sconfiggere la Cina. Questo riorientamento strategico gode di un forte sostegno sia all’interno del movimento MAGA di Trump sia in quegli elementi della classe miliardaria monopolista-capitalista - in particolare nei settori dell’alta tecnologia, del private equity e dell’energia - allineati al suo regime demagogico. Come ha osservato il famoso economista marxista indiano Prabhat Patnaik, la politica estera di Trump non è né anti-impero né insensata, ma può essere meglio definita come «strategia di rinascita dell’imperialismo».8
Il movimento nazional-populista MAGA si basa su una visione del mondo intrisa di razzismo, in cui gli Stati Uniti sono visti come una nazione bianca e cristiana con un chiaro destino. In questa prospettiva, dopo aver raggiunto nel corso della sua storia lo status di “una nazione sotto Dio” nel XX secolo, gli Stati Uniti sono stati successivamente indeboliti dall’esterno e dall’interno, richiedendo una resurrezione dello status perduto.
Non è un caso che Trump, nel marzo 2025, abbia appeso nello Studio Ovale un ritratto di James K. Polk, undicesimo presidente degli Stati Uniti. Polk presiedette la più grande espropriazione territoriale della storia degli Stati Uniti durante la Guerra messico-statunitense, in cui Washington si impadronì di oltre 135.000 chilometri quadrati di territorio, tra cui la California e gran parte del Sud-ovest, annettendo il Texas e ottenendo la sovranità sulle aree contese del Pacifico nord-occidentale attraverso il Trattato dell’Oregon.9 Le roboanti ambizioni di Trump di annettere la Groenlandia, di riconquistare il Canale di Panama e persino (anche se più inverosimile) di incorporare il Canada come cinquantunesimo stato – per non parlare della ridenominazione del Golfo del Messico in Golfo d’America – mirano tutte a ricreare lo spirito del «nascente impero americano».10
Per comprendere la strategia imperialista del regime MAGA, è necessario esaminare la “Dottrina Trump”. Le dottrine presidenziali in politica estera sono tipicamente individuate ed elaborate dai media sulla base delle dichiarazioni della Casa Bianca su questioni fondamentali di politica estera. Tuttavia, nel caso della Dottrina Trump, essa è stata pienamente articolata all’interno da Michael Anton, il principale ideologo MAGA, che da febbraio 2017 ad aprile 2018 è stato membro del Consiglio per la Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti e vice assistente del presidente per le comunicazioni strategiche. Attualmente ricopre la carica di direttore della pianificazione politica presso il Dipartimento di Stato, una posizione equivalente a quella di assistente del Segretario di Stato. Durante la prima amministrazione Trump, ad Anton fu ovviamente affidato l’incarico – mentre non era più alle dirette dipendenze della Casa Bianca – di fornire coerenza alle numerose e apparentemente contraddittorie dichiarazioni di Trump in politica estera.
Nel 2019, mentre lavorava come docente e ricercatore presso l’Hillsdale College in Michigan, controllato dal MAGA, Anton pubblicò un articolo su «Foreign Policy» basato su una lezione alla Princeton University, intitolato La Dottrina Trump, che sarebbe diventato la dichiarazione semi-ufficiale della posizione strategica complessiva del regime MAGA.11 Il compito di Anton era quello di definire la strategia ’America First’ di Trump come in linea con il populismo nazionale e l’anti-internazionalismo, ma sufficientemente bellicosa da rappresentare una nuova strategia globale aggressiva. Costituiva quindi quello che veniva definito un “realismo di principio”, radicato nell’interesse nazionale, in linea con le interpretazioni conservatrici delle idee di pensatori come Niccolò Machiavelli e Thomas Hobbes. In La Dottrina Trump, la politica estera e militare di Trump fu descritta da Anton come anti-imperiale per due motivi. In primo luogo, gli imperi erano per natura “multietnici”, e la politica di Trump era completamente contraria a una visione multietnica del progetto americano. In secondo luogo, la politica imperialista perseguita dai neoconservatori era alleata del globalismo, mentre la Dottrina Trump era la negazione della globalizzazione liberale. Nell’ideologia MAGA, la globalizzazione è vista come un vantaggio per le potenze emergenti, come la Cina, a scapito delle potenze consolidate, come gli Stati Uniti. La Dottrina Trump, ha spiegato Anton, era quindi costantemente nazionalista su tutta la linea: il bottino va alle nazioni vincitrici.12
Un nazionalismo così coerente era descritto come pienamente in accordo con la “natura umana”. Se Aristotele aveva affermato – nelle parole di Anton – che le tre unità politiche erano «la tribù [etnia], la polis (o ‘città-stato’) e l’impero», la posizione di Trump era quella di enfatizzare l’etnia americana e lo stato americano in modo espansivo sulla scena mondiale, e di minimizzare l’impero multietnico, rendendo così l’America di nuovo grande. A questo proposito, la Dottrina Trump aveva quattro pilastri: (1) populismo nazionale, (2) rifiuto dell’internazionalismo liberale, (3) nazionalismo uniforme per tutti i Paesi e (4) ritorno della nazione alla “normalità” omogenea dell’“etnia e della polis” classica - in contrapposizione al carattere eterogeneo dell’impero multietnico contemporaneo (e del mondo nel suo complesso). Il quarto pilastro costituiva quindi una definizione etnico-razziale dell’identità nazionale, alla base di un nazionalismo razziale. Come nel caso di Trasimaco nella Repubblica di Platone, la base morale della Dottrina Trump era abbondantemente chiara: la giustizia è «l’utile del più forte».13
(2/6. Segue)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
6 Parenti, Trump’s Real Crime Is Opposing Empire.
7 Jeff Heer, Surprisingly Durable Myth of Donald Trump, Anti-Imperialist, «The Nation», 17.04.2023; John Bellamy Foster, The New Cold War on China, «Monthly Review» 73, n. 3, luglio-agosto 2021, pp. 1-20.
8 Prabhat Patnaik, Imperialism’s Revival Strategy, «People’s Democracy», 02.03.2025, peoplesdemocracy.in.
9 Josh Dawsey, Vera Bergengruen e Alexander Ward, The Painting That Explains Trump’s Foreign Policy, «Wall Street Journal», 13.03.2025.
10 R. W. Van Alstyne, The Rising American Empire (Oxford: Basil Blackwell, 1960).
11 Michael Anton, The Trump Doctrine: An Insider Explains the President’s Foreign Policy, «Foreign Policy», 232, estate 2019, pp. 40-47.
12 Anton, The Trump Doctrine; Amanda Taub, The Trump Doctrine: The World Is a Zero-Sum Game, «New York Times», 07.03.2025.
13 Anton, The Trump Doctrine; Platone, La Repubblica, Bompiani, Milano, 2009.
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Terza parte
L’imperialismo economico e la dottrina Trump
Il 2 aprile 2025, utilizzando i poteri per l’emergenza nazionale, Trump ha imposto tariffe del 10% su ogni paese del mondo, con dazi più alti su circa 60 altri paesi o blocchi commerciali, in quella che egli ha definito una “dichiarazione di indipendenza economica”. Questa mossa includeva nuovi dazi del 34% sulla Cina – che sommati al precedente 20% hanno portato il totale al 54% – del 46% sul Vietnam e del 20% sull’Unione Europea. Dopo che la Cina ha annunciato contromisure tariffarie, Trump ha alzato l’incremento tariffario cumulativo sulla Cina al 104%, e poi, in un’ulteriore escalation, al 145%. In una dichiarazione dai toni bellicosi, il Segretario al Tesoro degli Stati Uniti, Scott Bessent, ha affermato che qualsiasi paese che sceglierà di “reagire” contro le nuove tariffe statunitensi sarà considerato responsabile dell’“escalation”, portando così gli Stati Uniti a incrementare ulteriormente l’escalation ladder [scala dell’escalation]. Le azioni dell’amministrazione Trump stanno dando luogo ad una guerra commerciale e valutaria globale: ad una recessione mondiale. La nuova strategia tariffaria MAGA ha generato panico a Wall Street, che fino a quel momento era stata fortemente favorevole alla presidenza Trump, dividendo, sembrerebbe, la classe dirigente finanziaria mentre, nel frattempo, i titoli di borsa crollavano. Ciò ha costretto Trump a sospendere alcune tariffe, aumentando però simultaneamente quelle sulla Cina. Le tariffe di Trump sono state calcolate sulla base di quanto ritenuto necessario per ottenere un equilibrio bilaterale del commercio con ciascun paese, una proposizione priva di una razionalità economica diretta ma che fornisce un’arma contundente con cui il regime intende raggiungere i suoi obiettivi più ampi.14
Economicamente, la Dottrina Trump è legata a quello che è noto come “nazionalismo conservatore”, rappresentato da vari think tank vicini nelle posizioni al MAGA e focalizzati sulla strategia geoeconomica e geopolitica, come American Compass e il Manhattan Institute for Policy Research, insieme al fondo di investimenti Hudson Bay Capital Management, vicino a Trump. Il fondatore e capo economista di American Compass, Oren Cass, è da tempo consulente economico e collaboratore dell’attuale Segretario di Stato di Trump, Marco Rubio. American Compass è massicciamente finanziato dalla Thomas D. Klingenstein Fund, una fondazione da miliardi di dollari gestita da Thomas D. Klingenstein. Banchiere d’investimento di Wall Street, Klingenstein è partner del fondo speculativo miliardario Cohen Klingenstein. È anche presidente del consiglio di amministrazione (e principale finanziatore) del Claremont Institute, il principale think tank MAGA; è un sionista e un critico feroce di ciò che definisce “comunismo woke”. Altri finanziatori di American Compass sono la Walton Family Foundation e la William and Flora Hewlett Foundation.15
Vessillo del nazionalismo conservatore in economia, American Compass offre una visione piuttosto realistica della stagnazione di lungo termine e della deindustrializzazione dell’economia statunitense, associandola però a una forte opposizione al libero mercato e a un fervente sostegno alle tariffe.16 Legato ideologicamente al movimento MAGA, ha assunto un ruolo guida nello sviluppo di una strategia economica per la Nuova Guerra Fredda contro la “Cina comunista”. Il suo rapporto del 2023, A Hard Break from China, sosteneva che «l’America deve interrompere le sue relazioni economiche con la Cina per proteggere il proprio mercato dalla sovversione del Partito Comunista Cinese». Questo include il taglio netto di investimenti, di catene di approvvigionamento e di accordi economici internazionali con la Cina. Tutti i «flussi di capitale, trasferimenti tecnologici e partnership economiche tra Stati Uniti e Cina» devono terminare. All’interno degli Stati Uniti, American Compass ha dichiarato guerra al “capitalismo woke”, cioè a qualsiasi tentativo di incorporare diversità, equità e inclusione nelle pratiche aziendali, una posizione chiaramente volta a mantenere il predominio razziale bianco.17
All’interno dell’amministrazione Trump, la strategia che prevede alte tariffe è supervisionata da Peter Navarro, consigliere senior del presidente su commercio e manifattura. Nella precedente amministrazione Trump, Navarro era direttore dell’Office of Trade and Manufacturing Policy [Ufficio per la Politica Commerciale e Manifatturiera]. Sostenitore accanito della guerra economica (e militare) contro la Cina, egli è l’autore di The Coming China Wars, pubblicato nel 2008, e considera le tariffe come lo strumento principale in tal senso. Le tariffe sono presentate da Navarro come ciò che può fornire migliaia di miliardi di dollari in entrate al governo, permettendo a Trump di ridurre le tasse sui ricchi. Navarro è stato imprigionato per oltraggio al Congresso, per il suo ruolo nell’attacco MAGA al Campidoglio il 6 gennaio 2021.18
Tuttavia, la figura principale nella strategia economica internazionale della seconda amministrazione Trump è Stephen Miran, presidente del Council of Economic Advisors. Miran è stato un ex consigliere senior al Dipartimento del Tesoro nella prima amministrazione Trump e successivamente stratega senior per l’azienda di investimenti Hudson Bay Capital Management, un grande investitore istituzionale all’interno del Trump Media & Technology Group, che gestisce la piattaforma social Truth Social. Miran è anche economics fellow presso il Manhattan Institute. È l’autore di A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, pubblicato da Hudson Bay Capital Management contemporaneamente alla vittoria elettorale di Trump nel 2024, in cui ha presentato il piano per utilizzare le tariffe elevate e la leva finanziaria offerta come ombrello di sicurezza statunitense, per costringere gli altri stati ad accettare una forte svalutazione della valuta statunitense, sotto l’etichetta dell’Accordo di Mar-a-Lago. L’obiettivo è quello di migliorare la posizione commerciale globale degli Stati Uniti a scapito dei suoi principali partner commerciali. Tutto ciò delinea una politica globale del tipo “mors tua, vita mea” imposta dagli Stati Uniti sia ai propri alleati sia ai nemici designati.19
Il modello di questa strategia geoeconomica è l’Accordo del Plaza del 1985, stipulato tra Stati Uniti, Giappone, Germania, Regno Unito e altri paesi, che permise una svalutazione multilaterale intenzionale del dollaro. Il principale risultato storico di questo accordo fu lo scoppio della bolla finanziaria giapponese e l’introduzione di una profonda stagnazione economica, apparentemente stabile, all’interno dell’economia giapponese, che all’epoca era una delle più dinamiche al mondo. Subito dopo l’Accordo del Plaza, Trump comprò il Plaza Hotel, probabilmente affascinato dall’accordo siglato proprio in quel luogo. (Lo portò poi alla bancarotta...). Ma nel 2025 gli Stati Uniti sono molto più deboli, a livello globale, rispetto al 1985, e i paesi che detengono la maggior parte delle riserve in valuta estera in dollari, su cui dipenderebbe in larga parte l’ipotizzato Accordo di Mar-a-Lago, non rientrano sotto l’ombrello di sicurezza militare statunitense e quindi non sono facilmente assoggettabili a pressioni fiscale.20
Giappone, Regno Unito, Canada e Messico, osservava Miran, potrebbero senza dubbio essere facilmente costretti a conformarsi agli interessi statunitensi, non avendo alternative. Al contrario, né l’Unione Europea né la Cina (che detiene circa 3 trilioni di dollari in riserve) accetterebbero volentieri un tale accordo, ben consapevoli di ciò che è accaduto al Giappone dopo l’Accordo del Plaza. Per quanto riguarda l’Unione Europea, il piano di Trump vuole costringere i suoi membri a farsi carico di una quota maggiore dei costi dell’ombrello di sicurezza statunitense e utilizzare questa manovra come strumento di negoziazione, insieme all’imposizione di tariffe elevate, per costringere i paesi dell’Unione Europea ad accettare una svalutazione monetaria. L’imposizione delle tariffe statunitensi, secondo i consiglieri economici nazionalisti conservatori di Trump, porterebbe inizialmente all’apprezzamento del dollaro, come nella prima amministrazione Trump, compensando così alcuni effetti macroeconomici sfavorevoli delle tariffe (anche se, questa volta, il risultato iniziale è stato l’opposto: il dollaro si è deprezzato).21 In ogni caso, in generale, queste tariffe sono inflazionistiche, con il probabile risultato di un’intensificazione della stagflazione. Inoltre, la svalutazione controllata del dollaro (non il suo apprezzamento) è l’obiettivo principale della politica tariffaria statunitense in linea con l’auspicato Accordo di Mar-a-Lago, che avrebbe l’effetto di aumentare i prezzi al consumo per le importazioni statunitensi.22
Viste nel contesto degli accordi, le tariffe di Trump sono una forma di ricatto, con la clausola che verranno abbassate se i paesi accetteranno di vendere dollari in cambio di “obbligazioni centenarie” statunitensi, ovvero titoli con scadenza a cento anni, con bassi tassi d’interesse. Tale decorso contribuirebbe alla svalutazione del dollaro. Il piano prevede, quindi, un mix di tariffe e svalutazione intenzionale del dollaro, con enfasi su quest’ultima. Ciò rappresenta, agli occhi dell’amministrazione Trump, un modo per promuovere le esportazioni e la reindustrializzazione. Oltre che da Miran, questa politica è fortemente sostenuta da Scott Bessent, il Segretario del Tesoro. L’Accordo di Mar-a-Lago, indica Miran, creerebbe «una distinzione molto più netta tra amici, nemici e partner commerciali neutrali» rispetto agli Stati Uniti. Gli “amici” fornirebbero tributi a Washington in cambio di essere sotto l’ombrello economico e di sicurezza statunitense, mentre i “nemici” sarebbero soggetti a dazi elevati, sanzioni economiche e minacce di aggressione militare.23
L’intera politica nazionalista imperialista di Trump, che dà avvio a una guerra globale commerciale e valutaria, rappresenta un’enorme scommessa, poiché probabilmente destabilizzerà le economie degli Stati Uniti e del mondo, nonché la finanza globale, accelerando i tentativi di trovare alternative al dollaro da parte di numerosi Paesi, in particolare quelli del gruppo BRICS (composto da Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica e altri).
L’amministrazione Trump sembra non comprendere appieno la realtà del Dilemma di Triffin (dal nome dell’economista belga Robert Triffin), secondo cui una valuta di riserva internazionale (come il dollaro) richiede la presenza di un deficit continuo nel conto corrente, se il paese che la emette deve fornire al mondo la liquidità necessaria; ma questa dinamica, nel lungo periodo, tende a creare condizioni che erodono la fiducia nella valuta di riserva.24
Intrappolata tra le corna di questo dilemma, probabilmente la strategia di Trump fallirà, accelerando il declino del dollaro come egemonica valuta di riserva, indebolendo ulteriormente il dominio economico globale degli Stati Uniti. Come scrive l’economista Michael Hudson:
Trump basa il suo tentativo di distruggere gli esistenti legami e reciprocità del commercio e della finanza internazionale sull’assunto che, in una situazione di caos generalizzato, l’America ne uscirà vincente. Tale fiducia implica la volontà di Trump di smantellare gli attuali legami geopolitici. Egli crede che l’economia statunitense sia come un buco nero cosmico, cioè un centro di gravità in grado di attirare a sé tutto il denaro e l’eccedenza economica del mondo. Questo è l’obiettivo esplicito di America First. Ed è ciò che rende il programma di Trump una dichiarazione di guerra al resto del mondo.25
Nel frattempo, il riarmo degli alleati degli Stati Uniti, insieme a un massiccio aumento della spesa per il Pentagono e alle bellicose minacce dirette ai nemici designati, potrebbe portare a un’ulteriore proliferazione dei conflitti, aumentando il rischio di una Terza Guerra Mondiale. Il pugno di ferro di Washington nei confronti dei suoi alleati genererà tensioni all’interno del nucleo imperiale storico del capitalismo globale, alimentando una crescente rivalità interimperialista tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti. Il capitale finanziario statunitense ha finora sostenuto fortemente Trump, ma possiede interessi economici globali. Pertanto, il capitale finanziario degli Stati Uniti vede con apprensione le mosse tariffarie dell’amministrazione Trump e la prospettiva di un Accordo di Mar-a-Lago, un’apprensione dovuta all’incertezza dei suoi esiti.
La strategia nazionale-imperialista di Trump è pienamente in linea con le visioni reazionarie dei suoi seguaci MAGA, che non sono contrari all’imperialismo e al militarismo, ma si oppongono fermamente a quella che considerano una globalizzazione liberale a spese degli Stati Uniti, unita a guerre indecise contro potenze minori da cui non derivano bottini visibili. Durante la sua prima amministrazione, Trump ha rimproverato i membri del Joint Chiefs of Staff [Capi di Stato Maggiore] per quanto riguarda le guerre in Medio Oriente e in Asia centrale, lamentandosi della mancanza di bottini ottenuti dagli Stati Uniti, chiedendo: «Dov’è il f***uto petrolio?».26
(3/6. Segue)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
14 Bryan Mena, Key Takeaways from Trump’s ‘Liberation Day’ Tariffs, CNN, 02.04.2025; Peter Foster e Sam Fleming, Donald Trump Baffles Economists with Tariff Formula, «Financial Times», 03.04.2025; Nick Beams, Trump’s ‘Reciprocal Tariffs’ Escalate Economic War Against the World, «World Socialist Web Site», 03.04.2025, wsws.org; Jack Izzo, Posts Online Correctly Cracked the Formula for Trump’s Tariffs, «Snopes», 03.04.2025; Helen Davidson e Joana Partridge, Trump Imposes New Tariffs on Dozens of Partners, Sparking Fresh Market Turmoil, «Guardian», 09.04.2025; Josh Boak, Trump Backs Down on Most Reciprocal Tariffs for 90 Days, but Raises Rate on Chinese Imports to 125 Percent, PBS News, 09.04.2025; Léonie Chao-Fong, Tom Ambrose, Graeme Wearden e Kate Lamb, US Markets Close with Steep Losses as Trump Tariffs Branded ‘Worst Self-Inflicted Wound’ by a Successful Economy, «Guardian», 10.04.2025.
15 Oren Cass, American Compass, s.d.; Influence Watch, American Compass, s.d., influencewatch.org; Influence Watch, Thomas D. Klingenstein Fund, s.d.; Jason Wilson, The Far Right Financier Giving Millions to the Republican Party to Fight ‘Woke Communists’, «Guardian», 04.08.2023; Thomas D. Klingenstein, Winning the Cold Civil War, «Newsweek», 08.09.2021.
16 Where’s the Growth?, American Compass, 15.03.2022, americancompass.org; Oren Cass, Why Trump Is Right About Tariffs, «Wall Street Journal», 27.10.2023.
17 A Hard Break from China: Protecting the American Market from Subversion by the CCP, American Compass, 08.06.2023; David Azerrad, How to Put Woke Capital Out of Business, American Compass, 02.09.2021; Vivek Ramaswamy, Woke, Inc.: Inside Corporate America’s Social Justice Scam, Center Street, New York, 2021.
18 Peter Navarro, The Coming China Wars, Financial Times Press, New York, 2008, pp. 203-205; Jacob Heilbrunn, The Most Dangerous Man in the Trump World?, «Politico», 12.02.2007; John Bellamy Foster, Trump in the White House, pp. 84-85; Alan Rappeport, Trump’s Trade Advisor Pick, a China Hawk, Was Jailed over Jan. 6, «New York Times», 04.12.2024; D’Angelo Gore, Independent Analyses Contradict Navarro’s $6 Trillion-Plus Tariff Revenue Estimate, «FactCheck», 10.04.2025, factcheck.org.
19 David Randall, Hudson Bay, Morgan Stanley, Took Positions in Trump Social Media Firm in Q1, Reuters, 15.05.2024; Stephen Miran, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, «Hudson Bay Capital», novembre 2024, hudsonbaycapital.com.
20 Josh Lipsky e Jessie Yin, Meeting in Mar-a-Lago: Is a New Currency Deal Plausible?, Atlantic Council, 13.03.2015, atlanticcouncil.org.
21 Miran, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, pp. 13-14, 35.
22 Michael Hudson, Trump’s Tariff Threats Could Destabilize the Global Economy, «Geopolitical Economy», 25.01.2025, geopoliticaleconomy.com.
23 Miran, A User’s Guide to Restructuring the Global Trading System, p. 37.
24 David Deuchar, Donald Trump and the Dollar: The Triffin Dilemma and America’s Exorbitant Privilege, «Seeking Alpha», 24.05.2016; Robert Triffin, Gold and the Dollar Crisis: Yesterday and Today, «Essays in International Finance», n. 132, Princeton University Press, Princeton, New Jersey, 1978, pp. 1-6; Ismail Shakil, Trump Repeats Tariff Threat to Disuade BRICS Nations from Replacing US Dollar, Reuters, 30.01.2025.
25 Hudson, Trump’s Tariff Threats Could Destabilize the Global Economy.
26 Carol D. Leonnig e Philip Rucker, ‘You’re a Bunch of Dopes and Babies’: Inside Trump’s Stunning Tirade Against Generals, «Washington Post», 17.01.2020.
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Quarta parte
Neofascismo e Impero
I profondi cambiamenti nella politica estera e militare degli Stati Uniti, attuati sotto la Dottrina Trump, affondano le radici in nuovi schieramenti di classe collegati al neofascismo del movimento MAGA e alle sue strette - sebbene contraddittorie - connessioni con la classe dominante miliardaria, in particolare nei settori dell’alta tecnologia, del private equity* e del petrolio. Nella teoria marxista, la base di classe del fascismo risiede sempre in un’alleanza tra il capitale monopolistico e una classe/strato piccolo-borghese. Quest’ultima è composta da piccoli imprenditori, piccoli proprietari immobiliari, quadri intermedi d’azienda, insieme a elementi religiosi fondamentalisti e a piccoli proprietari rurali. Comprende anche alcuni dei settori più privilegiati della classe lavoratrice. La piccola borghesia è smisuratamente bianca e razzista.
Trump, nelle elezioni presidenziali del 2024, ha attratto la maggior parte degli elettori con meno di una laurea quadriennale, una categoria che comprende la maggioranza sia della piccola borghesia che della classe lavoratrice. Gli stessi exit poll mostrano che, in base al reddito, ha vinto tra i piccoli borghesi e i lavoratori, ma ha perso tra gli elettori più poveri. Milioni di coloro che avevano votato per i Democratici nel 2020, provenienti soprattutto dalla classe lavoratrice, nel 2024 hanno scelto il Partito dei Non Votanti.27 La base fedele a Trump rimane la piccola borghesia, allargata ai lavoratori più privilegiati.
Storicamente, la piccola borghesia rappresenta un settore della popolazione non solo incline alla supremazia bianca, ma anche patriarcale e ultraconservatrice nei confronti delle relazioni di genere e sessuali. Costituisce una retroguardia del sistema capitalistico e viene mobilitata nei regimi di tipo fascista sulla base della propria innata ideologia, associata a una prospettiva nazionalista revanscista, il cui obiettivo è rendere di nuovo grande lo Stato-nazione. Ernst Bloch, scrivendo a proposito della Germania nazista degli anni ’30, vedeva in queste popolazioni una «non-contemporaneità» regressiva, finalizzata al recupero di un idealizzato passato ariano.28
Come ha scritto Phil A. Neel, nel suo Hinterland: America’s New Landscape of Class and Conflict, a proposito della base di classe del populismo nazionale MAGA negli Stati Uniti
Il Partito Repubblicano opera su una base grosso modo simmetrica, costruita tra le sotto-élite rurali bianche e tutta una serie di interessi capitalistici urbani o periurbani di piccola scala [...]. In termini materiali, l’estrema destra tende a concentrarsi tra gli interessi dei piccoli proprietari o dei lavoratori autonomi ma comunque moderatamente benestanti dell’entroterra [...]. Il nucleo materiale dell’estrema destra è [...] la periferia bianca in via d’espansione [...] che funge da interfaccia tra il metropolitano e il non metropolitano, permettendo ai proprietari terrieri più ricchi, agli imprenditori, ai poliziotti, ai soldati o agli appaltatori autonomi, di reclutare dalle zone adiacenti di povertà bianca più abietta [...]. La violenza gioca qui un ruolo centrale [...]. Il mondo può essere restaurato [...]. attraverso atti salvifici di violenza, capaci di provocare il collasso e accelerare l’avvento della Vera Comunità.29
Il movimento di massa MAGA, radicato nella piccola borghesia/piccoli proprietari, è motivato ideologicamente principalmente da ciò che definisce la “Guerra Fredda Civile” contro le élite liberali della classe medio-alta che gli stanno sopra, e contro la classe lavoratrice che gli sta sotto. Questo ha le sue radici nelle convinzioni ultranazionaliste; nella connessione con la “religione dei proprietari di schiavi” dell’evangelismo bianco; nel culto dell’espansione imperiale del passato statunitense; nella frequente glorificazione della violenza estrema; nelle tendenze razziste e scioviniste; e in una forte ideologia patriarcale, tutti elementi pienamente in linea con l’ideologia America First della Dottrina Trump.30 Ciò include, a livello internazionale, il sostegno alla demolizione degli aiuti esteri degli Stati Uniti (attraverso lo smantellamento dell’Agenzia USAID) e l’opposizione alla guerra per procura in Ucraina. La guerra in Ucraina è vista come un beneficio principalmente per le élite europee, e il conflitto con la Russia, da questa prospettiva, non apporta vantaggi agli Stati Uniti, distogliendo invece Washington dai suoi principali nemici asiatici: la Cina e il mondo islamico.31
Il nazionalismo cristiano dell’universo evangelico MAGA ha dato un forte sostegno al patto Trump/Benjamin Netanyahu per l’annientamento/rimozione totale dei palestinesi da Gaza, nel quale gli Stati Uniti dovrebbero ottenere vari diritti economici, e perfino proprietà - compresa la fantasia trumpiana di un resort in stile riviera di proprietà americana - insieme a contratti petroliferi preferenziali nella Striscia di Gaza.32
Come osservava György Lukács, in relazione a una precedente figura storica:
Hitler respinge i vecchi piani di colonizzazione ed espansione degli Hohenzollern. Con particolare asprezza critica l’intento di assimilare con la violenza popoli soggetti mediante un processo di germanizzazione. Egli è per il loro sterminio. Non ci si rende conto, egli dice, che «la germanizzazione può essere intrapresa solo per il territorio e mai per l’uomo». Questo significa che il Reich tedesco deve espandersi e conquistare fertili regioni, la cui popolazione deve essere scacciata o distrutta.33
In modo alquanto simile, l’importante think tank MAGA Center for Renewing America (CRA), fondato dal direttore dell’Office of Management and Budget [Ufficio per la gestione e il bilancio] di Trump, Russell Vought, insiste sul fatto che i palestinesi non possono essere integrati né in Israele né negli Stati Uniti, e devono essere sterminati/rimossi, mentre la loro terra deve essere interamente sequestrata per essere occupata da popolazioni più “civilizzate”. Secondo le parole dello stesso CRA, «le pratiche culturali dei palestinesi», prive di valori universali, «sono in gran parte concentrate su lamentele contro Israele, gli ebrei e gli Stati Uniti, con una società fondamentalmente orientata alla violenza e all’estremismo» e al «culto moderno della morte». Sono dunque “incompatibili” con “i nostri valori, radicati nella storia occidentale e nel pensiero biblico”.34
Pete Hegseth, il Segretario alla Difesa di Trump, glorifica frequentemente le Crociate cristiane contro l’Islam del XII secolo, suggerendo che Trump dovrebbe essere un presidente crociato. Hegseth ha tatuaggi sul petto con la Croce di Gerusalemme, nota anche come Croce dei Crociati, e un tatuaggio sul bicipite con un grido di battaglia crociato. Il suo libro American Crusade contiene un capitolo intitolato “Make the Crusader Great Again,” che si riferisce a una guerra contro l’Islam, una crociata da estendere più universalmente a una guerra contro il “leftism” [sinistrismo] e a tutte le visioni che trattano i cristiani come “infedeli”.35
Nel novembre 2023, il governo yemenita guidato dal movimento Ansar Allah [Houti] ha iniziato a sparare sulle navi collegate a Israele nel Mar Rosso in risposta al genocidio di Israele in Palestina. A seguito delle “rappresaglie” statunitensi e britanniche, questo è stato esteso alle navi collegate agli Stati Uniti e alla Gran Bretagna. Il 15 marzo 2025 l’amministrazione Trump ha iniziato massicci attacchi aerei in Yemen, promettendo una «guerra implacabile», allentando, contemporaneamente, alcuni dei vincoli su tali attacchi introdotti dall’amministrazione Biden, rendendola così una guerra molto più letale contro i civili. Trump ha promesso che il movimento Ansar Allah, da lui definiti «i barbari Houthi», sarebbe stato «completamente annientato».36
Il culto ufficiale di Trump per il pro-schiavitù e pro-impero James K. Polk, il cui “risultato” più notevole è stata la guerra messicano-americana, è in linea con l’ideologia revanscista MAGA. È in questa stessa vena imperiale che la sua amministrazione ha dichiarato che gli Stati Uniti devono riconquistare il Canale di Panama e acquisire la Groenlandia, «in un modo o nell’altro».37 Le pubblicazioni di MAGA insistono sul fatto che la cessione del Canale di Panama da parte degli Stati Uniti a Panama non era legale da parte panamense, rendendo legittimo il sequestro da parte degli Stati Uniti. Di fronte a queste minacce, Panama ha fatto concessioni, abbandonando la Belt and Road Initiative e mettendo in discussione la gestione del Canale da parte delle società cinesi. Tuttavia, l’amministrazione Trump ha insistito sul fatto che questo non era sufficiente e che gli Stati Uniti avevano bisogno della proprietà diretta e del controllo della zona del Canale di Panama, con Trump che ordinava all’esercito americano di pianificare un’invasione per impadronirsene. Nell’aprile 2025, gli Stati Uniti hanno negoziato un accordo con Panama che le consentirebbe di rioccupare tutte le sue ex basi militari nella zona del Canale e sta spostando un gran numero di truppe in queste basi, rifiutando, allo stesso tempo, di riconoscere la proprietà di Panama del Canale. Questo è stato definito dai critici panamensi una «invasione camuffata» in cui la zona del Canale di Panama è stata occupata dall’esercito statunitense «senza sparare un colpo».38
Nel frattempo, l’amministrazione Trump sta impiegando ogni sorta di pressione per acquisire la Groenlandia, compresa una prospettiva di acquisto da offrire alla popolazione. Nell’ideologia MAGA si sostiene che, poiché la Groenlandia si trova nell’emisfero occidentale, rientra nella sfera di influenza degli Stati Uniti, come definito dalla Dottrina Monroe. Pertanto, non dovrebbe essere un territorio autonomo della Danimarca. Si dice che le vaste risorse e la posizione strategica della Groenlandia la rendano matura per l’acquisizione da parte degli Stati Uniti, generando un “Nuovo secolo artico americano”.39
Nel continuo tentativo di rovesciare la Repubblica Bolivariana del Venezuela, l’amministrazione Trump ha minacciato di imporre tariffe del 25% a qualsiasi paese del mondo che acquisti petrolio dal Venezuela.40 Sotto Rubio, il Dipartimento di Stato sta istituendo sanzioni contro i paesi che hanno stipulato un contratto con servizi medici cubani, negando i visti agli attuali ed ex funzionari governativi che lavorano con, o sostengono, medici cubani. Cuba ha più di ventiquattromila medici che lavorano in cinquantasei paesi del mondo, per lo più nel Sud globale, fornendo assistenza medica essenziale. Washington afferma assurdamente che questi medici sono «lavoro forzato» e rappresentano «traffico di esseri umani».41
Il suprematismo bianco incorporato nella politica estera MAGA di Trump è particolarmente evidente nei suoi attacchi al governo sudafricano. In risposta a una legge sudafricana di riforma agraria che tardivamente cerca di affrontare i risultati del colonialismo e dell’apartheid in un paese in cui una minoranza bianca, che costituisce circa il 7% della popolazione, possiede ancora circa il 72% della terra, Trump, Rubio ed Elon Musk hanno accusato il Sudafrica di razzismo contro i bianchi. A ciò si sono aggiunte le critiche al Sudafrica per il suo ruolo nel sostenere, davanti alla Corte Internazionale di Giustizia, che Israele stava compiendo un genocidio a Gaza. In una sentenza preliminare, la Corte Internazionale di Giustizia si è pronunciata a favore del Sudafrica e contro Israele.42
Trump ha falsamente affermato che Pretoria stava confiscando terre ai bianchi, senza alcun indennizzo o ricorso legale, sostenendo che i cosiddetti rifugiati bianchi provenienti dal Sudafrica erano «vittime di un’ingiusta discriminazione razziale» e sarebbero stati i benvenuti negli Stati Uniti. Rubio ha seguito l’esempio accusando il Sudafrica di «espropriare ingiustamente la proprietà privata». Musk, che è nato e cresciuto nel Sudafrica dell’apartheid, ha promosso il mito di un “genocidio” contro gli agricoltori bianchi, riferendosi falsamente alle «leggi razziste sulla proprietà» anti-bianche e all’«uccisione su larga scala di agricoltori [bianchi]». Sulla base di queste false accuse, Trump ha emesso un ordine esecutivo che interrompe tutta l’assistenza finanziaria al Sudafrica, la maggior parte della quale andava alla lotta contro l’HIV/AIDS. L’ambasciatore sudafricano negli Stati Uniti, Ebrahim Rasool, è stato espulso dagli Stati Uniti da Rubio, dopo che Breitbart, il sito di intrattenimento online del MAGA, ha riportato un discorso che Rasool ha tenuto in un webinar organizzato da un think tank sudafricano. Nel suo discorso, Rasool, secondo le parole dell’Associated Press, aveva parlato «in linguaggio accademico, della repressione dell’amministrazione Trump sui programmi per la diversità, l’equità e l’immigrazione, e aveva menzionato la possibilità di una nazione statunitense in cui i bianchi presto non sarebbero più la maggioranza».43
Il candidato di Trump come ambasciatore in Sudafrica, L. Brent Bozell III, è il nipote del conservatore William F. Buckley Jr, il fondatore della «National Review». Bozell III è un suprematista bianco, noto per la sua difesa del sistema di apartheid sudafricano. Mentre era presidente del National Conservative Political Action Committee, ha dichiarato di essere «orgoglioso di diventare un membro della Coalizione contro il terrorismo dell’ANC [African National Congress]». Bozell III ha fatto l’affermazione a sfondo razzista che il presidente degli Stati Uniti Barack Obama «sembrava un tossico magro del ghetto». Il figlio di Bozell III, L. Brent Bozell IV, è stato uno dei sostenitori del MAGA arrestati per aver preso d’assalto il Campidoglio il 6 gennaio 2021.44
L’ideologia MAGA è evidente anche nei ritiri dell’amministrazione Trump dall’Accordo di Parigi del 2015 sui cambiamenti climatici e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, sostenendo che questi passi erano necessari per rivendicare la “sovranità” americana.45 L’ideologia imperialista dell’America First trumpiana si estende oltreconfine con la richiesta che le imprese europee si conformino ai suoi ordini esecutivi per eliminare tutte le disposizioni in materia di diversità, equità e inclusione (DEI) se vogliono avere rapporti con gli Stati Uniti.46
Il carattere estremo di queste posizioni ha allontanato l’amministrazione Trump dal Council on Foreign Relations (CFR), noto come “il trust dei cervelli imperiali” e come “il think tank di Wall Street”. Il CFR bipartisan è stato una forza dominante nella strategia geopolitica degli Stati Uniti sin dalla Seconda Guerra Mondiale.47 Riflettendo i sentimenti generali del MAGA, il Segretario alla Difesa Pete Hegseth ha accusato il CFR di globalismo liberale nella sua lettera di dimissioni dall’organizzazione.48 James M. Lindsay, che scrive per il CFR da una prospettiva globalista, ha criticato la dottrina Trump come un ritorno «dirompente» alla «politica di potere e alle sfere di interesse del diciannovesimo secolo». Lindsay accusa Trump di adottare «una visione del mondo tucididea, in cui ’i forti fanno ciò che possono e i deboli soffrono ciò che devono’». I globalisti liberali come Lindsay non si oppongono agli obiettivi generali della politica di potere globale di Trump. Piuttosto, si lamentano che è troppo maldestro e inefficace se paragonato ai metodi più abili dei tradizionali grandi strateghi dell’impero americano.49
(4/6. Segue)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
* N.d.T. “private equity”: categoria di investimenti finanziari a favore di società non quotate in borsa al fine di sostenerne lo sviluppo. Questi investimenti si concretizzano nell’acquisto di azioni o sottoscrivendo azioni di nuova emissione che apportano nuovi capitali all’obiettivo dell’azienda, finanziamenti che in quanto azionari non creano debito. Nato per sostenere nuovi progetti o rivitalizzare certe imprese, il private equity si è trasformato, non di rado negli ultimi anni, in un sistema per fare operazioni tossiche a discapito delle aziende stesse e dei lavoratori che ne fanno parte.
27 Green Party US, Alienated, Not Apathetic: Why Workers Don’t Vote, 05.08.2019, gp.org; Median Income in the United States in 2023, by Educational Attainment of Householder, «Statista», statista.com, s.d. Secondo gli exit poll, nelle elezioni del 2024, Trump ha amplificato il sostegno ricevuto dalla sua base, la classe medio-bassa, con quello della classe operaia, conquistando la maggioranza di coloro che hanno un reddito familiare tra i 30.000 e i 50.000 dollari all’anno, ma ha perso voti tra i poveri (coloro che hanno un reddito familiare di 30.000 dollari o meno) che hanno votato il Partito Democratico. La principale questione interna che ha determinato questo cambiamento è stata l’economia, soprattutto l’inflazione. “Exit Polls”, NBC News, 05.11.2024. Milioni di elettori democratici hanno scelto il Partito dei non votanti.
28 Ernst Bloch, Eredità di questo tempo, a cura di Laura Boella, Il Saggiatore, Milano 1992; Mimesis, Milano-Udine 2015. Sulle tendenze patriarcali e conservatrici in materia di sesso/genere della classe medio-bassa nelle società capitalistiche e sul ruolo di queste nel generare tendenze fasciste, vedi Wilhelm Reich, Psicologia di massa del fascismo, SugarCo, Milano, 1971.
29 Phil A. Neel, Hinterland: America’s New Landscape of Class Conflict, Reaktion Books, Londra, 2018, pp. 36, 57-58. Contraddicendo la sua stessa argomentazione, Neel suggerisce che questi sviluppi non indicano lo sviluppo del fascismo o del neofascismo nel Make America Great Movement di Trump, nonostante le simili dinamiche di classe. Neel, Hinterland, p. 48.
30 Charles R. Kesler, America’s Cold Civil War, «Imprimis» 47, n. 10, ottobre 2018; Jonathan Wilson-Hartgrove, Reconstructing the Gospel: Finding Freedom from Slaveholder Religion, InterVarsity Press, Lisle, Illinois, 2018.
31 Leila Abboud, Adrienne Klasa e Henry Foy, U.S. Tells European Companies to Comply with Donald Trump’s Anti-Diversity Order, «Financial Times», 28.03.2025.
32 Dennis Laich, Trump’s ‘Gaza Riviera’ — A Profile in Arrogance, «The Hill», March 9, 2025.
33 György Lukács, La distruzione della ragione, Mimesis, Milano, 2011, p. 750.
34 CRA Staff, Primer: Palestinian Culture is Prohibitive for Assimilation, Center for Renewing America, 01.12.2023, americarenewing.com.
35 Lydia Wilson, Pete Hegseth’s Tattoos and the Crusading Obsession of the Far Right, «New Lines», 29.11.2024; Pete Hegseth, American Crusade, Center Street, New York, 2020, pp. 13, 24, 289-90, 301.
36 Jon Gambrell, Trump Threatens Houthi Rebels That They’ll Be ‘Completely Annihilated’ as Airstrikes Pound Yemen, Associated Press, 20.03.2025.
37 Dawsey, Bergengruen e Ward, The Painting That Explains Trump’s Foreign Policy.
38 Micah Meadowcroft e Anthony Licata, “Primer”: The American Canal — The Case for Revisiting the Panama Canal Treaties, Center for Renewing America, 31.01.2025; Brett Wilkins, Trump Orders U.S. Military to Plan Invasion of Panama to Seize the Canal: Report, «Common Dreams», 13.03.2025, commondreams.org; ‘Camouflaged Invasion’: Panama Opposition Slams Security Pact with the US, Al Jazeera, 12.04.2025.
39 Sumantra Maitra, Towards Greater Engagement and Integration with Greenland and a New American Arctic Century, Center for Renewing America, 03.03.2025.
40 José Luis Granados Ceja, Trump Threatens 25% Tariff on Countries Buying Venezuelan Oil as US Continues Migrant Crackdown, «Venezuelanalysis», 24.03.2025.
41 Farah Najjar, Why Are Caribbean Leaders Fighting Trump to Keep Cuban Doctors?, Al Jazeera, 15.03.2025; Vijay Prashad, Why Cuban Doctors Deserve the Nobel Peace Prize, «MR Online», 25.08.2020.
42 Kate Bartlett, What’s Trump’s Beef with South Africa?, NPR, 07.02.2025; Michelle Gavin, Trump’s Misguided Policy Toward South Africa”, Council on Foreign Relations, 12.02.2025, cfr.org; Do White People Own ‘Only’ 22 Percent of South Africa’s Land?, AFP Fact Check, 19.07.2019, factcheck.afp.com.
43 Brett Davidson, What Musk and Trump Describe Is Not the South Africa I Know and Love, Al Jazeera, 25.03.2025; Bartlett, What’s Trump’s Beef with South Africa?; Gavin, Trump’s Misguided Policy Toward South Africa; Trita Parsi, ICJ Lands Stunning Blow on Israel Over Gaza Genocide Charge, Responsible Statecraft, 26.01.2024, responsiblestatecraft.org; Gerald Imray, Expelled South African Ambassador Returns Home, Says Will Wear US Sanction as a ‘Badge of Dignity’, Associated Press, 23.03.2025.
44 Hunter Walker, Trump’s Pick for Ambassador to South Africa Actively Opposed Fight to End Apartheid, Talking Points Memo, 26.03.2025; Stephen Millies, Trump Wants a Super Bigot to Be Ambassador to South Africa, «Struggle for Socialism/La Lucha por el Socialismo», 01.04.2025, struggle-la-lucha.org; Lucas Shaw, Barack Obama: Now He’s a Skinny, Ghetto Crackhead?, Reuters, 23.12.2011.
45 Stewart Patrick, Trump’s Distorted View of Sovereignty and American Exceptionalism, Carnegie Endowment for International Peace, January 30.01.2025; Donald Trump, The Inaugural Address, The White House, 20.012025.
46 Abboud, Klasa e Foy, U.S. Tells European Companies to Comply with Donald Trump’s Anti-Diversity Order.
47 Laurence H. Shoup e William Minter, Imperial Brain Trust: The Council on Foreign Relations and United States Foreign Policy, Monthly Review Press, New York, 1977; Laurence H. Shoup, Wall Street’s Think Tank, Monthly Review Press, New York, 2015.
48 Hegseth, American Crusade, pp. 92-94.
49 James M. Lindsay, The Costs of Trump’s Foreign Policy Disruption, Council on Foreign Relations, 31.01.2025.
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Quinta parte
La dottrina Trump e la guerra alla Cina
Nel 2010-2011 l’amministrazione Obama ha avviato il suo [programma] “Pivot to Asia”, volto all’accerchiamento militare e geoeconomico della Cina. Eppure, all’epoca, gli Stati Uniti speravano ancora che in Cina emergesse un “Gorbaciov” che avrebbe rappresentato un passaggio decisivo al capitalismo, scalzando il Partito Comunista Cinese (PCC) e permettendo agli Stati Uniti di riguadagnare la loro supremazia in Asia. Nel 2015 era evidente che queste speranze da parte dei grandi strateghi imperiali degli Stati Uniti fossero state deluse, e che l’ascesa di Xi Jinping a presidente del PCC e presidente della Repubblica Popolare Cinese (RPC) rappresentava il rinvigorimento del “socialismo con caratteristiche cinesi”. Sono stati gli strateghi repubblicani vicini a Trump, nella sua prima amministrazione, che hanno avviato la Nuova Guerra Fredda contro la Cina, insieme a un tentativo di distensione con la Russia, il tutto volto a limitare e sconfiggere Pechino.50
Durante l’amministrazione Biden c’è stato un ritorno alla strategia imperiale a lungo termine di allargamento verso est della NATO, all’Ucraina, le cui basi erano già state gettate con il colpo di stato di Maidan, organizzato dagli Stati Uniti, che ha portato al rovesciamento del presidente democraticamente eletto Victor Yanukovych nel 2014, seguito dalla guerra civile in Ucraina. Nel 2022, dopo otto anni di spargimenti di sangue e l’inosservanza da parte di Kiev degli accordi di pace di Minsk che istituivano il Donbass come regione autonoma, la guerra civile in Ucraina si è trasformata in una guerra per procura su vasta scala tra la NATO e la Russia, poiché Mosca è intervenuta a fianco del Donbass russofono, prevenendo un attacco in preparazione da parte del regime di Kiev.51 Nonostante fosse impegnata in Ucraina in una grande guerra per procura contro la Russia – durante la quale gli Stati Uniti e la NATO hanno fornito massicci aiuti militari e supporto logistico – l’amministrazione Biden ha continuato a portare avanti la Nuova Guerra Fredda contro la Cina lanciata da Trump, minacciando così contemporaneamente la Russia e la Cina.52
Con la rielezione di Trump nel 2024 la politica statunitense è tornata a concentrarsi sul tentativo di porre fine alla guerra per procura degli Stati Uniti con la Russia in Ucraina, in modo da concentrare la grande strategia imperiale USA sull’unico obiettivo: limitare l’ascesa della Cina. In quella che è diventata nota come una “strategia Kissinger al contrario”, l’amministrazione Trump ha cercato ancora una volta di stabilire una distensione con la Russia, nel tentativo di dividere le due superpotenze eurasiatiche.53 Il regime MAGA sta conducendo la Nuova Guerra Fredda contro la Cina su basi sempre più bellicose, accelerando la sua spesa militare, spostando le risorse nazionali da altre priorità interne ed estere e armando tutti i suoi mezzi economici e tecnologici, il tutto accompagnato da un nuovo maccartismo. Tutto questo si sta svolgendo come parte di una più ampia crociata a sfondo razziale contro tutti gli immigrati, gli “stranieri” e i sostenitori della Palestina, della Cina e dei non occidentali in generale, accompagnata da deportazioni su base politica, in alcuni casi in campi di concentramento all’estero.54
Rubio, un ideologo violentemente anticomunista, ha dichiarato nelle audizioni al Senato per la sua nomina che la Cina «ha imbrogliato per ottenere lo status di superpotenza» a spese degli Stati Uniti. Hegseth ha dichiarato che «la Cina comunista… vive di tirannia, furto e inganno» ed è il principale nemico degli Stati Uniti. Come Segretario alla Difesa, ha dichiarato che Washington è «pronta» per una guerra con Pechino, che apparentemente vuole ancora evitare. Il consigliere per la sicurezza nazionale di Trump, Mike Waltz, estromesso dalla sua posizione nel mese di maggio per lo scandalo Signal, ha fatto riferimento direttamente a una «guerra fredda» con la Cina e ha definito «il Partito comunista cinese» come il principale nemico di Washington.55
Al fine di comprendere gli aspetti strategici della Guerra Fredda degli Stati Uniti contro la Cina e i pericoli che pone di una Guerra Calda, è importante comprendere la natura della strategia di counterforce** [strategia di attacco preventivo-rappresaglia limitata] e la nozione di guerra nucleare limitata tra superpotenze. La concezione originale di Guerra Fredda, nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, era che le superpotenze nucleari non potevano impegnarsi in una Guerra Calda tra loro senza la ‘mutual assured destruction’ (MAD) [distruzione reciproca assicurata]. Pertanto, si dovevano impegnare in conflitti in tutto il mondo in modalità tali da non arrivare allo scontro diretto tra superpotenze. La politica nucleare degli Stati Uniti si è quindi basata per decenni sulla MAD, il che significava che le armi nucleari erano inutilizzabili e la guerra nucleare impensabile. Tutto ciò era associato a un approccio minimalista agli armamenti nucleari. Negli anni ’80, tuttavia, la posizione nucleare degli Stati Uniti si era spostata verso una dottrina massimalista di counterforce, volta a rendere le armi nucleari utilizzabili (di nuovo) e la guerra nucleare pensabile. La dottrina di counterforce ha come obiettivo primario lo sviluppo della capacità di first strike [primo attacco] o del primato nucleare (che consentirebbe a Washington di eliminare con un primo attacco la capacità di ritorsione dell’altra parte). Il suo obiettivo secondario – soprattutto se la supremazia nucleare si rivelasse irraggiungibile – è una guerra nucleare limitata in cui gli Stati Uniti dominerebbero tutti i livelli di escalation. In una guerra nucleare limitata, si teorizza, gli Stati Uniti saranno in grado di sconfiggere la superpotenza avversaria, costringendola a fare marcia indietro, a meno che non si verifichi un’apocalisse nucleare globale.56
Nella comunità di pianificazione strategica degli Stati Uniti, il principale teorico di una guerra nucleare limitata con la Cina, da combattere molto probabilmente per Taiwan, è Elbridge A. Colby, sottosegretario alla Difesa di Trump. Di sangue blu, educato ad Harvard, Colby è il nipote dell’ex direttore della CIA William Colby. Elbridge Colby è stato vice assistente segretario alla Difesa per la strategia e lo sviluppo delle forze nella prima amministrazione Trump. È stato l’autore principale dell’U.S. National Defense Strategy del 2018. Dopo la prima amministrazione Trump, ha co-fondato il think tank strategico Marathon Initiative, e ha sviluppato forti legami con la Heritage Foundation.
La nomina di Colby è stata fortemente osteggiata dai neoconservatori repubblicani (così come dai democratici) a causa di quello che è stato considerato un atteggiamento tutt’altro che aggressivo sull’Iran e quindi sul Medio Oriente. Ciò era collegato alla sua posizione secondo cui la Cina è la vera minaccia, e che la macchina da guerra degli Stati Uniti dovrebbe concentrarsi sull’Indo-Pacifico anche a scapito di altri teatri. A questo proposito Colby ha avuto il pieno sostegno del MAGA, incluso il vicepresidente degli Stati Uniti J. D. Vance; il plurimiliardario e zar del Department of Government Efficiency (DOGE) Elon Musk; Charlie Kirk, capo di Turning Point USA; la rivista «Compact»; il presidente della Heritage Foundation Kevin Roberts, con il quale Colby è coautore di un articolo in cui sostiene che Washington dovrebbe spostare la sua attenzione dall’Ucraina alla Cina.57 Generalmente visto come un repubblicano “realista” alla Henry Kissinger, Colby pone l’accento soprattutto sulla necessità di prepararsi in modo aggressivo per una guerra limitata (nucleare) con la Cina per Taiwan. Sotto la sua direzione, nel 2018, la National Defense Strategy ha individuato la Cina come il principale nemico e, per la prima volta in assoluto, ha esplicitamente integrato la guerra nucleare limitata nella strategia generale di difesa nazionale degli Stati Uniti.58
Colby è visto nei circoli geopolitici e militari come il principale sostenitore della “strategia di negazione” mirata alla Cina. Si tratta di una strategia di “guerra limitata”, che potenzialmente impiega tutta la forza militare non strategica più le armi di counterforce, in conformità con la “Dottrina Schlesinger” (dal nome del Segretario alla Difesa di Richard Nixon, James Schlesinger). Strutturando la sua argomentazione in termini di un imminente attacco della RPC [Repubblica Popolare Cinese] a Taiwan (riconosciuta a livello internazionale, anche da Washington, come parte autonoma e autogovernata della Cina), Colby inizia dichiarando che gli Stati Uniti non possono più contare su un dominio militare assoluto a livello globale o nella regione indo-pacifica. Una “guerra preventiva” degli Stati Uniti contro la Cina per Taiwan, come nel caso di numerose guerre imperiali degli Stati Uniti in passato, deve essere evitata, dal momento che la Cina, come gli Stati Uniti, ha un arsenale nucleare che sopravviverebbe a un primo attacco. Ciononostante, sostiene Colby, gli Stati Uniti conservano capacità di counterforce superiori, che gli conferiscono un vantaggio nelle varie fasi dell’escalation. Le nazioni, afferma, non «hanno opzioni altrettanto buone per un’escalation incrementale al di sotto del livello apocalittico». Una strategia di negazione significa quindi togliere l’obiettivo militare alla controparte, facendo in modo che l’escalation per uscire dal conflitto o per seguire gli Stati Uniti lungo la scala dell’escalation, sia [per essa] troppo costosa.59
Secondo Colby, in base alla strategia di negazione in un conflitto con la RPC su Taiwan, Washington cercherebbe di evitare l’uso di armi nucleari per distruggere ”city-busting” [aree estese, grandi come città], attaccare centri di comando nucleari o tentare direttamente di “decapitare” la leadership politica della RPC. Non potrebbe esserci un attacco “one fell-swoop” [con un colpo solo/preventivo] che costringa la RPC a impiegare tutto il suo deterrente. Tuttavia, secondo Colby, Washington potrebbe vincere la guerra rendendo proibitivo per la Cina passare al livello successivo. Questo comprenderebbe, nella scala di escalation statunitense: attacchi alle «infrastrutture di trasporto interno cinese…, ai siti di produzione e distribuzione di energia, ai nodi delle telecomunicazioni, agli aeroporti e porti marittimi» e, a un ulteriore livello di escalation, alla sua «base industriale, alla produzione di tecnologia commerciale e al settore finanziario», fino ad arrivare ad attacchi di “counterforce” alle «forze di proiezione di potenza nucleare» cinesi e «in ultima analisi all’obiettivo del regime», ovvero al PCC. Colby sostiene che se la RPC dovesse riuscire ad assicurarsi Taiwan, cosa ritenuta probabile in un conflitto di questo tipo, gli Stati Uniti dovrebbero essere pronti a combattere una guerra limitata per “riconquistarla”, come parte della complessiva strategia di negazione. Questa strategia prevede, in preparazione di una guerra limitata, il rafforzamento delle capacità militari di Taipei e della prima e seconda catena di basi statunitensi nell’Indo-Pacifico, nonché l’espansione delle alleanze militari statunitensi in tutta la regione. Ciò potrebbe, sostiene Colby, degenerare in una guerra nucleare limitata, evitando, teoricamente, un’escalation totale verso una guerra nucleare. Di recente, sotto l’amministrazione Biden, gli Stati Uniti hanno installato nelle Filippine – da dove possono colpire la terraferma cinese – missili a medio raggio, in grado di trasportare armi nucleari.60
Un aspetto cruciale di questa cosiddetta teoria “difensiva” è che gli Stati Uniti, grazie al loro dispiegamento avanzato, sarebbero in grado di attaccare la terraferma cinese con forze regionali e missili a medio raggio, mentre la RPC avrebbe poche opzioni di risposta – a meno di usare missili balistici intercontinentali (ICBM) in grado di raggiungere la terraferma statunitense – e quindi si troverebbe ridotta a obiettivi come la principale base militare statunitense di Guam. Se la Cina dovesse effettivamente rispondere con attacchi missilistici intercontinentali (ICBM) agli attacchi degli Stati Uniti, ciò rischierebbe di innescare uno scambio termonucleare globale su vasta scala. Secondo Colby, Washington dovrebbe quindi sforzarsi, anche in una guerra nucleare limitata, di infliggere alla Cina continentale danni sufficienti a costringerla ad accettare una vittoria degli Stati Uniti, senza però arrivare ad indurre la Cina ad attaccare la terraferma americana, poiché ciò avrebbe un’alta probabilità di provocare un olocausto globale. La strategia straordinariamente pericolosa e fantasiosa di Colby si focalizza quindi irrazionalmente su una guerra limitata con la Cina, che, secondo la sua concezione potrebbe degenerare in una guerra nucleare limitata. Questa strategia asserisce intenzionalmente che l’escalation da parte della Cina potrebbe essere controllata e limitata dal dominio statunitense su ogni gradino della scala [dell’escalation], portando alla “fine della guerra” e alla vittoria finale degli Stati Uniti.
La Strategia di Difesa Nazionale del 2018, che si basava in gran parte sulla formulazione di Colby, viene talvolta definita “pace attraverso la forza”. La strategia si basa sulla preparazione a combattere una guerra nucleare limitata con la Cina, partendo dal presupposto che la vittoria possa essere raggiunta grazie a «prestazioni superiori all’interno di un determinato insieme di regole», senza rischiare un’apocalisse nucleare.61 Tuttavia, la ragione suggerisce che la strategia di negazione di Colby – attacchi alla terraferma cinese che si intensificherebbero eventualmente con attacchi di counterforce su obiettivi strategici/nucleari – porti, come risultato finale ad un aumento della probabilità di MAD (Mutual Assured Destruction) [Distruzione reciproca assicurata]. Uno scambio termonucleare generalizzato porterebbe allo sterminio di quasi tutta l’umanità a causa di megaincendi in centinaia di città che porterebbero fumo e fuliggine nella stratosfera e all’inizio di un inverno nucleare.62
Nell’audizione di conferma al Senato, Rubio ha affermato, senza mezzi termini, che la Cina avrebbe invaso Taiwan entro il decennio, a meno che le ripercussioni di un tale impegno militare non siano troppo pesanti, usando il termine “strategia del porcospino” per indicare la strategia di negazione. Ha sostenuto che Taiwan dovrebbe essere armata fino ai denti e che le forze armate statunitensi dovrebbero essere pronte a negare la presa coercitiva del controllo dell’isola da parte della Cina, rendendola proibitiva in termini di costi. Durante l’audizione per la sua nomina, Colby ha dichiarato che Taiwan deve aumentare la sua spesa militare da meno del 3% al 10% del suo PIL. I funzionari statunitensi hanno continuamente fatto riferimento ad una prevista invasione di Taiwan da parte della Repubblica Popolare Cinese entro il 2027, nota come “Davidson Window” [finestra Davidson] – dopo una dichiarazione in tal senso nel 2021 del capo uscente del Comando Indo-Pacifico degli Stati Uniti, l’ammiraglio Phil Davidson (che ha ricevuto la sua nomina sotto Trump). Tuttavia, non vi è alcun fondamento concreto a sostegno di tale affermazione, né per quanto riguarda la data del 2027, né per quanto riguarda la decisione della Cina di intervenire militarmente. La politica ufficiale di Pechino rimane quella di un’unificazione pacifica attraverso lo stretto. Secondo «Defense News», il fatto che «Washington DC è diventata ossessionata» dall’idea di un’invasione di Taiwan da parte della RPC entro il 2027 ha influenzato la politica militare e di sicurezza nazionale degli Stati Uniti nei confronti della Cina, creando ulteriori tensioni nella regione indo-pacifica.63
Inutile dire che, sebbene le operazioni militari statunitensi siano solitamente formulate in termini di “difesa”, ciò è sempre accompagnato dalla dichiarazione che gli Stati Uniti, nell’ambito della loro posizione nucleare ufficiale, sono pronti a condurre un primo attacco nucleare, opzione che rimane sempre “sul tavolo”. Come ha affermato Musk, il più grande appaltatore militare del Pentagono, in un’intervista del 2024, un olocausto nucleare «non è così spaventoso come la gente pensa». Ha aggiunto che «Hiroshima e Nagasaki sono state bombardate, ma ora sono di nuovo città piene di gente». Trump ha concordato, rispondendo: «Fantastico, fantastico».64
L’iniziativa militare più stravagante e insensata di Trump è il suo “Golden Dome” [Cupola d’Oro], destinato a proteggere gli Stati Uniti dai missili in arrivo. Nelle fasi iniziali, ciò comporterebbe miglioramenti degli intercettori di missili terra-terra. L’attenzione principale, tuttavia, è posta sullo sviluppo, nello spazio, di migliaia di satelliti dotati di missili ipersonici. La SpaceX di Musk – che domina il campo dei piccoli satelliti e dei lanci spaziali, ed è il principale appaltatore della difesa statunitense in armi spaziali – sembra essere attualmente in vantaggio nell’ottenere i contratti per costruire il Golden Dome. Inoltre, Castelion, la società di SpaceX, guidata da ex dipendenti senior di SpaceX, si sta concentrando sullo sviluppo di missili ipersonici. Un altro importante concorrente per i contratti del Golden Dome è il grande appaltatore della difesa Booz Allen Hamilton, che sta lanciando la sua idea di “Brilliant Swarms”, che prevede un’intera costellazione di satelliti, gestiti dall’intelligenza artificiale, tutti sulla stessa orbita, ma posti in venti piani orbitali, a 300-600 chilometri di altitudine, con ogni satellite in grado di distruggere il bersaglio.65
Sebbene il Golden Dome immaginato da Trump sia pubblicizzato come uno scudo difensivo per gli Stati Uniti, il suo scopo principale è offensivo, poiché gli Stati Uniti, efficacemente protetti dai missili in arrivo, avrebbero la supremazia nucleare o la capacità di first strike [primo colpo] in grado di intercettare missili vaganti sopravvissuti a un attacco iniziale contro un’altra superpotenza nucleare. Un tale sistema sarebbe assolutamente inutile contro un attacco nucleare su vasta scala da parte di un’altra superpotenza, poiché condividerebbe le debolezze di tutti gli altri sistemi missilistici antibalistici, in quanto sarebbe facilmente sopraffatto dal numero di missili. Inoltre, i missili terrestri saranno sempre più facili ed economici da costruire rispetto agli intercettori spaziali. Infatti, per sfruttare la superiorità delle armi di counterforce e spaziali statunitensi, e rendere fattibile il suo scudo nucleare Golden Dome, Trump ha lanciato l’idea di una denuclearizzazione strategica che limiterebbe il numero di testate/missili balistici da entrambe le parti. Questo perché uno dei principali mezzi per garantire la sopravvivenza nucleare, e il mezzo principale per penetrare gli scudi missilistici progettati per fornire capacità di primo attacco, è il numero stesso di missili. In effetti, la costruzione della Golden Dome da parte di Trump rischia di rendere impossibile qualsiasi ulteriore disarmo nucleare e di innescare invece una nuova corsa agli armamenti nucleari.66
Sebbene il Golden Dome di Trump miri apparentemente a proteggere la popolazione statunitense dallo sterminismo nucleare, la sua amministrazione sta simultaneamente revocando tutti gli sforzi per proteggere la popolazione statunitense e mondiale dallo sterminismo associato al riscaldamento globale. Il suo regime MAGA non solo ha direttamente eliminato tutti gli sforzi federali per la mitigazione dei cambiamenti climatici, ma con un ordine esecutivo emesso nell’aprile 2025 ha ordinato al Procuratore Generale degli Stati Uniti di adottare misure volte a impedire l’applicazione di tutte le leggi statali e locali esistenti volte a contrastare i cambiamenti climatici. Lo ha fatto semplicemente decretando che tali misure statali e locali per la protezione dell’ambiente erano illegali e violavano le politiche dell’amministrazione.67
(5/6. Segue)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
50 Foster, Trump in the White House, pp. 50-52, 74-75.
51 Vedi Thomas Palley, The Russia War Explained: How the U.S. Exploited the Internal Fractures in the Post-Soviet Order, «Monthly Review» 77, n. 2, giugno 2025.
52 John Bellamy Foster e Brett Clark, Imperialism in the Indo-Pacific — An Introduction, «Monthly Review» 76, n. 3, luglio-agosto 2024, pp. 6-13, trad. it. Imperialismo nell’Indo-Pacifico: un’introduzione, antropocene.org, 26.07.2024.
53 Vijay Prashad, Donald Trump’s Reverse Kissinger Strategy, People’s Dispatch, 06.03.2025.
54 Questo è il caso delle deportazioni verso Guantanamo e i famigerati complessi carcerari in El Salvador. Vedi Chris Hedges, American Concentration Camps, «ScheerPost», April 17.04.2025.
55 Antara Ghosal Singh, China’s Rubio Dilemma, «Observer Research Foundation», 11.02.2025, orfonline.org; Hegseth, American Crusade, p. 157; Sarah Ewall-Wice, Pete Hegseth Says the US Is ‘Prepared’ for War with China After Tariff Retaliation Threat, «Daily Mail», 05.03.2025; Selina Wang, Rubio and Waltz Picks Put China Back at the Center of U.S. Foreign Policy, ABC News, 12.11.2024.
** N.d.T. Counterforce: strategia di attacco preventivo – rappresaglia limitata. Viene lasciato nell’originale inglese in quanto non ha un corrispondente diretto in italiano.
56 Vedi John Bellamy Foster, The U.S. Quest for Nuclear Primacy, «Monthly Review» 75, n. 9, febbraio 2024, pp. 1-21, trad. it. La ricerca del primato nucleare da parte degli Stati Uniti, antropocene.org, 29.02.2024.
57 Daniel McCarthy, Why Elbridge Colby Matters, «Compact», 21.02.2025; Kelley Beaucar Vlahos, Realists Cheer as Elbridge Colby Named Top DoD Official for Policy, «Responsible Statecraft», 23.12.2024; Elbridge A. Colby e Kevin Roberts, The Correct Conservative Approach to Ukraine Shifts the Focus to China, «Time», 21.03.2023.
58 U.S. Department of Defense, Summary of the 2018 National Defense Strategy: Sharpening the American Military’s Competitive Edge, Defense Acquisition University, dau.edu; John Bellamy Foster, The U.S. Quest for Nuclear Primacy, p. 15; Jacob Heilbrunn, Elbridge Colby Wants to Finish What Donald Trump Started, «Politico», 11.04.2023.
59 Elbridge A. Colby, The Strategy of Denial: American Defense in an Age of Great Power Conflict, Yale University Press, New Haven, 2021, pp. 83, 95, 147, 172, 183.
60 Colby, The Strategy of Denial, pp. 182-183, 197; Elbridge A. Colby e Yashar Parsie, Building a Strategy for Escalation and War Termination, Marathon Initiative, novembre 2022, pp. 9, 17-18, 20-23; Abdul Rahman, China Demands Withdrawal of U.S. Missile System from the Philippines, Calls It a Threat to Regional Peace and Security, «People’s Dispatch», 28.12.2024. Sullo schieramento militare avanzato degli Stati Uniti e l’accerchiamento della Cina, vedi Foster e Clark, Imperialism in the Indo-Pacific, pp. 13-19.
61 Colby, The Strategy of Denial, p. 90; Colby e Parsie, Building a Strategy of Escalation and War Termination, p. 17; Bill Gertz, Pentagon Policy Nominee Says U.S. Must Act or Risk Losing War with China: Colby Vows to Adopt America First and Peace Through Strength, «Washington Times», 04.03.2025.
62 John Bellamy Foster, ‘Notes on Exterminism’ for the Twenty-First Century Ecology and Peace Movements”, «Monthly Review» 74, n. 1, maggio 2022, pp. 1-17, trad. it. “Note sullo sterminismo” per i movimenti ecologisti e pacifisti del ventunesimo secolo, antropocene.org, 30.08.2024.
63 Micah McCartney, China Will Launch War This Decade, Trump Nominee Says, «Newsweek», 16.01.2025; Taiwan Needs to Hike Defense Spending to 10% — Pentagon Nominee, Reuters, 04.03.2025; Noah Robertson, How DC Became Obsessed with a Potential 2027 Chinese Invasion of Taiwan, «DefenseNews», 07.05.2024; John Culver, China, Taiwan, and the PLA’s 2027 Milestones, «The Interpreter», 12.02.2025, lowyinstitute.org/the-interpreter.
64 Alisha Rahaman Sarkar, Elon Musk Draws Fire for Playing Down Impact of Atomic Bombing of Japan: ‘Not as Scary as People Think’, «Independent», 13.08.2024; Sumanti Sen, Elon Musk Under Fire for ‘Minimizing’ Hiroshima and Nagasaki Tragedy by Saying It’s ‘Not as Scary as People Think’, «Hindustan Times», 13.04.2024.
65 Patrick Tucker, Trump to Get Golden Dome Options Next Week: Defense Source, «Defense One», 27.03.2025; Binoy Kampmark, Trump’s Star Wars Revival: The Golden Dome Antimissile Fantasy, «Dissident Voice», 25.03.2025.
66 Zeke Miller e Michelle L. Price, Trump Wants Denuclearization Talks with Russia and China, Hopes for Defense Spending Cuts, Associated Press, 14.02.2025.
67 Donald J. Trump, The White House, Protecting American Energy from State Overreach, Executive Orders, 08.04.2025.
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Sesta parte
America First / Amerika über Alles
Noam Chomsky sosteneva che la propaganda nelle società democratiche doveva essere più sofisticata di quella degli stati autoritari, poiché nelle prime si svolgeva alle spalle del popolo – basandosi su valori profondamente interiorizzati e sulla complicità dei media, utilizzando tutte le tecniche sviluppate nella pubblicità/marketing – mentre nei secondi poteva essere piuttosto rozza e aperta, imposta con il manganello.68 Tuttavia, la propaganda di stampo fascista contro intere etnie e popoli, come la Germania di Adolf Hitler ha dimostrato, è senza dubbio più efficace quando è presentata nella sua forma più sfacciatamente rozza, basandosi non tanto sul manganello quanto, attingendo alla “rabbia accumulata” generata dal capitalismo, sull’indurre masse di persone, pur consapevoli del suo carattere disumanizzante e coercitivo, a identificarsi apertamente con essa. Questo diventa allora il culmine dell’irrazionalismo. Come scrisse Bloch, «in una cosa le camicie brune sono oneste, nell’arte di non dire il vero», una sfacciata ritirata dalla ragione.69
Un buon esempio di tale propaganda irrazionalista è il famigerato manifesto nazista del novembre 1933 che recitava «Con Adolf Hitler, sì all’uguaglianza e alla pace».70 Il Trattato di Versailles del 1919 aveva limitato l’esercito tedesco a centomila soldati. Quando la Società delle Nazioni si rifiutò di accogliere le richieste di Hitler di riarmare il paese, Hitler, il 12 novembre 1933 – quindicesimo anniversario dell’armistizio che portò alla fine della Prima Guerra Mondiale – indisse un plebiscito nazionale. Lo slogan nazista, come nel manifesto, era un appello a sostenere Hitler per “l’uguaglianza e la pace”. Alla popolazione veniva chiesto di sostenere il Führer, nel chiedere per la nazione tedesca l’uguaglianza di status nella sua capacità di fare la guerra, insieme alla promessa di pace attraverso la forza. Tutto ciò faceva parte di un tentativo di rendere la Germania di nuovo grande dopo la sconfitta nella Prima Guerra Mondiale e le umiliazioni del Trattato di Versailles.71
La propaganda non è soltanto una questione di menzogne, si manifesta anche quando le affermazioni di verità vengono completamente accantonate. Nella filosofia contemporanea, il concetto di “bullshit” [cazzata/stronzata] è visto come una forma di «comunicazione persuasiva, distinta dalla menzogna, che non ha alcun riguardo per la verità, la conoscenza o l’evidenza». Mettendo fine al dibattito razionale, la pura bullshit, pubblicizzando la sua prospettiva muscolare, sprezzante ed evasiva, è spesso più efficace della propaganda standard, persino di quella orwelliana, poiché non si limita a capovolgere la verità, ma mostra apertamente disprezzo per la verità di qualsiasi tipo.72 È quindi una potente arma dell’irrazionalismo. In questo senso, i negazionisti del cambiamento climatico fanno spesso affidamento su bullshit per combattere la scienza, ostentando con orgoglio la loro negazione della ragione stessa.73 Nell’annunciare i dazi del “Giorno della Liberazione”, Trump ha affermato che «per decenni, il nostro Paese è stato saccheggiato, violentato e depredato da nazioni vicine e lontane, amiche e nemiche», utilizzando una retorica così iperbolica e irrazionale da poter essere classificata non tanto come una menzogna quanto come una pura bullshit. Non pretendeva nemmeno di essere un’accurata rappresentazione della verità, ma mostrava un atteggiamento sprezzante nei confronti del mondo intero – un atteggiamento che, come disse l’economista marxista Paul A. Baran a proposito del protagonista di Memorie dal sottosuolo di Fëdor Dostoevskij, «vomita la ragione».74
Quando Trump dichiarò alle elezioni del 2024 a Dearborn, nel Michigan, di «essere il candidato per la pace», e continuò dichiarando «io sono la pace», alcuni lo presero alla lettera, non riuscendo a percepire ciò come una dichiarazione propagandistica del leader di un movimento neofascista, ipernazionalista e razzista, sostenuto dai settori più conservatori della classe dominante statunitense.75 Durante la sua campagna elettorale, lasciò intendere di avere un piano segreto per portare la pace a Gaza. Iniziò a metterlo in atto una volta entrato alla Casa Bianca, proponendo, insieme a Netanyahu, lo sterminio/deportazione dell’intera popolazione palestinese di Gaza: ovvero, la pace della tomba.
Alcuni esponenti della sinistra, come Parenti, hanno sostenuto che Trump sia un “isolazionista dell’America First”, contrario all’impero.76 In realtà, “America First” era storicamente uno slogan imperialista, più strettamente legato al titolo dello slogan nazista Deutschland über alles (“Germania sopra tutto”) che allo storico isolazionismo statunitense, esso stesso in gran parte un mito. Deutschland über alles è tratto dall’inno nazionale tedesco adottato durante la Repubblica di Weimar, che originariamente si riferiva all’unificazione della Germania. Fu reinterpretato e trasformato in uno slogan che usa come arma l’inno nazionale del Terzo Reich, simboleggiando una sorta di destino-manifesto della Germania per governare l’Europa. In uno sviluppo storico, in qualche modo analogo, lo slogan “America First” fu introdotto da Woodrow Wilson per rappresentare la neutralità statunitense nella Prima Guerra Mondiale, poco prima dell’entrata degli Stati Uniti nella «Guerra per porre fine a tutte le guerre». Negli anni ’30, il monopolista dei media William Randolph Hearst mise “America First” sulla testata dei suoi giornali e celebrò, con Hearst che intervistava personalmente Hitler, il “grande successo” del regime nazista in Germania. Charles Lindbergh, aviatore di fama mondiale, divenne il capo dell’America First Committee al tempo della Seconda Guerra Mondiale e un esponente della superiorità razziale ariana e dell’antisemitismo. Ricevette una medaglia dal feldmaresciallo Hermann Göring a nome di Hitler. L’Anti-Defamation League esortò Trump ad abbandonare lo slogan “America First”, data la sua storia filo-nazista, ma lui continuò ad usarlo per definire la sua politica estera.77
Lo slogan di Trump “pace attraverso la forza”, ha le sue origini nell’Impero Romano. Si dice che sia stato utilizzato per la prima volta dall’imperatore Adriano, noto soprattutto per il Vallo di Adriano, costruito nella provincia romana della Britannia nel 122 d.C. Il vallo aveva lo scopo di difendere dagli “invasori” barbari i confini dell’Impero Romano, al momento della sua massima espansione.78 Con l’inizio del declino imperiale, l’idea di barbari invasori diventa presto onnipresente, portando alla richiesta di costruire muri di confine e Golden Dome. L’irrazionalismo della Dottrina Trump, che propone un rinnovato dominio globale degli Stati Uniti attraverso un aggressivo nazionalismo razziale, individua quella che István Mészáros ha definito la «fase potenzialmente più letale dell’imperialismo», un periodo di barbarie nucleare.79
In Eredità di questo tempo, scritto nel 1935, durante il consolidamento del regime nazista, Bloch scrisse: “È veramente il colmo dopo cent’anni di movimento operaio tedesco: un mostro è diventato realtà e consegna il proletario in catene al Reich millenario, al capitale finanziario che si maschera da comunità del popolo”.80 Nel 2025, gli Stati Uniti sono soggetti a un movimento neofascista di enorme importanza, in cui “il colmo”, dopo una lunga storia di lotta democratica radicata nei movimenti operai, è che «un mostro è diventato realtà», consegnando i lavoratori sempre più «in catene» al «capitale finanziario mascherato da comunità del popolo» e a una nuova Guerra Fredda contro la Cina e il Sud globale.
La classe dominante miliardaria statunitense – lungo la strada del sostegno al genocidio israeliano dei palestinesi e di una potenziale guerra con la Cina – ha spostato il suo sostegno dalla democrazia liberale al neofascismo, o al massimo a un’alleanza neofascista-neoliberista. Settori chiave della classe capitalista hanno mobilitato la classe medio-bassa sulla base di un’ideologia nazionalista e revanscista, in cui la popolazione di gran parte del mondo è vista come il nemico. Si stanno creando strutture volte a eliminare la possibilità di una rivolta democratica di massa dal basso e l’inversione delle attuali tendenze distruttive. Esiste un solo movimento sulla Terra in grado di invertire queste tendenze pericolose e distruttive a favore dell’umanità nel suo complesso: il movimento globale verso il socialismo, che è anche necessariamente un movimento antimperialista. Il peggior errore che si possa commettere in questa drammatica situazione sarebbe sottovalutare il pericolo, o sottovalutare l’importanza della lotta umana rivoluzionaria ora necessaria.
24 giugno 2025
(6/6. Fine)
John Bellamy Foster
(Traduzione a cura della Redazione di Antropocene.org)
Fonte: «Monthly Review» 2025, vol. 77, n. 02 (01.06. 2025)
(Tratto da: https://antropocene.org/index.php/739-la-dottrina-trump-e-il-nuovo-imperialismo-maga).
Note
68 Noam Chomsky intervistato da David Barsamian, Chronicles of Dissent, Common Courage Press, Monroe, Maine, 1992, pp. 62-63.
69 Bloch, Eredità di questo tempo, p. 113, 153-154, punteggiatura della traduzione leggermente modificata.
70 Propaganda Advertisement Implying that Hitler Supports Equality and Peace, United States Holocaust Memorial Museum, accesso numero: 1990.333.7, collections.ushmm.org/search/catalog/irn3775.
71 Norm Haskett, Germany Exits League of Nations, The Daily Chronicles of World War II, ww2days.com.
72 Vukašin Gligorić, Allard Feddes e Bertjan Doosje, Political Bullshit Receptivity and Its Correlates: A Cross-Country Validation of the Concept, «Journal of Social and Political Psychology» 10, n. 2, 2022, pp. 411–429; Harry G. Frankfurt, On Bullshit, Princeton University Press, Princeton, 2005.
73 Joshua Luczak, Climate Denialism Bullshit Is Harmful, «Asian Journal of Philosophy» 2, n. 1, 2023, pp. 1-20.
74 Josh Boak, Trump Launches Tariffs, Saying Global Trade Has ‘Looted, Pillaged, Raped, Plundered’ US Economy, Associated Press, April 2, 2025; Paul A. Baran, The Longer View, Monthly Review Press, New York, 1969, p. 104.
75 Mehdi Hasan, Is Donald Trump a Foreign Policy Dove?: If Only, «Guardian», 13.11.2024; Tia Goldenberg, Trump Promises to Bring Lasting Peace to a Tumultuous Middle East. But Fixing It Won’t Be Easy, Associated Press, 06.11.2024.
76 Parenti, Trump’s Real Crime Is Opposing Empire.
77 Lawrence S. Wittner, The Ugly Origins of Trump’s ‘America First’ Policy, «Foreign Policy in Focus», 19.03.2024.
78 Jarrett A. Lobell, The Wall at the End of Empire, «Archaeology» 70, n. 3, maggio-giugno 2017, pp. 26-35.
79 István Mészáros, Socialism or Barbarism, Monthly Review Press, New York, 2001, pp. 23-56.
80 Bloch, Eredità di questo tempo, p. 110.
Il Dalai Lama Tenzin Gyatso oggi.
Fonte della foto: il manifesto
Dal sito del CeSEM (Centro Studi Eurasia e Mediterraneo)
di Maria Morigi*
In Occidente ogni occasione è buona per ricordare la leggenda della presunta occupazione maoista del Tibet, una leggenda che raramente viene messa in discussione, ma che non si fonda su dati storici reali, essendo il Tibet già parte dell’Impero cinese. Oggi la narrazione anticinese torna d’attualità con le manovre intorno alla successione di Tenzin Gyatso, il 14° Dalai Lama.
La studiosa di Storia delle religioni Maria Morigi fa chiarezza su tali questioni.
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Cataclisma sul Tetto del mondo per il successore del Dalai Lama
di Maria Morigi*
Se Tenzin Gyatso già nel marzo del 2011 aveva ufficialmente presentato le dimissioni in favore di un successore eletto dal Parlamento tibetano in esilio di Dharamsala, negli anni scorsi si è assistito al progressivo declino di autorità del Dalai Lama quale ‘ambasciatore’ del buddhismo nel mondo.
Papa Bergoglio, infastidito dalle interferenze USA tramite Mike Pompeo, era arrivato addirittura a non ricevere Tenzin Gyatso in Vaticano in forma ufficiale; e man mano, molti (Comune di Milano e Firenze ad esempio) sostenitori del cosiddetto “Free Tibet” si erano tirati indietro e non avevano ospitato le campagne pubblicitarie del Dalai Lama (“Oceano di Saggezza”) mettendo finalmente a fuoco che si trattava di indiretta ma palese propaganda politica anticinese.
Tuttavia per chi si interessa di Tibet e segue le previsioni di meteo-terremoti-catastrofi, era annunciato: sarebbe venuto il tempo anche per l’“Oceano di Saggezza” di sentire avvicinarsi il giorno finale e di preoccuparsi della nomina del suo successore. E fin qui è tutto comprensibile, salvo che l’annuncio della ricerca del successore, così come gestita dai media occidentali ignoranti di storia e prevenuti a proposito della legittima sovranità di Pechino sul Tibet, diventa un’arma quanto mai utile oggi per colpire la credibilità di Pechino.
L’approssimativa informazione del media e dei fanatici del “Free Tibet” si basa sul pregiudizio di fondo che l’immaginato “Tibet indipendente da Pechino” sia stato “invaso” dall’Esercito di Liberazione della Repubblica Popolare Cinese e il Dalai Lama costretto all’esilio nel 1959 in India. Quando la realtà storica è che il Tibet, fin dal crollo dell’Impero tibetano1, è sempre stato parte integrante dell’Impero cinese con riconoscimento di previlegi feudali alle varie e potenti Scuole lamaiste (lignaggi o Sarma2), cioè le correnti di trasmissione e ritualizzazione degli insegnamenti del buddhismo tantrico. Durante la dinastia mongola Yuan e le successive dinastie Ming e Qing, di fatto ai lignaggi tibetani era concessa un’autonomia amministrativa di tipo feudale-teocratico approvata dal Celeste Impero, il quale è sempre stato partecipe – in funzione di autorità statale – delle nomine delle due maggiori autorità lamaiste (Dalai Lama e Panchen Lama).
Aggiungiamo anche, per chiarezza, che gli unici ad invadere e occupare il Tibet sono stati gli appetiti coloniali britannici con la spedizione militare in Tibet del 1903-1904 nell’ambito del Grande Gioco che interessò tutta l’Asia centrale e l’Afghanistan in funzione anti-russa.
Un non secondario aspetto (provato da documenti CIA de-secretati) riguarda le protezioni di agenzie legate alla CIA e i finanziamenti di cui ha goduto Tenzin Gyatso per andarsene in esilio assumendo un ruolo strumentale contro la politica di Pechino intesa a tutelare le minoranze etnico-religiose in un preciso quadro normativo. E pensare che in precedenza Mao Zedong e Tenzin Gyatso avevano collaborato e trattato, immortalati da foto ufficiali, proprio per addivenire ad una concreta soluzione sulle competenze reciproche in Tibet (di sovranità neppure si parlava perché era scontato che Storia e Diritto certificavano che il territorio tibetano appartenesse alla RPC).
Ma veniamo a qualche chiarimento sull’istituzione del sistema di reincarnazione del “Buddha Vivente”. Stiamo parlando del TULKU o del “Lama incarnato”, pratica che coinvolge sia il Dalai Lama che il Panchen Lama, i due tulku più importanti della scuola Gelug (il Dalai Lama ricopre un ruolo di guida spirituale e politica, e il Panchen Lama3 – in sanscrito “erudito/grande maestro” – svolge un ruolo importante nelle pratiche religiose e rituali). Secondo i fedeli tibetani i due lama sono come il sole e la luna, entrambi hanno il supremo compito di ricercare le reciproche reincarnazioni e impartire loro gli insegnamenti della tradizione. Il Tulku fu introdotto nel XII secolo dal Karmapa, “Quello dall’azione [illuminata]”, capo spirituale del lignaggio Karma Kagyu, una delle quattro principali scuole del buddhismo tibetano. A differenza dei comuni monaci, per un lama la reincarnazione è volontaria, poiché si crede che egli ritorni a nascere in modo consapevole, spinto dal nobile desiderio di aiutare gli altri. Dal XIV secolo, quando un grande maestro muore, è diffusa la consuetudine vincolante di identificare in un bambino la reincarnazione del maestro. Il bambino verrà sottoposto ad esaurienti prove di validità, prima di essere confermato (una burocrazia devastante e tipicamente cinese!!!). Dal XIV fino alla fine del XVIII secolo, quando ormai erano manifesti gli interessi coloniali britannici e anche il bisogno di tutela del Tibet legandolo strettamente all’impero Qing, il riconoscimento del Tulku rimase inalterato. Nel 1793 l’imperatore Qianlong, per difendere e mettere sotto protezione imperiale la tradizione del Tulku, promulgò la regola secondo cui le reincarnazioni dei Dalai Lama e dei Panchen Lama, per avere validità, avrebbero dovuto essere confermate definitivamente dal governo imperiale.
In conclusione, oltre a non comprendere questo sfegatato battersi per una questione di stampo medievale-teocratico, c’è da rimanere sbalorditi di fronte alla situazione aberrante: da una parte la RPC difende la legittimità della tradizione buddhista tibetana cercando di assicurare l’appoggio statale ad una pratica che dalle parti nostre avremmo già classificato come espressione di un mondo magico-esoterico; dall’altra parte i media occidentali, con la solita pratica del doppiopesismo, si fanno paladini di un’autorità “religiosa” di cui prima di tutto non hanno capito una cippa, anche se è così suggestiva, ma che gli fa comodo pur di aizzare gli animi contro l’autocrazia / regime / dittatura cinese.
Avendo praticato il Tibet ho avuto esperienza di altre “divertenti” contraddizioni: la Cina protegge come patrimonio culturale molti culti oracolari tradizionali, e d’altra parte il Dalai Lama dal suo esilio li condanna come “infernali” (dopo essersene servito mentre era in Tibet per produrre profezie). Mi riferisco al famoso Oracolo Nechung (“Piccola dimora” in lingua tibetana), a cui vanno migliaia e migliaia di pellegrini del tutto in barba all’autorità del Dalai Lama.
4 Luglio 2025
Maria Morigi*
* Maria Morigi è archeologa, studiosa di Storia delle religioni e Conservazione del patrimonio. Come saggista ha pubblicato lavori sul rapporto tra Stato e religioni (La perla del drago, 2018, e Islam in Cina, 2023) e monografie: Xinjiang «nuova frontiera». Tra antiche e nuove vie della seta (Anteo, 2019), Afghanistan. Storia, geopolitica, patrimonio (Anteo, nuova ed. 2023), Islam tra colonizzazioni e imperialismi. Percorsi su Islam e islamismo dal XIX al XXI secolo (Anteo, 2025).
(Tratto da: Maria Morigi, Cataclisma sul Tetto del Mondo per il successore del Dalai Lama, in: https://www.cese-m.eu/cesem/2025/07/propaganda-anticinese-cataclisma-sul-tetto-del-mondo-per-il-successore-del-dalai-lama/).
Note
1 Il “Grande Tibet” nato nel 618 con Songtsen Gampo e finito nel 842 con Langdarma.
2 Il lignaggio o Sarma è depositario delle dottrine da praticare tramite esperienze fisiche e mentali guidate da lama qualificati che, a loro volta, abbiano ricevuto da altri lama le specifiche trasmissioni (Lung) e iniziazioni (Wangkur).
3 In concomitanza del governo tibetano in esilio in India, al X Panchen Lama fu concesso dalle autorità cinesi di rimanere in Tibet esercitando le proprie funzioni. Accusato dalle potenze occidentali di essere un funzionario fantoccio strumentalizzato dal regime comunista, nel 1961 presentò un rapporto sulla situazione del popolo tibetano; i dirigenti di Pechino gli offrirono la guida spirituale del Tibet, al suo rifiuto fu incarcerato e, una volta rilasciato, mantenne un atteggiamento pacifico, nel 1989 morì improvvisamente a Xigaze, forse per attacco cardiaco e in circostanze mai chiarite. La questione del successivo Tulku del Panchen Lama è ancora oggetto di controversie e naturalmente di accuse da parte occidentale.
Gerardo Hernández Nordelo.
Fonte della foto: https://encrypted-tbn0.gstatic.com/images?q=tbn:ANd9GcRKiPebI-kEBtJlcF7iyvR1F4xZlwhYvgpdr6niyDc_Vrz5Hl3ePsbBk6Fn0Q2weg7ygsM&usqp=CAU
Dal sito di «Italia-Cuba»
Gerardo Hernández denuncia la sofferenza del popolo palestinese a Gaza, critica l’attacco all’Iran e analizza l’impatto dell’ascesa dei BRICS sugli equilibri mondiali.
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Hernández (Cuba): “A Gaza in atto terrorismo di Stato. I BRICS spaventano Washington”
Gerardo Hernández Nordelo, deputato cubano noto per essere stato agente dei servizi segreti cubani, ha rilasciato dichiarazioni forti in merito alla situazione di Gaza, all’aggressione contro l’Iran e ai rapporti internazionali legati ai BRICS. Attualmente in Italia per una visita ufficiale organizzata dall’Associazione Nazionale di Amicizia Italia-Cuba, Hernández ha espresso una condanna netta verso le azioni compiute nella regione mediorientale, definendo quanto avviene a Gaza come “terrorismo di Stato”.
La condanna del terrorismo di Stato a Gaza
Nel suo intervento, Gerardo Hernández ha sottolineato la sofferenza del popolo palestinese, vittima di una situazione che dura da oltre un anno. “Condanniamo fermamente quanto sta accadendo da oltre un anno al popolo palestinese a Gaza, soffriamo per quei crimini. Si tratta di terrorismo di stato e noi cubani abbiamo sofferto il terrorismo sulla nostra pelle”, ha dichiarato. Hernández ha inoltre ricordato l’impegno di Cuba a fianco della Palestina, evidenziando come diverse organizzazioni solidali con la causa palestinese siano state riunite nel suo paese.
La situazione di Gaza si inserisce in un contesto geopolitico complesso, poiché lo Stato di Palestina – riconosciuto come osservatore permanente all’ONU – rivendica sovranità sulla Cisgiordania e sulla Striscia di Gaza, con Gerusalemme Est come capitale de iure, benché il centro amministrativo sia Ramallah. La Striscia di Gaza è amministrata de facto da Hamas dal 2007, dopo il ritiro israeliano del 2005, e la popolazione palestinese supera i cinque milioni di abitanti nel complesso dei territori rivendicati. La crisi umanitaria e le difficoltà economiche sono aggravate da restrizioni e conflitti persistenti nella regione.
Tensioni internazionali e il ruolo degli Stati Uniti
Hernández ha rivolto una critica anche agli Stati Uniti, accusandoli di un comportamento contraddittorio: “Nessuno stato dovrebbe arrogarsi il diritto di attaccare un altro stato, come hanno fatto di recente gli stessi Stati Uniti che, paradossalmente, parlano di pace mentre attaccano il popolo iraniano”. La condanna riguarda l’aggressione contro l’Iran definita da Hernández come un atto ingiustificato e pericoloso, soprattutto in un contesto in cui la minaccia di un conflitto nucleare rappresenterebbe “una vera disgrazia per l’umanità”.
Il deputato cubano ha inoltre evidenziato come il recente aumento delle tensioni internazionali sia legato alla reazione degli Stati Uniti alla crescente influenza dei BRICS, un gruppo di economie emergenti percepito come minaccia alla supremazia globale statunitense. “I BRICS vengono percepiti come una minaccia e non mi sorprenderei che gli eventi recenti avessero a che fare con la forza che i BRICS stanno acquisendo”, ha spiegato.
Gerardo Hernández Nordelo, noto per essere stato uno dei “Cinque di Cuba” arrestati negli USA negli anni ’90, è attualmente Coordinatore nazionale dei Comitati di Difesa della Rivoluzione (CDR) e membro del Consiglio di Stato cubano. La sua testimonianza offre una prospettiva politica radicata nell’esperienza storica di Cuba e nel sostegno attivo alla causa palestinese e contro le ingerenze internazionali, in particolare quelle statunitensi.
(Tratto da: https://italiacuba.it/2025/06/30/gaza-hernandez-cuba-in-atto-terrorismo-di-stato-brics-spaventano-washington/).
Inserito il 01/07/2025.
L’Aja, 24-25 giugno 2025. Vertice NATO.
Fonte della foto: https://www.difesapopolo.it/wp-content/uploads/2025/06/vertice-nato-giugno2025.jpg
Dal giornale «il Fatto Quotidiano»
di Barbara Spinelli*
Dopo la caduta dell’Urss, Usa&C. hanno pensato di poter espandere impunemente la Nato a Est. E l’unica potenza nucleare del Medio Oriente, cioè Israele, di ridisegnare l’intera regione.
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Le vere origini del caos bellico
di Barbara Spinelli*
Dopo la caduta dell’Urss, Usa&C. hanno pensato di poter espandere impunemente la Nato a Est. E l’unica potenza nucleare del Medio Oriente, cioè Israele, di ridisegnare l’intera regione.
Si ripete che il riarmo UE è la conseguenza dell’intervento russo in Ucraina, nel febbraio 2022. Un intervento che ha radici molto precise, e che né i governi occidentali né la Commissione hanno mai in questi anni riconosciuto e neanche lontanamente pensato. Alla sua radice: la minaccia di un’estensione delle forze e dei missili Nato fino alle porte della Russia, intollerabile per Mosca come lo sarebbe l’installazione di basi militari russe o cinesi alle porte degli Stati Uniti.
La vera svolta, se siamo interessati alla genealogia del conflitto ucraino e del riarmo europeo, è avvenuta dopo la guerra fredda e in concomitanza con l’allargamento dell’Unione all’Est Europa. L’Occidente si comportò da vincitore, e gli Stati Uniti decisero che a quel punto se l’Urss era morta tutto era permesso, a partire dalle sue basi che sono 750 in almeno 80 Paesi nel mondo. Anche la creazione di un “nuovo Medio Oriente” egemonizzato dall’unica potenza atomica della regione, Israele, nacque in quel periodo, quando nel 1996 andò al governo Netanyahu: ben prima dell’11 settembre 2001. Il diritto internazionale è stato messo in questione non nel 2022 ma negli anni Novanta del secolo scorso.
Il risultato è stato che non solo la Nato è restata in piedi (retrospettivamente penso che sarebbe stato saggio scioglierla fin dal 1991, in contemporanea con la fine dell’Urss e del patto di Varsavia) ma è divenuta protagonista di una serie di guerre di regime change, tutte fallite ma sempre ricominciate.
L’Europa ha seguito servilmente quest’operazione di egemonia unilaterale dell’occidente. L’errore più madornale lo ha compiuto con un allargamento all’Europa orientale che è andato di pari passo con l’allargamento a Est della Nato, senza mai distinguere nettamente i due processi. L’Europa si è riunificata sotto l’egida atlantica, e con l’andare del tempo è diventata un unico corpo con la Nato, soprannominato nel frattempo comunità euro-atlantica.
La guerra in Ucraina nasce da questi mancati distinguo, che portano oggi i governi europei a essere più atlantisti degli Stati Uniti: a boicottare i confusi sforzi negoziali di Trump in Ucraina, e a respingere l’idea stessa di una mediazione russa nella guerra contro l’Iran come ventilato dal Presidente al G7. Nessun appoggio europeo, infine, all’appello rivolto a Teheran e soprattutto, con queste parole irritate, a Israele: “Ritirate i vostri piloti subito!”.
Putin non aveva intenzione d’incamerare tutta l’Ucraina, e tanto meno intende invadere questo o quel pezzo d’Europa, come temuto dall’istinto russofobico di Ursula von der Leyen, di Berlino, Londra, Varsavia, Parigi, capitali baltiche. L’invasione dell’Ucraina nel 2022 era un mezzo per forzare una decisione cruciale per Mosca da vent’anni: l’ammissione che la neutralità di Kiev è necessaria alla pace europea e che la promessa di adesione ucraina alla Nato è stata una provocazione irrealistica oltre che arrogante.
Nel 1990 un’alternativa pacificatrice e profondamente nuova esisteva, e fu offerta da Gorbachev: la creazione di un sistema di sicurezza europeo negoziato con Mosca, una “Casa comune europea” consapevole della divergenza crescente fra interessi geopolitici europei e statunitensi.
A mio parere, quest’alternativa frantumata dalle espansioni Nato resta la più fedele non solo alla domanda di pace espressa oggi dai cittadini europei ma anche alla visione che i fondatori avevano dell’unità fra i popoli e gli Stati europei durante la seconda guerra mondiale e subito dopo. Era un’unità che puntava al superamento dei nazionalismi aggressivi che avevano per secoli trascinato gli Stati del continente in guerre fratricide, e fu concepita perché l’Europa dedicasse tutta la sua attenzione e le sue forze alla creazione di un modello sociale che avrebbe reso più improbabili le guerre. Il Welfare fu pensato dall’inglese William Beveridge durante la guerra, come fu pensato durante la guerra il Manifesto di Ventotene. È pura invenzione non statunitense o atlantica ma dell’antifascismo e antinazismo europeo.
Una delle frasi più raccapriccianti ma sintomatiche pronunciate ultimamente in Europa è quella di Friedrich Merz, dopo la guerra israeliana in Iran e poco prima del raid di Trump: “Israele sta facendo il lavoro sporco per noi tutti. Ho massimo rispetto per Israele che ha avuto questo coraggio”. Poco tempo prima, il 15 maggio, aveva promesso al Bundestag che il suo Paese avrebbe costruito l’”esercito più potente d’Europa”, che la Germania aumenterà le spese militari fino al 5 per cento del prodotto nazionale lordo e che la Russia era una minaccia per Berlino. Merz dice queste cose senza scomporsi, come se nella testa avesse della paglia e non qualche vago ricordo dei 27 milioni di russi morti per liberare il continente da Hitler. La socialdemocrazia che governa con lui governa tace e acconsente.
È come se parlando di Iran il Cancelliere pensasse solo agli affari delle industrie militari: nessuna parola sul genocidio a Gaza, sui centri israelo-americani di avara distribuzione del cibo trasformati in killing fields dove si spara sui Palestinesi affamati e assetati, in un quotidiano videogioco horror. E poi che significa aver rispetto per un lavoro sporco? Se il lavoro è sporco è sporco per chiunque, anche per l’Europa che arma Israele.
Non meno raccapricciante la dichiarazione con cui Mark Rutte, segretario generale Nato, ha perorato il riarmo: “La Nato è l’alleanza difensiva più potente nella storia mondiale, più potente dell’impero romano, più potente dell’impero Napoleone (…) Va trasformata in un’Alleanza più forte e più letale”. Per decenni il dispositivo militare ha finto di essere difensivo, da decenni è offensivo in maniera esplicita. “Smembrare la Russia in tanti piccoli staterelli” era, secondo Kaja Kallas Premier estone, l’obiettivo da raggiungere attraverso la guerra per procura Nato-Federazione russa. Entrata nelle istituzioni UE non l’ha smentito.
Sia chiaro, qui non si tratta di difesa europea, come pretendono UE e la Nato. La difesa comune sarebbe possibile solo se esistesse un esercito che risponde a un unico Stato, oggi lungi dall’esistere. Si tratta di acquistare armi Usa, di partecipare alle guerre decise da Washington. E soprattutto: si tratta di smembrare potenze o Stati attori del nuovo ordine multipolare, uno dopo l’altro: dalla Siria all’Iran alla Cina.
Oggi Trump annuncia tregue nella guerra contro l’Iran, fa capire che vorrebbe distanziarsi da Netanyahu, ma non cambia idea sul diktat israeliano: l’arricchimento dell’uranio ridotto a zero, domanda assente nell’accordo Obama-Teheran che rinnegò nel primo mandato su pressione di Tel Aviv.
Non meravigliamoci se gli Stati che più temono la strategia dello smembramento e le guerre di regime change decideranno – per non esser mai più aggrediti dall’Occidente – di dotarsi dell’atomica che ancora non possiedono.
Barbara Spinelli
* Pubblichiamo l’intervento che Barbara Spinelli ha letto ieri alla manifestazione organizzata dal Movimento 5 Stelle all’Aja.
(Tratto da «il Fatto Quotidiano», 25 giugno 2025).
Inserito il 01/07/2025.
Xi Jinping.
Fonte della foto: https://cinainitalia.com/wp-content/uploads/2021/11/Xi-Jinping-Xinhua-1-1.jpg
Dal sito «fanpage.it»
di Gian Luca Atzori
Con Russia e Stati Uniti intrappolati nei propri campi di battaglia, Pechino avanza senza clamore. Come per Hong Kong nel 1997, la Cina punta a riconfigurare l’ordine globale senza fuoco né fiamme: emergere come garante di stabilità, restare fuori dal logoramento bellico, e offrire un’alternativa silenziosa ma solida all’egemonia occidentale. Nella guerra degli altri, Xi gioca per sottrazione e arrivano i primi segnali: Tokyo e Seoul disertano il summit NATO.
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La Cina si sta prendendo il mondo senza sparare un colpo: la strategia di Pechino tra Usa e Russia
di Gian Luca Atzori
Mentre Israele bombarda le infrastrutture nucleari iraniane e gli Stati Uniti battezzano la loro “Operation Midnight Hammer”, la Cina alza la voce, ma senza alzare le mani. Nei comunicati ufficiali di Pechino si leggono parole come “violazione della Carta delle Nazioni Unite”, “instabilità globale” e “rispetto per la sovranità”. Ma in filigrana si legge altro. La costruzione di una reputazione alternativa: quella di superpotenza che non ha bisogno di intervenire militarmente per modellare il mondo, l’unica interessata al rispetto del diritto internazionale mentre nessuno sembra più tollerarlo.
La Cina non sta con Teheran per ideologia, né contro Israele per convinzione. Sta con se stessa. Il conflitto, se limitato, è funzionale: allontana gli americani dall’Asia, fa crollare la fiducia nei mediatori occidentali, apre spazi diplomatici che Pechino può riempire con la sua narrativa multipolare e “responsabile”.
Petrolio, BRI e Stretto di Hormuz: il vero campo di battaglia è energetico
La dipendenza cinese dal Medio Oriente non è un’opzione: è un assioma. Più del 40% del petrolio importato dalla Cina transita attraverso lo Stretto di Hormuz. Iran, Arabia Saudita, Emirati: sono tutti fornitori. Una crisi prolungata in quella zona colpisce Pechino direttamente al cuore – economico, energetico e infrastrutturale.
Nonostante l’Iran abbia minacciato a più riprese la chiusura dello Stretto dopo i raid americani e israeliani, la Cina non ha spinto né sostenuto questa scelta. Pechino, pur difendendo Teheran a parole, ha lasciato volutamente aperta quella valvola geopolitica, da cui transita circa il 20% del greggio mondiale. Il segnale è chiaro: la Cina non vuole destabilizzare il sistema di cui è diventata pilastro silenzioso. Sa che un’impennata del prezzo del petrolio manderebbe in recessione mezzo pianeta, a partire dai suoi partner commerciali. Invece di incendiare il mercato, lo tiene sul filo. È una dimostrazione di forza al contrario: potremmo stringere, ma non lo facciamo – per ora. E così dimostra di avere leve globali senza doverle usare.
Qui infatti entra in gioco la doppia logica cinese: da un lato, condanna gli attacchi occidentali per non perdere l’accesso alle fonti energetiche; dall’altro, sfrutta la destabilizzazione per ridurre la presenza americana nella regione, accrescere la propria e lanciare segnali. Una guerra lunga, ma non catastrofica, significherebbe anche maggior margine di manovra per la Belt and Road Initiative (BRI), oggi in stallo per instabilità e sanzioni. In gioco non c’è solo il greggio: c’è la legittimità a essere potenza sistemica.
Strategia a due volti: moralismo in pubblico, realismo in privato
Ufficialmente, la Cina è “preoccupata”. Sostiene l’ONU, invita al dialogo, offre addirittura bozzetti di mediazione multilaterale. Ma non è coinvolta in alcuna trattativa concreta. La sua vera influenza si esercita altrove: nella logistica, nella finanza, nella tecnologia dual-use.
Con l’Iran la Cina ha una relazione non ideologica, ma funzionale. Gli ha aperto le porte ai BRICS e alla SCO, ha firmato un accordo venticinquennale di cooperazione su energia, finanza, telecomunicazioni. Non difende Teheran: lo integra nella propria visione alternativa dell’ordine mondiale. Come con la Russia, anche con l’Iran la relazione è guidata non dalla fiducia, ma dalla convenienza – e dalla comune ostilità verso l’unilateralismo americano.
Il conto ucraino: quanto costa il fronte che logora l’Occidente
Secondo il Congressional Budget Office, dal febbraio 2022 a oggi, gli Stati Uniti hanno speso in Ucraina oltre 175 miliardi di dollari, tra aiuti militari, economici e umanitari. Di questi, più di 90 miliardi sono confluiti direttamente in forniture belliche: sistemi missilistici HIMARS, munizioni d’artiglieria, droni da ricognizione, blindati, sistemi antiaerei Patriot e Storm Shadow, oltre a ingenti risorse per l’addestramento delle truppe e il supporto logistico. Altri 60 miliardi sono stati destinati al sostegno al bilancio dello Stato ucraino, al funzionamento delle istituzioni e ai servizi di base, mentre una quota crescente va alla ricostituzione delle scorte del Pentagono, che si stanno esaurendo.
Ma oltre al costo diretto, c’è il prezzo strategico: Washington ha consumato una porzione critica delle sue riserve di missili antiaerei e munizioni a guida di precisione, che richiedono anni per essere rimpiazzate. Secondo la RAND Corporation, l’industria bellica americana produce a un ritmo troppo lento per sostenere contemporaneamente Ucraina, Israele e – ipoteticamente – Taiwan. Ogni dollaro speso oggi a est dell’Europa è un dollaro in meno per contenere la Cina nel Pacifico. E Pechino lo sa. Osserva. E aspetta.
Il paradosso degli alleati asiatici: la Nato ha i muscoli, ma non le braccia
La mossa più interessante degli ultimi giorni non viene da Teheran, né da Washington. Viene da Tokyo e Seoul. I due principali alleati asiatici della Nato hanno disertato il summit in Olanda, smentendo la narrativa occidentale sulla compattezza della coalizione tra Indo-Pacifico e Occidente, e sul cordone a difesa del Mar Cinese.
Dietro le formule diplomatiche si cela un dato strategico: Giappone e Corea non vogliono essere trascinati in un’altra guerra americana, tanto meno se condotta contro un partner energetico rilevante e in un contesto percepito come troppo lontano dalla sicurezza regionale. In gioco c’è anche la tenuta di AUKUS e del sistema di alleanze regionali, già in difficoltà. La Cina lo sa, e testa i limiti della deterrenza americana, proprio dove dovrebbe essere più salda.
Taiwan sullo sfondo: riprendersi il mondo senza sparare un colpo
Come nel 1997, quando Hong Kong tornò alla Cina senza un colpo di pistola, oggi Pechino punta a riconfigurare l’ordine globale non con le guerre, ma con le attese, le connessioni economiche, la pressione strategica silenziosa. Non conquista: si fa lasciare spazio. E quando arriva, il vuoto è già stato creato dagli altri.
Secondo questa logica, la Cina non ha bisogno di attaccare Taiwan. Le basta osservare e preparare. Mentre l’America spreca risorse in Medio Oriente e nell’Europa orientale, Pechino accumula tempo, mezzi e narrativa. Non è un caso che nel linguaggio dei media statali sia tornato il concetto di “riunificazione inevitabile”. La strategia non è bellica, è logorante: intimidazione a bassa intensità, isolamento diplomatico, dominio informativo.
Se Washington non può garantire la sicurezza energetica dei suoi partner, né quella territoriale dei suoi alleati europei, come potrà garantire la sopravvivenza di Taiwan in caso di crisi vera? La domanda si insinua nell’opinione pubblica e tra gli alleati. E Pechino si assicura che resti lì, come un dubbio strategico, alimentato giorno dopo giorno dalla distrazione americana.
Afghanistan: 20 anni di scacchi sotto gli occhi del weiqi cinese
In Afghanistan gli Stati Uniti hanno speso oltre 2.000 miliardi di dollari – circa 300 milioni al giorno per vent’anni – per condurre una guerra che, alla fine, ha restituito il potere agli stessi talebani da cui era partita nel 2001. Un conflitto pensato con la logica degli scacchi: attacco frontale, rovesciamento del re, occupazione del centro. Ma il terreno era quello del weiqi, il gioco cinese dell’accerchiamento, della pazienza strategica, dell’erosione laterale.
Mentre la NATO bombardava, la Cina osservava e costruiva. Non ha mai sparato un colpo, ma ha circondato il campo con infrastrutture, investimenti e accordi a lungo termine. Già dal 2012 Pechino si inseriva nei vuoti lasciati dall’ISAF: miniere di rame, giacimenti d’oro, terre rare strategiche, zone industriali al confine con lo Xinjiang. Ha sfruttato la stabilità ottenuta a caro prezzo dagli occidentali per pianificare la propria penetrazione morbida, senza provocare, senza esporsi, ma tracciando linee invisibili come nel weiqi.
Non guerra fredda, ma pace calda: il commercio come trincea
Da circa 20 anni Wang Jisi, della Peking University, dice che “piuttosto che parlare di guerra fredda tra Cina e Occidente, bisognerebbe parlare di pace calda”. La Cina non fa la guerra fredda, fa la pace calda del commercio, dei contratti, delle materie prime. È tra i primi partner economici degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e perfino del Giappone e della Corea del Sud – paesi con cui ha tensioni crescenti su Taiwan, sul Mar Cinese Meridionale, sui diritti umani. Ma il paradosso è questo: sono loro a dipendere da Pechino, non il contrario. Sulle terre rare, ad esempio – materiali essenziali per le batterie, l’elettronica avanzata e le tecnologie militari – la Cina controlla oltre il 90% della lavorazione globale.
Ha costruito un sistema a prova di sanzione, una rete che collega Iran, Russia, Africa, Asia Centrale e Sud America, da cui può rifornirsi o a cui può vendere se l’Occidente chiude una porta. Quando Canberra ha bloccato l’export di carbone, la Cina ha virato sul carbone indonesiano. Quando Washington ha imposto dazi sui chip, Pechino ha investito miliardi nell’autonomia tecnologica e nei semiconduttori “di Stato”. È una strategia a ventaglio, non a muro: se una sponda cede, ce n’è sempre un’altra a cui appoggiarsi.
Il grande gioco cinese: caos controllato, silenzio utile
La Cina non cerca di vincere le guerre. Cerca di vincere nel mondo che le guerre lasciano dietro di sé. È l’unica potenza globale a non essere impantanata in alcun conflitto armato da decenni. Non certo perché sia neutrale, ma perché cerca di instaurarsi agli occhi del mondo come l’unica grande potenza responsabile. Questo accresce il suo soft power.
L’obiettivo non è salvare l’Iran, ma dimostrare che può sopravvivere alle guerre senza logorarsi, cercando di far passare un unico messaggio, ovvero che chi si schiera con lei avrà almeno una certezza: quella di non dover combattere. Quale sia il prezzo da pagare in termini di libertà, questo è un altro discorso. Ma è un discorso che riguarda ogni forma di imperialismo – che sia americano, russo o cinese – quando pretende di esportare la democrazia o ribaltare un regime. E mentre le democrazie liberali si spaccano, si indeboliscono, si inseguono in una sterile battaglia tra moralismo e interessi, la Cina capitalizza ogni crisi per rafforzare la propria narrativa: ordine, stabilità, continuità. A qualunque costo.
Se l’Europa resta divisa, disillusa e assente, non potrà più scegliere di stare dalla propria parte, né dalla parte della civiltà democratica che dice di voler difendere. Perderà l’iniziativa, il linguaggio e, infine, la possibilità di pesare. Perché nel mondo multipolare che si sta formando, la neutralità è già una forma di resa.
27 giugno 2025
Gian Luca Atzori
(Tratto da: https://www.fanpage.it/esteri/riprendersi-il-mondo-senza-sparare-un-colpo-la-strategia-cinese-allombra-dei-conflitti/).
Inserito il 29/06/2025.
Dal sito «glistatigenerali.com»
Intervista a cura di Marco Verruggio
Cosa sta succedendo e che impatto può avere la guerra sul regime teocratico di Teheran, ma soprattutto su una popolazione che da anni si mobilita? Lo chiediamo ad Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo Iraniano, parte della Resistenza iraniana
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Iran, Alì Ghaderi: «L’unico regime change sono le rivolte di operai, donne e studenti»
intervista a cura di Marco Veruggio
Cosa sta succedendo e che impatto può avere la guerra sul regime teocratico di Teheran, ma soprattutto su una popolazione che da anni si mobilita? Lo chiediamo ad Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo Iraniano, parte della Resistenza iraniana
17 Giugno 2025
Mentre era appena partito il riposizionamento tattico dei governi occidentali nei confronti di un imperialismo di Israele sempre più indifendibile anche per loro è arrivato l’attacco all’Iran, che ha fatto fare una mezza marcia indietro alle cancellerie europee e, in parte, anche agli Stati Uniti. Cosa sta succedendo e che impatto può avere la guerra sul regime teocratico di Tehran, ma soprattutto su una popolazione che da anni si mobilita nelle piazze per contrastarlo e che oggi è sotto le bombe? Lo chiediamo ad Alì Ghaderi, dirigente dei Fedayn del Popolo Iraniano, parte del Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana.
Che cosa sta succedendo in Medio Oriente? Sembra che la crisi della potenza americana permetta ad attori minori come Israele di fare quel che vogliono.
In effetti si sommano diverse debolezze: da un lato la crisi del governo iraniano, che è molto profonda e dura da parecchi anni; dall’altro il pantano in cui si è infilato Netanyahu a livello interno e con la sua politica a Gaza e nell’intera regione. Poi, naturalmente queste debolezze incrociano la debolezza degli Stati Uniti, che è visibile in tutti i campi – dalla politica in senso stretto all’economia: i dazi, ma anche la richiesta ai paesi NATO di portare la spesa militare al 5% del PIL, che significa che gli Stati Uniti non riescono più a pagare per loro. Poi c’è la debolezza della Russia: Putin si è cacciato anche lui in un pantano, anche se all’apparenza sembra che possa uscirne vincitore, ma quella ucraina è una guerra costosissima e va avanti da parecchi anni. Infine la debolezza della politica estera cinese, che deve rimanere sullo sfondo perché la questione di Taiwan è sempre aperta.
E l’Europa?
L’Europa sembra un’orchestra stonata, in cui ognuno suona una canzone diversa. Lo vediamo anche in queste ore al G7 in corso, in cui i paesi europei e gli Stati Uniti stanno già litigando su chi dovrebbe fare da mediatore nel conflitto tra Israele e Iran.
Che impatto avrà l’attacco israeliano sul regime? È possibile un regime change e con quali conseguenze?
Intanto a scanso di equivoci voglio dire innanzitutto che questa è una guerra interimperialista per la supremazia nella regione tra uno Stato che da decenni gioca il ruolo di guardiano del Medio Oriente sotto il controllo americano e un regime teocratico dittatoriale che dal 1981 opprime il popolo iraniano. Detto questo noi non accettiamo nessun regime change e nessun intervento di un governo straniero nel nostro paese, perché crediamo che in Iran il cambio di regime possa avvenire solo attraverso le rivolte popolari che ci sono già da anni – rivolte fatte da studenti, donne, operai, insegnanti, medici, infermieri e avvocati. Ma c’è un altro aspetto: il regime change non ci sarà perché gli Stati Uniti non hanno alcun interesse a che avvenga, poiché non considerano il Consiglio Nazionale della Resistenza Iraniana, cioè l’unica alternativa democratica per l’Iran, un’alternativa affidabile. Gli Stati Uniti hanno sempre preferito provare a blandire il regime piuttosto che buttarlo giù e sostituirlo, lo vediamo sin dall’epoca della guerra Iran-Iraq, col famoso scandalo Iran-Contras, ma anche le trattative sul nucleare che vanno avanti da molti anni confermano la mia tesi, con gli iraniani che cercano di prendere tempo e gli americani che glielo concedono. Qualcuno potrebbe chiedere: ma allora perché l’attacco israeliano? Perché è un progetto israeliano di lunga data. In Siria, come si è visto, ha avuto successo. Poi non chiedetemi cosa sia successo nelle trattative con la Russia e l’Iran per convincerli a lasciare la Siria da sola. Non saprei rispondervi, ma resta il fatto che in Siria Israele ha centrato l’obiettivo. Quanto agli effetti veri dei bombardamenti a tappeto sull’Iran, la realtà è che non possono mettere in ginocchio il governo, ma solo il popolo iraniano.
Un attacco agli impianti energetici, ad esempio, precipiterebbe la società iraniana in una crisi devastante?
Sì, perché l’economia iraniana non ha un’industria manifatturiera, a parte quella legata al settore militare. Perciò è di fatto un grande supermercato dell’energia: vende petrolio e gas ai suoi alleati, produce derivati del petrolio e ha anche un grande mercato nero dell’energia, le famose navi fantasma. Perciò se dai porti iraniani non partono gas, petrolio e derivati ci saranno enormi problemi. La popolazione non se la passerà bene. E la minaccia iraniana di chiudere lo Stretto di Hormuz in segno di ritorsione è difficile da attuare – l’unico modo sarebbe affondare decine o centinaia di navi – e dubito che Tehran voglia chiudere i rubinetti alla Cina. D’altra parte i raid contro le fonti energetiche sia da parte di Israele che da parte dell’Iran vanno avanti per gradi e riflettono le rispettive strategie politiche. Quella iraniana è portare Israele al tavolo dei negoziati e io penso che alla fine Israele si siederà a quel tavolo e non per i danni che l’Iran gli sta infliggendo. Il vero problema è che la società israeliana non è in grado di accettare questa situazione e lo si vede soprattutto negli appelli di Netanyahu a non scappare in Grecia e a Cipro e a tornare a casa per chi già è fuggito. In più l’attacco all’Iran sta creando attorno a Tehran una certa simpatia. Quando il re dell’Arabia Saudita, storico nemico del clero sciita, dice “Noi non siamo d’accordo con l’attacco di Israele ai nostri fratelli musulmani”, non è solo un fatto formale.
Ramtin Ghazavi, il tenore iraniano della Scala, dice che la guerra è l’unico modo per cacciare gli ayatollah. I Pahlavi inneggiano all’attacco israeliano e si dicono pronti a governare l’Iran.
Io credo che nella situazione iraniana sia impossibile che la famiglia reale e soprattutto questo erede possano entrare in qualche strano equilibrio che consenta loro di tornare a governare il paese. Quindi non sono un’alternativa. Non hanno basi sociali né organizzazione. Anche perché l’Iran non è l’Afghanistan né l’Iraq. Quanto alla guerra come motore del cambiamento l’Iran di guerre ne ha fatte e non è mai cambiato nulla. In Iran l’unico attore che può promuovere un cambiamento e una caduta del regime, come dicevo, è la popolazione, sono le rivolte popolari, l’organizzazione degli operai, degli insegnanti e poi le organizzazioni classiche, storiche, in parte noi, in parte i Mujaheddin del Popolo possono entrare con la loro classe dirigente e partecipare alla direzione di quelle rivolte insieme a tutti i nuclei organizzati che si sono creati in questi anni man mano che si sviluppavano le lotte. Perciò per la famiglia Pahlavi non c’è alcuna chance, se non qualche comparsata televisiva nel salotto di Vespa o essere ricevuti da Netanyahu in camera caritatis nei corridoi del governo. Il tenore, invece, lo paragonerei ai giornalisti italiani, che in questi anni come abbiamo visto sono diventati tutti virologi, economisti, esperti di Palestina e di Ucraina e ci hanno spiegato vaccini, inflazione e bombe come se parlassero di calcio. E infatti oggi preferiscono parlare al tenore della Scala che a noi.
Per finire il governo italiano appare molto imbarazzato, usa mezzi toni. Si vede che il tradizionale peso delle relazioni commerciali con l’Iran si fa sentire.
Mettiamola così: gas russo non ce n’è, per cui sono costretti a comprare quello americano, che è molto costoso, insufficiente e soprattutto ingrassa solo le tasche americane. Perciò se non arrivasse più il petrolio iraniano, che qui, anche se non se ne parla, arriva in grandi quantità, e se poi non arrivasse neanche il petrolio del Qatar, perché magari gli iraniani decidono di colpire anche i giacimenti della regione, finisce che devono davvero andare in ginocchio da Putin.
Marco Verruggio
(Intervista tratta da https://www.glistatigenerali.com/esteri/medio-oriente/iran-lunico-regime-change-sono-le-rivolte-di-operai-donne-e-studenti/, che a sua volta l’ha ripresa dalla newsletter di PuntoCritico.info del 17 giugno).
Inserito il 22/06/2025.
Ursula von der Leyen, Roberta Metsola, Kaja Kallas.
Fonte della foto: https://www.eunews.it/2024/06/28/i-top-jobbers-dellunione-cerchino-di-essere-un-team-stavolta/
Dalla rivista online «KRISIS»
di Thomas Fazi
Quasi 80 milioni di euro l’anno per costruire un ecosistema mediatico filo-europeo: così l’Ue influenza il discorso pubblico.
Thomas Fazi ha analizzato il complesso sistema di sovvenzioni con cui le istituzioni europee sostengono agenzie di stampa, emittenti pubbliche e progetti giornalistici in tutta Europa. In un rapporto realizzato per MCC Brussels, un think tank ungherese, il saggista italo-inglese solleva interrogativi sulla trasparenza dei meccanismi di finanziamento, sulla neutralità degli obiettivi dichiarati e sul ruolo dell’Unione europea nel definire quella che viene considerata informazione «affidabile». Fazi ricostruisce l’impatto di questa rete di finanziamenti sull’ecosistema mediatico europeo e sulla capacità dei media di svolgere il loro ruolo di contropotere democratico.
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Come Bruxelles finanzia e orienta l’informazione europea
di Thomas Fazi
In un nuovo rapporto esclusivo per MCC Brussels – La macchina mediatica di Bruxelles: il finanziamento Ue ai media e la formazione del discorso pubblico – rivelo l’esistenza di un vasto sistema, finora scarsamente esaminato, attraverso il quale l’Unione Europea eroga ogni anno quasi 80 milioni di euro a progetti mediatici in tutta Europa e oltre.
Nel rapporto sostengo che questo ingente finanziamento, spesso presentato come sostegno alla libertà dei media, serva in realtà frequentemente a promuovere narrazioni esplicitamente filo-europee e a marginalizzare le voci critiche, sollevando serie preoccupazioni sull’indipendenza editoriale e sull’integrità democratica.
Il documento sostiene che il potere economico dell’Ue crea una «relazione semi-strutturale» con i principali organi di informazione, in particolare emittenti pubbliche e agenzie di stampa, offuscando i confini tra giornalismo indipendente e comunicazione istituzionale – e compromettendo seriamente la capacità dei media di esercitare un controllo sul potere.
Risultati chiave ed esempi
Finanziamenti massicci e poco trasparenti: la Commissione europea e il Parlamento europeo distribuiscono congiuntamente quasi 80 milioni di euro l’anno a progetti mediatici. Si tratta di una stima prudente: il totale dell’ultimo decennio supera probabilmente il miliardo di euro. Questa cifra non include i finanziamenti indiretti – ad esempio, contratti pubblicitari o di comunicazione affidati ad agenzie di marketing che poi ridistribuiscono i fondi ai principali media.
Promozione di narrazioni filo-Ue: i programmi di finanziamento vengono spesso presentati con parole d’ordine come «lotta alla disinformazione» o «sostegno a una programmazione basata sui fatti», ma il rapporto fornisce prove che tali iniziative perseguono obiettivi strategici volti a influenzare il dibattito pubblico e promuovere l’agenda dell’Ue.
Molti progetti, ad esempio, promuovono esplicitamente narrazioni filo-europee, tra cui la «promozione dell’integrazione europea», la «demistificazione dell’Ue» e la «lotta ai movimenti estremisti ed euroscettici». Su temi geopoliticamente sensibili – in particolare il conflitto Russia-Ucraina – questi progetti incentivano finanziariamente i media ad allinearsi alle posizioni ufficiali Ue-Nato, restringendo ulteriormente lo spazio per il giornalismo indipendente.
Campagne di propaganda occulta: il programma Information Measures for the EU Cohesion Policy (Imreg) ha canalizzato circa 40 milioni di euro dal 2017 verso media e agenzie di stampa per produrre contenuti che evidenzino i «benefici» delle politiche Ue. Il rapporto evidenzia casi in cui tali finanziamenti non vengono dichiarati in modo trasparente, equivalendo di fatto a «marketing occulto» o «propaganda nascosta». Altri progetti mirano esplicitamente ad «aumentare la consapevolezza dei benefici» o a «contribuire a una migliore comprensione», rafforzando il «senso di appartenenza all’Ue» nei cittadini. Questi eufemismi celano, in sostanza, un tentativo calato dall’alto di costruire un demos europeo – una coscienza politica unitaria che, nelle attuali condizioni politiche e culturali, resta più un’aspirazione ideologica che una realtà democratica.
Le agenzie di stampa come custodi della narrazione: l’Ue stringe partnership strategiche con importanti agenzie di stampa come Ansa (Italia), Efe (Spagna) e Lusa (Portogallo) attraverso programmi come Imreg, assicurando che la comunicazione filo-Ue si diffonda capillarmente attraverso centinaia di testate che dipendono dai contenuti delle agenzie. Il progetto European Newsroom, finanziato dall’Ue con 1,7 milioni di euro e che riunisce 24 agenzie a Bruxelles, rappresenta di fatto un tentativo di standardizzare e allineare la narrazione sulle questioni europee.
Fact-checking e controllo del discorso: iniziative come l’European Digital Media Observatory (Edmo), finanziata con almeno 27 milioni di euro, coinvolgono agenzie e media in reti volte a «combattere la disinformazione». Il rapporto avverte che quando gli stessi soggetti che beneficiano dei fondi promozionali partecipano anche alla definizione della disinformazione, si corre il rischio che ciò diventi uno strumento per delimitare il discorso accettabile e bollare il dissenso come fake news.
Giornalismo investigativo rivolto all’esterno, mai all’interno: il rapporto analizza progetti di giornalismo investigativo finanziati dall’Ue, rilevando una tendenza a concentrarsi su Paesi extra-Ue come Russia o Kazakistan, con scarsa attenzione alle dinamiche interne dell’Unione, nonostante i numerosi scandali documentati.
La propaganda del Parlamento europeo: il Parlamento europeo, attraverso la Direzione generale della comunicazione, ha destinato quasi 30 milioni di euro dal 2020 a campagne mediatiche, compresi contenuti esplicitamente auto-promozionali in vista delle elezioni. L’obiettivo è «aumentare l’efficacia nel raggiungere il pubblico target con messaggi relativi al lavoro del Parlamento europeo», aggiungendo «legittimità alle campagne del Parlamento europeo». Questo dovrebbe essere interpretato come un tentativo di costruire legittimità democratica in assenza di un sostegno organico.
Conclusione
Le evidenze indicano che l’Ue investe sistematicamente per plasmare un ambiente mediatico «amico», volto a rafforzare la propria legittimità e i propri obiettivi politici, più che a sostenere una stampa libera. Il rapporto invoca una riflessione pubblica urgente e chiede che i legami istituzionali tra potere politico e giornalismo vengano scrutinati – e, infine, interrotti.
6 Giugno 2025
Thomas Fazi
Articolo originale pubblicato su www.thomasfazi.com.
(Tratto da: https://krisis.info/it/2025/06/aree/europa/come-bruxelles-finanzia-e-orienta-linformazione-europea/).
Inserito il 15/06/2025.
Dal sito «analisidifesa.it»
di Gianandrea Gaiani
Dopo che Donald Trump ha tagliato i finanziamenti con cui la CIA e il Dipartimento di Stato foraggiavano 600 testate giornalistiche nel mondo (tra cui il 97% della stampa ucraina), l'Unione Europea, tramite Kaja Kallas, Alto commissario per la politica estera, ha annunciato che subentreranno
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Se la UE finanzia i media per sostenere la sua propaganda
di Gianandrea Gaiani
Contrastare disinformazione e fake-news russe o cinesi ma incassare fondi della Ue per sostenere la narrazione propagandistica della Commissione Europea. Lo studio “Brussel’s media machine”, realizzato da Thomas Fazi per il Mathias Corvinus Collegium, istituzione educativa privata e centro studi indipendente ungherese, sull’utilizzo dei fondi europei per finanziare agenzie di stampa, giornali e media in tutte le nazioni europee, inclusa l’Italia, è al tempo stesso uno scoop e una notizia prevedibile.
È uno scoop perché scoperchia con dati e nomi precisi il vaso dei finanziamenti con cui Commissione Ue e Parlamento europei comprano la macchina del consenso tra i popoli europei. Complice forse anche la crisi economica che attanaglia tutto il mondo dei media, in caduta libera di credibilità presso i sempre meno numerosi lettori, spettatori e inserzionisti.
Lo studio di Fazi ci svela però anche informazioni prevedibili, almeno per tutti coloro che hanno notato come da tempo l’informazione mainstream sia “talmente mainstream” da arrivare ad utilizzare spesso su molte testate testi fotocopia o simili e titoli quasi uguali, come se pubblicassero tutti i medesimi master messages, note di linguaggio, comunicati, contenuti e veline.
Caratteristica già evidente durante l’emergenza Covid (quando molti governi stanziarono ingenti somme a favore dei media, in Italia almeno 100 milioni, per sostenere le campagne governative a favore di confinamento e vaccinazioni di massa) e poi successivamente con la guerra in Ucraina.
Lo studio di Fazi, rigoroso e puntuale (e di cui troverete molti dettagli negli articoli sottostanti e nel testo integrale del rapporto), documenta come almeno un miliardo di euro delle tasse dei cittadini europei sia stato investito in dieci anni per finanziare il sostegno dei media alle politiche della Commissione e ai suoi messaggi-chiave.
Del resto a proposito di mainstream a pagamento va ricordata la campagna di Donald Trump contro US Aid, agenzia federale per gli interventi umanitari trasformata nel salvadanaio delle operazioni informative (Info Ops) e operazioni psicologiche (Psy Ops) con cui Dipartimento di Stato e CIA finanziavano oltre 600 testate e molti singoli giornalisti.
La lista non è stata ancora resa nota ma da quanto trapelato vi sarebbero anche testate italiane e il 97 per cento dei media ucraini, da cui si abbevera da oltre tre anni la stampa occidentale e che fino a ieri erano finanziati dai soldi dei contribuenti americani.
Non a caso, oggi che Trump ha sospeso gli stanziamenti a tutte le testate, inclusa Radio Liberty/Radio Free Europe (storica emittente e poi anche sito internet di propaganda statunitense rivolta “oltre cortina”) l’Alto commissario per la politica estera europea Kaja Kallas ha annunciato il 20 maggio che subentreranno fondi europei di emergenza per 5,5 milioni di euro definiti “un finanziamento di emergenza a breve termine, pensato per la rete di sicurezza del giornalismo indipendente”.
Termine curioso quest’ultimo, per un media finanziato fino a ieri dal Congresso e da altri organismi statunitensi.
Ora pagherà il “Pantalone europeo” ma non c’è nulla di cui scandalizzarci, specie in un’Italia in cui da sempre gran parte dei media godono direttamente o indirettamente di finanziamenti pubblici che, specie in tempi di vacche magre per l’informazione come quelli in cui viviamo, fanno spesso la differenza tra continuare ad esistere o chiudere.
Governi e informazione, in Europa e in Occidente, soffrono del resto dello stesso problema: il tracollo della credibilità.
Un po’ di trasparenza sarebbe quindi molto utile alla sempre più debole tenuta dei valori democratici in Europa, messi a dura prova negli ultimi tempi dalle stesse élites autoreferenziali che pagano i media con i nostri soldi. Il rapporto di Fazi ci induce al sospetto circa tutto quello che ci viene propinato dai media.
La prossima volta che leggeremo che gli ucraini stanno vincendo la guerra, che i russi vanno al fronte in motorino o a dorso di mulo e combattono coi badili (a questo proposito imperdibile l‘articolo di Bernard Henry-Levy su «La Stampa» di oggi) oppure che il riarmo europeo sarà un toccasana per tutti, dovremmo forse chiederci se si tratta di un articolo o di uno spot promozionale?
[…]
9 Giugno 2025
Gianandrea Gaiani
(Tratto da: https://www.analisidifesa.it/2025/06/se-la-ue-finanzia-i-media-per-sostenere-la-sua-propaganda/).
Rolf Mützenich.
Autore della foto: EPA-EFE/CLEMENS BILAN
Fonte della foto: https://www.ilmitte.com/2025/06/spd-manifesto-contro-il-riarmo/
Dal sito «il Mitte»
“L’SPD deve restare un partito pacifista”. Questa è una delle dichiarazioni contenute in un manifesto contro il riarmo prodotto da alcuni politici di spicco del partito socialdemocratico tedesco, manifesto che ha dato il via, ovviamente, a un acceso dibattito non solo all’interno del partito, ma di tutta la coalizione di governo. Il documento contesta apertamente la linea dell’esecutivo tedesco guidato da Friedrich Merz (CDU) in materia di politica estera e di sicurezza e propone un cambio di rotta radicale nelle relazioni con la Russia e nelle strategie di difesa europea.
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Germania, SPD: il manifesto contro il riarmo che divide la coalizione
“L’SPD deve restare un partito pacifista”. Questa è una delle dichiarazioni contenute in un manifesto contro il riarmo prodotto da alcuni politici di spicco del partito socialdemocratico tedesco, manifesto che ha dato il via, ovviamente, a un acceso dibattito non solo all’interno del partito, ma di tutta la coalizione di governo. Il documento contesta apertamente la linea dell’esecutivo tedesco guidato da Friedrich Merz (CDU) in materia di politica estera e di sicurezza e propone un cambio di rotta radicale nelle relazioni con la Russia e nelle strategie di difesa europea.
Il manifesto contro il riarmo, per la “Salvaguardia della Pace in Europa”
Il documento programmatico, intitolato Friedenssicherung in Europa durch Verteidigungsfähigkeit, Rüstungskontrolle und Verständigung (ovvero “Salvaguardia della pace in Europa attraverso la capacità di difesa, il controllo degli armamenti e la comprensione”), può essere letto come una sfida diretta alle politiche attuali del governo tedesco, dall’interno della sua stessa coalizione. Redatto nell’ambito del circolo di politica di pace dell’SPD intitolato a Erhard Eppler, il manifesto viene presentato come contributo al congresso federale del partito previsto per la fine di giugno.
I firmatari del documento
Tra i principali sostenitori del manifesto figurano personalità di spicco del panorama socialdemocratico tedesco. L’ex capogruppo SPD al Bundestag Rolf Mützenich appare come primo firmatario, seguito dal politico esperto di politica estera Ralf Stegner, co-presidente del circolo promotore dell’iniziativa. L’elenco dei sostenitori si estende per una pagina e mezza, includendo l’ex leader del partito Norbert Walter-Borjans, i deputati del Bundestag Nina Scheer, Maja Wallstein e Sanae Abdi, oltre all’ex ministro delle finanze Hans Eichel e altre figure importanti dell’SPD come Gernot Erler ed Ernst Ulrich von Weizsäcker.
Le critiche alla politica di sicurezza attuale: no all’aumento costante degli armamenti
Il manifesto articola una critica sistematica delle strategie di sicurezza adottate dalla Germania e dai paesi europei. Secondo gli autori, in Germania e nella maggior parte degli stati europei hanno prevalso forze che orientano il futuro verso strategie di confronto militare e investimenti miliardari negli armamenti. Il documento denuncia come si invochi costantemente la necessità di aumentare gli armamenti e prepararsi a una guerra apparentemente imminente, anziché integrare le capacità difensive con politiche di controllo degli armamenti e disarmo.
La questione del budget militare: i firmatari del manifesto contro gli obiettivi NATO
Una delle posizioni del manifesto che sicuramente causeranno maggiori tensini riguarda il rifiuto dell’obiettivo del cinque per cento del PIL destinato alle spese per la difesa. Gli autori definiscono “irrazionale” questo target, sostenendo che non esistono giustificazioni di politica di sicurezza per un aumento del bilancio della difesa fissato al 3,5 o al 5 per cento del prodotto interno lordo. Questa posizione si scontra direttamente con le richieste del presidente statunitense Donald Trump, che, nel suo recente incontro con Merz, ha lodato l’aumento della spesa tedesca per la difesa, e con il modello sostenuto dal cancelliere stesso e dal ministro della Difesa Boris Pistorius, che prevede il raggiungimento dell’obiettivo del 5% entro il 2032 attraverso una suddivisione tra 3,5% per la difesa in senso stretto e 1,5% per spese di sicurezza in senso lato (quindi comprendenti anche aspetti come la protezione civile e la sicurezza informatica). Pistorius è anche un accanito sostenitore della necessità di aumentare sensibilmente l’organico della Bundeswehr, se necessario anche ricorrendo al ritorno della coscrizione obbligatoria.
Il rifiuto dei missili americani e le proposte alternative
Il manifesto esprime inoltre un netto rifiuto verso il progetto di schieramento di nuovi missili americani a medio raggio in Germania. La motivazione è che il dispiegamento di sistemi missilistici statunitensi iperveloci e con quella capacità di azione renderebbe la Germania un bersaglio immediato. Questa posizione espressa dai firmatari del manifesto contro il riarmo contrasta nettamente con la decisione del comitato esecutivo dell’SPD, che aveva approvato il dispiegamento nell’agosto 2024.
Cercare un dialogo con la Russia
Una delle proposte più controverse del documento e, ci permettiamo di pronosticare, quella che potrà dare origine alle critiche più veementi, riguarda la ripresa del dialogo con la Russia. Gli autori sostengono che l’appoggio all’Ucraina nelle sue rivendicazioni di diritto internazionale debba essere collegato agli interessi legittimi di sicurezza e stabilità di tutti i paesi europei. Su questa base, propongono che “dopo il silenzio delle armi”, ovvero se e quando si sarà raggiunto un cessate il fuoco ragionevolmente affidabile, si intraprenda il “tentativo estremamente difficile” di riprendere il dialogo con la Russia per definire un ordine di pace e sicurezza europeo sostenuto e rispettato da tutti. D’altra parte, sostengono i firmatari, questo non è un compito che si possa lasciare alle forze populiste che non sarebbero interessate al pacifismo, ma semplicemente asservite agli obiettivi del presidente russo Vladimir Putin.
Il manifesto invoca inoltre un “graduale ritorno alla distensione delle relazioni e alla cooperazione con la Russia” e la considerazione delle esigenze del Sud del mondo, particolarmente per affrontare la minaccia comune rappresentata dai cambiamenti climatici.
Le implicazioni politiche e le reazioni al manifesto contro il riarmo
L’iniziativa rappresenta un attacco frontale alla linea della coalizione di governo in materia di politica di pace e sicurezza. Ralf Stegner ha dichiarato che l’obiettivo dell’iniziativa è anche quello di riorientare il dibattito interno al partito, sostenendo che “l’SPD deve continuare a far parte del movimento pacifista” e opporsi alla “militarizzazione” del dibattito politico.
Il contesto europeo e internazionale
Il manifesto contro il riarmo critica aspramente il dibattito condotto dai partiti di governo, sostenendo che “la retorica militare allarmistica e gli enormi programmi di riarmo non creano maggiore sicurezza per la Germania e l’Europa, ma portano alla destabilizzazione e al rafforzamento della percezione reciproca di minaccia tra la NATO e la Russia”.
Gli autori del manifesto propongono inoltre che la Germania e l’UE evitino qualsiasi partecipazione a un’escalation militare nel Sud-Est asiatico, delineando una visione di politica estera basata sulla de-escalation e sulla costruzione graduale della fiducia.
Un momento cruciale per l’SPD
Il manifesto arriva in un momento cruciale per il partito socialdemocratico tedesco. Il congresso federale di fine giugno dovrà affrontare la discussione di un nuovo programma politico dopo la pesante sconfitta elettorale, mentre quasi contemporaneamente si terrà il vertice NATO in cui la Germania intende impegnarsi ad aumentare massicciamente le spese per la difesa.
La posizione espressa nel manifesto riflette prevalentemente, ma non esclusivamente, l’orientamento dell’ala sinistra del partito e potrebbe influenzare significativamente i futuri orientamenti dell’SPD in materia di politica estera e di sicurezza. Il documento sottolinea la necessità di un’analisi differenziata piuttosto che di “accuse unilaterali”, riconoscendo che l’ordine di sicurezza europeo era stato minato anche prima dell’attacco russo all’Ucraina, citando esempi come l’intervento NATO in Serbia del 1999 e l’insufficiente attuazione degli accordi di Minsk dopo il 2014.
L’evoluzione di questo dibattito interno all’SPD avrà probabilmente ripercussioni significative non solo nel contesto del prossimo congresso del partito, ma anche sugli equilibri all’interno della coalizione di governo e sui rapporti della Germania con i partner europei e atlantici.
11/06/2025
(Tratto da: https://www.ilmitte.com/2025/06/spd-manifesto-contro-il-riarmo/)
Inserito il 14/06/2025.
Il commento
🔴di Marco Bartalucci🔴
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Germania, qualcosa si muove?
di Marco Bartalucci
Alcuni nell’SPD hanno capito di poter profilare una politica diversa da quella seguita sin qui dal governo precedente e dall’attuale e dare voce ai cittadini estremamente scontenti della situazione economica che non si sono schierati a destra o a sinistra.
Molti, anche in Germania, votano per “tradizione” familiare SPD o CDU, specie nei Länder occidentali. Però, a quanto pare, molti si sentono traditi dai loro partiti di riferimento e sono diventati più “volatili”, anche se non accetterebbero di passare ad un partito decisamente di destra o di sinistra.
La situazione economica prelude all’ingresso dei fondi internazionali di investimento di grosso calibro e alla disarticolazione della vecchia organizzazione economica industriale. Questo non è ancora passato nella coscienza dei più ma è chiaro alla borghesia e piano piano all’istinto della classe lavoratrice e forse addirittura ai pensionati, affezionati votanti, ad ovest, della CDU. Ad est la situazione è completamente diversa, ci sono state troppe delusioni; per questo i votanti cercano soluzioni più “radicali” ed accettano senza problemi l’AfD.
In ogni caso la SPD può ritrovare una ragione d’essere se proverà a rappresentare i mal di pancia che si diffondono ad ovest.
14 giugno 2025
🔴 Marco Bartalucci
Il testo del documento della minoranza SPD
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Manifesto dell’opposizione SPD
Garantire la pace in Europa attraverso la capacità di difesa, il controllo degli armamenti e la comprensione reciproca
Ottant’anni dopo la fine della catastrofe del secolo, la Seconda Guerra Mondiale, e la liberazione dal fascismo di Hitler, la pace in Europa è nuovamente minacciata. Stiamo vivendo nuove forme di violenza e violazioni dei diritti umani: la guerra russa contro l’Ucraina, ma anche la violazione fondamentale dei diritti umani nella Striscia di Gaza. Il divario sociale nel mondo si sta aggravando, sia all’interno che tra le società. La crisi provocata dall’uomo del sistema terrestre e climatico, la distruzione delle fonti alimentari e le nuove forme di colonialismo per le materie prime minacciano la pace e la sicurezza umana. Infine, ma non meno importante, i nazionalisti stanno tentando di sfruttare l’insicurezza, i conflitti e le guerre per i loro nefasti interessi.
Siamo lontani dal ritorno a un ordine di pace e sicurezza stabile in Europa. Al contrario: in Germania e nella maggior parte dei paesi europei, hanno preso il sopravvento forze che cercano un futuro principalmente attraverso una strategia di confronto militare e centinaia di miliardi di euro di riarmo. Pace e sicurezza non possono più essere raggiunte con la Russia, sostengono, ma devono essere imposte contro la Russia. Si invoca la costrizione ad armamenti sempre maggiori e alla preparazione per una guerra presumibilmente imminente, invece di collegare le necessarie capacità di difesa con una politica di controllo degli armamenti e disarmo al fine di raggiungere una sicurezza comune e una reciproca capacità di mantenere la pace. Siamo convinti che il concetto di sicurezza comune sia l’unico modo responsabile per prevenire la guerra attraverso il confronto e l’aumento degli armamenti, a prescindere dalle differenze ideologiche e dagli interessi contrastanti. Il concetto di sicurezza comune ha anche costituito la base del trattato del 1987 che ha messo al bando tutte le armi nucleari a medio raggio tra il presidente degli Stati Uniti Ronald Reagan e il segretario generale del PCUS Mikhail Gorbachev, che ha contribuito in modo significativo alla fine della Guerra Fredda in Europa e alla riunificazione tedesca.
Dagli anni ’60, il mondo è stato condotto più volte sull’orlo dell’abisso nucleare. La Guerra Fredda fu caratterizzata dalla sfiducia reciproca e dal confronto militare tra le principali potenze dell’Est e dell’Ovest. Il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy, Willy Brandt e altri importanti politici dell’epoca trassero le giuste conclusioni dalla pericolosa mancanza di prospettive di questa corsa agli armamenti, che si era manifestata durante la crisi missilistica cubana. Il confronto e l’accumulo di armamenti furono sostituiti da colloqui e negoziati sulla sicurezza attraverso la cooperazione, il rafforzamento della fiducia, il controllo degli armamenti e il disarmo.
La firma dell’Atto Finale della CSCE a Helsinki nel 1975 fu il culmine di questa convergenza tra politiche di difesa e disarmo, che garantì la pace in Europa per decenni e rese infine possibile la riunificazione tedesca.
A Helsinki, i principi fondamentali della sicurezza europea furono concordati attraverso un’interazione più pacifica tra gli Stati: l’uguaglianza degli Stati indipendentemente dalle loro dimensioni, la salvaguardia dell’integrità territoriale degli Stati, la rinuncia alle minacce reciproche di violenza, il rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, la rinuncia all’ingerenza negli affari interni degli Stati e l’accordo di una cooperazione globale.
Purtroppo, oggi viviamo in un mondo diverso. L’ordine di sicurezza europeo basato sui principi dell’Atto Finale della CSCE è stato progressivamente indebolito nei decenni precedenti l’illegale attacco russo all’Ucraina – anche da parte dell’“Occidente” – ad esempio, attraverso l’attacco della NATO alla Serbia nel 1999, la guerra in Iraq con una "coalizione dei volenterosi" nel 2003, il mancato rispetto degli impegni sul disarmo nucleare del Trattato di non proliferazione nucleare riaffermato nel 1995, la risoluzione o il mancato rispetto di importanti accordi sul controllo degli armamenti, principalmente da parte degli Stati Uniti, o l’attuazione del tutto inadeguata degli Accordi di Minsk dopo il 2014.
Questo sviluppo storico dimostra che non è necessario attribuire colpe unilateralmente, ma un’analisi differenziata di tutti i contributi all’abbandono dei principi di Helsinki. Proprio per questo motivo, non dobbiamo dimenticare le lezioni della storia. Un ritorno a una politica di pura deterrenza senza controllo degli armamenti e a un massiccio accumulo di armamenti non renderebbe l’Europa più sicura. Dobbiamo invece lavorare di nuovo su una politica di pace che abbia come obiettivo la sicurezza comune.
Oggi, la sicurezza comune appare illusoria a molti. Si tratta di un errore pericoloso, poiché non esiste un’alternativa responsabile a una simile politica. Questo percorso non sarà facile. Pertanto, prima di poter attuare autentiche misure di rafforzamento della fiducia, sono necessari piccoli passi: limitare ulteriori escalation, garantire standard umanitari minimi, avviare una cooperazione tecnica in settori come la gestione delle catastrofi o la sicurezza informatica e riprendere con cautela i contatti diplomatici. Solo quando tali fondamenta saranno poste, la fiducia potrà crescere, aprendo così la strada a una nuova architettura di sicurezza europea. Anche il dibattito pubblico sulla politica di sicurezza deve contribuire a questo.
Inoltre, l’Europa è ora più che mai chiamata ad assumersi autonomamente la propria responsabilità. Sotto la presidenza Trump, gli Stati Uniti stanno nuovamente perseguendo una politica di scontro, in particolare nei confronti della Cina. Ciò aumenta il rischio di un’ulteriore militarizzazione delle relazioni internazionali. L’Europa deve contrastare questo fenomeno con una politica di sicurezza indipendente e orientata alla pace e partecipare attivamente al ritorno a un ordine di sicurezza cooperativo, guidato dai principi dell’Atto finale della CSCE del 1975.
Una cosa è chiara: una Bundeswehr difendibile e un rafforzamento della capacità di politica di sicurezza europea sono necessari.
Tuttavia, questa capacità di difesa deve essere integrata in una strategia di de-escalation e di graduale rafforzamento della fiducia, non in una nuova corsa agli armamenti. Di fatto, i soli Stati membri europei della NATO, anche senza le forze armate statunitensi, sono chiaramente superiori alla Russia in termini militari convenzionali. La retorica dell’allarme militare e i massicci programmi di riarmo non creano maggiore sicurezza per la Germania e l’Europa, ma piuttosto portano alla destabilizzazione e a un rafforzamento della percezione reciproca della minaccia tra NATO e Russia.
Gli elementi centrali di una nuova politica di pace e sicurezza sostenibile sono quindi:
Porre fine alle uccisioni e alle morti in Ucraina il più rapidamente possibile. Per raggiungere questo obiettivo, è necessario intensificare gli sforzi diplomatici da parte di tutti gli Stati europei. Il sostegno all’Ucraina nelle sue rivendicazioni di diritto internazionale deve essere collegato ai legittimi interessi di tutti in Europa in materia di sicurezza e stabilità. Su questa base, è necessario compiere il tentativo, estremamente difficile, di riprendere il dialogo con la Russia dopo il cessate il fuoco, anche su un ordine di pace e sicurezza per l’Europa che sia sostenuto e rispettato da tutti.
Creare una capacità di difesa indipendente per gli Stati europei, indipendente dagli Stati Uniti. Fermare la corsa agli armamenti. La politica di sicurezza europea non deve basarsi sul principio del riarmo e della preparazione alla guerra, ma piuttosto su efficaci capacità di difesa. Abbiamo bisogno di equipaggiamento difensivo per le forze armate che protegga senza creare ulteriori rischi per la sicurezza.
Non vi è alcuna giustificazione politica di sicurezza per un aumento annuo fisso del bilancio della difesa al 3,5 o al 5% del prodotto interno lordo. Riteniamo irrazionale stabilire una percentuale di spesa per scopi militari basata sul PIL. Invece di aumentare costantemente la spesa per gli armamenti, abbiamo urgente bisogno di maggiori risorse finanziarie per investimenti nella riduzione della povertà, nella protezione del clima e nella lotta alla distruzione delle risorse naturali, che colpisce in modo sproporzionato le persone a basso reddito in tutti i paesi.
Nessuno stazionamento di nuovi missili americani a medio raggio in Germania. Lo stazionamento di sistemi missilistici statunitensi a lungo raggio e iperveloci in Germania renderebbe il nostro paese un bersaglio primario di attacco.
Alla Conferenza di revisione del Trattato di non proliferazione nucleare del 2026, l’impegno per il disarmo nucleare ai sensi dell’articolo 6 deve essere rinnovato e rafforzato con relazioni vincolanti sui progressi compiuti e dichiarazioni di "no first use" ai sensi del diritto internazionale.
Allo stesso tempo, è importante insistere:
per il rinnovo del nuovo Trattato START sulla riduzione degli armamenti strategici, che scade nel 2026, e per l’avvio di nuovi negoziati sulla limitazione degli armamenti, il controllo degli armamenti, le misure di rafforzamento della fiducia, la diplomazia e il disarmo in Europa.
Un graduale ritorno all’allentamento delle tensioni e alla cooperazione con la Russia, tenendo conto delle esigenze del Sud del mondo, in particolare nella lotta alla minaccia comune dei cambiamenti climatici.
Nessuna partecipazione della Germania e dell’UE a un’escalation militare nel Sud-est asiatico.
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Moni Ovadia: «Ipocriti, fingono che il colpevole sia il solo Netanyahu, dopo 77 anni di persecuzioni per sfrattare e annientare il popolo palestinese»
Troppo comodo prendersela con il solo Netanyahu: come se fosse l’eccezione anziché la regola (il potere violento che da quasi un secolo lavora per sfrattare e annientare i palestinesi). «Netanyahu è il cattivo? Perché, gli altri cosa hanno fatto? La Naqba l’ha fatta Ben Gurion, l’ha fatta Golda Meyr. Ben Gurion fece distruggere 500 villaggi palestinesi con un gesto della mano. Tutti i trucchi sono stati usati per depredare il popolo palestinese. C’era un progetto che appariva bello, quello del rimboschimento di quella terra: si chiamava Keren Kemet Israel, ma la sua verità è che volevano celare tutte le devastazioni e seppellire i morti che non si potevano dichiarare».
La voce dell’ebreo sefardita Salomon Ovadia, per tutti Moni, si leva stentorea come in un teatro greco: esprime dolore, sdegno, pietà. L’indignazione per la macelleria in corso rivaleggia con il furore di fronte ai sepolcri imbiancati, i governi europei sottomessi al padrone, i cittadini dormienti che assistono immobili allo sterminio, senza anestesia, di un’intera popolazione. Raccomanda il grande intellettuale ebreo: «Usate limpidamente, serenamente, la parola genocidio: perché di questo si tratta. E la cosa è talmente chiara che il primo a sdoganarla, nell’ambiente israeliano, è stato il massimo esperto di Olocausto in Israele, il professor Ramos Goldberg, che in un testo di 20 righe ha ripetuto la parola “genocidio” sei volte, e l’ultima volta ha scritto “genocidio intenzionale”».
Insiste Moni Ovadia: «Non è stato un errore, una perdita di controllo. No, questo era lo scopo: cancellare un popolo, con tutti i mezzi possibili; deportando i palestinesi, distruggendo tutta la loro cultura, tutta la loro istruzione». Niente sconti: «È dalle origini, il problema: perché quando ti presenti con lo slogan “una terra senza popolo per un popolo senza terra” vuol dire che ti vuoi sbarazzare di quel popolo che non vedi». Il popolo che non vuoi vedere, che vorresti non fosse mai esistito. Il popolo che stai letteralmente cancellando, anche con il miraggio beffardo dei due Stati: con Gaza ormai ridotta in macerie e la stessa Cisgiordania sbranata giorno per giorno dalla ferocia dei coloni.
Uno di loro, il fanatico Yigal Amir, arrivò a uccidere Rabin, l’unico leader israeliano disposto a fare la pace. «Un complotto ben costruito»: in cabina di regia «la feccia della destra ultra-reazionaria», non ostacolata da «una sedicente sinistra imbelle, incapace, bugiarda, ipocrita e complice», che ha rinunciato a pretendere verità e giustizia. Per Moni Ovadia siamo precipitati «nella più atroce delle barbarie»: lo sterminio in atto tortura ogni giorno le coscienze ancora vive e condanna chi tace per pavidità e opportunismo.
«L’umanità ha impiegato secoli, millenni, per arrivare alla carta dei diritti universali dell’uomo; e i cosiddetti democratici occidentali hanno fatto carne di porco della legalità internazionale. Qui si tratta di scegliere: civiltà o barbarie. Di questo passo, un domani, quando oseremo invocare i diritti umani di fronte ai crimini dei peggiori dittatori, quelli ci diranno: “Ma state zitti, buffoni. Che cosa avete fatto con la Palestina? Non avete più titolo per parlare”. Noi dobbiamo guadagnarcelo di nuovo, questo titolo».
Ancora: «Non si illudano gli indifferenti. Gramsci ce l’ha insegnato: sono i più detestabili, i più vigliacchi, perché non si assumono responsabilità. Lo stesso Dante disprezza gli ignavi: “Non ti curar di lor, ma guarda e passa”. Ebbene, chi oggi tace di fronte all’abominio verrà giudicato lo stesso: i suoi figli o i suoi nipoti gli sputeranno in faccia per esser stato così vigliacco». Per Moni Ovadia, siamo di fronte a una barbarie mai vista, di fronte a cui è obbligatorio reagire: «Non so se avete visto la manifestazione di Amsterdam, la manifestazione di Parigi. Tocca anche a noi italiani. Eravamo paradigma di lotta: che cazzo ci è successo? Dobbiamo diventare decine di milioni, in strada. Tocca a ognuno di noi».
E che dire, di fronte a questi leader dell’Europa che si accorgono solo adesso del problema? «Da 77 anni il popolo palestinese è perseguitato, assassinato, torturato, espropriato, vessato. Dov’erano questi signori?». Militante da quarant’anni nell'ebraismo anti-sionista, Moni Ovadia rivela: «Ho ricevuto insulti, maledizioni, minacce (anche di morte). Adesso li voglio vedere in faccia, questi moderati. Non c’è peste peggiore della moderazione. Qui i moderati ci hanno regalato la mafia, la ’ndrangheta e la camorra, ci hanno regalato la complicità in tanti crimini, il Vietnam e poi la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan, la Siria».
«Sapete, si calcolano in 55-60 milioni le vittime dell’imperialismo statunitense e dei suoi servi leccapiedi. E poi hanno anche il coraggio di parlare del comunismo…». Riguardo a Gaza, la misura è colma: «È arrivato il momento di non accettare, su questa questione, nessun understatement. Hanno fatto una delle cose più raccapriccianti: hanno deciso il momento in cui comincia la storia, cioè il 7 ottobre, come se prima non ci fosse stato niente. Le uccisioni di bambini palestinesi, gli arresti arbitrari, i furti di terra e di acqua, i massacri, le segregazioni...».
Moni Ovadia compirà 80 anni l'anno prossimo, ma sembra un giovane leone. «Fate attenzione, perché quando cala la tensione è facile dire “Be’, adesso va un po’ meglio”. No, non c’è “un po’ meglio”». Sono stati oltrepassati tutti i limiti. «Non so se avete visto quella donna palestinese che camminava, sola, in mezzo a una strada tra le macerie. L’hanno polverizzata. Le hanno sparato addosso qualcosa, e lei si è dissolta in una nuvola di polvere. Sperimentano queste armi, sapete, anche perché non puoi seppellire la polvere. E così non possono più avere neanche quella pietas che c’era fin dai tempi della Guerra di Troia: avere il corpo del proprio caro, per piangerlo».
Inserito il 01/06/2025.
Dal sito «BarBalcani»
di BarBalcani
MA A VOI SEMBRA NORMALE che un Primo Ministro “socialista” albanese si inginocchi al cospetto della Presidente del Consiglio fascista italiana?
Il premier Edi Rama era già sulla bocca di mezza Europa per un controverso accordo con il governo italiano riguardo all’emigrazione. Ma se all'estero è spesso ammirato, è dentro i confini nazionali che va cercata la sua vera natura.
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Cosa vuole davvero Edi Rama
di BarBalcani
Ci sono momenti in cui, dall’oscurità in cui generalmente sono avvolti, i Paesi balcanici riemergono con un interesse inaspettato da parte dell’opinione pubblica italiana ed europea.
Un video, un commento, un episodio politico. Basta poco per generare un’ondata passeggera di opinionismo, che poi si dissolve come una bolla di sapone.
Recentemente è capitato all’Albania.
Da quando il governo del socialista Edi Rama ha siglato una controverso accordo sulla migrazione con quello italiano della nazionalista di estrema destra Giorgia Meloni, si è creata grande curiosità sul primo ministro albanese e sulla sua loquela fuori dagli schemi ‘ingessati’ degli altri leader europei.
Qualcuno lo guarda con ammirazione per il suo pragmatismo, qualcuno lo critica per l’opportunismo. Ma in generale a Bruxelles è benvoluto per il suo europeismo.
Di fronte alla crescente offensiva diplomatica per accreditarsi come traino dell’integrazione dell’Albania e dei Balcani Occidentali nell’UE - dai vertici internazionali a Tirana fino al protocollo con l’Italia su uno dei temi più spinosi per la politica europea - bisogna però cercare di rispondere ad alcune domande urgenti.
Quanto ci si può fidare di un leader che guida uno dei Paesi europei più arretrati sul piano dello Stato di diritto e della libertà di stampa?
Ma soprattutto, chi è e cosa vuole davvero Edi Rama?
Chi è Edi Rama
Edvin Kristaq Rama è il primo ministro dell’Albania dal 2013. Da giovane è stato giocatore di basket, ma il campo in cui ha cercato di distinguersi è stato quello della pittura.
Si è laureato all’Accademia delle Arti di Tirana, dove ha insegnato per qualche anno. Ha partecipato alle manifestazioni per la democrazia dopo la caduta del regime comunista, prima di trasferirsia 30 anni in Francia per cercare fortuna come pittore.
Tornato in Albania, nel 1998 è diventato ministro della Cultura, della Gioventù e dello Sport nel governo guidato dal Partito Socialista. Nei due anni di governo Rama si è fatto conoscere per uno stile politico dirompente e per un abbigliamento molto colorato, con cravatte a fantasie da lui stesso disegnate.
Ma è stato negli 11 anni successivi che Edvin (Edi dal 2002) Rama si è costruito la sua credibilità politica nazionale. Nel 2000 - da indipendente sostenuto dai partiti di sinistra - è stato eletto sindaco di Tirana (e rieletto nel 2003 e nel 2007).
Nei suoi tre mandati fino al 2011 sono state demolite centinaia di costruzioni illegali nel centro della capitale, sono state ridipinte le facciate degli edifici costruiti sotto il regime comunista ed è stato redatto il Master Plan della città con il progetto per il rinnovamento di Piazza Skanderbeg (la piazza centrale).
Dopo essere entrato nel 2003 nel Partito Socialista, due anni più tardi ne è diventato (ed è tutt’ora) presidente. Alle sue prime elezioni nazionali alla guida delle forze di sinistra, nel 2013 Rama ha trionfato alle urne, sconfiggendo la coalizione di destra guidata dal Partito Democratico del premier in carica Sali Berisha.
La sua piattaforma ‘Rinascimento’ si basava su quattro pilastri: integrazione europea, rilancio economico, ripristino dell’ordine pubblico e democratizzazione delle istituzioni statali.
Da 10 anni Rama è il primo ministro dell’Albania. Sotto la sua guida il Paese ha spinto sul rafforzamento delle autorità di polizia, sulle riforme giudiziarie ed economiche di stampo liberista e soprattutto sulle relazioni con i Paesi della regione e altri europei.
Ha guidato l’Albania in una nuova era dopo il durissimo regime di Enver Hoxha, il caos degli anni Novanta e la conflittualità politica dei primi anni Duemila. Ma ha anche reinterpretato il ruolo di uomo forte al potere, portandolo a un nuovo livello.
L’artista della nuova Albania europea
Di Rama e della sua strategia politica per sedere da pari ai tavoli europei ne abbiamo già parlato tre anni fa a BarBalcani, in una tappa profetica della prima stagione con il giornalista Nicola Pedrazzi.
Già allora era chiaro il piano di creare il «brand di un’Albania dello sviluppo e dal cuore grande», come dimostrato da alcuni episodi emblematici della sua premiership.
Nel 2015, appena dopo l’attentato a «Charlie Hebdo», si era recato a Parigi con le matite colorate nel taschino. Lui, artista e leader di un Paese a maggioranza musulmana, a un corteo progressista in difesa della libertà di stampa.
Nel 2018 si è offerto di ospitare 20 persone migranti bloccate al largo di Catania, nel tristemente celebre ‘caso Diciotti’. Un’apparente manifestazione di solidarietà - cinque anni fa come oggi - sulla migrazione, risoltasi nel nulla. Nessuna di queste 20 persone è mai arrivata in Albania (e altrimenti non poteva essere per il diritto UE).
Nel 2020, all’inizio della pandemia COVID-19, ha inviato una squadra medici in Italia per offrire sostegno. Ma erano 30 professionisti impreparati alle terapie intensive italiane, che hanno mostrato la vera natura della missione: un’operazione di propaganda per l’opinione pubblica italiana ed europea.
Da allora questa strategia non ha fatto altro che rafforzarsi, intercettando le esigenze sempre più urgenti dell’allargamento dell’Unione Europea. A partire dai rapporti con gli altri candidati (o potenziali tali) nella regione.
Prima di tutto ha stretto i rapporti con la Macedonia del Nord e con la Serbia nell’iniziativa ‘Open Balkan’, un progetto economico e di cooperazione politica per creare una zona di libero scambio basata sulle quattro garanzie dello spazio Schengen: libera circolazione di persone, merci, servizi e capitali.
Nel frattempo ha intensificato le discussioni con il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, puntando sulla comunanza di interessi per il percorso verso l’UE. Così come con il premier del Kosovo, Albin Kurti, per ritagliarsi un ruolo di mediatore al fianco di Bruxelles nelle complesse relazioni tra Pristina e Belgrado
Non si contano le visite diplomatiche del primo ministro albanese negli ultimi anni a Skopje, Podgorica, Sarajevo, Belgrado e Pristina.
Rama è diventato per l’Unione Europea ciò che i fixer sono per i giornalisti inviati in zone di guerra: conosce l’ambiente, suggerisce storie, interpreta situazioni. Ci si fida delle sue indicazioni.
Non è un caso se proprio a Tirana - e non in altre capitali balcaniche - si sono svolte due ‘prime volte’ assolute per l’Unione Europea e per la regione.
Il 6 dicembre 2022 il primo vertice UE-Balcani Occidentali ospitato da un Paese balcanico. E il 16 ottobre 2023 il primo vertice dei leader del processo di Berlino fuori dai confini dell’Unione Europea.
I leader UE sono sempre particolarmente sorridenti e ‘sbottonati’ quando sono in presenza di Rama. Che si può permettere sorprese fuori dal protocollo (come regalare piatti personalizzati dipinti a mano da lui stesso), ma anche critiche al vetriolo per le promesse mancate da parte di Bruxelles e dei Ventisette (recentemente ha paragonato il processo di allargamento a «una sposa che non si presenta mai al matrimonio»).
Perché tutti sanno che il leader albanese è un fervente sostenitore del processo di adesione all’UE dell’Albania in particolare e dei Balcani Occidentali in generale.
Sotto la premiership di Rama l’Albania ha ottenuto lo status di Paese candidato (nel 2014) e ha visto aprirsi i negoziati di adesione (nel 2022). Ora vuole arrivare a renderla quanto prima il 28º Paese membro.
«Le sfide sono molte, ma per noi che rappresentiamo l’Europa senza la ‘U’ la sfida politica più evidente è la dolorosa separazione tra gli Stati membri dell’UE e quelli non membri dell’UE», è la summa del suo pensiero in politica estera.
Una separazione che Rama, ancora una volta, cerca di colmare con la retorica dell’Albania “dal cuore grande”, guidata da un leader pragmatico, che non bada alle differenze ideologiche e in grado di offrire soluzioni che il resto l’Europa non sa trovare.
«Questo accordo non l’avremmo fatto con nessun altro Paese UE, ma se l’Italia chiama, l’Albania c’è. Abbiamo un debito di riconoscenza che non potremo mai saldare, ma che non dobbiamo mai dimenticare».
È così che Rama ha presentato il controverso protocollo d’intesa sulla migrazione con il governo Meloni - lui socialista, lei di estrema destra - che ha fatto nascere contrasti tra il premier albanese e il Partito Democratico italiano (entrambi appartengono al Partito Socialista Europeo).
Si tratta di un’intesa che sarà quasi impossibile da mettere a terra per questioni legali, pratiche e giuridiche (qui le trovi tutte). Non per ultimo per la presunta cessione di sovranità per costruire due centri per le procedure di sbarco, identificazione e rimpatrio su territorio albanese ma sotto la giurisdizione italiana.
Tutto questo però a Rama non interessa. «Starà al governo italiano provare che funziona, visto che tutta l’amministrazione di questa operazione è a carico suo», ha precisato dopo la firma del protocollo.
A parole e intenzioni ha voluto dimostrare di poter aiutare l’Italia molto più degli altri Paesi membri UE. L’assunzione di responsabilità sul piano della fattibilità pratica non fa certo parte del pacchetto utile al suo messaggio politico e propagandistico.
Conta l’immagine immediata, la costruzione del suo personaggio e dell’idea di una nuova Albania europea. Spenti i riflettori, può andare in scena l’esatto opposto.
E allora davvero bisogna chiedersi perché Edi Rama fa tutto questo. Cosa vuole davvero da Roma e da Bruxelles?
Il re degli stabilocrati
Edi Rama fa tutto questo perché è uno stabilocrate. Attenzione, non un autocrate, è ben diverso. È un concetto più fluido, più sofisticato e più ai limiti dell’esercizio democratico del potere. Una pratica che riguarda da vicino gli interlocutori dell’UE.
Come aveva spiegato a BarBalcani la sociologa Chiara Milan, si tratta di politici a cui Bruxelles si affida «perché promettono riforme e l’impegno ad aderire all’Unione, ma all’interno governano basandosi su clientelismo e corruzione e non garantiscono vera libertà di espressione».
È una categoria di politici molto balcanica: ne fanno parte, tra gli altri, il presidente della Serbia, Aleksandar Vučić, e l’ex-presidente del Montenegro (padre/padrone per 30 anni), Milo Đukanović. Ma il premier albanese Rama ne è forse la versione più riuscita.
Perché nessuno più di lui è riconosciuto come maggiore sostenitore nella regione del progetto dell’Europa unita. E, grazie all’immagine che si sta creando all’estero, è in grado di far dimenticare che il Paese che governa da 10 anni è tra i più arretrati del continente proprio sul piano della corruzione e della libertà di stampa.
Partiamo dalla corruzione, e per farlo ci affidiamo a due fonti. La prima è la valutazione della Commissione Europea contenuta nella relazione specifica sull’Albania nel Pacchetto Allargamento 2023:
«Nonostante i progressi e gli sforzi continui nella lotta alla corruzione, questa rimane un’area di grave preoccupazione. Nel complesso, la corruzione è diffusa in molti settori della vita pubblica e imprenditoriale e le misure preventive continuano ad avere un impatto limitato, soprattutto nei settori vulnerabili».
La seconda fonte fornisce una panoramica complessiva della situazione attuale e nel tempo. È l’indice del World Justice Project, che classifica l’Albania al 91° posto (su 142) per rispetto dello Stato di diritto: su una scala da 0 (debole) a 1 (forte), Tirana nel 2023 registra 0.48. La media globale è 0.55, la media della regione ‘Europa orientale e Asia centrale’ è 0.50.
Tralasciando per ovvi motivi Russia e Bielorussia, secondo la classifica dell’organizzazione internazionale che si occupa di Stato di diritto, nel 2023 l’Albania è l’ultimo Paese europeo a pari merito con la Serbia. Il peggioramento è costante dal 2015, quando Tirana si posizionava al 53° posto con un punteggio di 0.52.
Spiccano in particolare i risultati negativi nel campo dei ‘vincoli del potere del governo’ (al 107° posto) e della ‘assenza di corruzione’ (108°), con livelli di rispetto dello Stato di diritto gravemente insufficienti per la media globale.
Se questo scenario desolante non bastasse, si può considerare lo stato della libertà di stampa. Per farlo ci affidiamo all’ultimo indice di Reporters Sans Frontières, secondo cui Tirana si posiziona al 96° posto (su 180).
Nonostante nel 2023 l’Albania sia il penultimo Paese europeo (davanti solo alla Grecia e sempre senza Russia e Bielorussia), rispetto al 2013 sono state scalate 6 posizioni. Ma è lo scenario globale a essere peggiorato - più di quello albanese - non il rispetto della libertà di stampa nel Paese a essere migliorato.
Anzi, comparando i dati, emerge proprio un forte arretramento. Su una scala da 0 (scarso) a 100 (forte), il 102° posto del 2013 corrispondeva a 69.12 mentre il 96° posto del 2023 corrisponde a 57.86.
«I giornalisti sono vittime della criminalità organizzata e, a volte, della violenza della polizia, incitata dall’incapacità del governo di proteggerli», si legge nel report specifico dell’Albania. «I giornalisti critici nei confronti del governo sono spesso oggetto di attacchi politici volti a screditarli e hanno difficoltà ad accedere alle informazioni di proprietà dello Stato».
Nel 2013 Rama ha preso un’Albania non certo nelle migliori condizioni, ma in dieci anni l’ha peggiorata sul piano dello Stato di diritto.
E nascono da qui le sue richieste tacite. Che l’Unione Europea chiuda un occhio sulla situazione generale del Paese, in cambio di una retorica europeista praticamente incondizionata. E che l’Italia aiuti Tirana a mettere a tacere le voci più critiche a Bruxelles, a fronte di una solidarietà (a parole) quasi illimitata.
È questo quello che vuole davvero Edi Rama.
È ora di imparare a conoscerlo.
18 novembre 2023
(Tratto da: https://barbalcani.substack.com/p/barbalcani-cosa-vuole-davvero-edi-rama-albania).
Inserito il 30/05/2025.
Alì Rashid (n. 1953),
Fonte della foto: profilo Facebook di Alì Rashid.
Dal periodico «Sinistra Sindacale»
Intervista a cura di Frida Nacinovich
Alì Rashid, ex deputato PRC alla Camera, primo segretario della Delegazione generale della Palestina in Italia, fa il punto sulla situazione disperata che attanaglia il popolo palestinese.
«Netanyahu è solo l’evoluzione di quello che Israele è sempre stato, il popolo eletto a cui Dio ha dato questa terra, che ha commesso delle atrocità. Cosa ci si dovrebbe aspettare da chi vive assediato da decine e decine di anni, da chi sta morendo lentamente, giorno dopo giorno? I palestinesi non possono sparire in silenzio»
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Alì Rashid: «La distruzione di Gaza interroga l’umanità»
Intervista a cura di Frida Nacinovich
In questi mesi Alì Rashid vive in treno, passando da una città all’altra per raccontare – o meglio cercare di raccontare perché le parole non bastano – la tragedia del suo popolo. Il primo segretario della delegazione generale palestinese in Italia, l’ambasciatore di un popolo senza Stato, sta percorrendo la penisola insieme alle due mostre “Qui resteremo” e “Kufia, matite italiane per la Palestina”. Nella prima ci sono gli scatti catturati da fotografi palestinesi, immagini che descrivono il genocidio di un popolo, corpi piegati, macerie umane e urbane, fumo, sangue, bambini che urlano; nella seconda i disegni e le vignette realizzate nel 1988 durante la prima Intifada da Guido Crepax, Magnus, Vauro, Milo Manara, Andrea Pazienza e tanti altri.
«Nemmeno le feste pasquali stanno fermando il massacro. Questa mattanza dura da diciotto mesi, senza che le autorità internazionali intervengano per porvi fine. Sono stanco, ma per non arrendermi a questo senso di impotenza che ci attraversa vado avanti a denunciare la barbarie».
Rashid, questa non è una guerra ma una carneficina. Hanno ucciso decine di migliaia di donne, uomini e bambini, hanno ucciso fotografi e giornalisti, hanno ucciso operatori sanitari, bombardato scuole e ospedali. Eppure né la comunità internazionale né l’Onu riescono a intervenire per scrivere la parola ‘fine’.
«La Striscia è completamente distrutta, ci sono solo macerie. Si muore sotto le bombe israeliane, si muore di fame, di sete, di malattie, di disperazione. Crollano case, chiese, ospedali, le incubatrici si spengono perché non c’è elettricità e altri bambini muoiono. Con giornalisti e fotografi, che sono diventati anche loro bersagli, cerchiamo di far conoscere tutto questo. Ma come si fa a raccontare il dolore e la disperazione che durano così a lungo? Come si fa a raccontare la morte per fame o per sete o la mancanza di un posto in cui curarsi? Come si fa a raccontare la solitudine di un popolo che sprofonda nella morte sotto gli occhi di tutti? Sono immagini spaventose che gelano il sangue, annebbiano la mente, frantumano l’anima, polverizzano i sensi e fanno soccombere le parole. Nessun articolo può contenere il racconto di quello che sta andando avanti da un anno e mezzo».
Come si fa a parlare di diritto internazionale, di diritti umani, di fronte a uno scenario del genere?
«Giornalisti e fotografi sono diventati un bersaglio privilegiato, per cercare di nascondere al mondo quello che sta accadendo. In un solo anno ne sono stati uccisi oltre 190, nei trent’anni precedenti ne erano stati assassinati diciannove. Ma, come scrive Hanna Arendt, “i fatti sono al di là dell’accordo e del consenso. I fatti sgraditi possiedono un’esasperata ostinazione che può essere scossa soltanto dalle pure e semplici menzogne”. Eppure dobbiamo andare avanti, e qualcosa, molto lentamente, si sta muovendo. Anche se è ancora troppo poco per fermare questa tragedia».
C’è chi dice no anche fra gli ebrei, penso all’appello firmato fra gli altri da Gad Lerner, Moni Ovadia, Roberto Della Seta, Carlo Ginsburg, Anna Foa…
«Sono in contatto con loro, cerchiamo di fare qualcosa insieme nonostante le difficoltà. Perché sono stati minacciati, isolati».
Anche Papa Francesco, il Pontefice arrivato dalla fine del mondo, ha consumato le sue ultime energie chiedendo per l’ennesima volta la pace, ribadendo che le politiche di riarmo sono in antitesi con la convivenza fra i popoli, ricordando fra le altre la tragedia che si consuma nella Striscia di Gaza.
«Papa Francesco è stata una delle poche voci autorevoli che non ha mai mancato di farsi sentire. Nonostante le difficoltà e le pressioni che subiva anche lui. Netanyahu non si fermerà, non ne ha nessuna intenzione. Occorre la volontà della comunità internazionale. Ma fino ad oggi Israele ha avuto un sostegno generalizzato, e solo qualche piccola isolata critica. In definitiva il governo israeliano è stato appoggiato, solo dalle Nazioni Unite sono arrivate parole di condanna, inascoltate».
Nel mentre l’Europa pensa a riarmarsi. L’Europa del Manifesto di Ventotene non esiste, forse non è mai esistita.
«Definire l’Europa è difficile visto che stiamo parlando di Stati nazionali. Comunque fino ad oggi è stata complice di scelte altrui, penso agli Stati Uniti, con una tendenza al riarmo che non fa certo ben sperare. Guerre e armi si alimentano a vicenda, e naturalmente c’è chi si arricchisce da questo stato di cose. Nonostante i suoi mille cantori, il colonialismo genocida resta sempre lì, nudo e ridicolo quanto il superbo tiranno dell’antica fiaba. Anche l’Europa sceglie il dominio e lo sfruttamento al posto della convivenza. Una pericolosa svolta a destra che rischia di condizionare ancora più negativamente il nostro futuro».
Al di là delle vittime e della sofferenza della popolazione civile, sarà mai possibile un giorno ricostruire ciò che è andato distrutto nella Striscia di Gaza?
«Intanto cerchiamo di sopravvivere. Poi si vedrà. Sicuramente da soli non possiamo farcela. L’unico fatto positivo è che le sofferenze del popolo palestinese oggi sono conosciute ai quattro angoli del pianeta. E lo ripeto, solo con l’appoggio della comunità internazionale possiamo interrompere questo genocidio».
In questo contesto l’elezione di Donald Trump al posto di Joe Biden ha mutato lo scenario?
«Trump non ci sta aiutando, anzi continua a rifornire Israele di armamenti. E ha detto a chiare lettere quello che molti altri, ipocritamente, non avevano il coraggio di dire, cioè che i palestinesi devono andarsene di lì, vanno cacciati, espulsi, deportati. Allontanati dalla loro terra, come successe nel 1948, quando ci furono altre distruzioni, altri massacri, altre deportazioni. Gli israeliani dicono candidamente che i palestinesi devono morire, anche con la fame, con la sete, con la mancanza di medicinali, la distruzione degli ospedali e delle scuole. Non vogliono che ai palestinesi resti alcun posto dove possano considerarsi sicuri. Le loro operazioni militari contemplano la distruzione totale, completa. Non sono effetti collaterali di una guerra. Il loro ministro della Difesa è stato esplicito: per Gaza nemmeno una goccia di acqua».
Due popoli due Stati, è ancora possibile questo obiettivo?
«Due popoli due Stati resta un’ipotesi, una possibilità. Ma certo, se si continuano a creare colonie ebraiche in Cisgiordania, come si può pensare di realizzare uno Stato palestinese? Quali sarebbero i confini? Bisognerebbe aggiungere qualche parola in più, altrimenti resta uno slogan vuoto, utilizzato da chi non sa più cosa dire. Il martirio del popolo palestinese nella Striscia di Gaza e in Cisgiordania non è un incidente di percorso, viene da lontano. La politica israeliana non è mai cambiata, dal 1948 fino ad oggi. L’obiettivo è sempre stata la pulizia etnica, il massacro. La questione palestinese non è nata dopo il 7 ottobre, quello casomai ha fatto da detonatore. La pulizia etnica dura da 76 anni, ha avuto delle pause ma non è mai cessata. Ed ora è stata rilanciata in grande stile, grazie alle armi che l’Occidente vende a Israele».
Sei stato diplomatico, giornalista, anche parlamentare. Non ti arrendi e continui a perorare la causa del tuo popolo.
«Certo, praticamente vivo in treno. E la solidarietà non manca, me ne accorgo in tutti gli incontri che faccio, in tutte le occasioni pubbliche a cui partecipo. C’è sempre tanta gente che viene a questi appuntamenti, hanno capito finalmente cosa sia in realtà Israele, malgrado i tentativi di dare soltanto la colpa ad Hamas e al governo di Netanyahu. Netanyahu è solo l’evoluzione di quello che Israele è sempre stato, il popolo eletto a cui Dio ha dato questa terra, che ha commesso delle atrocità. Cosa ci si dovrebbe aspettare da chi vive assediato da decine e decine di anni, da chi sta morendo lentamente, giorno dopo giorno? I palestinesi non possono sparire in silenzio».
Frida Nacinovich
(Tratto da: Frida Nacinovich, Ali Rashid: “La distruzione di Gaza interroga l’umanità”, in «Sinistra Sindacale», n. 8/2025, 28 aprile 2025).
Inserito il 30/04/2025.
Il rientro dei palestinesi sfollati nella parte nord della Striscia di Gaza (19 gennaio 2025).
Autore della foto: Omar al-Qattaa / AFP tramite Getty Images.
Fonte della foto: https://www.invictapalestina.org/archives/54320
Dal sito de «L’AntiDiplomatico»
di Chris Hedges*
Il vero responsabile dei disastri del mondo, secondo Chris Hedges, è l’Occidente dominatore del mondo.
«Dominiamo il mondo non per le nostre virtù superiori, ma perché siamo gli assassini più efficienti del pianeta. I milioni di vittime dei progetti imperiali razzisti in Paesi come il Messico, la Cina, l’India, il Congo, il Kenya e il Vietnam sono sordi alle fatue affermazioni degli ebrei secondo cui il loro vittimismo è unico. Lo stesso vale per i neri, i nativi americani e la comunità di origine. Anche loro hanno subito olocausti, ma questi olocausti rimangono minimizzati o non riconosciuti dai loro autori occidentali».
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La via occidentale al genocidio
di Chris Hedges*
Gaza è una terra desolata con 50 milioni di tonnellate di macerie e detriti. Ratti e cani frugano tra le rovine e le pozze fetide di liquami grezzi. Il lezzo putrido e la contaminazione dei cadaveri in decomposizione emergono da sotto le montagne di cemento in frantumi. Non c’è acqua potabile. Poco cibo. Una grave carenza di servizi medici e quasi nessun riparo abitabile. I palestinesi rischiano di morire a causa di ordigni inesplosi, lasciati dietro di sé dopo oltre 15 mesi di attacchi aerei, raffiche di artiglieria, colpi di missili e scoppi di carri armati, e di una varietà di sostanze tossiche, tra cui pozze di liquami grezzi e amianto.
L’epatite A, causata dal consumo di acqua contaminata, è dilagante, così come le malattie respiratorie, la scabbia, la malnutrizione, la fame e la diffusa nausea e vomito causati dal consumo di cibo rancido. Le persone vulnerabili, compresi i neonati e gli anziani, insieme ai malati, rischiano la condanna a morte. Circa 1,9 milioni di persone sono state sfollate, pari al 90% della popolazione. Vivono in tende di fortuna, accampati tra lastre di cemento o all’aperto. Molti sono stati costretti a spostarsi più di una dozzina di volte. Nove case su 10 sono state distrutte o danneggiate. Condomini, scuole, ospedali, panetterie, moschee, università – Israele ha fatto saltare in aria l’Università Israa a Gaza City con una demolizione controllata – cimiteri, negozi e uffici sono stati cancellati. Il tasso di disoccupazione è dell’80% e il prodotto interno lordo si è ridotto di quasi l’85%, secondo un rapporto dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro dell’ottobre 2024.
La messa al bando da parte di Israele dell’Agenzia delle Nazioni Unite per il Soccorso e l’Occupazione dei Rifugiati Palestinesi nel Vicino Oriente – che stima che per liberare Gaza dalle macerie lasciate ci vorranno 15 anni – fa sì che i palestinesi di Gaza non avranno mai accesso a forniture umanitarie di base, cibo e servizi adeguati.
Il Programma di sviluppo delle Nazioni Unite stima che la ricostruzione di Gaza costerà tra i 40 e i 50 miliardi di dollari e, se i fondi saranno resi disponibili, richiederà fino al 2040. Si tratterebbe del più grande sforzo di ricostruzione postbellica dalla fine della Seconda Guerra Mondiale.
Israele, rifornito con miliardi di dollari di armi da Stati Uniti, Germania, Italia e Regno Unito, ha creato questo inferno. E intende mantenerlo. Gaza rimarrà sotto assedio. Dopo un’iniziale ondata di consegne di aiuti all’inizio del cessate il fuoco, Israele ha nuovamente ridotto drasticamente l’assistenza via camion. Le infrastrutture di Gaza non saranno ripristinate. I suoi servizi di base, compresi gli impianti di trattamento dell’acqua, l’elettricità e le linee fognarie, non saranno riparati. Le strade, i ponti e le fattorie distrutte non saranno ricostruite. I palestinesi disperati saranno costretti a scegliere tra vivere come abitanti di una caverna, accampati in mezzo a pezzi di cemento frastagliato, morire di malattie, carestie, bombe e proiettili, o esilio permanente. Queste sono le uniche opzioni che Israele offre.
Israele è convinto, probabilmente a ragione, che alla fine la vita nella striscia costiera diventerà così onerosa e difficile, soprattutto quando
Israele troverà scuse per violare il cessate il fuoco e riprendere gli assalti armati contro la popolazione palestinese, che un esodo di massa sarà inevitabile. Il governo israeliano si è rifiutato, anche con il cessate il fuoco in vigore, di permettere alla stampa straniera di entrare a Gaza, un divieto concepito per bloccare la copertura delle orribili sofferenze e della morte.
La seconda fase del genocidio israeliano e dell’espansione della “Grande Israele” – che comprende la presa di altro territorio siriano nelle alture del Golan (e le richieste di espansione verso Damasco), nel Libano meridionale, a Gaza e nella Cisgiordania occupata – si sta consolidando. Organismi israeliani, tra i quali l’organizzazione di estrema destra Nachala, hanno tenuto conferenze per preparare la colonizzazione ebraica di Gaza una volta che i palestinesi saranno stati ripuliti etnicamente. Le colonie per soli ebrei sono esistite a Gaza per 38 anni, finché non sono state smantellate nel 2005.
Washington e i suoi alleati in Europa non fanno nulla per fermare il massacro di massa trasmesso in diretta streaming. Non faranno nulla per fermare il deperimento dei palestinesi di Gaza per fame e malattie e il loro definitivo spopolamento. Sono complici di questo genocidio. Rimarranno complici fino a quando il genocidio non raggiungerà la sua triste conclusione.
Ma il genocidio a Gaza è solo l’inizio. Il mondo sta crollando sotto l’assalto della crisi climatica, che sta innescando migrazioni di massa, Stati falliti e catastrofici incendi, uragani, tempeste, inondazioni e siccità. Con il disfacimento della stabilità globale, la terrificante macchina della violenza industriale, che sta decimando i palestinesi, diventerà onnipresente. Queste aggressioni saranno commesse, come a Gaza, in nome del progresso, della civiltà occidentale e delle nostre presunte “virtù”, per schiacciare le aspirazioni di coloro, per lo più poveri di colore, che sono stati disumanizzati e liquidati come animali umani.
L’annientamento di Gaza da parte di Israele segna la morte di un ordine globale guidato da leggi e regole concordate a livello internazionale, spesso violato dagli Stati Uniti nelle loro guerre imperiali in Vietnam, Iraq e Afghanistan, ma che era almeno riconosciuto come una visione utopica. Gli Stati Uniti e i loro alleati occidentali non solo forniscono gli armamenti per sostenere il genocidio, ma ostacolano la richiesta della maggior parte delle nazioni di attenersi al diritto umanitario.
Il messaggio che trasmette è chiaro: voi e le regole che pensavate potessero proteggervi non contano. Noi abbiamo tutto. Se cercate di portarcelo via, vi uccideremo.
I droni militarizzati, le mitragliatrici degli elicotteri, i muri e le barriere, i posti di blocco, le spire di filo spinato, le torri di guardia, i centri di detenzione, le deportazioni, la brutalità e la tortura, la negazione dei visti d’ingresso, l’esistenza di apartheid che deriva dall’essere privi di documenti, la perdita dei diritti individuali e la sorveglianza elettronica sono tanto familiari ai migranti disperati lungo il confine messicano o che cercano di entrare in Europa quanto lo sono ai palestinesi.
Israele, che come nota Ronen Bergman in Rise and Kill First, ha “assassinato più persone di qualsiasi altro Paese del mondo occidentale”, usa l’Olocausto nazista per santificare il suo vittimismo ereditario e giustificare il suo stato coloniale, l’apartheid, le campagne di omicidio di massa e la versione sionista del Lebensraum.
Primo Levi, sopravvissuto ad Auschwitz, vedeva la Shoah, per questo motivo, come “una fonte inesauribile di male” che “si perpetua come odio nei sopravvissuti, e nasce in mille modi, contro la volontà stessa di tutti, come sete di vendetta, come rottura morale, come negazione, come stanchezza, come rassegnazione”.
Il genocidio e lo sterminio di massa non sono dominio esclusivo della Germania fascista. Adolf Hitler, come scrive Aimé Césaire in Discorso sul colonialismo, è apparso eccezionalmente crudele solo perché ha presieduto “all’umiliazione dell’uomo bianco”. Ma i nazisti, scrive, avevano semplicemente applicato “procedure colonialiste che fino ad allora erano state riservate esclusivamente agli arabi dell’Algeria, ai coolies dell’India e ai neri dell’Africa”.
Il massacro tedesco degli Herero e dei Namaqua, il genocidio degli Armeni, la carestia del Bengala del 1943 – l’allora primo ministro britannico Winston Churchill liquidò con disinvoltura la morte di tre milioni di indù in quella carestia definendoli “un popolo bestiale con una religione bestiale” – insieme allo sgancio delle bombe nucleari sugli obiettivi civili di Hiroshima e Nagasaki, illustrano qualcosa di fondamentale sulla “civiltà occidentale”. Come aveva capito Hannah Arendt, l’antisemitismo da solo non ha portato alla Shoah. Era necessario l’innato potenziale genocida dello Stato burocratico moderno.
“In America”, ha scritto il poeta Langston Huges, “i negri non hanno bisogno di sentirsi dire che cos’è il fascismo in azione. Lo sappiamo. Le sue teorie di supremazia nordica e di soppressione economica sono da tempo realtà per noi”.
Dominiamo il mondo non per le nostre virtù superiori, ma perché siamo gli assassini più efficienti del pianeta. I milioni di vittime dei progetti imperiali razzisti in Paesi come il Messico, la Cina, l’India, il Congo, il Kenya e il Vietnam sono sordi alle fatue affermazioni degli ebrei secondo cui il loro vittimismo è unico. Lo stesso vale per i neri, i nativi americani e la comunità di origine. Anche loro hanno subito olocausti, ma questi olocausti rimangono minimizzati o non riconosciuti dai loro autori occidentali.
“Questi eventi, che hanno avuto luogo a memoria d’uomo, hanno minato l’assunto di base di entrambe le tradizioni religiose e dell’Illuminismo secolare: che gli esseri umani hanno una natura fondamentalmente ’morale’”, scrive Pankaj Mishra nel suo libro Il mondo dopo Gaza. “Il diffuso sospetto che non sia così è ormai corrosivo. Molte più persone hanno assistito da vicino a morte e mutilazioni, sotto regimi di insensibilità, timidezza e censura; riconoscono con sgomento che tutto è possibile, che ricordare le atrocità del passato non è una garanzia contro la loro ripetizione nel presente e che le fondamenta del diritto e della morale internazionale non sono affatto sicure”.
Il massacro di massa è parte integrante dell’imperialismo occidentale come la Shoah. Sono alimentati dalla stessa malattia della supremazia bianca e dalla convinzione che un mondo migliore sia costruito sulla sottomissione e sullo sradicamento delle razze “inferiori”.
Israele incarna lo Stato etnonazionalista che l’estrema destra statunitense ed europea sogna di creare per sé, uno Stato che rifiuta il pluralismo politico e culturale, nonché le norme giuridiche, diplomatiche ed etiche. Israele è ammirato da questi proto-fascisti, compresi i nazionalisti cristiani, perché ha voltato le spalle al diritto umanitario per usare la forza letale indiscriminata per “ripulire” la sua società da coloro che sono condannati come contaminanti umani.
Israele e i suoi alleati occidentali, secondo James Baldwin, si stanno dirigendo verso la “terribile probabilità” che le nazioni dominanti “lottando per aggrapparsi a ciò che hanno rubato ai loro schiavi, e incapaci di guardarsi allo specchio, precipiteranno un caos in tutto il mondo che, se non porterà alla fine della vita su questo pianeta, porterà a una guerra razziale come il mondo non ha mai visto”.
Ciò che manca non è la conoscenza – la nostra perfidia e quella di Israele fanno parte della storia – ma il coraggio di dare un nome alla nostra oscurità e di pentirci. Questa cecità intenzionale e amnesia storica, questo rifiuto di rendere conto allo Stato di diritto, questa convinzione di avere il diritto di usare la violenza industriale per esercitare la nostra volontà segnano l’inizio, non la fine, delle campagne di massacro di massa del Nord globale contro le crescenti schiere di poveri e vulnerabili del mondo.
Chris Hedges*
(Traduzione de l’AntiDiplomatico)
* Giornalista vincitore del Premio Pulitzer, è stato corrispondente estero per quindici anni per il «New York Times», dove ha ricoperto il ruolo di redattore capo per il Medio Oriente e per i Balcani. In precedenza, ha lavorato all’estero per «The Dallas Morning News», «The Christian Science Monitor» e «NPR». È il conduttore dello show «The Chris Hedges Report».
(Tratto da: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-chris_hedges__la_via_occidentale_al_genocidio/39602_58977/).
Inserito il 04/02/2025.
Dal sito «invictapalestina.org»
di Raz Segal*
Lo studioso Raz Segal racconta la strana esperienza di essere stato attaccato come antisemita, nonostante fosse lui stesso ebreo e studiasse l’Olocausto e altri genocidi, per l’alto crimine di opporsi al massacro compiuto da Israele a Gaza.
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La negazione del genocidio negli studi sull’Olocausto
di Raz Segal*
Che cosa sta alla base del sostegno incondizionato che la Germania offre a Israele, compresi gli ultimi sedici mesi di assalto genocida di Israele a Gaza? Questa domanda rimane rilevante anche se l’attuale cessate il fuoco porrà fine al genocidio: affrontarla fa luce sul processo decennale del colonialismo dei coloni israeliani che ha portato al genocidio, una Nakba in corso che continua a svolgersi indipendentemente dal cessate il fuoco. In effetti, l’attacco di Israele ai palestinesi non è terminato e nella Cisgiordania occupata è addirittura aumentato da quando è iniziato il cessate il fuoco a Gaza, con attacchi mortali da parte dei coloni e dell’esercito israeliano.
Una stretta collaborazione tra studiosi dell’Olocausto israeliani e tedeschi offre alcune risposte inquietanti a questa domanda. In un evento web organizzato dal Programma di Studi sull’Olocausto presso l’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale il 19 dicembre 2024, tre relatori, Alvin Rosenfeld, professore di inglese e studi ebraici all’Università dell’Indiana, Verena Buser, storica tedesca che insegna a distanza all’Istituto, e Lars Rensmann, professore di scienze politiche all’Università di Passau in Germania, hanno attaccato gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio che hanno scritto e parlato del genocidio di Israele a Gaza, me compreso.
Sebbene l’evento fosse stato organizzato in onore di Yehuda Bauer, un padre fondatore degli studi sull’Olocausto, deceduto il 18 ottobre 2024 all’età di novantotto anni, i relatori hanno appena menzionato Bauer o il suo lavoro. Né hanno valutato la montagna di prove del genocidio in corso a Gaza dal 7 ottobre 2023. Invece, hanno optato per la negazione totale del genocidio.
Buser, ad esempio, ha affermato che gli studiosi che definiscono le azioni di Israele a Gaza come genocidio ignorano “le ampie critiche internazionali” sulla validità delle cifre delle vittime palestinesi che, ha aggiunto, “non distinguono tra combattenti e civili”. La verità è che esiste un ampio consenso internazionale sul fatto che Israele abbia ucciso più di 46.000 palestinesi. Le cifre effettive, inoltre, sono probabilmente molto più alte: un recente articolo sulla rivista medica «The Lancet» sostiene che Israele aveva ucciso oltre 64.000 palestinesi fino alla fine di giugno 2024, la maggior parte dei quali non combattenti, tra cui migliaia di bambini. Secondo Save the Children, “il territorio palestinese occupato è ora classificato come il posto più mortale al mondo per i bambini: circa il 30% degli 11.300 bambini identificati uccisi a Gaza tra ottobre 2023 e agosto 2024 avevano meno di cinque anni”. Israele aveva ucciso, inoltre, quasi 3.000 bambini palestinesi a Gaza che non erano stati identificati alla fine di agosto 2024.
La negazione del genocidio da parte di Buser si è estesa oltre la tipica minimizzazione del numero di vittime, che ha caratterizzato anche la negazione dell’Olocausto; ha anche fatto riferimento a “rapporti che mostrano che non c’è nessuna carestia a Gaza o che, se c’è, è causata dalle sfide logistiche della guerra”. Non ha indicato alcun rapporto specifico e non ha fornito alcun esempio specifico di sfide logistiche. Ciò non sorprende, poiché esiste anche un ampio consenso internazionale sulle politiche di carestia ben documentate di Israele, di cui i vertici militari israeliani hanno discusso apertamente.
La maggior parte degli studiosi nel mirino dei relatori dell’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale sono ebrei, me compreso, presi di mira per il modo in cui comprendiamo ed esprimiamo le nostre critiche alle atrocità di massa israeliane attraverso il prisma delle nostre identità ebraiche. A quanto pare, siamo il tipo sbagliato di ebrei. Ma accusarci di antisemitismo per il modo in cui ci identifichiamo come ebrei riproduce la visione antisemita che nega le identità ebraiche plurali per etichettare tutti gli ebrei come un’unica cosa, “gli ebrei”. In quanto tali, gli attacchi contro gli studiosi ebrei fanno parte della più ampia visione del mondo razzista dei relatori all’evento, mirata principalmente a denigrare i palestinesi.
La cosa più scandalosa è che lo storico israeliano Dan Michman, che è a capo dell’Istituto Internazionale per la Ricerca sull’Olocausto presso lo Yad Vashem, ha nominato nientemeno che Adolf Hitler per dare peso agli attacchi degli oratori.
Nessuno trova un problema con il termine palestinese. Ma se si torna indietro di un secolo, al Mein Kampf, per esempio, Hitler dice a un certo punto che i Sionisti vogliono stabilire uno Stato Palestinese per avere una base per le loro attività criminali. Ora, uno Stato Palestinese un secolo fa era uno Stato Ebraico. E il fatto è che durante il periodo del Mandato Britannico in Palestina, gli abitanti ebrei erano chiamati ebrei palestinesi, gli arabi erano arabi palestinesi. Nel 1948, Israele fu fondato e gli ebrei palestinesi divennero israeliani, quindi il termine palestinese fu lasciato in sospeso e solo dagli anni ’50 abbiamo iniziato a sentire parlare di palestinesi.
Sembra che Michman abbia voluto fare eco a Rensmann, che ha affermato nel suo discorso all’inizio dell’evento che “i nazisti erano apertamente, aggressivamente, fin dalle loro stesse radici, da Hitler nel 1920, apertamente anti-sionisti e hanno attaccato il potenziale Stato Sionista”. La logica in gioco qui è che se Hitler era un anti-sionista, l’anti-sionismo può essere solo antisemitismo, un’affermazione che gli oratori hanno ripetuto più e più volte. Così facendo, ignorano la ricca storia degli ebrei anti-sionisti e delle organizzazioni e dei partiti politici ebraici anti-sionisti, così come i molti ebrei anti-sionisti e le organizzazioni ebraiche in tutto il mondo oggi. Offrono invece una situazione bizzarra in cui un professore tedesco afferma di determinare per gli ebrei la legittimità o l’illegittimità delle loro identità ebraiche, appoggiato da uno studioso israeliano dell’Olocausto che finisce per riprodurre la logica del razzismo di Hitler.
Michman e Rensmann, inoltre, indirizzano le loro critiche non ai neo-nazisti e ai gruppi correlati di nuovo in ascesa in Germania e altrove, ma agli ebrei anti-sionisti. Michman e Rensmann si sono spinti in questo angolo paradossale per una ragione. Non possono tollerare gli ebrei anti-sionisti, compresi gli studiosi ebrei anti-sionisti dell’Olocausto e del Genocidio che osano sostenere che l’attacco di Israele a Gaza dall’ottobre 2023 rientra nel crimine di genocidio nel diritto internazionale.
Tuttavia, questi studiosi ebrei non sono soli. William Schabas, uno dei più importanti esperti di diritto internazionale sul genocidio, proveniente da una famiglia di sopravvissuti all’Olocausto, ha spiegato in un’intervista alla fine di novembre 2024 che:
“A Gaza l’infrastruttura è stata massicciamente distrutta, le persone non sono riuscite a scappare, e poi ci sono state le terribili dichiarazioni rilasciate dall’ex Ministro della difesa israeliano Yoav Gallant. Dichiarazioni provenienti da ministri, portavoce del governo e capi militari, tutti con influenza sulle truppe. Sono più frequenti e più gravi che in qualsiasi altro caso di cui io sia a conoscenza dinnanzi alla Corte Internazionale di Giustizia. Insieme alla fame e alla mancanza di accesso all’acqua e all’igiene, alla distruzione sistematica di case, scuole e ospedali, emerge un’immagine che potrebbe essere interpretata come il risultato di un intento genocida”.
Per Rensmann, tuttavia, la “rivendicazione di genocidio contro Israele è parte integrante della storia dell’antisemitismo del ventesimo e ora del ventunesimo secolo”.
Buser ha preso spunto da Rensmann per liquidare gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio, per lo più ebrei, il cui lavoro attinge al vasto e crescente corpus di fonti sul genocidio di Israele a Gaza. Queste includono materiale istruito dall’accusa di genocidio che il Sudafrica ha mosso contro Israele alla Corte Internazionale di Giustizia; le numerose mappe, testimonianze di palestinesi, foto aeree e altre fonti nei rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch, Forensic Architecture e della Relatrice Speciale delle Nazioni Unite Francesca Albanese sulla situazione dei diritti umani nei Territori palestinesi occupati dal 1967; e le migliaia di video caricati con orgoglio sui social media da soldati e ufficiali israeliani in cui documentavano la propria violenza e i propri crimini.
Negando questa realtà ampiamente documentata, Buser afferma che gli studiosi dell’Olocausto e del Genocidio che lei intende screditare usano la Dichiarazione di Gerusalemme sull’Antisemitismo (JDA), che “assolve l’anti-sionismo e i paragoni nazisti dalle accuse di antisemitismo”. La JDA, ha continuato, consente quindi a quegli studiosi di fare dichiarazioni anti-sioniste o suggerire paragoni storici che lei considera antisemiti, incluso, nelle sue parole, che “lo Stato di Israele è uno Stato bianco, colonizzatore, di apartheid che sta commettendo un genocidio a Gaza”.
La JDA stabilisce infatti che “criticare o opporsi al sionismo come forma di nazionalismo” non è antisemita, perché “in generale, le stesse norme di dibattito che si applicano ad altri Stati e ad altri conflitti sull’autodeterminazione nazionale si applicano al caso di Israele e Palestina”. In altre parole, se è legittimo criticare qualsiasi ideologia politica o politica di uno Stato, un diritto costituzionale protetto negli Stati Uniti, è legittimo anche nel caso del sionismo e di Israele.
La JDA conclude quindi giustamente che “anche se controverso, non è antisemita, di per sé, paragonare Israele ad altri casi storici, tra cui il colonialismo di insediamento o l’apartheid”. Buser, tuttavia, come i suoi colleghi relatori all’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale, equipara l’anti-sionismo all’antisemitismo, rendendo ai suoi occhi gli studiosi che prende di mira antisemiti. Le sue diapositive elencano gli undici più importanti di loro secondo lei, otto dei quali sono ebrei, me compreso.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto
Cosa pensare di questa alleanza di studiosi dell’Olocausto israeliani e tedeschi che attaccano gli ebrei per negare il genocidio israeliano e al contempo riprodurre il razzismo anti-palestinese eliminatorio che guida quel genocidio? Possiamo iniziare a sviscerare questa questione ricordando che l’evento dell’Istituto Accademico Israeliano mirava a onorare Bauer, lo studioso dell’Olocausto più associato all’idea che l’Olocausto sia unico nella storia umana. Questa idea, che ha guidato anche il lavoro di Rosenfeld e Michman, ha svolto un ruolo fondamentale nella politica e nelle società di Israele e Germania.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto nella storia umana fu facilitata dalla formulazione del concetto di genocidio nella Convenzione delle Nazioni Unite sulla prevenzione e la punizione del crimine di genocidio nel 1948, in seguito alla quale ciò che oggi chiamiamo Olocausto (allora nessuno usava quel termine) fu caratterizzato come più terribile del genocidio. Questa gerarchia, che in seguito arrivò a incarnare l’essenza del campo accademico Studi sull’Olocausto e sul Genocidio nel suo titolo, servì a un interesse cruciale per i vincitori della Seconda Guerra Mondiale: separò la violenza di massa nazista dalla lunga storia dei genocidi coloniali occidentali e dalla più breve storia dei genocidi sovietici che la precedettero.
Più immediatamente, ha anche distolto l’attenzione dai crimini di guerra su larga scala degli alleati occidentali e dei sovietici durante la Seconda Guerra Mondiale, tra cui il lancio di bombe atomiche sul Giappone da parte degli Stati Uniti, che lo studioso del genocidio Leo Kuper ha poi descritto nel suo libro del 1981 Genocidio: Il suo uso politico nel ventesimo secolo (Genocide: Its Political Use in the Twentieth Century) come atti di genocidio. Gli interessi comuni sovietico-occidentali sul nuovo crimine di genocidio finirono lì. In Occidente, questa gerarchia rese gli ebrei le vittime più pure, una mossa resa possibile dalla collocazione fondamentale degli ebrei nel mondo giudaico-cristiano. Come ha sostenuto il defunto storico dell’Olocausto Alon Confino in Un mondo senza ebrei (A World Without Jews), un brillante libro del 2014, i nazisti vedevano la distruzione degli ebrei proprio in questo modo, come essenziale per l’annientamento della civiltà giudaico-cristiana al fine di creare al suo posto una civiltà nazista. L’unicità dell’Olocausto ha quindi attinto e rafforzato l’idea che gli ebrei siano un popolo unico.
La vittimizzazione senza compromessi si è poi trasformata in una moralità superiore e si è unita a un elemento fondamentale del progetto sionista: confondere un popolo, gli ebrei, con uno Stato, Israele. Così è emersa la visione comune in Israele e in Occidente dell’esercito israeliano come l’esercito più morale del mondo. Di conseguenza, è diventato inimmaginabile che Israele potesse perpetrare qualsiasi crimine ai sensi del diritto internazionale, per non parlare del genocidio. Questa impunità per Israele nel sistema legale internazionale ha offuscato la riproduzione del nazionalismo esclusivistico e del colonialismo dei coloni nello Stato israeliano dalle sue origini nella Nakba del 1948, attraverso la Nakba in corso in decenni di violenza di massa israeliana contro i palestinesi, culminata ora nel genocidio israeliano a Gaza.
L’idea dell’unicità dell’Olocausto ha anche plasmato l’impegno della Germania nei confronti di Israele, ciò che l’ex cancelliera tedesca Angela Merkel ha notoriamente descritto in un discorso alla Knesset (Parlamento) israeliana nel 2008 come la “ragione di Stato” della Germania. Il defunto politico socialdemocratico tedesco Rudolf Dressler, che era stato ambasciatore della Germania in Israele dal 2000 al 2005, fu il primo a usare questa formulazione in un saggio nel 2005, e l’attuale cancelliere tedesco Olaf Scholz la ripeté nel suo discorso al Parlamento tedesco il 12 ottobre 2023. Cinque giorni dopo, in Israele, Scholz aggiunse che: “La storia della Germania e la responsabilità che ha avuto per l’Olocausto ci impongono di mantenere la sicurezza e l’esistenza di Israele”.
Ma un Olocausto unico funziona anche in modo più profondo nella politica e nella società tedesca. Rende anche il nazismo unico e quindi scollega il periodo nazista dal resto della storia tedesca, sia prima che dopo l’Olocausto.
Questa magia oscura i collegamenti tra il nazismo e il genocidio tedesco dei coloni contro gli Herero e i Nama nell’Africa Sud-occidentale all’inizio del ventesimo secolo. Allo stesso modo, scompare anche il nazionalismo tedesco esclusivista prima e dopo i nazisti, inclusa l’esplosione contemporanea di razzismo contro migranti e rifugiati. All’estremo, tale magia legittima il razzismo contro i palestinesi nel momento stesso in cui Israele perpetra un genocidio contro di loro. L’idea dell’unicità dell’Olocausto riproduce quindi piuttosto che affrontare il nazionalismo esclusivista e il colonialismo dei coloni che hanno portato all’Olocausto e che continuano a strutturare sia lo Stato dei perpetratori che lo Stato dei sopravvissuti fino a oggi.
L’evento dell’Istituto Accademico Israeliano della Galilea Occidentale, quindi, rifletteva ciò che Bauer aveva espresso un anno prima di morire, nel novembre 2023, in un articolo su «Haaretz». Utilizzando una terminologia coloniale, Bauer ha presentato l’attacco di Israele a Gaza come la protezione di “una società più o meno civile” contro la “barbarie di Hamas”, invocando “una lotta implacabile” tra “due visioni del mondo che fanno appello a diversi tipi di universo umano”. L’alleanza israelo-tedesca per gli Studi sull’Olocausto presso l’Istituto Accademico Israeliano esercita esattamente questa visione del mondo profondamente razzista, una visione che ha messo in pericolo gli ebrei in passato e ora li prende di nuovo di mira, a sostegno delle atrocità israeliane a Gaza, negando al contempo che costituiscano un genocidio.
27 gennaio 2025
Raz Segal*
(Traduzione di Beniamino Rocchetto - Invictapalestina.org)
* Raz Segal è professore associato di Studi sull’Olocausto e sul Genocidio presso l’Università Statale di Stockton, nella Contea di Galloway, New Jersey, dove dirige anche il programma di dottorato in Studi sull’Olocausto e sul Genocidio.
(Tratto da: https://www.invictapalestina.org/archives/54320).
Inserito il 05/02/2025.
Emmanuel Todd e il suo nuovo libro La sconfitta dell’Occidente (Fazi Editore).
Fonte della foto: https://www.analisidifesa.it/2024/10/la-sconfitta-delloccidente-di-emmanuel-todd/
Dal sito de «L’AntiDiplomatico»
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
“Stiamo entrando in un periodo in cui gli impulsi nichilisti di distruzione esistono indipendentemente dagli obiettivi razionali degli stati. Il nichilismo è il concetto corretto per comprendere la volontà degli ucraini di sottomettere i russi del Donbass. È il concetto corretto per comprendere le azioni dello Stato di Israele che non ha più obiettivi razionali”.
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Emmanuel Todd: “Possiamo salvarci solo accettando la sconfitta della NATO in Ucraina”
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
Incontriamo Emmanuel Todd nella sede romana di Fazi, l’editore che ha pubblicato la versione italiana del suo bestseller La sconfitta dell’Occidente. Storico, sociologo e antropologo francese di fama internazionale, ci colpisce per la disponibilità, umiltà e generosità con cui ci accoglie e con la quale ci permette di esaudire tutto il nostro fiume di domande e interessi. In Italia per presentare quello che è stato un caso editoriale in Francia e che è in procinto di essere tradotto in tante altre lingue, gli abbiamo esteso i nostri complimenti sinceri per il coraggio in una fase di appiattimento culturale e di chiusura ermetica delle idee nella parte di mondo che si autoproclama libero. Ma per Todd non è coraggio. Ci ricorda come suo nonno “Paul Nizan è stato un grande poeta, giornalista e scrittore che pubblicava con Gallimard. Il suo testimone di nozze era Raymond Aron ed è morto durante la seconda guerra mondiale. Mio padre Olivier era un grande giornalista del «Nouvel Observateur». L’agire nel portare avanti qualcosa in cui credo l’ho ereditato dalla mia famiglia e non lo vedo come coraggio, ma come il giusto modo di agire”.
Noto per aver previsto per primo, con anni di anticipo, il collasso dell’Unione Sovietica e la crisi finanziaria del 2008, Emmanuel Todd è una preziosa fonte per «Egemonia» per comprendere meglio i tempi in cui viviamo. […]
La sconfitta dell’Occidente è uscito in Francia prima della famosa controffensiva ucraina dell’estate del 2023, che era stata annunciata dalla stampa qui come l’inevitabile inizio della vittoria di Kiev. Quella che era una sua profezia allora, oggi è una realtà che però non viene accettata e si continua in un vortice di escalation apparentemente senza fine. Questa settimana, nuovamente, Ursula Von der Leyen ha parlato al Parlamento europeo di un sostegno economico e militare a Kiev “per tutto il tempo necessario”. L’Occidente accetterà mai la sconfitta?
Questa è la domanda centrale oggi. L’Europa l’accetterà oppure si troverà in una situazione in cui l’Ucraina verrà distrutta come entità statuale, con metà del territorio preso dalla Russia e l’altra metà trasformato in un regime fantoccio? L’Europa si lascerà trascinare ancora di più in questa spirale? Conosciamo già quale sarà il prossimo passo. La fornitura di missili a lungo raggio da lanciare in modo massivo sui territori russi, che equivarrebbe a una dichiarazione di guerra a Mosca. Ciò che colpisce nell’atteggiamento europeo, nelle ultime parole di Ursula von der Leyen citate ad esempio, è la totale assenza di contatto con la realtà. L’Occidente ha adottato sanzioni assurde contro la Russia, che hanno permesso a Mosca di ristrutturarsi attraverso un protezionismo efficiente, sostenuto dal resto del mondo, cinesi e indiani in particolare. Sanzioni che hanno distrutto l’economia europea. Siamo governati da dirigenti che distruggono la propria economia. Dirigenti che non sono nemmeno in grado di fornire le armi di cui l’Ucraina ha bisogno, e che parlano di continuare i loro sforzi. Vogliono solo continuare nella loro irrealtà.
Vede spiragli per una pacificazione nel breve periodo?
Le discussioni su come porre la fine alla guerra da parte degli occidentali sono sconcertanti. L’ultima fantasia tirata fuori sarebbe quella di accettare che l’Ucraina perda parte del suo territorio e, in cambio, entri a far parte della NATO. Sappiamo benissimo che i russi sono entrati in guerra per impedire all’Ucraina questo scenario. E discutono di tutto questo come di un “progetto di pace”, senza consultare la Russia, senza invitare il vincitore della guerra. L’idea di un piano di pace in assenza del vincitore è irrealtà. C’è un film straordinario sulla fine del regime di Hitler che mi torna alla mente spesso in questo momento pensando alle dichiarazioni dei leader occidentali. Si chiama La Caduta, dove si vede il leader nazista con i suoi generali nell’intento di gestire le divisioni della Wehrmacht… che nel frattempo non esistevano più. La situazione di oggi ancora più delirante. Sarebbe come se Hitler stesse discutendo le condizioni della pace da imporre agli americani e ai russi. È completamente folle!
Come illustrato in modo molto accurato nel suo libro, la guerra in Ucraina è stata voluta dagli Stati Uniti per staccare l’Europa (in particolare la Germania) dalla Russia. La firma del Nord Stream 2 è stato il momento chiave che ha spinto gli Usa ad agire. Come è possibile che la classe dirigente europea non sia più in grado di perseguire neanche lontanamente i propri interessi e si lasci distruggere la principale infrastruttura logistica del continente senza nemmeno aprire un’indagine?
Le classi dirigenti europee non hanno una visione geopolitica. I russi hanno una visione geopolitica, gli americani anche, perfino i giapponesi, ma qui no, niente. Semplicemente non esiste. Quando si parla di classe dirigente europea, mi concentro in particolare sulla Germania. Il vero obiettivo per gli Stati Uniti nel provocare questa guerra era quello di rompere la collaborazione tra Germania e Russia, che, alla fine, avrebbe portato all’uscita degli Usa dall’Europa. Lo choc della guerra per procura in Ucraina ha paralizzato la Germania e permesso agli strateghi statunitensi di distruggere il gasdotto Nordstream, simbolo dell’intesa economica tra Germania e Russia. Ma sono convinto che quando la sconfitta dell’Occidente si sarà palesata Mosca e Berlino torneranno ad incontrarsi naturalmente. È fisiologico. Nel frattempo, la situazione per le classi dirigenti tedesche è molto difficile e lo dico, prima di tutto, da antropologo che studia i sistemi di cultura autoritaria, dove la situazione dei leader è psicologicamente complessa. Tutti si sentono bene finché devono obbedire, ma quando devono guidare, sorge un problema. E i tedeschi oggi hanno paura di sé stessi, dopo gli errori della Prima e Seconda guerra mondiale… Penso che le élite tedesche abbiano paura di sé stesse. E quindi è difficile che possano essere in grado di rappresentare un contrappeso geopolitico efficace. Al massimo solo economico.
Professore quello che lascia realmente basiti nell’osservare l’atteggiamento delle classi dirigenti europee è l’assenza di una minima capacità di porre dei freni a qualunque decisione venga imposta da Washington. In un modo che non era mai stato così marcato in passato. Da che dipende secondo lei?
C’è un elemento molto importante che ho indagato molto nel dettaglio ed è il controllo finanziario da parte degli Stati Uniti delle classi dirigenziali europee. Controllo diretto. È molto interessante, è la seconda volta che ne parlo. Ne ho discusso in modo approfondito per un media francese, Elucid. Ho analizzato come le élite europee avessero investito molto denaro nel settore finanziario controllato dagli anglo-americani, rendendosi così vulnerabili all’occhio vigile di Washington. Erano controllati costantemente. Fornisco elementi di facile comprensione e che possono essere consultati da tutti. Parlo della NSA, ma ciò che più mi interessa, ciò che mi permette di affermare che l’ipotesi a cui sono arrivato sia assolutamente esatta, è che non sono mai stato criticato per quanto ho affermato. Normalmente sarei stato accusato di cospirazione, come avviene ogni volta che si affrontano questi temi. Questa volta no. Silenzio. Silenzio assoluto. Quindi penso di aver compreso dove nasce la sudditanza. È davvero una cosa dirompente e non dobbiamo parlarne!
Ragionando per deduzioni logiche, non possiamo non essere portati ad una visione pessimista della crisi bellica. Se è vero che per raggiungere la pace oggi, bisogna pacificare l’Eurasia. E se per pacificare l’Europa con la Russia (e poi con il prossimo bersaglio scelto dagli Usa: la Cina) le classi dirigenti europee dovrebbero assumere una posizione alternativa rispetto alle imposizioni degli Stati Uniti e della NATO, allora la conclusione è che senza uno scatto di sovranità, indipendenza e autodeterminazione delle classi dirigenti europee ci indirizzeremo verso una inevitabile terza guerra mondiale? È giusto affermare, in altri termini, che la pace nel nostro continente non sia possibile con la sopravvivenza dei due strumenti di controllo degli Stati Uniti sull’Europa: l’UE e la NATO?
No. Non è possibile. Lo penso in modo molto chiaro: la sconfitta della NATO in Ucraina rappresenterà un momento di svolta positiva e liberazione per l’Europa. Penso che gli europei siano ingenui, ma gli americani, gli inglesi, al contrario, siano eccitati dalla situazione e pieni di risentimento. In quei paesi c’è una spinta bellica, una spinta nichilista, che spiego nel libro analizzando i fattori culturali e religiosi che caratterizzano oggi il mondo anglosassone. Nell’Europa continentale invece non c’è questo impulso bellico. Prendete la Scandinavia. Come sostengo nel mio libro, l’evoluzione molto inquietante dei paesi scandinavi – Svezia, Finlandia, Norvegia, Danimarca, tutti paesi protestanti – è emblematica. Il punto nevralgico della questione è la disintegrazione del mondo protestante, il cuore evoluto dell’Occidente. La Germania è in teoria protestante per due terzi, ma il partito cattolico è stato dominante per molto tempo dopo la guerra. E naturalmente Francia, Italia e Spagna sono paesi cattolici. Se non lanciamo missili a lungo raggio contro la Russia, se non creiamo il pretesto di uno scontro termonucleare, entrando in un conflitto diretto con Mosca, è estremamente facile arrivare alla pace. Dobbiamo accettare che l’esercito russo arrivi al Dnepr, affinché Sebastopoli sia sicura. Vedremo subito come Mosca non abbia né la voglia, né la forza di andare oltre. E questo sarebbe uno shock assoluto per gli europei: si comprenderebbe immediatamente che non esiste alcuna minaccia diretta e, soprattutto, che la NATO non esiste per proteggerci. Esiste solo per controllarci. Un buon accordo diplomatico, una buona interazione diplomatica tra Germania, Italia e Francia, sarebbe sufficiente a garantire la pace, a garantire un contrappeso ai russi.
Che fase ci aspetta ora?
Stiamo entrando in un periodo in cui gli impulsi nichilisti di distruzione esistono indipendentemente dagli obiettivi razionali degli stati. Il nichilismo è il concetto chiave per comprendere la volontà degli ucraini di sottomettere i russi del Donbass. È il concetto chiave per comprendere le azioni dello Stato di Israele che non ha più obiettivi razionali. Quello che sta commettendo oggi non riguarda in nessuno modo la sicurezza. È guerra per la guerra. Perché gli israeliani non sanno più perché esiste lo Stato di Israele. È una nazione che non sa più cosa sia. Lo stesso si può dire per gli Stati Uniti. È meno grave del nazismo? Viviamo una fase meno grave della seconda guerra mondiale? Se non degenera in una guerra termonucleare, se gli europei non si lasciamo trascinare in una vera guerra con la Russia. Ma al contrario, se ci saranno ancora storici viventi nel 2030 o nel 2035, diranno, beh sì, è stata una cosa seria quanto il nazismo.
Nel suo libro pone al centro l’analisi della società anglo-americana e giunge alla conclusione che stiamo assistendo ad una sorta di santificazione del vuoto dovuto a pulsioni distruttive, che riguardano, scrive, cose, uomini e realtà. Sottolinea, nel portare avanti questa tendenza al nichilismo, come questo dipenda molto dal fallimento della religione protestante, riprendendo e attualizzando quanto teorizzato dal grande sociologo tedesco Max Weber. Applica il concetto di nichilismo alla politica estera Usa, alla questione ucraina e adesso, in interviste recenti, anche all’azione militare israeliana. Che ruolo hanno avuto i mezzi di informazione dominanti in Occidente nella diffusione del nichilismo e nella sconfitta di questa parte di mondo?
È una domanda a cui sento di poter rispondere con cognizione di causa perché il mondo dei media lo conosco a livello approfondito. Mio padre è stato un grande giornalista al «Nouvel Observateur» e anche io ho lavorato nella stampa all’inizio della mia carriera. Curavo una pagina culturale al quotidiano «Le Monde». Ho potuto percepire in prima persona come sia cambiato il giornalismo e come questo abbia cessato di essere un perno della democrazia liberale e del pluralismo delle idee. Le società occidentali erano ideologicamente pluralistiche, nel senso che erano presenti all’interno ideologie concorrenti che si scontravano. Prendiamo il caso che conosco meglio, quello della Francia: c’era il cattolicesimo tradizionalista, il Partito Comunista, la socialdemocrazia, il Gollismo. In Inghilterra c’era il conservatorismo classico che si opponeva agli ideali della classe operaia. E così negli altri paesi europei. I giornalisti, in quel contesto di società, prima di essere giornalisti erano collegati a quel mondo. Ed è così che i giornalisti hanno garantito il pluralismo: c’erano giornalisti comunisti, cristiani, nazionalisti, e insieme si sfidavano come in un concerto liberale in un festival. Ma poi tutte queste ideologie si sono disintegrate. E gli individui, i giornalisti in questione, liberati dalle loro credenze a priori, sono tornati ad una visione meramente tecnica della loro professione. Il giornalismo ha smesso di sostenere il pluralismo per divenire un pilastro dell’unica ideologia oggi esistente, quella del capitale.
Cos’è rimasto della libertà di informazione dunque in Occidente?
La libertà di poter dire ciò che si vuole, senza avere nulla da dire. C’è una specie di mimetizzazione della professione che amplifica lo stato generale atomizzato della società. E il potere che hanno assunto i media nella società di oggi è enorme. Viviamo un’epoca che definisco di narcisismo giornalistico. I politici sono terrorizzati dai giornalisti. Un giornale come «Le Monde» ha una capacità enorme nell’intimidire i politici, anche se chi scrive non ha nessuna prospettiva, non ha nessuna visione del mondo. Osservando il giornalismo qui in Italia nei giorni trascorsi nel suo paese, penso che sia lo stesso. Eppure, in passato non era così. Mi ricordo che ero a Firenze per concludere la mia tesi quando seppi del colpo di stato contro Allende in Cile. Lo lessi attraverso le pagine de «l’Unità», il quotidiano del Partito Comunista italiano. Qualunque fosse l’opinione politica, non si poteva negare che fosse un ottimo giornale e che mostrava in modo autorevole un’idea di mondo diversa da quella degli altri giornali di destra, nazionalisti, socialisti presenti in Italia. Esisteva un pluralismo dell’informazione, figlio di un pluralismo ideologico che oggi non esiste. E dal momento che non c’è più nessuna ideologia, i giornalisti rappresentano solo loro stessi e quello che scrivono fondamentalmente non significa nulla.
Alla base del nichilismo c’è sicuramente, come Lei espone in modo veramente efficace, la distruzione dell’industria, della classe operaia. E ancora la distruzione della democrazia e dei diritti sociali in Occidente. Quanto hanno pesato, per l’Europa, le scelte imposte dall’Unione Europea agli stati membri e l’imposizione di una moneta unica in tutto questo processo?
Il nichilismo è un concetto a cui sono appena arrivato nei miei studi. Sono un ricercatore, quindi anche quello che dico in quest’intervista mi permette di evolvere il mio pensiero. Nel mio libro è presente l’idea che il neoliberismo sia una delle prime espressioni del nichilismo, nel senso che alla base di quella dottrina non ci sia mai stata l’idea di riformare l’economia, ma di distruggerla. E l’idea l’ho maturata proprio nelle mie ricerche che ho svolto sul Trattato di Maastricht. Ho trascorso sette anni a scrivere un libro intitolato L’invenzione dell’Europa, 550 pagine in cui aveva diviso l’Europa in 483 province prendendo a riferimento come modello i dipartimenti francesi. Ho studiato religione, strutture familiari, le varie particolarità culturali, tradizioni, il sistema agrario ecc. prendendo a riferimento il periodo che va dal 1500 al 1970. Sono stato in grado di ricostruire la geografia politica interna di tutta Europa. In Italia ho evidenziato, per esempio, le ragioni del perché il comunismo si sia diffuso in tutta la Toscana tranne che nella provincia di Lucca e ho analizzato fenomeni similari in Svizzera, Finlandia, Germania. Quando ho visto che i francesi, i tedeschi e gli altri governi europei avevano ideato il Trattato di Maastricht e immaginato che una moneta avrebbe unificato un continente come quello, sono caduto dalla sedia e ho detto: sono pazzi! E in effetti quello che ho previsto si è realizzato completamente.
In che modo? E come questo l’ha aiutato a maturare l’idea di nichilismo per l’Occidente?
Il Trattato di Maastricht e poi l’euro hanno prodotto effetti completamente diversi da quelli attesi. Oggi abbiamo un’Europa che non funziona, si sono accentuati gli squilibri e distrutti i sistemi industriali. Allora, mi sono chiesto: perché hanno avuto questa idea? Da dove nasce questa concezione così palesemente fuorviante e dall’esito palese? Da quel momento ho iniziato a riflettere molto sulle scelte dei burocrati di Bruxelles e ho introdotto il concetto di nichilismo. Perché in realtà il vero obiettivo era quello di distruggere le diverse nazionalità. Vede, per rispondere alla sua domanda vorrei portare un esempio pratico. Una delle cose che mi colpisce è che ci sono atti così palesemente assurdi ideati da questi signori di Bruxelles che non ci può essere altra interpretazione se non la volontà di distruggere i vecchi schemi della convivenza sociale. Ho notato che anche qui in Italia, come in Francia, per uniformare le targhe delle macchine è stato cancellato il riferimento alle città o regioni di appartenenza. Perché? Mi chiedo e vi chiedo: perché? In Francia l’identificazione delle città di origine è così forte che le persone non hanno bisogno di vederlo scritto sulle targhe. Così come in Italia. Tanto è vero che in Francia, in molti, me incluso, hanno iniziato ad aggiungere manualmente il numero del dipartimento. Io ad esempio quello di Finisterre, in Bretagna, dove ho una casa. Ma la domanda è: perché i signori di Bruxelles lo fanno? La risposta è che tutte queste normative europee hanno l’obiettivo nichilista di favorire la scomparsa delle identità umane che hanno retto e fondato le nostre società.
Senza una classe operaia, partiti di massa in grado di offrire modelli alternativi possibili e una deindustrializzazione crescente ci ritroviamo immersi in una crisi che è politica, rappresentativa, economica e culturale. Dalla sua analisi emerge come gli Stati Uniti, dove si presentano due partiti identici come unica alternativa, non hanno alcuna speranza di guidare un cambiamento. Sull’Europa crede si possa fare qualcosa di pratico? Ci sono forze politiche che, secondo lei, in Europa sono in grado di combattere efficacemente questo nichilismo? Cosa pensa, ad esempio, del partito di Sahra Wagenknecht?
In realtà non ragiono più in termini di questa o quella forza politica. In passato ho cercato con tutte le mie forze di farlo, ma oggi rifletto piuttosto in termini di un possibile cambiamento ideologico generale. Su questo sono rimasto molto colpito da una formula dell’economista inglese Keynes, secondo cui, in realtà, non sono i politici ad essere al potere, sono le idee economiche a detenerlo. E attualmente viviamo in un’epoca di totale appiattimento. Avete notato che i lavoratori inglesi e i conservatori hanno le stesse idee economiche? Anzi, per essere più precisi, hanno le stesse non idee. Non pensano più nulla. Negli Stati Uniti credo che non ci sia poi così tanta differenza tra i trumpisti e i democratici nella loro concezione economica. Sono tutti gli statunitensi che sono coinvolti in un processo di decadenza intellettuale. Se penso all’Europa non sono così pessimista come per gli Stati Uniti, paese su cui ho cambiato idea più volte. Non è facile per me dire addio al mondo anglosassone. Ho studiato in Inghilterra, la mia famiglia si è rifugiata negli Stati Uniti durante la guerra. In un mio libro scritto dopo la guerra in Iraq mi auguravo un ritorno negli Stati Uniti ad una concezione nazionale ragionevole, piuttosto che al nichilismo imperiale che aveva iniziato a prendere piede. Avevo speranza. Oggi non più: per gli Stati Uniti è finita. A chi mi chiede cosa cambierebbe con Trump o con Harris al potere rispondo: “nulla, in ogni caso sarà orribile, poiché gli Stati Uniti disprezzano l’Europa, la sfruttano e la vogliono far marcire in guerra. Chiunque vinca”.
Per l’Europa è più ottimista diceva. Perché?
Per l’Europa sono più ottimista nella mia analisi. Il problema degli Stati Uniti, e anche dell’Inghilterra, è che sono paesi la cui ascesa storica è molto recente e dura da pochissimo tempo. In Europa abbiamo dalla nostra la storia, la cultura, ci sono paesaggi, monumenti, ci sono le città. Guardatevi qui intorno in Italia. Ci sono modi di comportarsi, c’è una relazione con il tempo che nel mondo anglosassone non esiste. In questa parte del mondo occidentale, c’è ancora speranza perché qui c’è molto da ricostruire. Il partito che lei ha menzionato prima, quello della Wagenknecht, rispetto a quanto ho detto, è molto poco. Lei è brava, dice cose interessanti ma non incarna, dal mio punto di vista, il processo a cui stiamo andando incontro. In Germania ritengo che forse sarà più l’Afd a farlo in quel cambiamento che produrrà il conservatorismo popolare. Ma su questo sto ancora riflettendo molto e non ho risposte precise al momento. Quello che è certo è che l’unica cosa che conta realmente è la lotta delle idee. È un fenomeno generale e non credo si debba ragionare sulla singola formazione politica.
Il grande assente del suo libro è la Francia. Perché il suo paese senza soldati statunitensi e con una deterrenza nucleare non è stato in grado di rappresentare un’alternativa alla supina accettazione delle imposizioni Usa sul conflitto in Ucraina?
È molto interessante che menziona il tema della deterrenza, perché la Francia è il primo caso nella storia a perdere la sua indipendenza nonostante il possesso di armi nucleari. È il trionfo del globalismo. Ci siamo resi conto che non basta avere le atomiche in un mondo controllato dall’economia finanziarizzata, dove le élite sono controllate dalla NATO o dalla FED e dalla NSA. Bene, abbiamo le armi nucleari in Francia. Abbiamo sottomarini, ma sono assolutamente inutili nella fase attuale. La Francia è un paese piccolo che è stato deindustrializzato e ha scelto la marginalizzazione. Per questo motivo non ne parlo nel mio libro. Nel mio paese si arrabbiano e un giornalista francese mi ha proprio sgridato in televisione su questo argomento. Gli ho risposto: “Perché parlare di un paese che non esiste?”. Macron è un personaggio psicologicamente labile. Per me è disturbato. Cambia idea in continuazione. Senza esercito, senza mezzi industriali e finanziari, allo sbando, ci troviamo di fronte a un paradosso: mentre aspettiamo ancora la disintegrazione del regime di Putin, stiamo assistendo a quella francese. Direi che la Francia sta diventando un riferimento, ma in senso negativo. Siamo il primo paese ad essere imploso dopo l’inizio della guerra per procura in Ucraina.
Un’ultima domanda allo storico Todd. Professore, se dovesse identificare un periodo del passato per descrivere ciò che viviamo oggi, quale parallelismo userebbe?
Questo è esattamente ciò che non si può fare oggi. È un’ottima domanda, ma quello che colpisce è proprio il fatto che non ci sia alcun parallelo possibile. Ho la reputazione di aver profetizzato scenari nel passato. È vero che avevo previsto la dissoluzione dell’Unione Sovietica. È vero che in un certo senso, con il mio amico Youssef Courbage, avevamo previsto la primavera araba. E poi il fallimento di Maastricht. Ma in realtà queste previsioni riguardavano paesi che non erano alla guida della scena mondiale. Oggi la crisi riguarda il mondo anglo-americano, l’Europa, i paesi più avanzati e ricchi del mondo. E non abbiamo mai visto popolazioni così ricche andare incontro ad un declino di questo tipo. Non abbiamo mai visto popolazioni così istruite farlo. E non abbiamo mai visto popolazioni così vecchie. Paralleli non sono oggi possibili.
12 ottobre 2024
Intervista a cura di Alessandro Bianchi
Inserito il 19/10/2024.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Iain Chambers
«Siamo al punto che non ci è permesso condannare il caso di genocidio più pubblicizzato del secolo attuale. Anche solo nominarlo e sottolineare l’orrore e l’oscenità etica e politica di tutto ciò».
«Anche noi stiamo diventando Israele, una società controllata con una rigida ideologia militarizzata. Anche a noi viene chiesto di considerarci costantemente minacciati dai migranti, dall’Islam e dal mondo non bianco, mentre l’Occidente si contrappone al resto del pianeta. Ma le vittime della mappa coloniale non sono né bianche né europee. Sono arabe».
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L’ignavia dell’Occidente
Colonialismo e barbarie
di Iain Chambers
Siamo al punto che non ci è permesso condannare il caso di genocidio più pubblicizzato del secolo attuale. Anche solo nominarlo e sottolineare l’orrore e l’oscenità etica e politica di tutto ciò. Con alcune eccezioni, filosofi, accademici e rettori di università tacciono.
La comunità ebraica non permette alcuna critica; i partiti politici borbottano su soluzioni a due Stati che sono state strappate decenni fa dai coloni sionisti e schiacciate dai carri armati israeliani. Nel frattempo, i giornalisti mainstream e i commentatori televisivi trasmettono una narrazione mortale che rifiuta spazio alle voci palestinesi. I punti di vista alternativi sono considerati precursori del terrorismo e quindi triturati nella macchina mediatica prima di essere eliminati.
Il massacro in atto, la vita resa nuda e azzerata dallo Stato d’eccezione, la deliberata violazione del diritto internazionale e delle regole fondamentali dell’impegno militare e delle questioni umanitarie sono sotto i nostri occhi. Mentre l’«autodifesa» israeliana si trasforma in pulizia etnica, noi continuiamo a favorire il genocidio.
Continua il sostegno incrollabile al colonialismo impenitente dei coloni in Israele attraverso accordi commerciali, vendita di armi e programmi di ricerca accademica. Gaza è stata rasa al suolo e la Cisgiordania sta per essere ripulita dalla violenza sionista.
Il colonialismo, come ci ha informato molti decenni fa l’intellettuale ebreo tunisino Albert Memmi, è una forma di fascismo. Tutta questa violenza ora si ripiega su se stessa per suggerire che gli enti pubblici in Italia – università, partiti politici, media – stanno agendo in modo del tutto illegale. Secondo la legge italiana, l’apologia del fascismo è considerata un reato.
Le massicce dimostrazioni pubbliche di sdegno in tutto il mondo per i crimini di guerra commessi nel Mediterraneo orientale sottolineano che stanno anche perseguendo un mandato decisamente antidemocratico.
Anche noi stiamo diventando Israele, una società controllata con una rigida ideologia militarizzata. Anche a noi viene chiesto di considerarci costantemente minacciati dai migranti, dall’Islam e dal mondo non bianco, mentre l’Occidente si contrappone al resto del pianeta. Questo fornisce la licenza per la violenza a cui si ricorre per proteggere l’autorità morale della nostra narrazione.
***
Nel frattempo, le argomentazioni liberali, che vedono due lati in ogni questione, come se il potere fosse equamente distribuito nel mondo, e che insistono sempre sul fatto che le questioni sono «complicate», ora vanno in fumo mentre la struttura sociale e le infrastrutture di Gaza e della Cisgiordania vengono bombardate e brutalmente fatte a pezzi.
Tutto ciò è accompagnato dalla cinica chiarezza delle analisi geopolitiche, che analizzano l’escalation di morti, feriti, mutilati e la pulizia etnica della Palestina.
Ma le vittime della mappa coloniale non sono né bianche né europee. Sono arabe. Considerati al di fuori dei confini della civiltà occidentale (anche se qualcuno potrebbe ammettere che storicamente hanno contribuito in modo significativo alla sua formazione), la razzializzazione tecnologica della morte e i profitti della guerra per conservare uno stile di vita occidentale sembrano inarrestabili. Il modello rimane al suo posto. Il fardello dell’uomo bianco non può essere abbandonato. La sua autorità patriarcale e l’ordine politico con cui disciplina il mondo devono continuare a qualsiasi costo.
Come molti osservatori della situazione hanno osservato, Gaza e la Cisgiordania non sono realtà separate. Sono uniche, accorpate da mezzi e tempi differenziati per raggiungere un unico obiettivo: quello di eliminare la questione palestinese, strapparla dalla terra e sterminare per sempre i palestinesi. Non avrà successo.
Il potere coloniale, che sia in Algeria, in Vietnam o in Sudafrica, è sempre imploso in un’accelerazione di violenza. Da posizioni politiche molto diverse, sia lo storico israeliano dissidente Ilan Pappe che il generale Yitzhak Brick, intervistati da «Haaretz», hanno recentemente affermato questo scenario.
I fascisti del governo israeliano amano presentare tutto questo come una guerra tra civiltà e barbarie. Finora, il potere occidentale non ha confutato questa brutale affermazione. Al contrario, continua ad avallarla pubblicamente e a capitalizzarla economicamente. Ma chi sono, in tutto questo, i veri barbari?
Iain Chambers
(Tratto da: Iain Chambers, Colonialismo e barbarie, in «il manifesto», anno LIV, n. 209, 1 settembre 2024).
Inserito il 07/09/2024.
Letture economiche della fase attuale
Due articoli per interpretare dal punto di vista economico la fase attuale: la Terza guerra mondiale a pezzi nel suo pezzo economico-commerciale-finanziario, i rischi per l’Europa succube del bellicismo americano e per il mondo intero.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Emiliano Brancaccio
Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto proprietario.
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Il capitalismo rovescia i dogmi della proprietà
di Emiliano Brancaccio
Se serviva una conferma, l’ultimo G7 l’ha data: il capitalismo è in piena mutazione e la metamorfosi è così violenta da mettere in discussione persino i dogmi assoluti del diritto proprietario.
Prendiamo il diritto alla libertà dei commerci. Da Biden a Meloni, i leader del G7 lo menzionano ormai con malcelato fastidio, come fosse un idolo vetusto indegno di venerazione. Gli stessi leader si entusiasmano, al contrario, nell’annunciare nuove misure protezionistiche contro la Cina e contro altri paesi non allineati agli interessi occidentali.
I sette grandi giustificano le restrizioni commerciali lamentando il sostegno della Cina alla Russia guerrafondaia. In realtà, i dati indicano che il protezionismo occidentale è iniziato ben prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
Soprattutto a opera degli Stati Uniti, che tra il 2010 e il 2022 hanno introdotto ben 7.790 nuovi vincoli agli scambi internazionali. Ma anche l’Europa, pur riluttante, ha alzato da tempo barriere contro l’oriente. La tesi cara ai sette grandi, del protezionismo come mera conseguenza della guerra, è dunque smentita dai fatti. Le barriere commerciali, piuttosto, sono state premessa dei conflitti.
I grandi del G7 mettono sotto il tallone anche un altro vecchio dogma proprietario: il valore indiscusso del dollaro come moneta di scambio internazionale.
La Cina, i paesi arabi produttori di energia e in parte anche la Russia, hanno accumulato ingenti quantità di dollari grazie a decenni di esportazioni. Stando alla dottrina, questi paesi avrebbero ora il diritto di utilizzare a piacimento gli ammassi di moneta verde che posseggono, magari anche per acquisire aziende occidentali.
Il problema è che il protezionismo americano ed europeo glielo impedisce: le barriere commerciali e finanziarie bloccano gli acquisti.
La conseguenza è che i proprietari orientali si trovano ora con pile di dollari che non possono utilizzare come vorrebbero. Naturale, quindi, che perdano interesse verso la valuta americana. Se ci pensiamo bene, la causa prima della cosiddetta «de-dollarizzazione» è proprio il protezionismo di marca statunitense.
Ma non è finita qui. Al vertice pugliese i leader del G7 sono arrivati a sfregiare persino il massimo comandamento del capitale: il diritto di proprietà privata garantito a livello internazionale. I sette grandi hanno stabilito che il nuovo stanziamento di 50 miliardi per l’Ucraina sarà coperto da prestiti garantiti da un esproprio di profitti russi.
Si tratta di proventi sui famigerati 300 miliardi depositati in occidente da società russe e congelati dopo l’inizio della guerra. Su questo delicatissimo tema l’occidente capitalistico si è spaccato più volte.
Da Wall Street a Francoforte, i brokers occidentali avvisano che la violazione delle proprietà russe ha attivato un campanello d’allarme tra i capitalisti di mezzo mondo, che temendo ritorsioni anche nei loro confronti potrebbero abbandonare ogni prospettiva d’investimento in occidente. Il rischio è concreto, eppure alla fine si è deciso comunque di varcare la soglia proibita. Anche la proprietà privata subisce così un declassamento: da indiscusso diritto individuale a concessione del sovrano.
Questa colossale mutazione capitalista non sembra incontrare ostacoli di sorta.
L’Ue appare sempre più assuefatta alla violazione degli antichi diritti proprietari. Le stesse destre reazionarie in ascesa la assecondano ormai senza indugio. Né si intravede un demiurgo americano in grado di contrastare la tendenza. Trump vorrebbe fare concessioni ai russi di tipo territoriale ma rimarca l’intenzione di proseguire con le barriere commerciali e finanziarie verso la Cina e verso gli altri paesi non allineati a Washington. Chi pensa che una sua vittoria elettorale possa invertire il corso degli eventi è un illuso.
Una vecchia tesi di Marx suggerisce che il mutamento capitalistico stravolge di continuo la storia umana con una violenza che non risparmia nessuno, talvolta nemmeno gli stessi capitalisti.
La profanazione dei «sacri diritti di proprietà» sancita dal G7 è solo una prova fra le tante. È l’annuncio di una nuova epoca di accumulazione originaria, in cui le dolcezze dei liberi commerci lasciano il posto alla ferocia delle reciproche usurpazioni.
Emiliano Brancaccio
(Tratto da «il manifesto», anno LIV, n. 144, 16 giugno 2024).
Inserito il 16/06/2024.
Dal sito «ilsussidiario.net»
di Mauro Bottarelli
La Bce ammette che le sanzioni alla Russia hanno indebolito l’euro. Intanto i Brics procedono nel loro piano per creare la valuta alternativa al dollaro.
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La moneta dei Brics pronta a “cancellare” l’euro
di Mauro Bottarelli
Come volevasi dimostrare, la Fed ha lasciato che fossero Bce e Bank of Japan a fare il lavoro sporco. Tassi fermi. E un solo taglio nel 2024, almeno stando alla guidance uscita dall’ultimo board di mercoledì. E se prendiamo le prezzature futures, guarda caso quell’unico intervento è stato spostato da luglio a dicembre di quest’anno. Ovvero, dopo il voto presidenziale. Ovviamente, tutte coincidenze. Ma se volete davvero rendervi conto di quanto il gioco stia facendosi pericoloso, allora date un’occhiata a questo articolo. La fonte è Reuters. Quindi, potete stare abbastanza tranquilli rispetto alla sua autorevolezza. Tanto più che si basa su documenti ufficiali della Bce. Già, un bel report.
E sapete cosa c’è scritto? Che l’euro rischia di perdere posizioni e prestigio nel suo ruolo di valuta di riserva globale a favore di dollaro e yen, un trend che si è già sostanziato nel corso dell’ultimo anno, stando proprio a quanto rilevato dalla Banca centrale europea. E sapete cosa potrebbe cronicizzare e far peggiorare ulteriormente quel trend, sempre a detta dei cervelloni residenti a Francoforte? Il regime sanzionatorio verso la Russia! Ovvero, nel giorno in cui gli Usa annunciavano nuove e più draconiane limitazioni verso Mosca, al fine di deterrenza nei confronti di Paesi come la Cina che sostengono l’economia della Federazione Russa, la Banca centrale di quell’Europa sdraiata a tappeto in sede di G7 si lamenta. Dopo essere stata il braccio armato di deliranti, inutili e controproducenti mosse come l’estromissione delle banche russe dal sistema Swift e, soprattutto, del congelamento dei beni, i cui utili proprio il G7 in corso in Puglia destinerà ufficialmente al sostegno di Kiev. Ovviamente, tutto per volontà statunitense. E dopo l’altra, suicida mossa delle autorità comunitarie, quell’innalzamento dei dazi sulle auto elettriche cinesi che, di fatto, Pechino ha già bollato come sparo di Sarajevo di una guerra commerciale tout court contro Bruxelles. Cercavamo il chiodo nella bara della de-industrializzazione totale? Lo abbiamo trovato. Non a caso, la Germania si opponeva.
E voi vi preoccupate di chi guiderà la Commissione e dell’onda nera? Preparatevi al peggio. Perché mentre accadeva tutto questo, a Cuba arrivava la flotta russa per esercitazioni in quello che le autorità della Florida non hanno perso tempo a descrivere come uno scenario degno del sequel in potenza della crisi dell’ottobre 1962. E a Mosca si svolgeva il meeting dei Brics, da cui arrivava comunicazione di una lista d’attesa per nuove adesioni che segnava quota 59 Paesi pronti a presentare domanda. In grande spolvero l’Arabia Saudita, la quale ha reso nota un’altra bazzecola. Il 9 giugno scorso scadevano infatti i 50 anni del Patto fra Ryad e Washington che obbligava la prima a commerciare petrolio unicamente in dollari, mentre la seconda garantiva assistenza militare e politica. Di fatto, il sistema di relazioni binarie alla base del concetto geo-finanziario di petrodollaro. Bene, al termine dei 50 anni, l’Arabia ha di fatto stracciato quell’atto prodromico e statutario di un’intera era di relazioni internazionali e di mercato. Ora commercerà liberamente petrolio anche in altre valute. Fra cui lo yuan. E l’euro. Ammesso e non concesso che fra qualche mese la carta che portiamo nel portafogli abbia ancora un valore di denominazione internazionale e non conti quanto il denaro del Monopoli. O il rublo.
Ricordate, infatti? Grazie alle stesse sanzioni che ora la Bce vede come una criticità per la valuta comune, la divisa russa avrebbe dovuto tramutarsi in carta igienica e operare da detonatore del default dell’economia del Paese. Dopodiché, file ai bancomat, rivolte per il pane e finale alla Ceausescu per Vladimir Putin. Un po’ come doveva accadere in Siria per Assad, ricordate il mitico must go di Obama e Cameron? Ebbene, sempre mercoledì abbiamo dovuto prendere atto di altro. Consci da tempo e per ammissione dello stesso Fmi che la Russia tanto in crisi quest’anno crescerà del 3,4%, Mosca ha voluto reagire subito alle nuove sanzioni collettive annunciate e decise unilateralmente dagli Usa. Da ieri, 13 giugno, stop immediato alle transazioni in euro e dollaro sulla Borsa di Mosca.
Direte voi, poco male, quel mercato capitalizza meno di Nvidia da sola. Vero. Ma come segnale di finanziarizzazione del conflitto dovrebbe far riflettere. E far paura. Sicuri che non ci sia la Cina dietro questa mossa della Banca centrale russa? Sicuri che adesso Mosca e Pechino non cominceranno a picchiare davvero duro sul mercato delle commodities strategiche, in primis quelle alla base della rivoluzione tech dell’intelligenza artificiale ma anche oro e argento con il loro vaso di Pandora dei futures senza collaterale fisico? E poi, quale destino attenderà banche e aziende europee presenti in Russia, al netto di nazionalizzazioni forzate e congelamenti di conti già in atto, vedi il caso Unicredit e Deutsche Bank?
Insomma, il 12 giugno la Terza guerra mondiale ha messo il capo fuori dalla trincea della mera deterrenza. E lo ha fatto in perfetto stile 2.0 e post-Lehman. Per via valutaria e finanziaria. Oltre che commerciale. L’Europa, nemmeno a dirlo, è riuscita a risultare ancora più Tafazzi del solito. A tal punto da ammetterlo implicitamente, perché nel giorno dei dazi sulle auto cinesi e delle nuove sanzioni contro Mosca decise da Zio Sam, proprio la Bce ammetteva che queste ultime rischiano di minare il profilo di moneta benchmark e di riserva dell’euro. Chiunque andrà al potere a Bruxelles, temo che ormai sia tardi. Perché quando Pechino comincia a muovere le pedine in questo modo significa che il dado è ormai tratto. E alla riunione dei Brics è stata decisa e messa nero su bianco l’implementazione del sistema di pagamenti transnazionali che escludono il dollaro. La valuta dei Brics. Di fatto garantita dalle montagne di oro fisico accumulate da Cina, Russia e India in questi ultimi anni e trimestri. E dalle materie prime. L’euro poteva diventare moneta bilaterale privilegiata. E invece, puff.
Nel frattempo, l’unica notizia terminata sui giornali e relativa al 12 giugno è stata la decisione della Fed di tenere fermi i tassi. Tutt’intorno, guerra globale. Ormai quasi dichiarata. Ma state tranquilli. Il mercato azionario sale. E l’intelligenza artificiale risolverà ogni problema. Per gli Usa, sicuramente.
14 giugno 2024
Mauro Bottarelli
(Tratto da: https://www.ilsussidiario.net/news/spy-finanza-la-moneta-dei-brics-pronta-a-cancellare-leuro/2717615/).
Inserito il 16/06/2024.
Quanta retorica è stata spesa sui giornali borghesi in occasione del 75° anniversario della fondazione dell’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord! Fiumi di parole sono scorsi sulla salvaguardia della pace e della stabilità internazionale, e soprattutto nel continente europeo. L’esatto contrario della verità, perché nella storia di questi decenni la NATO ha condotto interventi militari unilateralmente considerati “legittimi” e guerre cosiddette “umanitarie” in vari scenari mondiali, dall’Iraq all’Afghanistan, dalla Libia alla Jugoslavia, fino al palese coinvolgimento nell’attuale conflitto tra Russia e Ucraina e all’appoggio a Israele nel suo tentativo di genocidio e deportazione del popolo palestinese.
In questo contesto colpisce l’atteggiamento dei Paesi europei e in particolare dell’Italia, guidati da politici miopi che si sono posti al servizio della politica imperialistica del USA, che utilizzano la NATO come una clava per imporre al mondo il proprio dominio politico ed economico.
La Presidente del Consiglio Giorgia Meloni con il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg.
Fonte della foto: https://www.adhocnews.it/nato/
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella con il Segretario generale della NATO, Jens Stoltenberg.
Fonte della foto: https://www.quirinale.it/elementi/5696#&gid=1&pid=5
Dal giornale «il Fatto Quotidiano»
di Marco Travaglio
Il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella cerca di convincere il popolo italiano che l’Alleanza Atlantica sia al servizio della pace e della giustizia nei rapporti internazionali. Evidentemente deve aver vissuto su un altro pianeta…
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Uno smemorato NATO
di Marco Travaglio
Dopo giorni di tregenda e notti insonni per la dipartita di Amadeus dalla Rai, stavamo quasi per perderci le clamorose rivelazioni di Sergio Mattarella nel 75° compleanno della Nato. Che “non ha mai tradito l’impegno di garanzia per i 32 Paesi che ne fanno parte: uniti nella difesa della libertà e della democrazia”. Possono ben testimoniarlo i giornalisti e gli oppositori arrestati, i manifestanti repressi e i curdi bombardati nella Turchia dell’alleato Erdogan. Il Presidente, in vena di scoop, ha aggiunto che la Nato “non è mai venuta meno” alla “funzione deterrente di garanzia della pace in Europa” e a “regole e principi che trovano ancoraggio nella Carta dell’Onu” per “il diritto di tutti gli Stati all’autodifesa”, “a dispetto della retorica bellicista russa tesa ad attribuirle inesistenti logiche aggressive ed espansionistiche”. Certo, come no: la Nato è un’alleanza difensiva che attacca solo chi aggredisce un suo membro. Infatti nel 1999, senz’alcun mandato Onu, attaccò la Serbia di Milosevic che non aveva attaccato nessun membro Nato: oltre 2 mila morti, quasi tutti civili. Nel 2001, senza mandati specifici dell’Onu, invase l’Afghanistan dei talebani, che non avevano attaccato nessun membro Nato: oltre 200 mila morti, più 80 mila in Pakistan. Nel 2003, sempre senza avallo preventivo dell’Onu, Usa, Uk, Italia e Spagna invasero l’Iraq di Saddam Hussein, che non aveva attaccato nessun membro Nato: dagli 800 mila al milione di morti. Nel 2011, aggirando ancora l’Onu, la Nato bombardò la Libia di Gheddafi, che non aveva attaccato nessun membro Nato, ma fu messo in fuga dalle bombe e brutalmente trucidato.
Milosevic, Saddam e Gheddafi erano i migliori alleati della Russia in Europa, Golfo Persico e Nordafrica: infatti quei bellicisti dei russi si fecero l’idea che la Nato fosse un’alleanza offensiva contro di loro, che avevano sciolto il Patto di Varsavia nel 1991. Nel 1990 la Nato aveva pure promesso a Gorbaciov di non allargarsi di un palmo oltre il confine tedesco dopo la riunificazione delle Germanie. Poi purtroppo passò da 16 a 32 membri e nel 2008 annunciò l’ingresso di altri due vicini di casa della Russia: Ucraina e Georgia. Forse, mentre tutto ciò accadeva, Mattarella risiedeva su un altro pianeta o si occupava di giardinaggio? Macché: dal 1983 al 2008 fu deputato, poi giudice costituzionale e infine, dal 2015, capo dello Stato. Nel 1999, quando l’Italia partecipò ai 78 giorni di bombardamenti su Belgrado e il Kosovo, con 1.200-2.500 morti (quasi tutti civili) e fiumane di profughi, e chiamò la prima guerra in Europa dal 1945 “ingerenza umanitaria”, un certo Sergio Mattarella era vicepremier e subito dopo divenne ministro della Difesa. Ma magari era un omonimo.
Marco Travaglio
(Tratto da: Marco Travaglio, Uno smemorato Nato, editoriale de «il Fatto Quotidiano», 17 aprile 2024).
Inserito il 18/04/2024.
Dal settimanale culturale russo «Literaturnaja gazeta»
di Arsenij Zamost’janov
Un punto di vista russo sulla NATO e sulla sua sudditanza agli interessi degli Stati Uniti; la riproposizione di un documento d’archivio del 1954 con la richiesta di Chruščëv di aderire all’Alleanza per superare sul nascere le contrapposizioni della Guerra Fredda. Naturalmente la risposta fu negativa, e si arrivò nel 1955 alla firma del Patto di Varsavia tra i paesi del blocco socialista.
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NATO: 75 anni di espansione
1954: l’URSS chiede di aderire alla NATO
di Arsenij Zamost’janov
Nel marzo del 1949 i ministri degli Esteri e gli alti ufficiali militari di due paesi nordamericani e di dieci paesi europei discussero i dettagli del futuro Trattato Nord Atlantico, un blocco militare diretto contro l’Unione Sovietica e i suoi alleati. Il 18 marzo venne pubblicata una bozza di accordo che venne sottoscritta solennemente il 4 aprile e che è tuttora in vigore. Il suo quinto articolo si è rivelato il più intrigante: stando ad esso, un attacco contro uno dei paesi della NATO è considerato un’aggressione contro tutti gli alleati.
Un’unione degli odiatori di Mosca
Preludio di questo trattato militare fu un evento avvenuto un anno prima, quando gli alti rappresentanti di Gran Bretagna, Francia, Paesi Bassi, Belgio e Lussemburgo firmarono il Patto di Bruxelles, che conteneva i principi di autodifesa collettiva contro un possibile aggressore, che significava “Mosca Rossa”. Da soli, questi paesi non avevano abbastanza forza: non potevano fare a meno del sostegno americano. E non solo ci speravano, ma cercavano anche di costruire ponti con Washington. La stampa sovietica chiamò questa organizzazione Unione Occidentale e affermò direttamente che era diretta contro l’URSS. Mosca, secondo i dati dell’intelligence, era anche a conoscenza dei negoziati tra “Bruxelles” e canadesi e americani per un’alleanza militare più stretta che avrebbe unito i continenti nella lotta contro la “minaccia sovietica”.
I negoziati andarono a buon fine: gli europei erano pronti per il forte abbraccio americano. Tutto giustificava un’ipotesi della quale preferivano non dubitare: che i sovietici avrebbero conquistato tutta l’Europa e attaccato la Gran Bretagna subito dopo il 1945 “se non fosse stato per il deterrente della bomba atomica nelle mani degli Stati Uniti”, secondo le parole di Winston Churchill.
Churchill, che stava sostanzialmente perdendo l’Impero britannico, si considerava l’architetto di un nuovo ordine mondiale che sarebbe stato dominato dagli Stati Uniti, a quel tempo unica potenza nucleare sulla Terra e leader indiscusso dell’economia mondiale. Ma con lo status speciale di Londra come fornitrice di idee.
Churchill mentiva. Sì, Mosca era pronta a sostenere i comunisti in tutto il mondo, dalla Cina e Corea alla Francia. Ma i bolscevichi non fecero mai affidamento sulla forza militare e Washington, ai tempi del presidente Truman, decise di combattere l’ideologia comunista attraverso pressioni militari e finanziarie.
La richiesta di Chruščëv
Nel 1954, cinque anni dopo la firma del Trattato del Nord Atlantico, l’URSS fece una mossa intelligente: inviò una nota ai governi di Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia con una richiesta di adesione alla NATO. Si tratta di un documento interessante. Mosca in esso ricordava che alla vigilia delle due guerre mondiali era stata la creazione di blocchi militari a causare lo spargimento di sangue. Approvando la richiesta sovietica, le potenze occidentali avrebbero dimostrato che l’Alleanza non si poneva obiettivi aggressivi. Se l’Unione Sovietica avesse aderito all’Alleanza, l’umanità avrebbe ottenuto una reale garanzia contro una grande guerra.
Le parti tornarono su questa iniziativa due anni dopo, quando Nikita Chruščëv incontrò l’allora segretario generale della NATO Paul-Henri Spaak. Ma anche Chruščëv, incline a combinazioni inaspettate, capì senza ombra di dubbio che l’URSS non sarebbe mai stata accettata nella NATO. La lotta con Mosca era allora e rimane ancor oggi l’essenza di questa alleanza militare. Non è un caso che anche veterani hitleriani della Seconda guerra mondiale siano stati coinvolti nell’idea della NATO e – più tardi – nella sua leadership militare. Alcuni generali di Hitler hanno svolto un ruolo importante nella storia della NATO: oggi in Occidente stanno cercando con estrema cura di dimenticarsene. Per i veterani della Wehrmacht, dell’Abwehr, delle SS e della Gestapo, il confronto tra Stati Uniti e Unione Sovietica era l’unica possibilità per restare a galla e mantenersi nella professione. E non si limitavano a sostenere l’idea di combattere “l’espansione del bolscevismo”. Vediamo “professionisti” come il generale Reinhard Gehlen tra gli iniziatori della creazione di un blocco militare che “collegasse” l’Europa occidentale con Washington. Gehlen fece carriera nell’intelligence durante la Seconda guerra mondiale, agendo contro l’Armata Rossa e la resistenza antifascista in tutta l’Europa orientale. Nel maggio 1945 offrì i suoi servizi agli americani e questi, dopo molti dubbi e verifiche, lo aiutarono a creare il proprio servizio di intelligence, che chiamarono Organizzazione Gehlen. Divenne uno degli architetti della NATO e l’ideologo del ritorno della Germania allo scontro con Mosca. Per molto tempo l’intelligence della Germania occidentale (e Bonn entrò nella NATO nel 1955) fu guidata da Gehlen e dai suoi allievi.
Tra le “stelle” del blocco atlantico figuravano anche “lupi hitleriani” come Friedrich Guggenberger, un comandante di sottomarino tedesco catturato dagli americani nel pieno della guerra. Passarono gli anni e, divenuto cittadino della Repubblica Federale di Germania, divenne vicecapo di stato maggiore delle forze congiunte della NATO nel Nord Europa.
Negli anni del dopoguerra non tutta l’élite militare della Gran Bretagna e degli Stati Uniti sostenne sinceramente la svolta antisovietica. Ma il blocco del Nord Atlantico univa coloro che erano inconciliabilmente contrari a Mosca e alle idee del socialismo. Il primo segretario generale della NATO fu il barone e generale britannico Ismay, che simboleggiava con tutta la sua storia personale le tradizioni coloniali di Londra. Era nato in India, aveva iniziato lì il servizio da ufficiale e poi aveva combattuto in Somalia. Durante la Seconda guerra mondiale aveva guidato il quartier generale personale di Churchill e allo stesso tempo era riuscito a non avere quasi alcun contatto con gli alleati sovietici. Aveva supervisionato i rapporti con gli americani. “Non permettere all’URSS di entrare in Europa, garantire la presenza americana in essa e contenere la Germania”: si ritiene che questo motto appartenesse al barone.
Al giorno d’oggi
Con il crollo del sistema socialista Michail Gorbačëv, allora il beniamino dell’Europa occidentale, ricevette garanzie dai principali politici dell’epoca che la NATO non si sarebbe espansa verso est e che le armi nucleari non sarebbero state schierate sul territorio dei paesi dell’ex Patto di Varsavia. Ci sono molte prove di ciò. In passato gli accordi tra Mosca e Washington, compresi quelli non firmati dai leader statali, venivano di norma applicati. Anche in quegli anni in cui le relazioni tra i nostri paesi lasciavano molto a desiderare. E ora tutto è stato calpestato molto velocemente. Abbracci ed esercitazioni congiunte si sono trasformati in niente.
Eppure, nonostante le marce trionfali, la NATO è non da ultimo una forza propagandistica. È riuscita a convincere quasi il mondo intero che far parte delle file del blocco Nord Atlantico significa garantire in modo affidabile la sicurezza. È come un’insegna pubblicitaria. In effetti, nel corso degli 80 anni della sua esistenza la NATO non ha ancora avuto l’opportunità di dimostrare il proprio valore e la propria efficacia. Si può solo immaginare cosa sarebbe successo se avesse avuto la possibilità di discutere seriamente l’attuazione del duro articolo 5.
Naturalmente gli Stati Uniti hanno bisogno della NATO, oggi come ieri. Ma… con riserva. In primo luogo, molti in America, come Trump, credono che nella NATO Washington stia alimentando parassiti che non saranno utili in tempi difficili. In secondo luogo, la NATO, nonostante la presenza in questa organizzazione di paesi seri con eserciti forti, è sempre stata e sarà più debole degli Stati Uniti sul piano militare. Basi militari americane, flotta americana, mezzi americani di distruzione di massa: tutto questo non è proprio NATO o non è affatto NATO. E l’America, per vari motivi, ha condotto le operazioni militari più difficili negli ultimi 75 anni senza l’aiuto della NATO, incapace di far fronte ai disaccordi all’interno del blocco.
Oggi la NATO si è espansa a tal punto che, da un lato, ciò non può che allarmare Mosca e Pechino, e dall’altro complica il sistema a tal punto da renderlo ingombrante e ingestibile. Il fatto più importante è che la NATO offre agli Stati Uniti l’opportunità di costruire basi militari, aeree e navali nei territori dei paesi membri del blocco. Ciò è difficile da spiegare con i compiti difensivi che inizialmente univano i paesi della NATO. Per Washington le alleanze militari con l’Europa sono sempre state uno strumento di espansione, proprio come il Piano Marshall, secondo il quale gli americani barattavano l’assistenza economica con il dominio politico nel Vecchio Mondo.
La NATO non può essere ignorata come realtà politico-militare, né può essere esagerata. Ma è più importante discutere, trovare un terreno comune e negoziare direttamente con Washington. La NATO è solo una delle sue maschere.
Arsenij Zamost’janov
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Arsenij Zamost’janov, NATO: 75 let ekspansii, in «Literaturnaja gazeta», n. 10, 14 marzo 2024; https://lgz.ru/article/-10-6925-13-03-2024/nato-75-let-ekspansii/).
Inserito il 05/05/2024.
Dagli archivi sovietici
70 anni fa, il 31 marzo 1954, il Ministero degli Affari Esteri dell’URSS in una nota ufficiale propose di considerare la questione dell’ammissione dell’URSS nella NATO al fine di prevenire lo scontro in Europa e di non creare blocchi militari reciprocamente ostili (vedi traduzione sotto). Questa idea fu respinta dall’Occidente.
«[…] Il Trattato del Nord Atlantico non può che essere considerato come un trattato aggressivo diretto contro l’Unione Sovietica.
È del tutto evidente che l’Organizzazione del Trattato del Nord Atlantico potrebbe, in condizioni adeguate, perdere il suo carattere aggressivo se tutte le grandi potenze che facevano parte della coalizione anti-hitleriana vi aderissero. In conformità a ciò, il Governo Sovietico, guidato dai principi immutabili della sua politica estera amante della pace e sforzandosi di allentare la tensione nelle relazioni internazionali, si dichiara pronto a considerare, insieme agli altri governi interessati, la questione della partecipazione dell’URSS al Trattato del Nord Atlantico. […]».
Dal quotidiano «l’Unità»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«Oggi non c’è conflitto al mondo che non sia legato al grande equilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa degli Stati Uniti di risolverlo con il protezionismo».
L’economista Emiliano Brancaccio spiega le tesi contenute nel suo libro Le condizioni economiche per la pace.
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Emiliano Brancaccio: «La pace (come la guerra) è una questione di soldi»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
La Pasqua è passata, gli appelli alla pace si sono sprecati ma dall’Ucraina al Medio Oriente non si intravede uno straccio di trattativa per far tacere finalmente le armi. Eppure un sentiero per la pacificazione globale ci sarebbe.
L’ha indicato l’economista Emiliano Brancaccio nel suo ultimo libro, in uscita tra pochi giorni: Le condizioni economiche per la pace (Mimesis, Milano, 18 euro), che riprende e sviluppa l’omonimo appello internazionale che Brancaccio ha scritto l’anno scorso con Lord Skidelsky e che è stato poi pubblicato sul «Financial Times» e «Le Monde».
Professor Brancaccio, nel suo nuovo libro lei sostiene che gli attuali dibattiti sulla guerra sono del tutto inutili per individuare dei concreti percorsi di pace. Perché?
Perché ruotano quasi sempre intorno alle poche idee suggerite dai cosiddetti “geopolitici”. Da Alessandro Orsini a Vittorio Emanuele Parsi, si tratta di studiosi che pur assumendo posizioni politiche tra loro opposte sono tutti persuasi che la guerra possa in fin dei conti ridursi a una mera questione di dignità, di onore, di etnie, di confessioni religiose, al limite di difesa o di conquista di territori. Questa visione da saga medievale, un po’ alla Game of Thrones, oggi condiziona un po’ tutti, inclusi molti pacifisti. Ma è fuorviante, perché nasconde le enormi contraddizioni economiche alla base delle guerre moderne.
Nel libro e nell’appello che lo ha ispirato, lei e i suoi colleghi sostenete che le guerre attuali nascono dai problemi di debito dell’economia americana e dal tentativo degli Stati Uniti di risolverli con il protezionismo. Può spiegare?
In passato gli Stati Uniti sono stati fautori di una globalizzazione indiscriminata, ma alla fine dei conti sono usciti dalla stagione dei liberi commerci con molti problemi. In particolare, si sono ritrovati con un debito verso l’estero ormai vicino all’80% del Pil. In misura rilevante, questo debito è nelle mani della Cina e di altri paesi non allineati a Washington. Finché questi creditori cinesi, russi e arabi si sono limitati a usare i loro attivi per continuare a prestare denaro, o al limite acquisire immobili di pregio e magari società sportive americane e occidentali, la loro presenza nei gangli proprietari dell’ovest capitalistico è stata tollerata. Ma quando hanno iniziato a puntare sui settori strategici d’Occidente, dall’alta tecnologia all’alta finanza, il clima è cambiato. Gli americani hanno deciso di elevare barriere contro l’esportazione di capitali che veniva da oriente e hanno preteso che anche l’Ue facesse altrettanto. Ovviamente, a est questa svolta americana non è piaciuta, non l’hanno presa affatto bene. E ora cinesi e russi vogliono far capire al mondo che gli Stati Uniti non possono cambiare a piacimento le regole del gioco economico. Sta qui l’innesco chiave delle attuali tensioni militari.
Nel libro lei racconta che questa vostra interpretazione della guerra ha dato fastidio sia agli “atlantisti” che ai “putinisti”…
Sì, perché sgombra il campo dalle mistificazioni ideologiche degli uni e degli altri. Da un lato individua l’origine dei problemi nella svolta americana dal globalismo indiscriminato al protezionismo unilaterale, e dall’altro chiarisce che l’aggressione russa è ispirata da moventi capitalistici più che difensivi.
Voi, dunque, proponete una via di pacificazione mondiale che parta da un tavolo di trattative economiche. In cosa dovrebbe consistere?
Si tratta di promuovere uno scambio multilaterale: da un lato gli Stati Uniti rinunciano alle barriere protezionistiche con cui stanno bloccando l’export di capitali che viene da oriente, e dall’altro la Russia si ritira dai territori ucraini occupati e la Cina si rende disponibile a una regolazione politica e non di mercato dei crediti che vanta verso gli Stati Uniti e l’Occidente. A ciò bisogna aggiungere, ovviamente, che l’Ue deve rinunciare all’espansione ulteriore a est, in particolare agli accordi di integrazione economica con l’Ucraina che furono la miccia delle tensioni con la Russia. Se un’intesa del genere andasse in porto, le spese militari potrebbero esser dirottate verso un piano internazionale di ricostruzione dei vari territori martoriati dai conflitti. Sarebbe un primo passo verso un possibile nuovo ordine economico mondiale.
Perché la soluzione che voi avanzate potrebbe convincere Putin a ritirarsi dai territori dell’Ucraina occupati?
Perché risponde al movente di fondo delle oligarchie finanziarie russe. Putin non ha mandato decine di migliaia di giovani soldati a morire per territori di dubbia rilevanza strategica, che complessivamente non valgono nemmeno il dieci percento del Pil italiano. Gli apparati russi che hanno deciso l’aggressione all’Ucraina, e le varie diplomazie orientali che l’hanno avallata, si pongono un obiettivo molto più ampio, di portata storica: vogliono dimostrare che gli Stati Uniti non sono più nelle condizioni di imporre la loro egemonia nell’ordine economico mondiale. In particolare, non possono prima promuovere l’apertura globale dei mercati e poi, dopo avere accumulato ingenti debiti verso l’estero, cambiare idea e alzare barriere protezionistiche contro i capitali russi, cinesi e arabi.
Ma la Russia non va sanzionata per l’attacco all’Ucraina?
Certo, va sanzionata per la sua aggressione e per i massacri che ne sono conseguiti. Come pure gli Stati Uniti andavano sanzionati quando pretendevano di risolvere i vecchi problemi di deficit energetico mettendo a ferro e fuoco il Medio Oriente con scuse risibili. Ma un sistema razionale ed equo di sanzioni si costruisce solo nell’ambito di un nuovo ordine economico mondiale.
In cosa differisce questa vostra proposta da quelle già messe in campo finora, per esempio dalla Cina?
I cinesi hanno avanzato proposte sensate dal punto di vista territoriale e umanitario, ma sul terreno economico continuano a invocare un ritorno al vecchio ordine globalista del libero mercato. Presumo si tratti di un mero esercizio retorico: dovrebbero sapere che il libero scambio indiscriminato è parte del problema, essendo alla base dei grandi squilibri che sono poi sfociati nella soluzione protezionista americana. A questo punto, indietro non si torna più.
Nel libro lei sostiene che la vostra proposta di pace non solo serve a fermare la guerra in Ucraina ma è decisiva anche per interrompere gli altri conflitti, in corso o in preparazione: in Palestina, nel Mar Rosso, intorno a Taiwan, e così via. Perché tutto si collega alla trattativa sul protezionismo e sul debito americano?
Oggi non esiste conflitto al mondo che non sia in qualche modo legato al grande squilibrio capitalistico tra l’economia americana debitrice e l’economia cinese creditrice, e alla pretesa USA di risolverlo bloccando l’importazione di merci e capitali. Ormai tutte le vie commerciali, da Suez al Pacifico, sono diventate oggetto di contesa militare per verificare la tenuta dell’ordine protezionista americano. Per citare un esempio, le violenze di Hamas del 7 ottobre e i massacri di palestinesi a opera dell’esercito israeliano hanno sancito la crisi del corridoio IMEC tra Europa, Medio Oriente e India, con cui gli Stati Uniti speravano di costruire una linea commerciale alternativa alla nuova via della seta cinese. È questa la ragione di fondo delle attuali tensioni tra Israele e Stati Uniti, molto più della mera contingenza elettorale americana.
A proposito di elezioni, lei pensa che l’eventuale rielezione di Trump alla Casa Bianca possa aiutare la pacificazione internazionale?
L’amministrazione Biden ha fatto molto male alla pace ma si può fare anche peggio. Trump vorrebbe riesumare la vecchia strategia nixoniana: dividere Russia e Cina, questa volta blandendo Putin con concessioni territoriali e inasprendo invece il protezionismo soprattutto in chiave anti-cinese. Ma se accettiamo la tesi che i guai nascono dalla svolta protezionista americana, comprendiamo che la strategia trumpiana non risolve il problema di fondo. Anzi, rischia di aggravarlo.
Italia e UE potrebbero giocare un ruolo in questa trattativa di pace?
Finora noi europei abbiamo aderito alla politica di guerra economica e militare avviata dagli americani. Per adesso, quindi, rappresentiamo un problema più che una soluzione alla crisi internazionale. Eppure l’Italia e l’Unione europea non hanno rilevanti problemi di debito estero e quindi avrebbero più mano libera per sganciarsi dal protezionismo unilaterale USA.
Romano Prodi, con cui lei si è confrontato varie volte, la mette più sul piano del coordinamento militare: dice che se avessimo avuto l’esercito europeo la Russia non avrebbe attaccato l’Ucraina. Che ne pensa?
Io vedo un problema di fini, prima che di mezzi. Se l’esercito europeo venisse usato in chiave imperialista le cose potrebbero andare persino peggio.
Siamo alla vigilia delle elezioni europee. Quale parola d’ordine per la pace?
L’Unione europea rischia di assumere nella prossima legislatura un profilo sempre più allineato alla politica protezionista americana e sempre più guerrafondaio. È una tentazione trasversale, che si diffonde tra le destre reazionarie, i popolari, i liberali, e anche presso alcuni spezzoni del partito socialista. I candidati al parlamento europeo che intendono contrastare questa deriva dovrebbero presentarsi con una linea di indirizzo alternativa, fondata su un obiettivo chiaro e netto: promuovere in Europa e in tutte le sedi internazionali una trattativa che parta dal ritiro della Russia dai territori occupati in cambio dell’abbandono del protezionismo unilaterale di marca americana. Se c’è ancora una possibilità concreta di pace, parte da qui.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da «l'Unità», 4 aprile 2024).
Inserito il 09/04/2024.
Dal quotidiano «l’Unità»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«I governi israeliani volevano cancellare l’identità dei palestinesi come popolo».
«Il sionismo sta portando alla distruzione dello statuto etico-spirituale dell’ebraismo. […] Netanyahu è la vera faccia del sionismo».
«Tre quarti della comunità internazionale la pensa come me. Ma non conta. Conta solo l’Occidente. L’Occidente è totalmente complice, perché ha permesso a Israele di calpestare la legalità internazionale».
«Ormai in televisione sono terrorizzati a chiamarmi. Perché io parlo così. In un dibattito, si fa per dire, televisivo c’è chi mi ha dato dell’antisemita. Una che non avrà mai letto neanche una riga dei grandi saggi che descrivono le cose, a partire da Chomsky e Pappé».
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Moni Ovadia: «Antisemita io? Chi nega l’etnocidio a Gaza è solo un vigliacco»
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
Moni Ovadia è tante cose. Attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero, coscienza critica che sa andare controcorrente, alla faccia del pensiero unico veicolato dalla comunicazione mainstream. Su Israele, ad esempio. In morte del sionismo. “Da ebreo dico: quello che si sta compiendo contro il popolo palestinese è un etnocidio”.
Chi definisce genocidio ciò che sta accadendo a Gaza viene tacciato di antisemitismo.
È una colossale sciocchezza. Un’accusa vergognosa. L’antisemitismo è un crimine grave che consiste in questo: odiare gli ebrei perché sono ebrei. Non per quello che fanno ma per quello che sono. Questa è la differenza. I nazisti deportarono anche eroi di guerra tedeschi della Prima guerra mondiale perché erano ebrei. Questo è antisemitismo. Ma criticare qualcuno per quello che fa è tutt’altra cosa.
È il caso di Gaza?
Assolutamente sì. Il governo d’Israele sta compiendo un’operazione che qualcuno giudica che abbia un carattere genocidiario. Io sono tra questi. Ed è la conseguenza dell’aver sempre pensato ad un etnocidio.
Sostanzi questa grave accusa.
Etnocidio significa cancellare delle persone in quanto popolo. I governi israeliani volevano cancellare l’identità dei palestinesi come popolo. Rimanessero in Israele come dei paria, nei bantustan. Adesso l’etnocidio sta assumendo un aspetto genocidiario. Perché non si può far morire della gente, anziani, donne, bambini, di fame e di sete. Senza medicine. Donne che si sottopongono a un parto cesareo senza anestesia. Con un cinismo, una ferocia, una brutalità! Tutto questo, viene detto, sarebbe il seguito del 7 ottobre. Ma la storia non è iniziata quel giorno. Questa è una falsificazione. Un cumulo di bugie che circola nei media mainstream. L’accusa di antisemitismo sanno dove debbono mettersela. Se mi accusano di antisemitismo potrei reagire senza controllo. Come si permettono! Io sono ebreo come gli altri ebrei. I sionisti sono un’altra cosa.
Vale a dire?
Io ho cominciato prima a dirmi non sionista e adesso mi definisco antisionista. Il sionismo sta portando alla distruzione dello statuto etico-spirituale dell’ebraismo. Se l’ebraismo è ridotto a un nazionalismo furioso, isterico, che idolatra una terra, questo è contro lo spirito dell’ebraismo. Quello che sta succedendo a Gaza ha degli aspetti di una crudeltà terrificante. Alcuni ministri israeliani, veri e propri fascisti, l’hanno dichiarato apertamente. Si punta l’indice accusatore contro chi osa pronunciare la parola genocidio. Intanto si uccidono i bambini a migliaia, li si fanno morire di stenti, però dire genocidio, signora mia, che vergogna… Un orrore senza limiti. Con i soldati, vi sono foto e video in circolazione, che dopo aver combattuto, si riposano, postano selfie in pose trionfanti, con indumenti intimi femminili mostrati come trofei di guerra. In allegria. Se un giorno un tribunale della storia chiederà cosa avete fatto lì, cosa diranno i soldati israeliani, obbedivamo agli ordini? Ma come si può fare una cosa del genere? Quanto al 7 ottobre, non c’è stata un’inchiesta indipendente. Dichiarazioni di parte. Bisogna che ci sia una inchiesta indipendente ma il governo israeliano si guarda bene dal volerla. Il governo guidato da Benjamin Netanyahu.
Di lui penso il peggio possibile ma non che sia una escrescenza tumorale su un corpo sano. Una mela marcia in un cesto di frutti succosi. No, non è così. Netanyahu è la vera faccia del sionismo. Non ne è una deriva. Dico questo, perché la Nakba l’ha fatta Ben Gurion, non Netanyahu. E la Nakba è stata il primo atto di pulizia etnica, documentato da autorevoli storici israeliani come Ilan Pappé. Gli israeliani si sono mossi con una mastodontica propaganda, l’hasbara, con un cumulo di menzogne che non ho mai visto in vita mia.
Già ai tempi di Ben Gurion, ci fu una votazione in cui gli israeliani scelsero di non definire i confini dello Stato. Perché non farlo?
Domanda pertinente. E quale risposta si è dato?
Evidentemente perché li vuoi allargare, non certo restringere. Già allora pensavano di sfruttare tutte le situazioni possibili per portare via la terra ai palestinesi, come avevano fatto con la Nakba: case, ulivi. Hanno violato tutte le risoluzioni internazionali. Tutte. Quelle dell’Onu, le convenzioni di guerra, le norme del diritto umanitario… E poi si sono spinti, senza vergogna, a definire i territori palestinesi, territori contesi. Ma quando mai!
E la comunità internazionale?
Tre quarti della comunità internazionale la pensa così. Ma non conta. Conta solo l’Occidente. L’Occidente è totalmente complice, perché ha permesso a Israele di calpestare la legalità internazionale. Quella legalità che i governi israeliani hanno sempre dimostrato di disprezzare. L’unico leader israeliano che ci ha lasciato la pelle è stato Yitzhak Rabin. Per aver osato tentare una pace, per quanto imperfetta, è stato fatto fuori da un estremista israeliano.
Non era antisemitismo quando quelli del Likud, Netanyahu in testa, rappresentavano Rabin con la divisa da SS e il bracciale con la svastica!!! Allora non ho sentito gridare all’antisemitismo. Mi dispiace dire che a parte alcuni gruppi straordinari, come B’tselem, i refusnik, Breaking the Silence, verso i quali nutro un rispetto sacro, in Israele non c’è stata una vera opposizione. Hanno vissuto cinquant’anni con un popolo, quello palestinese, sottoposto ad un regime terrificante. Questo non lo dice Moni Ovadia che non conta niente. Lo dice Gideon Levy, il più informato giornalista israeliano, di cui meritoriamente l’Unità riporta articoli coraggiosi, illuminanti, che mettono in crisi la convinzione, propria anche dei cosiddetti moderati di sinistra, che Israele sia ancora una democrazia. Una democrazia non sottopone un popolo a ciò a cui è stato costretto il popolo palestinese: vessazioni, umiliazioni, arresti arbitrari, torture… Io sono furibondo!
E Israele, chi lo governa, dice di rappresentare tutti gli ebrei. A me col cavolo, per usare un eufemismo, che mi rappresenta! Io sono un ebreo della diaspora, sono legato alla cultura e alla spiritualità ebraica, ma il sionismo è un nazionalismo idolatrico e come tale antiebraico. E non sono l’unico a pensarla così. Lo pensano anche rabbini e anche ebrei ortodossi. Bisogna imporre all’esercito israeliano di ritirarsi immediatamente. Altroché far passare gli aiuti umanitari: bloccano il cibo e lo fanno artatamente, perché il loro scopo è di cancellare i palestinesi come popolo. E dietro ci sono anche ragioni economiche…
Quali sarebbero?
C’è gas nel mare di Gaza. E già sono partite le speculazioni per fare lotti lungo il mare di Gaza. L’accusa di antisemitismo è diventata una clava per silenziare persone perbene, oneste, che parlano solo perché coltivano sentimenti di umanità e di giustizia. Parlo per me, parlo di me. Io che interesse ho? Per le mie posizioni a sostegno del popolo palestinese, ho subito solo danni. Ormai in televisione sono terrorizzati a chiamarmi. Perché io parlo così. In un dibattito, si fa per dire, televisivo c’è chi mi ha dato dell’antisemita. Una che non avrà mai letto neanche una riga dei grandi saggi che descrivono le cose, a partire da Chomsky e Pappé.
E poi devo sentire giornalisti che in televisione ripetono, tra l’incredulo e lo scandalizzato, ma cosa si vuole imputare a Israele. Cosa? Lo dice la legalità internazionale! Su Israele, l’Occidente ha distrutto la legalità internazionale. Non siamo estremisti. Siamo semplicemente umani. Cosa che altri cominciano a non essere più, a non avere più quello statuto che attribuivamo all’uomo, secondo me erroneamente, la famosa umanità. Ma cosa dovrebbe dirti l’umanità? Che il tuo simile ha la tua stessa dignità. Gli israeliani stanno compiendo uno dei più grandi crimini che si possono commettere: punizioni collettive. La distruzione del principio più elementare del diritto. È possibile che siamo tutti cosi accecati, così vigliacchi da non gridarlo?
Quelli come me non li lasciano parlare, o se per sbaglio l’invitano, gli mettono intorno un po’ di mastini che provano a zittirli a colpi di “ecco l’antisemita”, “l’amico di Hamas”. E ora criminalizzano anche gli studenti che di fronte alla mattanza di Gaza hanno il coraggio e la determinazione di mobilitarsi, manifestare, trasformare l’indignazione in lotta. Io sto con loro. E con quei docenti e università che hanno rifiutato di partecipare ad un bando per la cooperazione scientifica con Israele in un campo in cui l’applicazione militare è nell’ordine delle cose. Dove sarebbe lo scandalo? Nel rifiutarsi di assistere in silenzio o addirittura di cooperare nell’etnocidio di un popolo? C’è poi un’altra vergogna di cui si tace.
Quale?
Il mezzo milione e passa di coloni in Cisgiordania che ci stanno a fare? Non c’è Hamas lì. Sono tutte scuse. Armati fino ai denti. Sputano sui bambini, assaltano villaggi palestinesi, bruciano gli ulivi. L’umanità ha davvero chiuso gli occhi. E l’Occidente che si riempie la bocca della parola diritti. Diritti di chi? Quando è scoppiata la guerra, ho ospitato a casa mia tre ucraini. Sono stati otto mesi e adesso verranno a fare le vacanze da noi, insomma abbiamo stabilito un rapporto familiare. Io l’ho detto in televisione: i profughi siriani, perché non li avete lasciati accogliere? Vi comportate così perché siete razzisti, perché non sono di razza bianca caucasica. I siriani, con quello che hanno subito. La retorica di un Occidente che è ormai marcio. Ricordiamoci che il 60% dell’umanità sta dall’altra parte. Ed è contro l’Occidente, quest’Occidente ipocrita, come ha mostrato il Sudafrica che ha portato Israele alla Corte internazionale di giustizia de L’Aja. C’è qualcuno che può parlare di apartheid più dei sudafricani? In futuro l’Occidente non avrà più diritto di aprire bocca. Con gli americani che continuano a fare la parte dei buoni. Perché nessuno li ha sanzionati quando hanno ammazzato un milione fra iracheni ed afghani per una guerra illegale. Adesso basta, con una narrazione miserabilmente compiaciuta dell’Occidente buono e giusto, a sostegno della sua propaggine mediorientale, Israele, basta con l’insopportabile politica dei due pesi e due misure, con l’inversione delle parti tra vittima e carnefice. Davvero basta. Lo grido da persona che possiede ancora un briciolo di umanità. Lo grido da ebreo antisionista.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da «l’Unità», 2 aprile 2024).
Inserito il 02/04/2024.
Dal sito «L’ospite ingrato»
Ritrova oggi tutta la sua attualità una “lettera aperta” agli ebrei italiani che l’intellettuale Franco Fortini lanciò dalle pagine del «manifesto» il 18 gennaio 1989 firmandosi anche con il cognome – Lattes – del padre di origine ebraica.
«Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti».
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Sotto il titolo La dissipazione di Israele - Lettera aperta agli ebrei italiani «il manifesto» del 18.01.09 ha ripubblicato, a firma Franco Lattes Fortini, il testo apparso il 24 maggio 1989 sullo stesso quotidiano, e successivamente ripreso da «La rivista del Manifesto» (21 ottobre 2001).
La Lettera, che riportiamo di seguito, è riprodotta integralmente in Franco Fortini, I cani del Sinai, Macerata, Quodlibet, 2002 (Appendice, pp. 85-90), attualmente in commercio; a questa edizione si rimanda anche per le notizie bibliografiche e documentarie della Nota al testo. Vedi anche, per la cornice biografica, F. Fortini, Saggi ed epigrammi, a cura di L. Lenzini, Milano, Mondadori, 2003 (Cronologia, p. CXXVII).
Lettera aperta agli ebrei italiani
di Franco Lattes Fortini
Ogni giorno siamo informati della repressione israeliana contro la popolazione palestinese. E ogni giorno più distratti dal suo significato, come vuole chi la guida. Cresce ogni giorno un assedio che insieme alle vite, alla cultura, le abitazioni, le piantagioni e la memoria di quel popolo – nel medesimo tempo – distrugge o deforma l’onore di Israele. In uno spazio che è quello di una nostra regione, alle centinaia di uccisi, migliaia di feriti, decine di migliaia di imprigionati – e al quotidiano sfruttamento della forza – lavoro palestinese, settanta o centomila uomini corrispondono decine di migliaia di giovani militari e coloni israeliani che per tutta la loro vita, notte dopo giorno, con mogli, figli e amici, dovranno rimuovere quanto hanno fatto o lasciato fare. Anzi saranno indotti a giustificarlo. E potranno farlo solo in nome di qualche cinismo real-politico e di qualche delirio nazionale o mistico, diverso da quelli che hanno coperto di ossari e monumenti l’Europa solo perché è dispiegato nei luoghi della vita d’ogni giorno e con la manifesta complicità dei più. Per ogni donna palestinese arrestata, ragazzo ucciso o padre percosso e umiliato, ci sono una donna, un ragazzo, un padre israeliano che dovranno dire di non aver saputo oppure, come già fanno, chiedere con abominevole augurio che quel sangue ricada sui propri discendenti. Mangiano e bevono fin d’ora un cibo contaminato e fingono di non saperlo. Su questo, nei libri dei loro e nostri profeti stanno scritte parole che non sta a me ricordare.
Quell’assedio può vincere. Anche le legioni di Tito vinsero. Quando dalle mani dei palestinesi le pietre cadessero e – come auspicano i “falchi” di Israele – fra provocazione e disperazione, i palestinesi avversari della politica di distensione dell’Olp, prendessero le armi, allora la strapotenza militare israeliana si dispiegherebbe fra gli applausi di una parte della opinione internazionale e il silenzio impotente di odio di un’altra parte, tanto più grande. Il popolo della memoria non dovrebbe disprezzare gli altri popoli fino a crederli incapaci di ricordare per sempre.
Gli Ebrei della Diaspora sanno e sentono che un nuovo e bestiale antisemitismo è cresciuto e va rafforzandosi di giorno in giorno fra coloro che dalla violenza della politica israeliana (unita alla potente macchina ideologica della sua propaganda, che la Diaspora amplifica) si sentono stoltamente autorizzati a deridere i sentimenti di eguaglianza e le persuasioni di fraternità. Per i nuovi antisemiti gli ebrei della Diaspora non sono che agenti dello Stato di Israele. E questo è anche l’esito di un ventennio di politica israeliana.
L’uso che questa ha fatto della Diaspora ha rovesciato, almeno in Italia, il rapporto fra sostenitori e avversari di tale politica, in confronto al 1967. Credevano di essere più protetti e sono più esposti alla diffidenza e alla ostilità.
Onoriamo dunque chi resiste nella ragione e continua a distinguere fra politica israeliana ed ebraismo. Va detto anzi che proprio la tradizione della sinistra italiana (da alcuni filoisraeliani sconsideratamente accusata di fomentare sentimenti razzisti) è quella che nei nostri anni ha più aiutato, quella distinzione, a mantenerla. Sono molti a saper distinguere e anch’io ero di quelli. Ma ogni giorno di più mi chiedo: come sono possibili tanto silenzio o non poche parole equivoche fra gli ebrei italiani e fra gli amici degli ebrei italiani? Coloro che, ebrei o amici degli ebrei – pochi o molti, noti o oscuri, non importa –, credono che la coscienza e la verità siano più importanti della fedeltà e della tradizione, anzi che queste senza di quelle imputridiscano, ebbene parlino finché sono in tempo, parlino con chiarezza, scelgano una parte, portino un segno. Abbiano il coraggio di bagnare lo stipite delle loro porte col sangue dei palestinesi, sperando che nella notte l’Angelo non lo riconosca; o invece trovino la forza di rifiutare complicità a chi quotidianamente ne bagna la terra, che contro di lui grida. Né mentiscano a se stessi, come fanno, parificando le stragi del terrorismo a quelle di un esercito inquadrato e disciplinato. I loro figli sapranno e giudicheranno.
E se ora mi si chiedesse con quale diritto e in nome di quale mandato mi permetto di rivolgere queste domande, non risponderò che lo faccio per rendere testimonianza della mia esistenza o del cognome di mio padre e della sua discendenza da ebrei. Perché credo che il significato e il valore degli uomini stia in quello che essi fanno di sé medesimi a partire dal proprio codice genetico e storico non in quel che con esso hanno ricevuto in destino. Mai come su questo punto – che rifiuta ogni “voce del sangue” e ogni valore al passato ove non siano fatti, prima, spirito e presente; si che a partire da questi siano giudicati – credo di sentirmi lontano da un punto capitale dell’ebraismo o dal quel che pare esserne manifestazione corrente.
In modo affatto diverso da quello di tanti recenti, e magari improvvisati, amici degli ebrei e dell’ebraismo, scrivo queste parole a una estremità di sconforto e speranza perché sono persuaso che il conflitto di Israele e di Palestina sembra solo, ma non è, identificabile a quei tanti conflitti per l’indipendenza e la libertà nazionali che il nostro secolo conosce fin troppo bene. Sembra che Israele sia e agisca oggi come una nazione o come il braccio armato di una nazione, come la Francia agì in Algeria, gli Stati Uniti in Vietnam o l’Unione Sovietica in Ungheria o in Afghanistan. Ma, come la Francia era pur stata, per il nostro teatro interiore, il popolo di Valmy e gli americani quelli del 1775 e i sovietici quelli del 1917, così gli ebrei, ben prima che soldati di Sharon, erano i latori di una parte dei nostri vasi sacri, una parte angosciosa e ardente, delle nostre parole e volontà. Non rammento quale sionista si era augurato che quella eccezionalità scomparisse e lo Stato di Israele avesse, come ogni altro, i suoi ladri e le sue prostitute. Ora li ha e sono affari suoi. Ma il suo libro è da sempre anche il nostro, e così gli innumerevoli vivi e morti libri che ne sono discesi. È solo paradossale retorica dire che ogni bandiera israeliana da nuovi occupanti innalzata a ingiuria e trionfo sui tetti di un edificio da cui abbiano, con moneta o minaccia, sloggiato arabi o palestinesi della città vecchia di Gerusalemme, tocca alla interpretazione e alla vita di un verso di Dante al senso di una cadenza di Brahms?
La distinzione fra ebraismo e stato d’Israele, che fino a ieri ci era potuta parere una preziosa acquisizione contro i fanatismi, è stata rimessa in forse proprio dall’assenso o dal silenzio della Diaspora. E ci ha permesso di vedere meglio perché non sia possibile considerare quel che avviene alle porte di Gerusalemme come qualcosa che rientra solo nella sfera dei conflitti politico-militari e dello scontro di interessi e di poteri. Per una sua parte almeno, quel conflitto mette a repentaglio qualcosa che è dentro di noi.
Ogni casa che gli israeliani distruggono, ogni vita che quotidianamente uccidono e persino ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell’immenso deposito di verità e sapienza che, nella e per la cultura d’Occidente, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere. Ogni giorno di guerra contro i palestinesi, ossia di falsa coscienza per gli israeliani, a sparire o a umiliarsi inavvertiti sono un edificio, una memoria, una pergamena, un sentimento, un verso, una modanatura della nostra vita e patria. Un poeta ha parlato del proscritto e del suo sguardo “che danna un popolo intero intorno ad un patibolo”: ecco, intorno ai ghetti di Gaza e Cisgiordania ogni giorno Israele rischia una condanna ben più grave di quelle dell’Onu, un processo che si aprirà ma al suo interno, fra sé e sé, se non vorrà ubriacarsi come già fece Babilona.
La nostra vita non è solo diminuita dal sangue e dalla disperazione palestinese; lo è, ripeto, dalla dissipazione che Israele viene facendo di un tesoro comune. Non c’è laggiù università o istituto di ricerca, non biblioteca o museo, non auditorio o luogo di studio e di preghiera capaci di compensare l’accumulo di mala coscienza e di colpe rimosse che la pratica della sopraffazione induce nella vita e nella educazione degli israeliani.
E anche in quella degli ebrei della Diaspora e dei loro amici. Uno dei quali sono io. Se ogni loro parola toglie una cartuccia dai mitra dei soldati dello Tsahal, un’altra ne toglie anche a quelli, ora celati, dei palestinesi. Parlino, dunque.
Franco Lattes Fortini
«il manifesto», 24 maggio 1989
(Tratto da: https://web.archive.org/web/20120404194005/http://www.ospiteingrato.org/Fortiniana/Lettera_agli_ebrei.html).
Inserito il 28/03/2024.
di Alessandro Robecchi
«Se esiste oggi una perfetta metafora del capitalismo, è la guerra: la disperazione di molti e il guadagno di pochissimi, quelli che un tempo si chiamavano “i signori della guerra”, sempre più signori e con sempre più guerre su cui lavorare, perché se l’affare è la guerra, la pace fa male agli affari. Ai loro».
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Masters of war. La guerra, il business principale: così si spiegano i piazzisti
di Alessandro Robecchi
Insomma, la guerra. La guerra di oggi, anzi le guerre, il genocidio della potenza coloniale israeliana ai danni del popolo palestinese, la carneficina senza fine in Ucraina, le altre guerre sparse per il pianeta (parecchie) che nemmeno arrivano ai media, i massacri, le popolazioni colpite, gli effetti collaterali, fame, malattie, disperazione. La guerra, insomma, che sembra una componente naturale, endemica, delle faccende umane, in qualche modo accettata e – è storia recente e recentissima – benedetta e sostenuta da un apparato informativo che sembra proprio quel che è: l’ufficio stampa della guerra.
La guerra “giusta”, la guerra “nostra”. Piazzisti.
Strabiliante: non c’è attività umana che non venga letta in termini economici, che non venga analizzata per quel che produce o consuma in termini di ricchezza. Sappiamo tutto di industrie, di mercati, di speculazioni, di guadagni, di dinamiche macroeconomiche di ogni settore, e non sappiamo niente – è una specie di tabù –dell’economia della guerra, di chi la gestisce, di chi ci guadagna, di chi ne fa corebusiness. Il primo a nominare – e in qualche modo a battezzarlo – il “complesso militare industriale” fu Eisenhower, presidente americano che una guerra l’aveva vinta da generale. Correva il 1961 e lui metteva in guardia la prima potenza mondiale proprio da quell’intreccio inestricabile che poi avrebbe contagiato il mondo: la politica, l’industria bellica (nella neolingua tanto in voga da sempre, la guerra si chiama “difesa”), la finanza, alleate a gonfiare un apparato micidiale. Un sistema economico che doveva produrre armi, quindi usarle, quindi costruirne di nuove, quindi spingere sul comparto “ricerca e sviluppo” con esseri umani come cavie. E quindi combattere ogni voce di pace, quindi soffiare su ogni focolaio, su ogni principio d’incendio per farlo divampare.
Dalla guerra “Sola igiene del mondo” della macchietta futurista italiana, si è passati in pochissimi anni alla guerra come “Sola economia del mondo”. Difficile pensare a un comparto economico che aumenta il fatturato in doppia cifra ogni anno ininterrottamente da almeno trent’anni, il cui giro di affari è arrivato (fonte: Sipri, Stockholm International Peace Research Institute) nel 2022 a 2.240 miliardi di dollari l’anno (in vorticosa crescita), il 40 per cento dei quali americani (seguono Cina, che spende un terzo degli Usa, e Russia, che spende un decimo). Non solo armi, ma tutto quel che ne consegue, personale, strutture, ricerca, apparati, informazione. Parliamo insomma della prima industria mondiale, il che dovrebbe chiarire a tutti e per sempre che ogni discorso bellico favorevole a questo o quel conflitto (abbiamo in questi giorni luminosi esempi, quelli che non saprebbero gestire una gelateria ma danno lezioni al papa, per dire) può essere agevolmente letto come un’interessata attività di lobbyng, di sostegno a tassametro, degli interessi tesi alla realizzazione della guerra.
Si parla, infatti, di uno stato di guerra permanente, con vari fronti, con varie declinazioni e vari gradi di intensità, ma con tutte le guerre – tutte – ad esclusivo vantaggio di quell’apparato transnazionale controllato da non più di qualche migliaio di persone. Se esiste oggi una perfetta metafora del capitalismo, è la guerra: la disperazione di molti e il guadagno di pochissimi, quelli che un tempo si chiamavano “i signori della guerra”, sempre più signori e con sempre più guerre su cui lavorare, perché se l’affare è la guerra, la pace fa male agli affari. Ai loro.
Alessandro Robecchi
(Tratto da: Alessandro Robecchi, Masters of war. La guerra, il business principale: così si spiegano i piazzisti, in «il Fatto Quotidiano», 13 marzo 2024).
Inserito il 20/03/2024.
di Franco Berardi Bifo
«Per proteggere la nostra perfetta democrazia si uccidono sistematicamente i bambini palestinesi. Adesso quei bambini muoiono di fame, di sete, di freddo, di malattia e ovviamente di bombe.
I giovani marciano nelle città di mezzo mondo contro l’occupazione israeliana e la pulizia etnica. Buona parte della comunità ebraica d’Europa e degli Stati Uniti si rivolta contro il genocidio, ma gli ipocriti li accusano di antisemitismo».
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Lettera agli ipocriti d’Europa
di Franco Berardi Bifo
Un tempo credevo che i filosofi fossero i custodi della coerenza etica e della decenza intellettuale. Forse mi sbagliavo, dato che questa tradizione sembra completamente cancellata nell’attuale panorama culturale d’Europa.
Il conformismo e la complicità con la violenza hanno preso il posto del coraggio intellettuale nei media come nel mondo accademico. Qualche settimana fa un importante filosofo tedesco ha pubblicato un testo pieno di comprensione per Israele proprio nel momento in cui Israele lanciava una campagna di sterminio di massa che molte persone considerano un genocidio. In quel testo l’importante filosofo, e alcuni suoi colleghi scrivevano che “assimilare lo spargimento di sangue a Gaza a un genocidio va oltre i limiti di un dibattito accettabile”, ma tralasciavano di spiegare per quale ragione Israele può incarcerare milioni di persone, invadere e distruggere le case di milioni di palestinesi, uccidere diecimila bambini in un paio di mesi, ma non ci è concesso denunciare tutto questo come genocidio.
Israele colpisce indiscriminatamente i palestinesi che sono intrappolati nell’infernale prigione di Gaza, ma i filosofi, soprattutto in Germania, non posso chiamarlo genocidio. Perché?
Quando gli intellettuali tedeschi pronunciarono le parole: Nie wieder, io intesi (forse ingenuamente) che questo significasse. Mai più pulizia etnica, mai più deportazione di massa, mai più discriminazione razziale, mai più campi di sterminio, mai più Nazismo. Ma adesso, dopo avere letto le parole dell’importante filosofo e della elite politica europea, e dopo avere ascoltato il silenzio di tutti gli altri, capisco che quelle due parole avevano un significato differente. Capisco che da un punto di vista tedesco quelle due parole: Nie wieder, vanno interpretate in maniera differente.
Dopo avere ucciso sei milioni di ebrei, due milioni di Rom, trecentomila comunisti e venti milioni di sovietici, i tedeschi promettono che difenderanno Israele in ogni caso, perché i sionisti non sono più nemici della razza superiore, e gli riconosciamo il privilegio che noi abbiamo da cinquecento anni: il privilegio dei colonizzatori, degli sfruttatori, degli sterminatori.
Israele è stata cooptata nel nostro Club suprematista, per cui hanno acquisito il diritto di fare quello che noi abbiamo fatto ai popoli indigeni del Nord e del Sud America, agli aborigeni d’Australia, eccetera eccetera. Noi, la razza bianca abbiamo deciso che il nostro nuovo alleato può costruire un campo di sterminio sulla costa del Mar Mediterraneo orientale: chiamiamolo Auschwitz on the beach.
Gli intellettuali europei sono così silenziosi che sono giunto alla conclusione che la categoria è estinta, e deve essere sostituita dalla Corporazione degli Ipocriti.
In Francia e in Germania le autorità politiche sembrano intenzionate a impedire che qualcuno dica la verità su quel che sta succedendo a Gaza e in Cisgiordania: le voci dissidenti sono emarginate, i libri sono tolti dagli scaffali, e certe parole o frasi sono messe fuori legge, quando si tratta di settantacinque anni di violenza israeliana, quando si tratta dei massacri che gli Übermenschen compiono ogni giorno sugli Untermenschen.
Per proteggere la nostra perfetta democrazia le autorità tedesche si comportano come ai tempi della Stasi.
Per proteggere la nostra perfetta democrazia si uccidono sistematicamente i bambini palestinesi. Adesso quei bambini muoiono di fame, di sete, di freddo, di malattia e ovviamente di bombe.
I giovani marciano nelle città di mezzo mondo contro l’occupazione israeliana e la pulizia etnica. Buona parte della comunità ebraica d’Europa e degli Stati Uniti si rivolta contro il genocidio, ma gli ipocriti li accusano di antisemitismo.
Un tempo credevo che la ragione e i diritti umani dovessero intendersi come valori universali, ma adesso capisco che per gli ipocriti europei “universali” significa: bianchi.
L’ipocrisia ha nutrito l’onda di razzismo e l’aggressività che montano in tutti i paesi europei.
Voi, intellettuali silenziosi d’Europa, voi complici degli assassini siete responsabili dell’ondata di fascismo che sta prevalendo dovunque nel continente.
Horkheimer e Adorno scrissero nel 1941 queste parole:
“Il concetto di Illuminismo… contiene i germi di una regressione che si sta sviluppando in ogni luogo oggi. Ma se l’Illuminismo non accoglie la coscienza di questo momento regressivo, sta firmando la sua condanna a morte. Se lasciamo la riflessione sulla distruttività del progresso ai nemici del progresso, e che il pensiero sia accecato dal pragmatismo, perderemo la capacità di pensiero”.
Queste parole si possono ripetere oggi, se continuiamo a chiudere gli occhi alla realtà di migliaia di persone che annegano ogni giorno nel Mediterraneo, e alla realtà dell’Olocausto inflitto al popolo palestinese.
10 Gennaio 2024
Franco Berardi Bifo
(Tratto da: Franco Berardi Bifo, Lettera agli ipocriti d’Europa, in: https://comune-info.net/lettera-agli-ipocriti-deuropa/).
Inserito il 27/01/2024.
Militanti dell’Ezln.
Autrice della foto: Mariana Osornio.
Fonte della foto: https://www.dinamopress.it/news/il-chiapas-sullorlo-della-guerra-civile-comunicato-dellezln/
di Massimo De Giuseppe
Messico, 1° gennaio 1994. L’insurrezione del Chiapas scosse l’immaginario del mondo usando le tradizioni indigene e gli strumenti mediatici. Ora il leader ha abdicato: è una stagione esaurita?
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Il Chiapas, il subcomandante Marcos, la rivoluzione anomala
di Massimo De Giuseppe
Il 1° gennaio del 1994 in Messico il Chiapas riemerse improvvisamente da un passato misterioso per balzare all’onore delle cronache internazionali, in concomitanza con la rivolta di un fin lì sconosciuto movimento armato battezzatosi Ejercito Zapatista de Liberación Nacional (Ezln). Già il nome sembrava mescolare gli albori del Novecento (il riferimento è a Emiliano Zapata e al suo esercito di contadini in armi nella rivoluzione del 1910) con il suo crepuscolo, dandosi però un carattere indigenista e recuperando elementi delle tante rivoluzioni di ispirazione guevarista che avevano scosso l’America Latina nella stagione della guerra fredda.
Quella singolare sollevazione era d’altronde intrisa di elementi simbolici che miravano a scuotere gli immaginari: quello messicano, vicino ormai al crepuscolo del lungo dominio del Partido Revolucionario Institucional (Pri), alla guida del Paese dal 1929 al 2000, ma, forse ancor di più, quelli transnazionali. La rivolta coincise infatti con l’entrata in vigore del Trattato di libero commercio nord-americano, noto come Nafta o Tlc, a seconda del punto di osservazione. Un accordo che spostava la frontiera simbolica dell’America del Nord dal Río Grande/Río Bravo, che dalla guerra del 1846-48 separava gli Stati Uniti dal Messico, all’Usumacinta, un fiume perduto che tagliava le terre umide sospese tra Messico e Guatemala. In quello scenario post-bipolare, anche lo Stato più remoto del Messico contemporaneo, quello con la più alta percentuale di popolazioni indigene – quattordici ceppi etno-linguistici – irrompeva negli immaginari collettivi di un mondo sempre più globalizzato. Quando esplose la rivolta dell’Ezln, d’altronde, non si erano ancora spenti gli echi del 1992: delle voci contrapposte e delle proteste che avevano accompagnato le celebrazioni dei cinquecento anni della «scoperta» di Cristoforo Colombo e conseguente «conquista» del continente americano, culminate nella campagna 500 años de resistencia che avrebbe anticipato l’attuale dibattito intorno alla cancel culture. A questi fermenti si era aggiunta anche la risonanza globale ottenuta dal premio Nobel per la Pace assegnato nel 1992 alla maya quiché guatemalteca, Rigoberta Menchú Tum. Al capezzale della guerra fredda, spostare i riflettori dalla memoria delle terribili violenze commesse in Centroamerica nel decennio precedente – cristallizzate nei massacri di contadini, sacerdoti e catechiste in El Salvador e di indigeni in Guatemala – alle incongruenze del programma di modernizzazione del Messico sembrava la principale missione dell’Ezln e del suo architetto politico, il subcomandante Marcos.
Si trattava di un’azione mediaticamente ben costruita che intrecciava dinamiche locali relative alla situazione del Chiapas (lo Stato più povero e meridionale del Messico) a una dimensione sempre più globale del cosiddetto Washington Consensus che, a livello nazionale, riverberava nelle riforme neoliberiste intraprese dal nuovo leader del Pri, Carlos Salinas de Gortari, e proseguite dal suo successore Ernesto Zedillo. Nella cosiddetta Primera declaración de la Selva Lacandona, proclamata a San Cristóbal de las Casas nelle prime ore della rivolta, Marcos – secondo le autorità messicane alter ego di un ricercatore della Universidad Autónoma Metropolitana (Uam), Rafael Sebastián Guillén Vicente – esordì rivolgendosi «al popolo del Messico e ai fratelli messicani», invitandoli alla lotta per un «mondo nuovo». Questa narrazione collocava i ribelli in un filone storico che partiva dalla Conquista («siamo il prodotto di 500 anni di lotta»), passando per la stagione indipendentista, le guerre contro statunitensi e francesi del XIX secolo, la rivoluzione, la nazionalizzazione petrolifera del 1938, il movimento studentesco del Sessantotto, per legittimare l’insurgencia e avallare le richieste di profonde riforme sociali.
In realtà dietro a quella rivolta, inizialmente costata 57 vittime e concretizzatasi nel controllo (per pochi giorni) di alcuni municipi e (per un solo giorno) della più antica città dello Stato, San Cristóbal de las Casas, si celava uno dei più singolari ed efficaci esperimenti di mobilitazione glocal. A fianco della ribellione e delle rivendicazioni di alcune comunità indigene, si metteva infatti in moto una macchina mediatica capace di mescolare immaginari e confini, muovendosi tra mito, rito e mezzi di comunicazione di massa. Dietro ai ribelli in passamontagna si ritrovano infatti cavalli e cartuccere che richiamavano l’Ejercito Libertador del Sur e la piattaforma agrarista di Emiliano Zapata, ma anche rimandi a Che Guevara, alla teologia della liberazione (cruciale nella partita risultò la figura del vescovo indigenista del Chiapas, Samuel Ruiz García, in rotta con Giovanni Paolo II), alle campagne per la tutela dei diritti umani in Centroamerica; il tutto mescolato alle inquietudini sollevate dalla New Economy che scuotevano il nascente movimento No Global.
Se nella Tercera declaración, gennaio 1995, l’Ezln auspicava la creazione di un movimento di liberazione nazionale, già nella quarta (1996) s’attenuavano i toni. Quell’anno fu organizzato nella comunità di Oventic il Primo incontro intercontinentale dell’umanità e la comandante Ramona venne inviata nella capitale federale per presenziare al Congresso nazionale indigenista. Ci furono momenti drammatici – i massacri a opera di paramilitari di 17 contadini ad Aguas Blancas (28 giugno 1995) e di 45 indigeni dell’associazione Las Abejas ad Acteal (22 dicembre 1997) – ma anche la creazione di una commissione e l’avvio di un negoziato che avrebbe portato agli accordi di pace di San Andrés del 16 febbraio 1996.
Da allora le municipalità di Ocosingo e Chenalhó, ma ancor di più alcune aree della Selva Lacandona – una gigantesca foresta pluviale di quasi due milioni di ettari, costellata da alcuni dei più importanti siti archeologici del periodo maya classico – diventarono non solo territori di sperimentazione socio-politica di cellule dell’Ezln (i cosiddetti caracoles), ma soprattutto un luogo simbolico dell’immaginario che avrebbe attratto per diversi anni militanti, attivisti, cooperanti, eco-turisti, semplici curiosi, provenienti da tutto il mondo, ottenendo una particolare risonanza in Italia, dove si formarono circoli, gruppi di sostegno, cooperative di commercio equo e solidale, trasversali tanto alle nuove sinistre quanto al mondo cattolico. A fine millennio gli articoli di Marcos si traducevano in periodici e fanzine di mezzo mondo, le voci di Radio Insurgente erano riprese in canzoni di noti gruppi musicali (dall’heavy rock dei Rage Against the Machine al combat-folk dei Modena City Ramblers), mentre passamontagna e huipiles (vestiti tradizionali indigeni) avevano sostituito flauti e mantelli degli Inti-Illimani.
Il culmine della mobilitazione si raggiunse nel 2001, quando la comandante Esther si rivolse al nuovo presidente Vicente Fox, del Pan (Partido Acción Nacional, centrodestra), al termine della Marcha del color de la tierra che aveva portato le carovane zapatiste dal Chiapas a Città del Messico. A fine anno però l’Ezln ruppe le trattative con il governo federale per intraprendere una sorta di ritiro silenzioso nelle comunità controllate nella selva (Ocosingo, los Naranjos, las Margaritas, Altamirano). Poi, di lì a un paio di anni, sarebbe iniziato una sorta di declino a livello di impatto mediatico che avrebbe ridotto anche la capacità di mobilitazione del movimento che, nel 2005, annunciò la rinuncia alla lotta armata.
L’anno successivo rappresentò una sorta di spartiacque. Nella fase delle proteste seguite alla contestata vittoria del candidato del Pan, Felipe Calderón, Marcos e l’Ezln rifiutarono di appoggiare il candidato di sinistra, il tabasqueño Andrés Manuel López Obrador, difendendo l’idea di una Otra campaña che rimarcava l’estraneità del movimento alle logiche della politica nazionale. In una fase cruciale per la storia messicana, segnata dai primi effetti della guerra ai narcos lanciata da Calderón con il sostegno di Bush jr., l’Ezln cominciò a trasformarsi in un movimento sempre più residuale, nonostante l’attivismo sulla rete del portale zapatista e alcune sporadiche iniziative: la marcia del silenzio del 2012, in occasione del ritorno del Pri al potere con Enrique Peña Nieto o il cambio di nome di Marcos in subcomandante insurgente Galeano del 2014. Nell’ottobre del 2023, nel pieno della stagione governativa di López Obrador, alla testa del nuovo partito Morena, Marcos è tornato a farsi vivo con una lettera dai toni filosofici in cui, uccidendo Galeano, annunciava un ricambio generazionale nella comandancia. Ben pochi media hanno però diffuso la notizia, perfino in Messico.
C’è una foto di Pedro Valtierra scattata nel gennaio del 1998, quando la rivolta si era già fatta resiliente, che cattura un gruppo di donne tzotzil che affrontano alcuni militari messicani, sbarrando loro il passaggio, che racchiude il valore simbolico di quella vicenda apparentemente periferica. Un’esperienza che affastellava elementi del passato per promettere nuove utopie, mescolando richieste molto locali a una visione altermundista (il rimando all’«altro Occidente»), che nascondeva un’urgenza ma anche una serie di contraddizioni profonde: abilità mediatica e spregiudicatezza, prospettiva glocal e banalizzazioni antropologiche, ma anche la capacità di toccare una serie di nodi sensibili, utilizzando, come in una mostra fotografica globale, i negativi rivelati di una lunga serie di confini più o meno invisibili. Il Chiapas, sospeso tra il mondo degli altipiani (che si elevano fino ai 3 mila metri di altitudine) e quello delle foreste, tra passato e presente, in un certo senso sembrava riassumere tutte quelle infinite contraddizioni sedimentatesi nei secoli, e rigettarle nel mondo globalizzato di fine millennio.
Massimo De Giuseppe*
* Massimo De Giuseppe (Milano, 1967), è ordinario di Storia contemporanea alla Iulm di Milano, dirige la collana Americhe del Mulino ed è membro dell’Accademia Mexicana de la Historia. Tra i suoi volumi: Messico 1900-1930. Stato, Chiesa e popoli indigeni (Morcelliana, 2007), La rivoluzione messicana (Il Mulino, 2013), Storia dell’America Latina contemporanea (con Gianni La Bella, Il Mulino, 2019).
(Tratto da: Massimo De Giuseppe, Il subcomandante Marcos. Trent’anni dopo la normalizzazione ha sconfitto la rivolta zapatista, in «La Lettura», n. 630, «Corriere della Sera», 24 dicembre 2023).
Inserito il 07/01/2024.
di Luca Kocci
Il romanzo storico di Mario Balsamo I pirati della Selva. L’epopea del subcomandante Marcos e della rivoluzione zapatista in Messico (Roma, Red Star Press, 2023).
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Il subcomandante Marcos e il Messico di Fabiola
«La strada per Palenque è chiusa e abbiamo preso Ocosingo. Scusateci tanto ma questa è una rivoluzione». Così si sentirono rispondere i turisti occidentali che nei primi giorni di gennaio 1994 si trovavano nel Chiapas messicano e chiedevano spiegazioni dell’imprevisto cambiamento di itinerario al giovane e gentile guerrigliero che li aveva fermati.
Ed era vero. Perché in quel capodanno di trent’anni fa, nel giorno in cui entrava il vigore l’Accordo nordamericano per il libero scambio (Nafta) fra Usa, Canada e Messico – nuovo mattone del neoliberismo globale –, nel Chiapas la popolazione indigena era insorta, riversandosi in armi nelle strade di San Cristóbal de las Casas.
Una rivoluzione anomala quella degli zapatisti messicani, che ribaltava gli schemi di quelle scoppiate dal 1789 in poi. Una rivoluzione che non voleva prendere il potere per modificare la realtà sociale, ma che puntava a cambiare la società per cambiare il potere. Una rivoluzione guidata dal subcomandante Marcos, «sottocomandante» di un esercito nato affinché in futuro non esistessero più eserciti in un mondo in cui ci fossero lavoro, terra, casa, cibo, salute, educazione e libertà per tutte e tutti. Una rivoluzione fatta anche con le armi ma che non riponeva la propria forza nelle armi, bensì nella capacità di parlare ai popoli indigeni e all’umanità tutta, sempre più ingabbiata dal libero mercato. Una rivoluzione animata anche da centinaia di catechisti e fra i cui leader c’era un vescovo cattolico, Samuel Ruiz, convertito dal suo popolo al Vangelo dei poveri, come qualche anno prima era capitato al vescovo Oscar Romero, in Salvador.
Tutta questa vicenda viene narrata dal documentarista e scrittore Mario Balsamo, in un romanzo storico nel quale Fabiola – giovane maestra romana che nel 1994 lascia la capitale per rispondere alla chiamata dell’Esercito zapatista di liberazione nazionale – attraversa il Chiapas in rivolta, dialogando con Marcos ma anche con Emiliano Zapata, rivoluzionario di inizio Novecento, e con don Chisciotte della Mancia, rivoluzionario senza tempo e fuori dal tempo (I pirati della Selva. L’epopea del subcomandante Marcos e della rivoluzione zapatista in Messico, Red Star Press, pp. 143, euro 15, postfazione di Alfio Nicotra).
Che ne è oggi della rivoluzione zapatista? «Più che una risposta, in questi tre decenni, lo zapatismo ha avanzato alcune domande fondamentali», scrive nella postfazione Alfio Nicotra. «Possiamo rassegnarci a un mondo in cui un pugno di persone ha in mano larga parte della ricchezza del pianeta? Possiamo lasciare che la biodiversità, l’acqua, le foreste, gli altri esseri viventi siano ridotti a merci?
Davvero pensiamo che la democrazia liberale, la cui crisi è sotto gli occhi di tutti, e i giochi elettorali siano ancora il terreno principale da scegliere per chi si batte per l’emancipazione degli oppressi? Iniziare a dare una risposta a queste domande può probabilmente aiutarci ad essere anche noi, nel nostro piccolo e nelle nostre comunità, dei pirati della selva».
Luca Kocci
(Tratto da: Luca Kocci, Il subcomandante Marcos e il Messico di Fabiola, in «il manifesto», Anno LIV, n. 5, 6 gennaio 2024).
Inserito il 07/01/2024.
di Nicolas Dot-Pouillard*
La difficile situazione delle sinistre dei Paesi arabi nella fase di massima egemonia delle tendenze islamiste.
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La sinistra nel mondo arabo tra passato e presente
di Nicolas Dot-Pouillard
Parafrasando il celebre incipit del Manifesto del Partito Comunista di Karl Marx e Friedrich Engels (1848), possiamo ammettere che lo “spettro del comunismo” non si aggira granché per il mondo arabo. Allo stato attuale, le “sinistre plurali” arabe hanno un aspetto più simile a delle rovine, più o meno ben conservate: eredi di un comunismo filosovietico in crisi di modelli dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica, di una tradizione socialdemocratica ancora viva nel Maghreb, ma non in Medio Oriente, o figlie delle “nuove sinistre arabe” radicali della seconda metà degli anni ’70. Dalla crisi siriana che si è aperta nel 2011 all’islam politico, le sinistre arabe sembrano spesso non avere nulla in comune tranne il filo conduttore del sostegno alla causa palestinese.
L’ultima repubblica socialista del mondo arabo, lo Yemen del Sud, è finita nel luglio 1994 con lo scontro per una sanguinosa unificazione con il vicino Yemen del Nord. La brillante ascesa delle “nuove sinistre” arabe degli anni ’70, a volte ispirate dal maoismo e, in misura minore, dal trotskismo, è stata da tempo ostacolata da un autoritarismo post-indipendenza a lungo trionfante, da strategie di contro-insurrezione sostenute da Israele e dagli inglesi (come, ad esempio, in Oman durante la ribellione marxista nel Dhofar) o dall’ascesa di un Islam politico che ha ripreso, fin dalla fine degli anni ’70, la tendenza antimperialista della sinistra.
L’epopea nazionalista del popolo palestinese in Giordania e in Libano aveva mobilitato centinaia di combattenti marocchini, tunisini, iracheni ed egiziani, la maggior parte dei quali membri di formazioni marxiste, in una vera e propria Brigata Internazionale della Palestina nel corso degli anni ’70. L’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) si era legata a doppio filo con la sinistra libanese guidata dalla figura del leader druso Kamal Jumblatt (1917-1977), del Partito Comunista Libanese (PCL) o dell’Organizzazione di Azione Comunista in Libano (OACL): una storia, però, finita tragicamente nell’estate del 1982, durante l’invasione israeliana del Libano. Col tempo, l’utopia islamista ha preso il sopravvento sul modello di città socialista, ma, soprattutto, i modelli di sviluppo terzomondista del passato sono stati sostituiti dall’ideale mercantile di un’economia di rendita all’interno di un sistema monarchico, un vero e proprio “stadio Dubai del capitalismo”, per usare la felice espressione del compianto teorico dello sviluppo urbano e sociogeografo americano Mike Davis (1946-2022)1.
Reminiscenza delle sinistre arabe?
Fine della storia? Sicuramente sconfitta, anche se qualche spettro della sinistra araba si aggira ancora. Dopo la caduta del presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali nel gennaio 2011, un fragile Fronte Popolare formatosi attorno alle grandi famiglie della sinistra radicale tunisina ha dato luogo per un certo periodo a un vero e proprio movimento elettorale. Il Forum Sociale Mondiale di Tunisi nel marzo 2013 è stata una rara occasione per creare un contatto tra molti movimenti arabi progressisti e la nuova sinistra no global. Il nasseriano Hamdin Sabahi ha ottenuto il 20% dei voti degli egiziani alle elezioni presidenziali del 2012, arrivando terzo e mobilitando sindacalisti e attivisti di sinistra egiziani. Il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina (FPLP) sopravvive ancora in uno scenario politico palestinese dominato da Fatah e Hamas, con un recente invito, che ha infiammato la Cisgiordania, a intraprendere la lotta armata e un’insurrezione contro i coloni israeliani e le truppe di occupazione israeliane. Il Partito Comunista Libanese ha mobilitato i suoi sostenitori durante il grande movimento sociale dell’autunno 2019 con la richiesta di abolire il sistema confessionale, mentre il movimento di cittadini ha chiesto uno Stato guidato da una figura integerrima della sinistra libanese, ossia Charbel Nahas – ex ministro del Lavoro – che ha offerto ai giovani ribelli del 2019 un programma economico e politico generale per far uscire il Libano da una terribile crisi finanziaria: programmi che però sono stati bocciati alle elezioni parlamentari del maggio 2022.
Negli ultimi anni, questi brevi momenti di risveglio politico dei movimenti progressisti sono stati accompagnati da un vero e proprio memoriale della sinistra araba, qualche volta fazioso, altre accademico. Oggi non mancano opere accademiche di qualità sulle ormai vecchie “nuove sinistre” arabe degli anni ’60 e ’70 o sulla storia dei partiti comunisti. Sono sempre di più, sostenute da una giovane generazione di ricercatori arabofoni che si discosta dalla tendenza accademica a insistere sull’“autoritarismo”, l’“islamismo” o le (quasi defunte) “transizioni democratiche”2. Ma è agli “anziani” che spetta il compito della memoria: è in voga, il genere autobiografico che permette agli ex leader dei principali partiti di sinistra di tramandare alle giovani generazioni di oggi una memoria militante troppo fragile3.
Temi ancora oggi attuali
C’è sicuramente uno scarto tra questa inflazione di memorie militanti, che portano con sé anche la loro parte di nostalgia rivoluzionaria, e una debolezza strutturale, e non più solo ricorrente, della sinistra nel mondo arabo. Ma è una questione logica. La vecchia generazione, che è stata interprete e testimone delle grandi lotte sociali e antimperialiste degli anni ’60 e ’70, si sta lentamente estinguendo; anche se vuole lasciare una certa eredità dietro di sé. Non è un’idea così astratta: nella critica dell’imperialismo, dell’autoritarismo e del confessionalismo, le sinistre arabe sono state spesso all’avanguardia.
La lettura di classe del passato oggi può essere ancora valida in un mondo arabo in cui le disuguaglianze sociali crescono sempre più. La questione del debito finanziario estero dei paesi arabi, della dipendenza militare e della vendita di armi con le “grandi potenze” o la gestione delle frontiere marittime per arginare l’immigrazione clandestina verso l’Europa occidentale sarebbero utili a riprendere il discorso sulle borghesie compradores4 locali. L’attuale impotenza delle sinistre arabe contrasta tristemente con l’attualità dei suoi temi chiave: l’antimperialismo e l’anticolonialismo, la lotta contro l’autoritarismo e le lotte femministe, la de-confessionalizzazione dei sistemi politici, la sovranità nazionale e la giustizia sociale.
Una crisi di modelli
Perché, allora, nel mondo arabo c’è un tale stato di debolezza delle forze di sinistra? Ci sono, naturalmente, ragioni strutturali: la principale è senza dubbio la caduta del blocco socialista all’inizio degli anni ’90, ma non è l’unica. A crollare non è stato solo un modello (relativo) – il Partito Comunista Libanese era stato critico nei confronti di alcune posizioni sovietiche sul Medio Oriente sin dal suo secondo congresso nel luglio 1968 – ma anche una manna finanziaria e militare ormai scomparsa. Non c’è niente di strano, perché la caduta del comunismo a Mosca è stata sentita in maniera altrettanto dolorosa dai partiti comunisti dell’America Latina e dell’Europa occidentale.
A monte, però, c’è anche un’altra crisi di modelli: la spinta propulsiva del maoismo e della lotta di liberazione nazionale vietnamita, entrambi modelli delle “nuove sinistre” arabe, si è esaurita alla fine della Grande Rivoluzione Culturale Proletaria (PCRG) e del conflitto sino-vietnamita del febbraio 1979. Il socialismo arabo si stava scontrando con le divisioni baathiste dell’Iraq e della Siria, mentre l’ideale socialista di sviluppo di Nasser si era concluso con la presidenza di Anwar Sadat (1918-1981)5, che aveva firmato un trattato di pace con Israele nel marzo 1979.
Mentre si assisteva al fallimento degli ideali socialisti alla fine degli anni ’70, la rivoluzione iraniana del febbraio 1979, seguita dall’ascesa di Hezbollah in Libano e delle correnti islamo-nazionaliste nella Palestina occupata, hanno preso facilmente il posto di un antimperialismo caro alla sinistra, facendole concorrenza sul proprio terreno ideologico e strategico. È come se il secolo breve, descritto dallo storico britannico Eric Hobsbawm (1917-2012)6, nel mondo arabo non fosse finito nel 1989, ma tra la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80.
L’islamismo, una questione irrisolta
Oltre a queste ragioni strutturali, in cui affonda la crisi della sinistra araba per un lungo arco temporale, ci sono anche una serie di fattori congiunturali, legati a contraddizioni più o meno importanti. Le rivoluzioni arabe del 2011 hanno riaperto la strada alle forze di sinistra nel mondo arabo. Ma ci sono state due questioni su cui si sono prontamente divise: l’Islam politico e la crisi siriana.
Fin dalle origini del comunismo arabo, l’Islam rappresenta una questione irrisolta: i comunisti arabi sono stati spesso accusati dai loro oppositori religiosi di essere degli irriducibili atei. Non mancano le riflessioni e gli scritti di pensatori marxisti arabi sull’eredità culturale e filosofica islamica, dal palestinese Bandali Saliba Jawzi (1871-1942)7, al libanese Hussein Mroueh (1908-1987), ex studente di studi religiosi all’Università sciita di Najaf in Iraq, che ha lasciato in eredità una monumentale opera sulle tendenze materialiste nella filosofia araba e islamica – purtroppo, mai tradotta.
Ma più che l’Islam, è l’islamismo la questione irrisolta per la sinistra araba. Le successive vittorie del movimento tunisino Ennahda alle elezioni per un’assemblea nazionale costituente nel novembre 2011, e poi del candidato dei Fratelli Musulmani Mohamed Morsi, alle elezioni presidenziali egiziane del giugno 2012, hanno sancito per un certo periodo l’egemonia di un Islam politico di governo, che talvolta ha esaltato i meriti delle vecchie democrazie cristiane tedesca e italiana, o del Partito della Giustizia e dello Sviluppo, l’AKP turco del presidente Recep Tayyip Erdoğan. In Tunisia, i socialdemocratici di Ettakatol (Forum Democratico per il Lavoro e le Libertà) hanno sostenuto senza esitazioni una coalizione con il movimento Ennahda dal 2011 al 2014. Tuttavia, l’assassinio di Chokri Belaïd, leader del Partito unito dei patrioti democratici (Watad), il 6 febbraio 2013, ha messo la sinistra radicale e marxista tunisina contro Ennahda. In Egitto, il colpo di Stato del generale Abdel Fattah Al-Sisi del luglio 2013 è stato letto in due modi diversi dalla sinistra egiziana e, al di là di questo, da quella araba: Che fare? Opporsi al colpo di Stato in nome della difesa dei diritti democratici, o, al contrario, scommettere su un movimento popolare critico nei confronti dei Fratelli Musulmani, sostenendo una deriva autoritaria?
Per tutti gli anni 2010 e 2020, la questione dell’alleanza con gli islamisti ha continuato a tormentare le sinistre arabe: il Partito comunista iracheno ha stretto un’alleanza elettorale con il religioso sciita Muqtada al-Sadr nel maggio 2018, su un programma comune per combattere la corruzione e riformare lo Stato iracheno; la coalizione, però, è durata poco in Parlamento. In quanto minoritaria, la sinistra araba si sente intrappolata nella questione islamica: bisogna creare un’alleanza tattica con gli islamisti su ciò che li unisce, vale a dire la lotta contro l’imperialismo (americano), il colonialismo (israeliano) e, talvolta, la difesa dei diritti democratici di fronte a regimi monarchici o autoritari? O bisogna rompere in maniera sistematica con i movimenti religiosi sulla questione della laicità, dei diritti delle donne o del confessionalismo?
Pro o contro Damasco?
La seconda controversia che ha diviso, all’inizio degli anni 2010, la sinistra araba è stata la crisi siriana. Dal Maghreb al Mashrek8, negli ultimi anni la sinistra araba è stata spesso accusata dai Fratelli Musulmani di aver sviluppato una tendenza autoritaria nei confronti di Bashar al-Assad. Nella stessa Siria, la sinistra si è divisa in vari tronconi: il Partito della Volontà Popolare di Qadri Jamil e il Partito Comunista Siriano (Unificato) si sono alleati con il regime baathista, mentre il Partito Popolare Siriano Democratico di Riyadh al-Turk (ex Partito Comunista-Ufficio Politico Siriano), invece, ha preso una posizione netta sul movimento di protesta. Nel resto del mondo arabo, si è consolidata una certa solidarietà con il regime di Damasco, con l’eccezione, spesso, di piccole formazioni trotskiste legate al Segretariato Unificato della Quarta Internazionale (SUQI).
Dietro la crisi siriana, non c’è solo la questione dell’autoritarismo: ci sono anche divergenze sulla natura degli imperialismi contemporanei. Per alcuni, c’è un solo imperialismo: quello americano, e non c’è alcun paragone possibile con la Cina, la Russia o anche l’Iran, sia in termini di dominio e in campo militare su scala internazionale, sia in termini di egemonia finanziaria e culturale. Per altri, il sostegno russo, iraniano o persino cinese alla Siria di Bashar al-Assad rappresenta chiaramente l’ascesa di nuovi imperialismi. L’esperienza del “confederalismo democratico” dei curdi del Partito dell’Unione Democratica (PYD) nel nord della Siria non ha mai incontrato il favore della sinistra araba: sospettati di essere troppo vicini agli americani, ai curdi viene anche rimproverato dai movimenti progressisti, ancora molto legati al paradigma nazionalista arabo, di voler spartirsi la Siria – il tutto in uno scenario regionale fortemente frammentato da Stati-nazione iracheni e libici.
È per questo che oggi la sinistra araba appare così debole e divisa. Occorre, però, sottolineare che la loro crisi si inserisce anche nel contesto di “una destrizzazione del mondo” e di una crisi globale della sinistra: la perdita di spinta, se non la totale scomparsa di un vasto movimento no global che ha avuto il suo periodo di massimo splendore negli anni 2000, è solo un segnale tra gli altri. Ciò non significa, come cerca di dimostrare il presente dossier, che la sinistra non abbia più nulla da dire sul mondo arabo e sulla geopolitica regionale, e che la sua eredità sia perduta o che non ci sarà chi ne raccoglierà il testimone. La ricostruzione dei movimenti sindacali nel mondo arabo o l’assunzione delle istanze ecologiche (come, ad esempio, in Libano dopo la “rivolta dei rifiuti” del 2015) rappresentano, d’ora in avanti, dei cantieri aperti per la sinistra araba. Ma, per il momento, l’unico punto in comune tra le varie sinistre arabe fortemente indebolite resta la questione palestinese, l’unica su cui non si sono divise: è come se la spinta anticoloniale a sostegno della causa palestinese fosse ancora oggi l’unica questione a creare un orizzonte comune nel mondo arabo.
2 dicembre 2023
Nicolas Dot-Pouillard*
(Traduzione dal francese di Luigi Toni)
* Nicolas Dot-Pouillard è ricercatore associato presso l’Istituto Francese del Vicino Oriente (Ifpo) e consulente per varie organizzazioni internazionali. Vive a Beirut ed è autore di tre libri: Tunisie, la révolution et ses passés (Iremmo/ Le Harmattan, 2013), De la théologie à la libération. Histoire du Jihad islamique palestinien (con Wissam Alhaj e Eugénie Rébillard, La Découverte, 2014), La Mosaïque éclatée. Une histoire du mouvement national palestinien, 1993-2016 (Actes Sud, 2016).
(Tratto da: https://orientxxi.info/dossiers-et-series/la-sinistra-nel-mondo-arabo-tra-passato-e-presente,6911).
Note
1 Mike Davis, Fear and money in Dubai, in «New Left Review», 2006.
2 Laure Guirguis, The Arab Lefts. Histories and Legacies, 1950s–1970s, Edinburgh University Press, 2022; Laura Feliu et Ferran Izquierdo Brichs, Communist Parties in the Middle East. 100 Years of History, Routledge, London, 2019.
3 Georges Battal, Ana al-Shuyû’i al-wahîd (“Je suis le seul communiste”), Dar al-Mada, Baghdad, 2019. Georges Battal era un ex membro dell’ufficio politico del Partito comunista libanese.
4 Qui inteso come classe borghese senza autonomia materiale e soggiogata agli interessi del capitale esterno. [NdT].
5 Sull’affermazione nazionalista che ha motivato l’adesione ideologica al marxismo sotto Nasser, poi andata progressivamente attenuandosi sotto Sadat, si veda Gennaro Gervasio, Da Nasser a Sadat. Il dissenso laico in Egitto, Jouvence, 2007.
6 Il secolo breve 1914-1991, Rizzoli, 2014.
7 Autore di A History of Intellectual Movements in Islam (1928). Cfr. Simone Sibilio, Nakba. La memoria letteraria della catastrofe palestinese, Edizioni Q, p. 86. Si veda anche Camera D’Afflitto I., Cento anni di cultura palestinese, Carocci, 2007, pp. 35-6.
8 Il Mashrek, detto anche Mashriq o Mashreq, è l’insieme dei paesi arabi che si trovano a est rispetto al Cairo e a nord rispetto alla penisola arabica. [NdT].
Inserito il 03/01/2024.
Yanis Varoufakis.
Fonte della foto: https://www.lettera43.it/yanis-varoufakis-moglie-altezza-libri-studi/
di Yanis Varoufakis
Le minacce commerciali dell’Unione Europea alla Cina sono ridicole; l’assoggettamento della politica europea agli interessi economici e geopolitici degli Stati Uniti è un triste sintomo della pochezza dei vertici politici dell’UE.
L'ex ministro delle Finanze greco Yanis Varoufakis svela il bluff che i leader europei hanno giocato con la Cina nell’incontro con il presidente Xi Jinping: lamentandosi per gli squilibri di ordine commerciale e minacciando chiusure alle importazioni dalla Cina. Ma il problema è l’Europa, più che la Cina.
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Il pessimo bluff dell’Europa con la Cina
di Yanis Varoufakis
ATENE – Il 7 dicembre, i Presidenti del Consiglio Europeo e della Commissione Europea, Charles Michel e Ursula von der Leyen, hanno partecipato al 24° Summit Unione Europea-Cina per comunicare un severo messaggio al Presidente cinese Xi Jinping. Agli occhi dell’opinione pubblica europea ed americana, e nel contesto di una nuova guerra fredda tra Stati Uniti e Cina, è sembrato che le massime autorità dell’UE volessero aggregarsi alle pressioni americane sulla Cina lanciando minacce credibili sulla base di quattro lamentele. Ahimè, le autorità cinesi sono rimaste probabilmente più divertite che allarmate da quello che hanno udito.
La prima lamentela dell’UE riguarda il “commercio squilibrato”. Von der Leyen l’ha espressa in modo colorito sostenendo che “ogni tre container che vanno dalla Cina all’Europa, due tornano vuoti”.
Ovviamente, non c’è dubbio che i perduranti squilibri commerciali possano ben riflettere una strategia mercantilista per surplus permanenti. Ma l’UE che accusa la Cina di mercantilismo è piuttosto ridicolo. Nel decennio passato, il surplus del conto cinese delle partite correnti è stato in media dell’1,65%, mentre quello dell’eurozona si collocava al 2,24%. Nello stesso periodo, il principale motore dell’economia europea, la Germania, registrava uno strabiliante surplus del 7,44%.
La seconda lamentela dell’UE è che gli aiuti di Stato della Cina comportano vendite a basso prezzo delle esportazioni cinesi sui mercati dell’Europa. Indubbiamente, una tale lamentela aveva senso negli ultimi anni ’90 e nei primi anni 2000, quando, lungi dal lamentarsi per i bassi prezzi cinesi, l’UE – assieme agli Stati Uniti – si mostrava estasiata dall’introduzione della Cina nei circuiti occidentali dei commerci e dei capitali. Ma perché sollevare questa lamentela adesso, quando l’accusa di mercantilismo ha in realtà perso il suo fondamento?
Dopo tutto, le batterie o i veicoli elettrici cinesi sono competitivi in Europa non a causa dei sussidi ma a causa dei massicci investimenti cinesi nella loro produzione. Semplicemente, oggi i pannelli solari cinesi hanno raggiunto una qualità che l’Europa non può eguagliare, con o senza aiuti di Stato.
La Volkswagen, uno dei maggiori produttori di automobili all’interno della Cina [la Wolkswagen Group China, ndt], era solita importare sia componenti che robot industriali tedeschi. Oggi, la Volkswagen si procura tutte le componenti e i beni strumentali di cui ha bisogno per produrre automobili in Cina dalla Cina stessa, aumentando così i problemi commerciali dell’Europa.
E non è solo il surplus commerciale che si è invertito. Dopo essersi affidata per decenni a ingegneri tedeschi per progettare le sue automobili, la Volkswagen ha in corso l’assunzione di 3.000 ingegneri cinesi per la prossima generazione di auto interamente elettriche che essa programma di vendere in Cina e in Europa. Più in generale, a partire dal 2008, mentre l’UE stava imponendo una rigida austerità in tutta l’Europa, minimizzando in quel processo gli investimenti nelle sue industrie, la Cina stava sostenendo i suoi investimenti con una percentuale del suo reddito nazionale da record mondiale, del 50%.
Incolpare il mercantilismo cinese insospettisce, in particolare tra gli industrialisti tedeschi che hanno passato gli ultimi 50 anni sostenendo che il perdurante surplus commerciale della Germania col resto del mondo rifletteva la domanda globale per i prodotti di alta qualità tedeschi. Qualsiasi cosa la von del Leyen dica ai leader cinesi, questi stessi industrialisti sanno che le loro controparti cinesi che producono pannelli, solari, batterie e veicoli elettrici si sono guadagnati il diritto di avanzare una pretesa simile.
La terza lamentela di Michel e di von der Leyen è che le imprese europee hanno difficoltà nell’assicurarsi i contratti con il Governo cinese. Assieme alle due precedenti lamentele, queste sono le basi sulle quali i dirigenti dell’UE hanno costruito i loro argomenti a favore di misure punitive contro gli esportatori cinesi – in particolare, alte tariffe sui veicoli elettrici (e più in generale sulla tecnologia verde). Ma, mentre quei dirigenti citano l’indagine formale sui veicoli elettrici che è già in corso a Bruxelles, tutto ciò non sembra convincente.
I leader industriali europei con i quali ho parlato in privato ammettono che essi considerano queste minacce come la prova del panico tra i leader europei, nel momento in cui hanno compreso che l’Europa ha perso competitività in settori cruciali. Uno di loro si è chiesto retoricamente: “La von der Leyen crede davvero che la minaccia delle tariffe sui veicoli elettrici della BYD [produttore cinese di automobili, ndt] incoraggerà le esportazioni [europee] in Cina?”.
Di sicuro, le imprese europee si lamentano di una competitività distorta in Cina, in particolare quando si tratta degli appalti pubblici. Ma non possono comprendere come la situazione cambierà, in seguito alle enormi pressioni statunitensi, se i governi dell’UE escluderanno sempre più le società cinesi dai loro appalti. “Per non dire”, come uno di essi si è confidato con me, “che gli stessi governi dell’UE, a partire dalla pandemia, hanno fatto propri la politica degli aiuti statali come se non ci fosse un domani.”
La quarta lamentela che Michel e von der Leyen hanno espresso a Xi è stato l’insufficiente sostegno della Cina alle sanzioni dell’UE alla Russia, nel tentativo di fare un fronte comune per porre fine alla brutalità dell’esercito russo in Ucraina. A parte la questione dell’efficacia delle sanzioni, questa accusa mostra semplicemente ipocrisia: si condannano i bombardamenti degli ospedali e le fonti di acqua, di elettricità e di generi alimentari da parte di Putin (come tutti noi dovremmo fare) mentre si resta silenziosi quando Israele fa lo stesso, forse assai peggio, a Gaza.
Ovviamente, non è l’ipocrisia che sta provocando l’emorragia di capitali dell’Europa e la perdita del suo surplus di conto delle partite correnti. È la insulsa gestione della crisi inevitabile dell’euro di un decennio fa da parte dell’UE che l’ha provocata. I livelli di austerità da record, raddoppiati dalla massiccia creazione di moneta e dalla cronica incapacità di istituire una unione bancaria e dei mercati dei capitali, che ha fatto in modo che per i successivi 13 anni l’Europa avrebbe avuto una quantità di denaro senza precedenti e bassi investimenti nelle tecnologie del futuro, anch’essi senza precedenti. Questa è la ragione per la quale l’Europa sta rimanendo indietro sia rispetto agli Stati Uniti che alla Cina. Rispondere con la sottomissione all’America e con vuote minacce rivolte alla Cina è al tempo stesso triste e inutile.
24/12/2023
Yanis Varoufakis
(Tratto da: https://www.yanisvaroufakis.eu/2023/12/24/europes-bad-china-bluff-project-syndicate-op-ed/).
Inserito il 31/12/2023.
Charles Michel, Xi Jinping, Ursula von der Leyen.
Foto: Ansa.
Fonte della foto: https://www.rainews.it/articoli/2023/12/von-der-leyen-a-pechino-la-cina-garantisca-accesso-equo-ai-mercati-62d11e4f-7c24-40bb-a604-aa20417d3ff2.html
Sahra Wagenknecht (n. 1969).
Fonte della foto: https://openlibrary.org/authors/OL1498476A/Sahra_Wagenknecht
di Thomas Wieder
Lo spazio lasciato vuoto a sinistra dalla SPD non è mai stato occupato da Die Linke. La questione sociale torna ad essere centrale in un Paese uscito da anni di forte crescita. La scissione di Sahra Wagenknecht e la pressione sociale ed elettorale della destra presentano scenari imprevedibili per la sinistra tedesca.
Ne parla il corrispondente da Berlino del quotidiano francese «Le Monde».
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La crisi della sinistra tedesca
Un nuovo logo, nuovi volti e la martellante promessa di un «nuovo inizio». Riunitosi in congresso ad Augusta (Germania) dal 16 al 18 novembre, il partito di sinistra Die Linke ha lavorato duramente per smentire coloro che lo danno in uno stato di morte clinica dopo la clamorosa uscita della sua figura più popolare dal punto di vista mediatico, Sahra Wagenknecht. In aperto conflitto con la direzione, l’ex vicepresidente del partito ha deciso di sbattere la porta e di fondare un nuovo movimento il 23 ottobre, portando con sé nove deputati su trentotto. A causa di questa divisione, Die Linke non ha più abbastanza eletti per mantenere il suo gruppo al Bundestag. Dal 1960, è la prima volta che un gruppo parlamentare scompare nel corso di una legislatura.
La rottura tra Wagenknecht e Die Linke è un sintomo della profonda crisi che attraversa la sinistra tedesca, di fronte a una forte erosione della propria base elettorale, in concorrenza con un’estrema destra più che mai attrattiva e chiamata a dare risposte alle domande che oggi sono centrali nel dibattito pubblico, quello sull’immigrazione in primo luogo.
Per fare il punto su questa crisi dobbiamo tornare alle origini di Die Linke. Questa formazione politica nasce dalla fusione tra il Partito del Socialismo Democratico (PDS), erede del partito al potere nella Repubblica Democratica Tedesca (DDR) dal 1949 al 1990, e l’Alternativa Elettorale per il Lavoro e la Giustizia Sociale, una variegata alleanza di partiti di sinistra socialdemocratici, neomarxisti e antiglobalizzazione della Germania occidentale. Die Linke si è formata inizialmente come gruppo nel Bundestag dopo le elezioni legislative del 2005, prima di diventare un partito nel 2007. Due anni dopo, ha ottenuto l’11,9% dei voti alle elezioni legislative, un punteggio che in seguito non ha mai superato. Poco sotto il 10% nel 2013 e nel 2017, è crollata nel 2021 (4,9%).
Se gli inizi furono promettenti, fu perché Die Linke seppe occupare, a sinistra, lo spazio lasciato vacante dal Partito Socialdemocratico (SPD). Gli anni 2002-2005, quelli del secondo mandato di Gerhard Schröder come cancelliere, furono un punto di svolta da questo punto di vista.
Furono anni caratterizzati da riforme strutturali di ampia portata, in particolare dalle leggi Hartz sul mercato del lavoro, che in effetti permisero all’economia tedesca una ripresa duratura, ma all’epoca furono difficili da gestire a livello sociale. Più social-liberale che socialdemocratico, l’agenda del 2010 di Schröder ha spostato la SPD verso il centro, dove è rimasta da allora.
Elettoralmente, però, lo spazio rimasto vacante a sinistra non si è mai trasformato in una passeggiata per Die Linke. Anche se l’SPD è in declino, non è crollata come il Movimento Socialista Panellenico (Pasok) in Grecia o il Partito Socialista in Francia, il che spiega in parte perché Die Linke non ha vissuto l’ascesa di Syriza o di La France Insoumise, nonostante il suo buon inizio.
Per Sahra Wagenknecht la ragione di questo fallimento è altrove. Secondo lei, Die Linke si è smarrita diventando l’archetipo di una «sinistra lifestyle», che pretende di essere «morale» ma dimentica il «sociale», che «vuole vietare la carne e guidare le auto elettriche», e che si è trasformata, allontanandosi dalle «categorie popolari» per parlare solo ai «radical-chic delle grandi città» e ai «figli annoiati dell’epoca della prosperità». Ai suoi occhi, questa «deriva verso il liberalismo di sinistra» spiega perché i partiti di sinistra hanno perso «interi settori del loro elettorato», facendo del partito di estrema destra Alternativa per la Germania (AfD) il nuovo «partito dei lavoratori», come lei deplora nel suo discorso-libro Die Selbstge rechte («L’ipocrita», Campus Verlag, 2021, non tradotto), che ha avuto un grande successo di vendite.
Il dibattito sollevato da Wagenknecht va oltre la Germania e si estende a tutta la sinistra europea. Ma l’ex vicepresidente di Die Linke è andata ben oltre nelle sue conclusioni, mostrando in particolare posizioni molto ferme sull’immigrazione. Nel 2015 fu una delle poche a sinistra a criticare l’allora cancelliere Angela Merkel per la sua politica di accoglienza dei rifugiati e, da allora, non ha mai perso occasione per attaccare «l’ingenuità e la buona coscienza» di chi pretende «confini aperti».
Ideologicamente, ciò rende difficile la sua collocazione. All’interno della PDS e poi di Die Linke fu la leader dell’ala più a sinistra, la Piattaforma Comunista, che si definiva «marxista-leninista» e assunse parte dell’eredità della DDR. Ammiratrice dell’ex leader laburista britannico Jeremy Corbyn, lettrice del filosofo francese Jean-Claude Michéa, oggi difficilmente cita l’autore del Capitale. Secondo Thorsten Holzhauser, storico della Fondazione Theodor-Heuss, la sua difesa del «conservatorismo di sinistra, un misto di nazionale e sociale», la avvicina alla bulgara Kornelija Ninova o allo slovacco Robert Fico, con cui condivide posizioni filo-russe, che ha espresso moltiplicando le richieste di pace in Ucraina e opponendosi alla sua entrata nell’Unione Europea.
Con la sua uscita, il posizionamento di Die Linke diventa più chiaro attorno a una linea ultra-progressista sui diritti delle minoranze, sul clima e sull’accoglienza dei migranti, incarnata da Carola Rackete, sostenitrice di una lotta ecologica ed ex capitano della nave umanitaria Sea-Watch, che sarà capolista per le elezioni europee del giugno 2024, insieme al presidente del partito, Martin Schirdewan.
Al suo interno, anche coloro che difendono questa enfasi sui temi di moda sui social invitano, però, a non perdere di vista la questione sociale, che torna ad essere una questione importante in una Germania che esce da anni di forte crescita, è preoccupata per il futuro della sua industria e teme per la sua prosperità. Su questo punto Die Linke e Sahra Wagenknecht concordano: è a questa Germania, corteggiata dall’estrema destra, che la sinistra deve rivolgersi e offrire speranza.
Thomas Wieder (corrispondente da Berlino)
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Thomas Wieder, En Allemagne, la crise de la gauche et ses résonances, in «Le Monde», Anno 79°, N. 24539, 25 novembre 2023).
Inserito il 03/12/2023.
Moni Ovadia (n. 1946).
Fonte della foto: Pagina ufficiale di Moni Ovadia su Facebook.
Intervista a cura di Umberto De Giovannangeli
«Si sta rispondendo a un orrore con un crimine. I morti di Gaza sono benzina per il terrorismo. Netanyahu? Un fascista. Chi usa la Shoah per giustificare le azioni di Israele è il peggiore degli antisemiti. Due Stati? Scemenze».
Moni Ovadia è attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero che non ha paura di “provocare”. In particolare quando si parla di guerra, d’Israele e di Palestina. Ed è un ebreo “scomodo”. «Il popolo palestinese vive in prigione e in una condizione infernale: questo scatena la rabbia del mondo arabo. E l’Occidente mostra il suo doppiopesismo, sempre pronto a imputare la ferocia ai palestinesi, ma non batte ciglio sulla loro condizione di segregazione».
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“Seguo la lezione di Mosè, non sono un traditore”
Intervista a Moni Ovadia
Moni Ovadia è attore, cantante, musicista, scrittore. Soprattutto, è uno spirito libero che non ha paura di “provocare”. In particolare quando si parla di guerra, d’Israele e di Palestina. Ed è un ebreo “scomodo”. “Il popolo palestinese vive in prigione e in una condizione infernale: questo scatena la rabbia del mondo arabo. E l’Occidente mostra il suo doppiopesismo, sempre pronto a imputare la ferocia ai palestinesi, ma non batte ciglio sulla loro condizione di segregazione”.
Subito dopo l’attacco di Hamas aveva affermato, controcorrente: “Israele lascia marcire le cose, fingendo che il problema palestinese non esista, per cancellare la stessa idea che i palestinesi esistano e la comunità internazionale è complice”, aggiungendo che “questa è la conseguenza di una politica di totale cecità, di occupazione e colonizzazione. La Striscia di Gaza non è un territorio libero, è una gabbia, una scatola di sardine: è vero che dentro non ci sono gli israeliani, ma loro controllano comunque i confini marittimi e aerei, l’accesso delle merci, l’energia, l’acqua. La comunità internazionale è schifosamente complice. Non a caso l’Onu aveva già dichiarato Gaza zona ‘non abitabile’. La situazione è vessatoria, dirò di più: è infernale”. Per poi rimarcare che la morte anche di una sola persona, “sia essa israeliana o palestinese”, è sempre una tragedia e va condannata con tutte le forze.
Moni Ovadia, come ci si sente quando si parla di lei come di un “traditore” d’Israele e del popolo ebraico sotto attacco di Hamas?
Queste accuse le ricevo da quando, dopo l’assassinio di Rabin, ho affermato, e ne resto convinto ancora oggi, che i peggiori nemici degli israeliani sono gli israeliani stessi. Mi riferisco ai governi e alla parte maggioritaria della società. Nel momento in cui l’unico totem intorno al quale ti prosterni è la forza, sei già perduto, come si vede adesso. Mi hanno detto di tutto. Mi hanno anche minacciato di morte. Io ho imparato una cosa dal magistero di Mosè.
La prendiamo da lontano, ma va bene. Cosa ha imparato?
Quando Mosè scese con le tavole dal monte, tutti gli ebrei erano inginocchiati davanti al vitello d’oro. Era rimasto un solo uomo a difendere l’ebraismo: Mosè. Si parva licet… Io sono passato dall’essere non sionista ad essere antisionista. Perché il sionismo è un pensiero idolatrico. E l’idolo che adora è la terra. Un importante rabbino antisionista è solito dire: perché Dio ha dato il sabato, shabbat, agli ebrei e non agli altri popoli? Perché gli altri popoli sono idolatri della terra. Sono caduti nella trappola dei nazionalisti.
Come definirebbe ciò che da venti giorni sta accadendo nella Striscia di Gaza?
Si risponde ad un orrore, l’assassinio di civili inermi, perché quello è sempre un orrore, chiunque lo faccia contro chiunque. Ammazzare civili inermi è una cosa inaccettabile. La risposta di Netanyahu, come era prevedibile, è una risposta criminale. Ammazza civili innocenti, tanto poi quelli di Hamas si riorganizzeranno, ricevendo finanziamenti da ogni parte. L’islamismo wahabita finanzia questi movimenti e così una parte del mondo arabo. Hamas continuerà ad essere finanziato, mentre i palestinesi innocenti moriranno. I bambini, le donne, gli anziani, mentre Hamas si rafforzerà. Il terrorismo aumenterà a dismisura con tutti questi morti a Gaza. Stiamo parlando di una terra che è già un inferno, un lager. In più massacrati, senza elettricità, senza luce. Gaza vive così, in una condizione di lager, da oltre mezzo secolo. Da oltre mezzo secolo, se non da 75 anni, i palestinesi vivono sotto occupazione. Per averlo ricordato, Guterres è stato crocifisso. Ciclicamente, gli israeliani bombardano e la situazione peggiora sempre di più. Benny Gantz, che ora si è buttato in politica, quando era capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, si vantava: li abbiamo riportati all’età della pietra. Quando ragioni così, hai smesso – questo è quel che penso – di essere ebreo. Non te ne sarai accorto, ma hai smesso di essere ebreo.
Perché?
La Torah è un grande libro. Che prima parla degli esseri umani e poi parla degli ebrei. Prima devi essere un vero essere umano, in ebraico la parola essere umano si dice “Ben Adam”, figlio di Adamo. Non c’entrano gli ebrei. Essere umano è “Ben Adam”. Perché noi, secondo la Torah, discendiamo tutti dalla stessa matrice, tutti gli uomini della terra scendono da questa matrice, Ben Adam. Non solo. I maestri di un bellissimo libro ebraico, Pirké avòt, “Massime dei Padri”, affermano: perché è stata detta una cosa apparentemente così insensata, che tutti gli uomini discendono da un suolo uomo? E sa qual è la risposta?
Qual è?
I maestri rispondono è stato fatto per la pace. Perché nessun essere umano possa dire ad un suo simile: il mio progenitore era migliore del tuo.
In questi giorni di guerra si torna, lo ha fatto anche la presidente del Consiglio Giorgia Meloni, a riesumare la soluzione a due Stati…
È una scemenza. Una scemenza che serve ai diplomatici ipocriti, falsi, per evitare il vero problema. Oggi c’è solo una soluzione possibile…
Vale a dire?
Uno Stato binazionale. Quello in cui io credo fermamente. Stesso Stato, stessi diritti. Una democrazia per i due popoli. Libertà religiosa. Quello che è una vera democrazia. Non quella israeliana. Quella israeliana è una democrazia etnica. Quando si dice e scrive “unica democrazia del Medio Oriente”, c’è da scompisciarsi dal ridere. Democrazia per gli ebrei. Subito dopo l’approvazione, nel 2018, della legge su Israele, Stato-nazione del popolo ebraico, Israele è diventato una “democratura”. Un mio amico israeliano, di cui non faccio il nome perché non voglio causargli guai, mi disse una volta: se Israele va avanti così diventerà l’Iran degli ebrei. Anche perché gli ebrei laici finiranno per andarsene.
Quanta responsabilità ha in tutto questo Benjamin Netanyahu?
Benjamin Netanyahu è un fascista. Nel senso stretto della parola. È un vero fascista. Un uomo che crede nella supremazia di alcuni rispetto agli altri. Viene dal revisionismo sionista, che era un sionismo di estrema destra, quello ispirato da Vladimir Zèev Jabotinsky, di cui il padre di Netanyahu fu adepto e segretario. Ben Gurion li chiamò fascisti. Netanyahu ha dimostrato che il sionismo revisionista è quella roba lì, fascismo. Una volta Ehud Barak, già primo ministro d’Israele, il militare più decorato nella storia dello Stato d’Israele, ebbe a dire, in una bellissima intervista concessa a Gideon Levy: se fossi nato a Gaza, se fossi stato palestinese, forse sarei stato un terrorista. Si può togliere il forse. È la stessa cosa che ebbe a dire Andreotti. Però se lo dico io sono un nemico del popolo ebraico, un assassino. Una volta mi è stato detto: Moni Ovadia studia l’yiddish per ammazzare più ebrei. Io non mi occupo di psicopatologia. Tutto questo non ha niente di politico. Non è un discorso sul piano della logica. È psicopatologia. Ci sono alcuni ebrei, anche in Italia, che vivono come se vivessero a Berlino nel 1935. Quando mai gli ebrei hanno avuto un esercito tra i più potenti al mondo? Quando mai? Quelli che usano la Shoah per giustificare Israele nelle sue azioni, li considero i peggiori antisemiti. Perché è come sputare sulle ceneri dei nostri morti, che erano davvero indifesi e abbandonati. Israele non solo è armato fino ai denti, anche con le testate atomiche, ma ha gli alleati più potenti della terra, gli Stati Uniti in primis. Gli antisemiti sono quelli. Quelli che coprono i crimini dell’oggi con la immane tragedia del secolo scorso. È un atto di blasfemia infame, tirare in campo ebrei che erano davvero indifesi, davvero vittime. C’è una differenza tra vittime e vittimisti.
Quale sarebbe?
Il vittimismo lo facevano anche i nazisti. Noi dobbiamo ammazzare gli ebrei, sterminarli, perché sennò quelli ci distruggono. Questo era il mantra dei nazisti. Perché ve la prendete con gli ebrei, cosa vi hanno fatto di male? Vogliono distruggere la Germania e impossessarsi del mondo. La propaganda di Goebbels si fondava su questo. Un vittimismo criminale che fece presa sui tedeschi.
Oggi quando tu dici distruggi mezza Gaza, e poi dici è successa questa cosa, chi è stata la vittima? Gli israeliani, ti dicono loro. Guai a questo vittimismo. Ricordo un’affermazione di un grande intellettuale palestinese scomparso, Edward Said: “la tragedia dei palestinesi è essere vittime delle vittime”. Che è altra cosa dal vittimismo giustificato, quando gli ebrei si dicevano giustamente vittime. Ma adesso, con non so quante centinaia di testate nucleari?
A proposito di immagini che lasciano un segno importante di speranza. Cosa ha provato nel vedere quel breve filmato dell’anziana signora israeliana, rapita il 7 ottobre da quelli di Hamas…
Ha detto shalom a quelli di Hamas. In ebraico le direi, abbracciandola se potessi farlo, kol akavod, tutto l’onore. Quella donna, in quella parola ha concentrato tutto il senso che noi dovremmo invocare per arrivare alla pace. E vedevo con che tenerezza l’uomo di Hamas le stringeva la mano per congedarla. Siamo in mezzo agli esseri umani. Anche il più feroce è un essere umano. Se non capiamo questo, siamo persi. Poi ho provato una grande emozione alle parole di Guterres. Naturalmente gli hanno dato subito dell’antisemita.
Le dico, in conclusione, come definirei in un dizionario l’antisemitismo. Metterei due voci. Una, quella vera. E l’altra direi: chiunque si opponga alla richiesta di totale impunità dei governi israeliani. I governi israeliani non vogliono difendersi. Vogliono avere l’impunità totale qualsiasi cosa facciano. Dispiace di essere così duro. Ma è ora di finirla con gli understatement. Vorrei dirlo anche a tanta brava gente che parla di pace. Però essendo stati understate hanno permesso agli israeliani di andare avanti fino a questo punto. I palestinesi sono le vittime. Fuori di ogni discussione. Ma la catastrofe sarà per gli israeliani. Quando imbocchi la strada dell’integralismo etnico-religioso, quando ai coloni criminali permetti di fare scorribande bruciando le case dei palestinesi, loro fanno i pogrom. Ma se li fanno gli ebrei, tutti zitti. Io non sono così.
Umberto De Giovannangeli
(Tratto da: Umberto De Giovannangeli, Parla Moni Ovadia: “Seguo la lezione di Mosè, non sono un traditore”, in «l’Unità», 28 Ottobre 2023).
Inserito il 05/11/2023.
Benjamin Netanyahu (n. 1949).
Fonte della foto: https://www.esquire.com/news-politics/politics/a45499605/haaretz-times-of-israel-netanyahu-critiques/
Come è successo per la guerra russo-ucraina, anche per il nuovo conflitto scoppiato in Medio Oriente, se qualcuno si azzarda a uscire dal coro di chi vuol dividere il mondo in buoni e cattivi viene ricoperto di fango, espulso da certe trasmissioni, invitato a dimettersi da certe istituzioni, emarginato e additato come «amico dei terroristi di Hamas» o «amico di Putin», che alla fine è lo stesso…
La miccia della nuova crisi israelo-palestinese è stata riaccesa il 7 ottobre 2023 dalle incursioni terroristiche di Hamas con stragi di civili e presa di centinaia di ostaggi, a cui è seguita la forte risposta del governo di destra israeliano, con bombardamenti a tappeto della “striscia di Gaza”, stragi di civili, chiusura dei confini, taglio di rifornimenti di acqua ed energia.
Il giorno successivo, mentre in Italia e in Europa (fari di civiltà) si issavano sui municipi bandiere con la stella di David accanto a quelle ormai stinte dell’Ucraina e si esaltava la dura reazione di Benjamin Netanyahu, che prometteva di cancellare Hamas a costo di cancellare tutta Gaza (e guai ad alzare il ditino per esprimere un dubbio sulla legittimità di tale risposta!), in quelle terre disastrate il quotidiano «Haaretz», uno dei più diffusi di Israele, si permetteva a caldo un editoriale contenente una lucida analisi sulle reali responsabilità del precipitare della situazione fino a un punto forse di non ritorno.
Riprendiamo la sintesi che di quell’editoriale dà il sito del giornale «Il Fatto Quotidiano», uno dei pochi organi di stampa italiani a dar voce anche a chi non partecipa ai cori “mainstream”.
L.C.
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“Netanyahu responsabile con il suo governo di annessione”: le critiche di «Haaretz» al primo ministro israeliano
“Il disastro che si è abbattuto su Israele durante la festività della Simchat Torah è chiaramente responsabilità di una persona: Benjamin Netanyahu”. Non usa mezzi termini l’editoriale apparso l’8 ottobre sul quotidiano israeliano «Haaretz»: per il quotidiano notoriamente progressista la causa principale dell’attacco di Hamas è il primo ministro israeliano e, più nello specifico, il “governo di annessione ed esproprio” che ha istituito dopo aver vinto di misura le ultime elezioni. Netanyahu, sostiene l’editoriale, “si vantava della sua vasta esperienza politica e della sua insostituibile saggezza in materia di sicurezza”, ma “ha completamente fallito” nel comprendere verso quali pericoli stava conducendo Israele quando ha messo in piedi il governo più a destra della storia del paese, con gli estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben-Gvir nominati in posizioni chiave e “una politica estera che ignorava apertamente l’esistenza e i diritti dei palestinesi”.
“Netanyahu cercherà certamente di sottrarsi alle proprie responsabilità”, continua l’editoriale, “incolpando i vertici dell’esercito, dell’intelligence militare e del servizio di sicurezza Shin Bet”. Non che tali istituzioni siano prive di colpe, avendo queste sottostimato la probabilità di un’escalation. Un errore simile a quello compiuto dai loro predecessori alla vigilia della guerra dello Yom Kippur: “Deridevano il nemico e le sue capacità militari offensive”. Insomma, gli errori dell’intelligence e delle Forze di difesa israeliane verranno certamente a galla nelle prossime settimane, e un eventuale richiesta di sostituirli sarà certo “giustificata”. E tuttavia, sostiene l’editoriale, “il fallimento militare e dell’intelligence non assolve Netanyahu dalla sua responsabilità generale per la crisi”.
Il premier è infatti “l’arbitro ultimo degli affari esteri e di sicurezza israeliani”, ruolo in cui certamente Netanyahu non è un principiante, “come lo era Ehud Olmert nella seconda guerra del Libano”. E anche per quanto riguarda la materia militare, Bibi non sarebbe affatto ignorante, “come affermavano di essere Golda Meir nel 1973 e Menachem Begin nel 1982″. E tuttavia, il premier avrebbe commesso un errore fondamentale: quello di mettere da parte le posizioni caute sposate in passato, quando diceva di voler evitare guerre e vittime, abbracciando invece “la politica di un ‘governo completamente a destra’”.
Ed ecco che Bibi ha esplicitamente adottato misure “per annettere la Cisgiordania, per effettuare la pulizia etnica in parti dell’Area C definita dagli accordi di Oslo, incluse le colline di Hebron e la valle del Giordano”. A ciò si aggiunge “una massiccia espansione degli insediamenti e il rafforzamento della presenza ebraica sul Monte del Tempio, vicino alla Moschea di Al-Aqsa”. E ancora, il premier si sarebbe vantato “di un imminente accordo di pace con i sauditi da cui i palestinesi non avrebbero ottenuto nulla”. Tutte mosse che, secondo l’editoriale, non potevano non riaccendere le ostilità, cominciate in Cisgiordania e poi proseguite con l’attacco a sorpresa di Hamas.
E sul motivo per cui Netanyahu ha istituito “questa orribile coalizione” e ha intensificato le misure contro i palestinesi l’editoriale non ha alcun dubbio. “Un primo ministro incriminato per tre casi di corruzione” – continua infatti l’articolo – “non può occuparsi degli affari di stato, poiché gli interessi nazionali saranno necessariamente subordinati alla sua liberazione da una possibile condanna e dalla pena detentiva”. Di qui anche il “colpo di stato giudiziario” avanzato da Bibi, ossia la nuova riforma della giustizia, nonché “l’indebolimento degli alti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti, che erano percepiti come oppositori politici”. Insomma, Bibi non avrebbe pienamente compreso i pericoli cui condannava Israele mentre tentava di difendere la sua posizione. “Il prezzo”, ha concluso l’editoriale, “è stato pagato dalle vittime dell’invasione del Negev occidentale”.
«Il Fatto Quotidiano», 8 ottobre 2023
Inserito il 16/10/2023.
Karim Kattan (n. 1989).
Fonte della foto: https://www.fanpage.it/esteri/gaza-il-racconto-dello-scrittore-palestinese-karim-kattan-siamo-tutti-vittime-dellattacco-di-hamas/
Intervista a cura di Riccardo Amati
«Riconoscere un orrore non significa minimizzarne un altro», dice l’intellettuale. Egli ritiene quello di Israele «un colonialismo feroce» e al tempo stesso condanna la carneficina fatta dei terroristi. Nei territori occupati «regnano rabbia e disperazione». E il fondamentalismo «ha poco a che fare con la liberazione della Palestina».
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Gaza, lo scrittore palestinese Karim Kattan: “Israele colonialista feroce, ma il fondamentalismo non libera la Palestina”
«Fin da ragazzo, all’ombra del muro dell’apartheid a Betlemme, ho provato un senso di vulnerabilità, mi sono sentito indifeso»; ricorda Karim Kattan: «Gli stessi sentimenti confusi li provo oggi più forti». L’autore di Les Palais des deux collines, successo letterario in Francia, racconta a Fanpage.it come si vive da colonizzati e spiega che chiamare le cose con il loro nome «evitando i superlativi e privilegiando le sfumature» può essere «un mezzo di riscatto per colonizzati e colonizzatori». «I morti rimarranno morti e i mutilati saranno mutilati anche quando l’attenzione del mondo si volgerà altrove», dice del conflitto. E chiede all’Europa di pretendere la fine immediata del blocco di Gaza. Mentre «Israele deve finalmente render conto di ogni violazione del diritto internazionale».
Come si è sentito dopo gli attacchi di Hamas e la reazione di Israele?
Difficile esprimerlo, è tutto talmente estremo. Mi sento senza parole. E non posso davvero separare il periodo di questi giorni da altri periodi che l’hanno preceduto, in questa vicenda. Mi sento così da un pezzo, in realtà. È un sentimento intenso, duro da provare, che sfida il vocabolario perché si è sviluppato durante un lungo processo temporale di paure e aspettative. È un sentimento di impotenza, di disperazione, di vulnerabilità. Di essere indifeso e senza aiuto.
Vuol dire che, come palestinese, non ha provato soddisfazione per l’attacco terroristico a Israele? Non si è sentito meno impotente, meno vulnerabile?
Siamo tutti vittime collettive di ciò che ha fatto Hamas. La strage del Nova Festival (il rave party dove i terroristi hanno massacrato oltre 260 persone, ndr) è un orrore per israeliani e palestinesi. E ciò non significa ignorare il contesto: anche il feroce colonialismo di Israele è orrendo. Non c’è alcuna contraddizione. Riconoscere un orrore non significa minimizzarne un altro. Il destino del mio Paese e del mio popolo non può essere un gioco a somma zero. Perché il premio è la libertà della Palestina. Cosa che tra l’altro non implica necessariamente un perdente.
La politica di Israele nei vostri confronti è altrettanto orrenda quanto il massacro del rave party?
Vorrei evitare la conta dei morti da una parte e dall’altra. Non è proprio il momento per farla e comunque mi disgusta. Non si può distribuire il lutto tra chi se lo merita e chi no. Ogni singola vittima è una tragedia. Ma è chiaro che il rapporto di forza è asimmetrico e fortemente sbilanciato, e che i numeri rispecchiano necessariamente questa asimmetria. A sfavore dei palestinesi.
“Sapete chi vince nella guerra? Solo chi rimane vivo. Chi muore perde sempre, non importa di quale parte è”: è una frase di un suo collega, lo scrittore israeliano Roy Chen. Ha ragione?
Certo. E ci sono anche i feriti. I morti rimangono morti. I feriti non sempre guariscono. La morte di una persona ne colpisce decine, lascia in lacrime una famiglia e una comunità. E un ferito spesso significa un mutilato, con tutto quel che ciò implica anche economicamente e socialmente. Morti e mutilati resteranno morti e mutilati anche quando l’attenzione internazionale sulle nostre vicende si allontanerà.
Crede che ci sarà sempre la guerra tra israeliani e palestinesi?
C’è sempre stata una guerra contro di noi. Anche nei cosiddetti periodi di “calma”, quando i media sono meno interessati, la gente muore a Gaza, viene arrestata in Cisgiordania e così via. Ciò che dà la stabilità all’occupazione è la guerra contro i palestinesi. Quindi la guerra continua. Ma non sono così arrogante da tentare previsioni per il futuro.
Diceva del “feroce colonialismo di Israele”. Può elaborare?
Le realtà della colonizzazione sono quantificabili e verificabili: dall’assassinio alle mutilazioni, agli espropri, agli arresti. Con i conseguenti effetti psicologici. I mezzi che vengono utilizzati da Israele vanno dall’esercito ai posti di blocco, dagli insediamenti di coloni ai bombardamenti. Tra i più clamorosi, il blocco di Gaza a partire dal 2007. Tra i meno spettacolari, il crudele e umiliante sistema dei permessi che regolano la vita giornaliera dei palestinesi, o la divisione della Cisgiordania in diverse zone per facilitare gli insediamenti. Tutte cose che, insieme a molte altre, costituiscono il crimine contro l’umanità noto come apartheid, di cui numerose organizzazioni (tra queste, Amnesty International e l’israeliana B’Tselem, ndr) accusano Israele.
E com’è vivere da colonizzati?
È un mix di sentimenti confusi e strani. Tra i quali, certo, anche l’odio per l’oppressore e la gioia di vedere un muro cadere o un carro armato israeliano ribaltarsi. Questo non significa giustificare gli orrori di Hamas. Ma è chiaro che vedere un bulldozer buttar giù un pezzo del muro dell’apartheid ha un effetto, su un palestinese.
Lei da ragazzo abitava a Betlemme. Il muro dell’apartheid lo conosce bene…
La mia casa era proprio a ridosso del muro. Non riesco a ricordarmi la città prima che fosse deturpata da quella costruzione.
E com’era da ragazzini, all’ombra del muro?
Ricordo, per esempio, quando durante la Seconda Intifada (la rivolta dei territori occupati contro Israele iniziata nel 2000 e terminata nel 2005, ndr) Israele assediò la città. Andavamo a scuola illegalmente, eludendo il coprifuoco, evitando carri armati e posti di blocco, attraversando confini che in teoria non avremmo dovuto attraversare. Era una vita di costante pericolo, che per noi era diventato normale perché non avevamo scelta.
È fin da allora che ha sviluppato quel sentimento di impotenza e di mancanza di aiuto di cui parlava poco fa?
Certo.
Oggi ragazzi di Gaza sotto le bombe hanno sentimenti analoghi, secondo lei?
Credo di sì. Immaginatevi come dev’essere avere diciassette anni a Gaza. Per tutta la tua vita hai visto solo la guerra, hai vissuto in una prigione. E ora i bombardamenti, la mancanza di acqua. I tuoi familiari probabilmente morti. Non possiedi niente e vieni trattato come un paria da Israele e dal mondo intero.
E questo può portare alla radicalizzazione e alla violenza, ovviamente. Quanto conta il fondamentalismo, oggi, nella questione palestinese? È un mezzo un ostacolo per la creazione di un vostro Stato libero e indipendente?
È un problema ma non è il maggiore dei problemi. Prima di tutto bisogna vedere che cosa si intende per Palestina. Non c’è solo Gaza, dove governa Hamas. Ci sono i palestinesi di Gerusalemme. Ci sono quelli che vivono in Israele. E ci sono i palestinesi della Cisgiordania. Il cui governo è laico, buono o cattivo che sia come governo.
E lei è laico?
Sono cristiano. La mia è una famiglia cristiana di Betlemme. Sono cresciuto tra cristiani e musulmani senza che la questione religiosa venisse mai posta da alcuno. La rabbia, il sentirsi senza speranze e indifesi dalla violenza di Israele contro i palestinesi non dipendono da questioni religiose. Con questo non voglio dire che non ci sia stata una radicalizzazione, soprattutto a Gaza. Ma se è un ostacolo, non è il principale. La questione palestinese va oltre il fondamentalismo.
Lei si trova attualmente in Francia. Dove sono state vietate le manifestazioni pro-Palestina. Che ne pensa, di questo divieto?
Penso che sia pericoloso. Rende ancora più incandescenti gli animi. E mi fa sentire ancora più indifeso, per tornare al sentimento di cui più abbiamo parlato in questa intervista.
Cosa dovrebbe fare oggi l’Europa, per fermare la carneficina ed evitare che si ripeta?
Pretendere che venga tolto il blocco a Gaza, subito. E far sì che Israele renda conto delle sue violazioni del diritto internazionale. Ogni volta che lo viola.
E voi intellettuali, voi scrittori di una parte e dell’altra, come potete contribuire?
Usando parole precise per descrivere il mondo in modo accurato. In mezzo a questo sconquasso che è appena iniziato, in uno scenario politico e mediatico in cui imperversano i superlativi e le iperboli, le certezze e gli assoluti, sarebbe un atto rivoluzionario. Lo dico da scrittore e da umanista. L’umanesimo rende possibili nuance e contraddizioni. Rende possibile quindi riconoscere che le cose sono complicate, confuse e spesso insopportabili. E che pure dobbiamo cercar di comprenderle, con il coraggio di guardare in faccia la realtà. Sarebbe un mezzo di riscatto. Per i colonizzati come per i colonizzatori.
Inserito il 14/10/2023.
di padre Alex Zanotelli*
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Appello di padre Alex Zanotelli* ai giornalisti italiani
Rompiamo il silenzio sull’Africa.
Non vi chiedo atti eroici, ma solo di tentare di far passare ogni giorno qualche notizia per aiutare il popolo italiano a capire i drammi che tanti popoli africani stanno vivendo
Scusatemi se mi rivolgo a voi in questa torrida estate, ma è la crescente sofferenza dei più poveri ed emarginati che mi spinge a farlo. Per questo, come missionario e giornalista, uso la penna per far sentire il loro grido, un grido che trova sempre meno spazio nei mass-media italiani, come in quelli di tutto il modo del resto.
Trovo infatti la maggior parte dei nostri media, sia cartacei che televisivi, così provinciali, così superficiali, così ben integrati nel mercato globale.
So che i mass-media , purtroppo, sono nelle mani dei potenti gruppi economico-finanziari, per cui ognuno di voi ha ben poche possibilità di scrivere quello che veramente sta accadendo in Africa.
Mi appello a voi giornalisti/e perché abbiate il coraggio di rompere l’omertà del silenzio mediatico che grava soprattutto sull’Africa.
È inaccettabile per me il silenzio sulla drammatica situazione nel Sud Sudan (il più giovane stato dell’Africa) ingarbugliato in una paurosa guerra civile che ha già causato almeno trecentomila morti e milioni di persone in fuga.
È inaccettabile il silenzio sul Sudan, retto da un regime dittatoriale in guerra contro il popolo sui monti del Kordofan, i Nuba, il popolo martire dell’Africa e contro le etnie del Darfur.
È inaccettabile il silenzio sulla Somalia in guerra civile da oltre trent’anni con milioni di rifugiati interni ed esterni.
È inaccettabile il silenzio sull’Eritrea, retta da uno dei regimi più oppressivi al mondo, con centinaia di migliaia di giovani in fuga verso l’Europa.
È inaccettabile il silenzio sul Centrafrica che continua ad essere dilaniato da una guerra civile che non sembra finire mai.
È inaccettabile il silenzio sulla grave situazione della zona saheliana dal Ciad al Mali dove i potenti gruppi jihadisti potrebbero costituirsi in un nuovo Califfato dell’Africa nera.
È inaccettabile il silenzio sulla situazione caotica in Libia dov’è in atto uno scontro di tutti contro tutti, causato da quella nostra maledetta guerra contro Gheddafi.
È inaccettabile il silenzio su quanto avviene nel cuore dell’Africa , soprattutto in Congo, da dove arrivano i nostri minerali più preziosi.
È inaccettabile il silenzio su trenta milioni di persone a rischio fame in Etiopia, Somalia , Sud Sudan, nord del Kenya e attorno al Lago Ciad, la peggior crisi alimentare degli ultimi 50 anni secondo l’ONU.
È inaccettabile il silenzio sui cambiamenti climatici in Africa che rischia a fine secolo di avere tre quarti del suo territorio non abitabile.
È inaccettabile il silenzio sulla vendita italiana di armi pesanti e leggere a questi paesi che non fanno che incrementare guerre sempre più feroci da cui sono costretti a fuggire milioni di profughi. (Lo scorso anno l’Italia ha esportato armi per un valore di 14 miliardi di euro!).
Non conoscendo tutto questo è chiaro che il popolo italiano non può capire perché così tanta gente stia fuggendo dalle loro terre rischiando la propria vita per arrivare da noi.
Questo crea la paranoia dell’“invasione”, furbescamente alimentata anche da partiti xenofobi.
Questo forza i governi europei a tentare di bloccare i migranti provenienti dal continente nero con l’Africa Compact, contratti fatti con i governi africani per bloccare i migranti.
Ma i disperati della storia nessuno li fermerà.
Questa non è una questione emergenziale, ma strutturale al sistema economico-finanziario. L’ONU si aspetta già entro il 2050 circa cinquanta milioni di profughi climatici solo dall’Africa. Ed ora i nostri politici gridano: «Aiutiamoli a casa loro», dopo che per secoli li abbiamo saccheggiati e continuiamo a farlo con una politica economica che va a beneficio delle nostre banche e delle nostre imprese, dall’ENI a Finmeccanica.
E così ci troviamo con un Mare Nostrum che è diventato Cimiterium Nostrum dove sono naufragati decine di migliaia di profughi e con loro sta naufragando anche l’Europa come patria dei diritti. Davanti a tutto questo non possiamo rimane in silenzio. (I nostri nipoti non diranno forse quello che noi oggi diciamo dei nazisti?).
Per questo vi prego di rompere questo silenzio-stampa sull’Africa, forzando i vostri media a parlarne. Per realizzare questo, non sarebbe possibile una lettera firmata da migliaia di voi da inviare alla Commissione di Sorveglianza della RAI e alla grandi testate nazionali? E se fosse proprio la Federazione Nazionale Stampa Italiana (FNSI) a fare questo gesto? Non potrebbe essere questo un’Africa Compact giornalistico, molto più utile al Continente che non i vari Trattati firmati dai governi per bloccare i migranti?
Non possiamo rimanere in silenzio davanti a un’altra Shoah che si sta svolgendo sotto i nostri occhi. Diamoci tutti/e da fare perché si rompa questo maledetto silenzio sull’Africa.
Alex Zanotelli
*Alex Zanotelli è missionario italiano della comunità dei Comboniani, profondo conoscitore dell’Africa e direttore della rivista «Mosaico di Pace».
Inserito il 30/07/2023.
Padre Alex Zanotelli.
a cura di Redazione Katehon
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Problemi del sistema finanziario statunitense
L’approccio per stimolare l’economia è chiamato politica monetaria o monetarismo. Il principale teorico della politica monetaria è stato l’economista liberale Milton Friedman, che l’ha formulata all’Università di Chicago negli anni Cinquanta. Friedman riteneva che la politica fiscale fosse largamente inefficace e sosteneva invece che l’offerta di moneta – la quantità di denaro in circolazione – fosse la chiave per mantenere un’economia stabile. Quando l’economia è debole, secondo Friedman, è necessario aumentare l’offerta di moneta. Con più denaro in circolazione, le imprese e i consumatori hanno più denaro da investire e da spendere, il che stimola sia la produzione che la spesa per beni e servizi. Friedman era favorevole al controllo privato dell’offerta di moneta, ma riconosceva anche che lo strumento per esercitare tale controllo era il Federal Reserve System (Fed) del governo. Il monetarismo, come teoria economica, presta attenzione solo all’effetto delle variazioni della quantità di moneta sul livello generale dei prezzi, rendendola una teoria puramente quantitativa al servizio dell’economia capitalista.
La Federal Reserve Bank fu fondata nel 1913, quasi mezzo secolo prima che venisse sviluppata la teoria monetaria liberale. La storia iniziale della Fed presenta diversi colpi di scena interessanti. Le origini della Fed risalgono al panico bancario del 1907, che minacciò il collasso del sistema bancario e con esso dell’economia americana. In relazione al panico bancario di quegli anni, emerse la parola “bankrupt”, quando furono le banche commerciali a fallire. “Bankrupt” significa letteralmente “banca fallita”. Per fare soldi, le banche prendevano depositi e poi li prestavano. Se una banca si tenesse tutto il denaro depositato, non sarebbe in grado di realizzare i propri profitti. Tuttavia, il fatto che le banche prestino la maggior parte delle loro attività significa che in qualsiasi momento hanno meno denaro di quanto devono ai loro depositanti. Se le persone, in una situazione economica tesa, si fanno prendere dal panico e pensano che il loro denaro non sia più al sicuro nella loro banca, si affretteranno a ritirarlo e la banca consegnerà presto tutto il contante che aveva in possesso. Altri depositanti sarebbero stati sfortunati e la banca sarebbe fallita, lasciandoli senza soldi. Questo è esattamente ciò che accadde nel 1907, e mentre una banca dopo l’altra chiudeva, il panico si diffondeva tra i depositanti. A questo punto John Pierpont Morgan, uno dei principali banchieri e finanzieri dell’epoca, riunì un gruppo di amici influenti e li convinse a mettere del denaro in un fondo da cui le banche avrebbero potuto prendere in prestito se avessero avuto problemi di liquidità. Il piano di Morgan funzionò e il panico si placò. Ma la decisione di Morgan rimase nella mente dei politici americani, ispirandoli a creare una banca da cui altri banchieri potessero prendere in prestito denaro. Morgan divenne il più convinto sostenitore del Federal Reserve System e ne prefigurò la nascita.
Caratteristiche del Federal Reserve System (Fed)
La Fed è un’agenzia federale indipendente che agisce come banca centrale degli Stati Uniti. I suoi membri sono le banche nazionali e le banche statali che si sono qualificate e hanno scelto di aderire. La Fed utilizza diversi strumenti per regolare l’economia americana. Per far fronte alla crisi economica, la Fed può utilizzare una combinazione di tre strumenti per aumentare l’offerta di moneta. In primo luogo, può abbassare il tasso di interesse che applica alle banche associate quando queste prendono in prestito da lei. Più basso è il tasso che pagano sui loro prestiti, più basso è il tasso di interesse che possono offrire ai loro clienti. I tassi più bassi incoraggiano i prestiti, che pompano denaro nell’economia statunitense, il che significa che questa misura mira ad aumentare l’offerta di moneta. La Fed può anche aumentare la quantità di denaro in circolazione abbassando il cosiddetto tasso di riserva. Le banche associate sono tenute a tenere in deposito una certa percentuale delle loro attività, che rappresenta il tasso di riserva. Quando la Fed abbassa il tasso di riserva, le banche membri possono prestare più attività ai clienti, immettendo così più denaro nell’economia e contribuendo a stimolarla. Infine, la Fed acquista e vende titoli, termine generico che indica molti tipi di investimenti: obbligazioni, titoli di stato, buoni del tesoro e così via. Durante una recessione economica può aumentare il suo potere d’acquisto. Quando acquista un titolo, dà al venditore del denaro, che il venditore può a sua volta spendere o investire, contribuendo a sostenere l’economia.
Si possono quindi individuare le seguenti caratteristiche della Fed:
Indipendenza: la Fed è un’agenzia federale indipendente che gestisce la politica monetaria degli Stati Uniti senza l’influenza diretta del governo americano.
Funzioni: la Fed svolge diverse funzioni, tra cui quella di regolare il mercato del credito e di garantire la stabilità economica del Paese.
Struttura: la Federal Reserve statunitense è composta da 12 banche regionali e da una banca principale, la Federal Reserve Bank of the United States (FRB).
Formato delle riunioni: il Federal Open Market Committee (FOMC) è il principale organo di governo della politica monetaria, che si riunisce sei volte l’anno.
Ruoli: i membri importanti del Consiglio della Federal Reserve degli Stati Uniti, come il presidente della Federal Reserve Bank e i membri del Consiglio dei governatori, sono nominati dal Presidente degli Stati Uniti e confermati dal Senato.
Informazioni mensili: la Federal Reserve Bank statunitense pubblica informazioni sull’attuale politica monetaria e sulla situazione economica in rapporti mensili.
Situazione attuale delle banche statunitensi
Il 9 marzo si è verificato negli Stati Uniti il primo fallimento di una grande banca dal 2008. La Silicon Valley Bank (SVB), la 16esima banca del Paese, ha presentato istanza di fallimento dopo che i depositanti si sono affrettati a ritirare il loro denaro in seguito all’annuncio di perdite di circa 1,8 miliardi di dollari derivanti dalla vendita di investimenti. La situazione generale dei mercati finanziari e la stagnazione dei titoli e delle criptovalute hanno messo a rischio la SVB. La Silicon Valley Bank era un prestatore chiave per le imprese della Silicon Valley con 212 miliardi di dollari di attività, di cui 120 miliardi di dollari in titoli. La banca è stata a lungo considerata il centro dell’industria delle start-up negli Stati Uniti per la sua particolare attenzione alle imprese di venture capital. SVB deve ora più di 170 miliardi di dollari ai suoi clienti, il 93% dei quali non era assicurato.
Le ragioni del fallimento della SVB sono da ricercare negli errori della dirigenza delle società e nel forte aumento dei tassi di interesse della Federal Reserve per combattere l’inflazione. Nell’ultima riunione del Federal Open Market Committee (FOMC), il tasso di riferimento è stato portato a un intervallo di valori compreso tra il 4,5% e il 4,75%, il più alto dall’ottobre 2007. Si è trattato dell’ottavo aumento del tasso di riferimento statunitense dal marzo 2022 e da allora il tasso è aumentato cumulativamente di 450 punti base. L’errore del management è stato quello di investire decine di miliardi di dollari in obbligazioni, che hanno iniziato a rendere meno a causa del rialzo dei tassi della Fed.
La situazione di SVB ha segnalato un rischio significativo di collasso del sistema bancario nazionale. La prossima in ordine di tempo è stata la Signature Bank, che ha chiuso dopo la Silicon Valley Bank. Il Dipartimento del Tesoro degli Stati Uniti, la Federal Reserve e la Federal Deposit Insurance Corporation hanno rilasciato una dichiarazione congiunta in cui affermano che queste misure sono state adottate per evitare “rischi sistemici”. La situazione attuale è molto simile alla crisi del 2008, che ebbe un inizio simile. Per evitare il panico nella società americana, il Segretario al Tesoro Janet Yellen ha cercato di rassicurare gli americani che il crollo della SVB non avrebbe creato un effetto domino per altre banche, ma gli eventi si sono svolti in modo contrario alla sua dichiarazione.
Con l’emergere dei problemi con le banche, una soluzione potrebbe essere il “bailout”, ovvero una politica finanziaria che prevede l’acquisto da parte dello Stato dei cosiddetti “asset tossici” (prestiti inesigibili) da parte delle istituzioni finanziarie per evitare che vadano in bancarotta di massa e il collasso del sistema finanziario. Questa misura è stata fortemente osteggiata dai repubblicani, sotto le cui pressioni il Tesoro statunitense si è rifiutato di organizzare un “salvataggio”. Secondo il politico repubblicano Kevin McCarthy, il modo migliore per evitare il collasso delle banche della Silicon Valley, annunciato in precedenza dalla Federal Deposit Insurance Corporation (FDIC), potrebbe essere l’acquisizione di SVB da parte di una banca o di un investitore più grande. Tuttavia, il governo intende salvare i depositanti della banca chiusa, ma non la banca stessa, che non riesce a trovare un acquirente.
Allo stesso tempo, i democratici incolpano l’ex presidente degli Stati Uniti Donald Trump per il crollo della banca SVB. In un discorso tenuto lunedì mattina, Biden ha detto ai cittadini americani che i loro depositi sono al sicuro, ha invitato il Congresso a rafforzare le norme bancarie e ha accusato Trump di aver eliminato le restrizioni finanziarie regolamentari. Nel 2018, il Presidente Donald Trump ha firmato una legge che ha allentato la regolamentazione bancaria imposta dal suo predecessore come parte della riforma Dodd-Frank dopo la crisi finanziaria globale.
I problemi nel settore finanziario mettono a rischio molte banche regionali statunitensi e i mutuatari che si avvalgono dei loro servizi. Il Federal Home Loan Bank System (FHLB), una delle principali fonti di liquidità per i prestatori regionali, ha raccolto 88,7 miliardi di dollari vendendo titoli a breve termine per salvare le piccole banche. L’FHLB è una delle strutture create durante l’era della depressione che le banche private possono utilizzare per finanziamenti a breve termine senza dover prendere in prestito denaro dalla Federal Reserve. Inoltre, anche la stessa industria tecnologica è a rischio, poiché le banche della Silicon Valley hanno fornito fondi per molti progetti di start-up.
Le conseguenze globali del fallimento
Lo stato del sistema finanziario statunitense influisce anche sul funzionamento dell’economia mondiale. Il blocco delle banche può avere precise conseguenze globali. Il crollo dei titoli bancari europei è stato uno dei risultati legittimi del fallimento di SVB. Il commissario europeo per gli Affari economici Paolo Gentiloni ha dichiarato che la Commissione europea (CE) ammette l’esistenza di rischi secondari di peggioramento della situazione finanziaria nell’UE. L’unità britannica della fallita SVB è stata acquistata dalla banca HSBC per 1 sterlina e alcune aziende tecnologiche britanniche hanno dichiarato che “la perdita di depositi potrebbe danneggiare il settore tecnologico”. Sullo sfondo del fallimento di SVB, l’Autorità federale tedesca di vigilanza finanziaria ha imposto una moratoria sul trasferimento delle attività e delle operazioni della filiale tedesca della banca statunitense. Sempre a seguito del fallimento, le azioni della più grande banca svizzera hanno subito un calo di valore dell’11%, che ha rappresentato un forte shock per il settore bancario svizzero. La situazione di SVB ha iniziato a ripercuotersi anche sul mercato delle criptovalute, con la seconda maggiore capitalizzazione della steiblocoin USDC che ha perso l’aggancio al dollaro USA.
Possiamo quindi notare come la struttura del capitalismo globale o “turbocapitalismo”, caratterizzata dal dominio del settore finanziario, sia in gran parte predeterminata da azioni all’interno degli Stati Uniti. Il coinvolgimento del settore informatico di molte nazioni nelle strutture finanziarie statunitensi crea il rischio associato ai problemi di funzionamento della singola industria. Le conseguenze all’interno degli Stati Uniti potrebbero anche essere piuttosto imprevedibili e portare a una crisi finanziaria globale di dimensioni paragonabili alla crisi del 2008, iniziata con problemi locali negli Stati Uniti. Lo stato futuro delle cose dipenderà dalle misure adottate dall’attuale amministrazione, e decisioni poco lungimiranti potrebbero esacerbare una crisi politica interna, le cui origini possono essere fatte risalire alle ultime elezioni presidenziali statunitensi.
20 marzo 2023
Redazione di Katehon
(Tratto da: https://www.ideeazione.com/problemi-del-sistema-finanziario-statunitense/).
Inserito il 23/3/2023.
di Alessandro Volpi
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Re dollaro e il piano di pace cinese
Gli Stati Uniti devono attraversare una fase storica cruciale; battere la concorrenza cinese e quella europea. Per poterlo fare hanno bisogno di generare tanta spesa pubblica e attrarre tanti investimenti; una condizione possibile solo con il monopolio monetario globale. In altre parole, poter stampare dollari senza limiti, perché il dollaro è la sola valuta globale. Ciò diventa praticabile se nell’immaginario mondiale rappresentano la sola iperpotenza che impone le proprie strategie ovunque, con la guida delle organizzazioni internazionali e con le guerre ‘necessarie’.
Negli anni ottanta del secolo scorso il ‘Washington consensus’ serviva a costruire la centralità del mercato, oggi serve a sostenere il connubio fra finanziarizzazione e intervento pubblico in nome dell’‘American first’. Cinesi ed europei devono accettarlo o sono tacciati di essere contrari alla libertà e alla democrazia, naturalmente degli americani stessi.
Provo ad essere ancora più chiaro con due considerazioni specifiche. La prima ha un’evidenza numerica. Il debito pubblico americano è pari a 31mila miliardi di dollari, di cui circa 7mila sono in mani straniere. I cinesi ne hanno 800 miliardi, la metà di quanti ne avevano nel 2015. Questo debito lieviterà di 20mila miliardi nei prossimi dieci anni. Dunque, per essere finanziato, avrà bisogno di attirare capitali esteri in misura ancora maggiore. Gli alti tassi della Federal Reserve servono a quello ancor più che a contenere l’inflazione.
Per coprire il costo della gigantesca produzione di debito e, in particolare, della sua monetizzazione, senza aumentare le imposte, occorre così una grande produzione di dollari possibile solo se gli scambi in dollari crescono a livello mondiale. Sottrarre all’euro fette crescenti di geografie monetarie permette dunque di dollarizzare ancora di più il pianeta, e rende possibili i tassi alti che finanziano il debito Usa.
La guerra serve anche a questo: a riaffermare che solo il dollaro è la valuta globale, e quindi la merce più preziosa che gli Stati Uniti possono produrre senza limiti e vendere al resto del mondo.
La seconda considerazione riguarda il ‘piano di pace’ cinese. Tale testo ha certamente molte contraddizioni strumentali, tuttavia è un segnale importante e diretto alla Russia perché accetti di interrompere le ostilità. È evidente che la Cina teme un indebolimento delle sue relazioni con i mercati internazionali, avendo chiaro che non ne può fare a meno. Al tempo stesso con il suo piano la Cina vuol far capire a Putin che è difficilmente immaginabile un blocco cino-russo autosufficiente. Quindi, mi sembra di poter dire, semplificando molto, che quella cinese è un’apertura per rendere possibile un confronto.
La reazione statunitense è stata però molto dura, decisamente preoccupata, perché sembra sempre più evidente che l’amministrazione Biden vuole, come accennato, un mondo unipolare dove gli Stati Uniti attraggono capitali e risorse e forniscono al mondo moneta e finanza: si tratta della strada per tornare ad avere un secolo americano.
Di fronte alla Cina, il democratico Biden riprende le tesi neocon di Bush junior. In quest’ottica, l’Europa va disgregata, divisa, decentrata, come dimostra la visita del presidente degli Stati Uniti a Varsavia e non a Bruxelles. Ma, in un simile contesto, la posizione più incomprensibile è quella europea espressa da Josep Borrell, il “titolare” della politica estera dell’Unione, subito prona a quella Usa e ancora più duramente anticinese: una scelta che significa accettare la periferizzazione e la rinuncia ad ogni interlocuzione con la Cina, che dovrebbe diventare invece “la patria dell’euro” per consentire al vecchio continente di finanziare la propria indispensabile spesa pubblica e di non essere travolto dai colossali aiuti di Stato Usa, finanziati, appunto, con il dollaro.
L’Europa e la Bce sembrano invece invocare una nuova austerity, destinata a frenare l’inflazione e aumentare le disuguaglianze. L’istituto di Francoforte, infatti, alza i tassi e smette di comprare debito producendo un effetto immediato; i mutui costano di più, ed è probabile dunque che gli europei ne faranno di meno raffreddando l’inflazione e innescando spirali recessive, almeno per la parte più fragile della popolazione che non potrà reggere il costo dei nuovi mutui. Nel frattempo il rialzo dei tassi scatena gli utili delle banche – quelle italiane hanno fatto 12 miliardi di utili in pochi mesi - distribuiti in larga parte ai grandi fondi hedge, che sono nel loro azionariato, e gela la spesa pubblica, non più coperta dalla stessa Bce. In sintesi meno spesa pubblica e più profitti per pochi. Ma il problema sono i cinesi.
Alessandro Volpi
(Tratto da «Sinistra Sindacale», n. 05-2023:
Inserito il 13/3/2023.
Intervista a cura di Riccardo Amati
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L’allarme del politologo russo Ilya Matveev: “È una nuova guerra fredda senza ideali, la situazione è esplosiva”
Quella in corso è “la Nuova guerra fredda senza ideali” tra l’imperialismo di Mosca e quello di Washington. La Russia di oggi non è un’alternativa all’Occidente perché “è una caricatura del capitalismo americano”. Serve “una visione della Russia del futuro”: l’analisi del politologo russo Ilya Matveev
“Non ci sono segnali di uno sgretolamento del potere, le élite che il presidente ha selezionato lo sostengono compatte e il Cremlino non ha altra scelta se non la continuazione del conflitto”: Ilya Matveev, scienziato politico di San Pietroburgo, non è ottimista. “L’economia russa sta adeguandosi alle esigenze belliche”, nota. “Mentre la situazione finanziaria del Paese appare sostenibile e la vastità della sua popolazione in teoria permette di andare avanti all’infinito o quasi”.
E mentre in Ucraina si muore, “il mondo è alle prese con la Nuova guerra fredda”. Che, contrariamente alla prima versione, “non ha ideali, è combattuta solo per il denaro e il potere: è una guerra fredda ad alto livello di degrado”. A confrontarsi sono “due imperialismi in fondo simili”. Perché la plutocrazia di Putin “non è che una caricatura del capitalismo americano”.
Non è “un’alternativa credibile”. Unica differenza, “il tradizionalismo retrogrado che propone”.
Il politologo è profondamente contrario alle limitazioni della libera circolazione nell’Unione Europea dei comuni cittadini russi e alla fortificazione dei confini intrapresa da Paesi come la Finlandia: “L’Europa deve articolare una visione della Russia del futuro, con cui rapportarsi positivamente”.
Matveev, fondatore di testate come Openleft.ru e specialista dell’economia del suo Paese, oltre che della politica, è anche uno studioso del socialismo democratico. Fanpage.it lo ha raggiunto com una videochiamata nella località dove è emigrato dopo l’invasione dell’Ucraina da parte delle forze armate russe.
La guerra sarà lunga?
Lunga e terribilmente distruttiva. Catastrofica per l’Ucraina e, in modo diverso, anche per la Russia. Le statistiche indicano che la nostra produzione militare sta gradualmente aumentando: le forze armate avranno presto rifornimenti adeguati. Il commercio di idrocarburi continua ad assicurare una relativa stabilità finanziaria. E poi ci sono i russi. Il Paese è immenso. Solo una piccola parte della popolazione abile è stata mobilitata. Una nuova chiamata alle armi non porterebbe a niente di determinante, perché ritengo che Mosca non abbia comunque le capacità per ottenere una vittoria decisiva e definitiva. Ma ha certo la capacità di prolungare il conflitto.
Il prolungamento della guerra è un obbiettivo preciso del Cremlino?
È l’unico modo in cui il regime vede il futuro. Non ha altre scelte. Il compito è “non perdere la guerra”. Al Cremlino si è capito che non c’è la capacità per vincerla, anche se Putin in fondo ci spera ancora. Si vuole sole evitare la sconfitta. Questo dilata i tempi.
E se ci fosse una sonora sconfitta russa sul terreno?
Il potenziale offensivo dell’Ucraina non è esaurito. Una campagna come quella dello scorso autunno su Kherson è possibile. E una nuova vittoria sul campo potrebbe spingere la Russia ad avviare vere trattative. È possibile. Non estremamente probabile. Ma possibile.
Quali sono le implicazioni della guerra in Ucraina per il potere in Russia?
Non vedo alcun segnale di “sgretolamento”, per il potere di Putin. Si è circondato di persone obbedienti e codarde. Nei suoi 22 anni al comando, ha avuto tutto il tempo di escludere chi fosse abbastanza audace da criticarlo in modo diretto. Chi oggi fa parte del sistema non si oppone mai apertamente a Putin. Dice di sì a qualsiasi cosa. Non c’è alcuna frattura nella classa dirigente. Chi non era pronto a conformarsi è stato scartato. È in prigione, in esilio o comunque emarginato. Penso anche a gente fedele a Putin, ma non al punto da assentire su tutto.
Come Alexey Kudrin, l’ex ministro delle finanze “degradato” a manager di un’azienda privata?
Kudrin, è l’esempio più chiaro: è una delle poche persone che Putin abbia mai definito “un vero amico”. Per undici anni ministro delle Finanze, fu bruscamente accantonato. Messo poi a capo della Corte dei Conti, adesso è stato ulteriormente declassato a top manager di Yandex, il Facebook russo. Motivo: Kudrin pur non criticando direttamente la guerra in Ucraina ha osato avvertire delle conseguenze economiche negative, in un riunione con Putin, un anno fa.
Ma il fatto che personaggi vicini al regime siano colpiti da sanzioni personali da parte dell’Occidente non li fa dubitare nemmeno un po’ della opportunità di restar fedeli al capo?
Hanno tutti i loro “santuari”. Rifugi sicuri, come Dubai. E poi hanno permessi di residenza o seconde cittadinanze nei Paesi europei. Comunque, sono relativamente pochi gli associati al regime di Putin sotto sanzione. Molti possono ancora viaggiare tranquillamente in Europa. E le riviste patinate sui resort esclusivi, gli yacht e i marchi di lusso dell’Occidente continuano a essere pubblicate in russo: le vendite non sono diminuite.
Che ne pensa invece delle sanzioni contro i normali cittadini russi? Che non possono più entrare liberamente in Finlandia o nei paesi baltici, per esempio.
Questa guerra riflette le divisioni di classe. A chi è veramente ricco non viene rifiutato niente. Se sei russo e hai una villa in Finlandia, nessuno ti fa problemi alla frontiera. Ma se sei un poveraccio che deve viaggiare attraverso la Finlandia per raggiungere i tuoi familiari nell’Unione Europea, ti negano l’entrata.
La Finlandia sta costruendo una barriera di filo spinato sul confine russo. Non potrebbe provocare guai futuri, a guerra finita, in un ipotetico dopo-Putin? I fili spinati tendono a creare risentimenti duraturi.
L’Europa deve articolare la visione di una futura Russia democratica e pacifica, e di relazioni positive. Quella di non volerne più saper niente e di fortificare le frontiere è una pessima idea, anche se è comprensibile vista l’attuale aggressività di Mosca. Si rischia di creare una sorta di Corea del Nord. Ma con le dimensioni territoriali e militari di una superpotenza. Del tutto imprevedibile e in grado di provocare danni di ogni tipo.
Lei parla di una futura Russia democratica, però nel suo Paese nessuno protesta più. I sondaggi indicano che il sostegno a Putin e alla sua guerra è alto.
I sondaggi di opinione in Russia non hanno validità alcuna. Perché ogni critica alla guerra è considerata un reato ed è perseguibile penalmente. Anche per un post privato, rivolto solo ad amici, si può finire in galera. Cosa mai dovrebbe rispondere uno che viene raggiunto dalla telefonata di un centro statistico alla domanda “cosa pensi della guerra”? Nessuno dirà mai di essere contrario. Le statistiche erano sospette anche prima, perché i regimi autoritari sono di per sé un ostacolo all’attendibilità dei sondaggi. Ora sono del tutto inaffidabili.
La Russia è diventata uno Stato totalitario?
No. Il regime non ha ancora un controllo monolitico sulla società, né una ideologia strutturata. E non mobilita la popolazione attraverso organizzazioni ad hoc. Non ha al momento tutte le caratteristiche del totalitarismo.
Quindi resta “solo” un regime autoritario. Ha qualche somiglianza col fascismo, come ritiene lo storico americano Timothy Snyder?
È sicuramente un autoritarismo, dato che il potere è un mano a un gruppo di persone non responsabile di fronte alle istituzioni. Ed è un regime che si sta rapidamente “fascistizzando”: sta cercando di implicare sempre più persone nei crimini di Stato. Si impongono le lezioni di patriottismo e la versione putiniana della Storia nelle scuole, si spiegano ai bambini le falsità ufficiali riguardo alla “operazione militare speciale” in Ucraina, si incoraggia la delazione dei cosiddetti “patrioti” nei confronti di pacifisti e oppositori del regime.
Eppure in molti in Occidente considerano la Russia di Putin un Paese “di sinistra”. Un po’ per il retaggio sovietico, un po’ perché comunque si oppone agli Usa, con tutto quel che gli Usa rappresentano. Lei, come studioso del socialismo, che ne pensa?
La Russia di oggi è l’opposto di un Paese socialista. Ha il poco invidiabile record mondiale delle diseguaglianze e delle differenze di reddito. Lo Stato sociale viene costantemente indebolito. Il sistema è classista perché privilegia le élite vicine al potere e una cricca di miliardari e funzionari corrotti. A scapito del resto della popolazione.
Però Putin ha riportato allo Stato o a conglomerati riconducibili allo Stato le attività economiche strategiche. Non sarà socialismo ma nemmeno capitalismo. Che sistema economico c’è, in Russia?
La Russia di Putin è la caricatura di un paese capitalista. Il presidente e i suoi sodali hanno ereditato l’immagine del capitalismo creata dalla propaganda sovietica: una società di ricconi col cilindro in testa, macchine di lusso e residenze principesche mentre il resto della popolazione vive in povertà. E hanno deciso di costruire proprio questo tipo caricaturale di capitalismo. In cui quelli col coppello a cilindro, le Ferrari e i castelli sono loro. Davvero è una società enormemente iniqua.
Resta il fatto che in politica internazionale Putin propone un multipolarismo più o meno “terzomondista” che molti — anche in Italia — vedono come una valida alternativa all’ “eccezionalismo” americano.
La Russia non è un’alternativa. Il vero obiettivo di Putin in politica estera è la rivendicazione della sfera d’influenza russa nello spazio post-sovietico. In pratica, vuole un Paese che sia esattamente come gli Stati Uniti: un potere imperialista.
Ma lo scopo dell’invasione dell’Ucraina è solo difensivo, dice Putin. Si tratta di difendersi dall’espansione della Nato.
I motivi sono più profondi. Al Cremlino si ritiene che l’Ucraina sia parte dell’identità della Russia come grande e potente Stato imperiale. Si prende alla lettera quel che disse una volta Zbigniew Brzezinski (consigliere per la sicurezza nazionale del presidente Usa Jimmy Carter, ndr): “Mosca senza Kyiv non è una superpotenza”. Quindi, lo scopo della guerra è soggiogare l’Ucraina e farne, se non parte della Russia, uno Stato subordinato come la Bielorussia. Si tratta di un’aggressione imperialista dalle molte sfaccettature, in corso da decenni. Con una sua dimensione coloniale. Putin ha perseguito la destabilizzazione politica del Paese vicino sostenendo la presidenza Yanukovych, ha acquisito attività imprenditoriali per colonizzarlo economicamente, ha intrapreso misure attive con i suoi servizi di sicurezza. Visto che niente ha funzionato. Ha infine scelto la “soluzione finale”. Per ridurre Kyiv a una sorta di “dipendenza coloniale”. Come Minsk.
Insomma, la Russia di Putin secondo lei è un potere imperialista e quindi non rappresenta un’alternativa all’America. Ma l’Urss era anch’essa di fatto imperialista. E, a torto o a ragione, rappresentava un’alternativa per tanti.
L’Unione Sovietica, almeno con la retorica, un’alternativa la proponeva. Sosteneva in modo articolato di rappresentare un’opzione diversa rispetto all’ordine mondiale dettato dal capitalismo. I leader dell’Urss parlavano di una società egualitaria e di relazioni internazionali pacifiche. Putin, no. L’unica alternativa che propone è un retrogrado tradizionalismo: avversione al femminismo, alle persone Lgbt, al progresso sociale. Se vi piace un Paese così, allora la Russia fa per voi. Ma in politica internazionale, che attrazione dovrebbe mai avere Mosca? Il propugnato multipolarismo si riduce a uno scontro continuo e molto pericoloso tra due blocchi imperialisti. Nient’altro.
È in corso una nuova guerra fredda?
È in atto una lotta senza quartiere fra quello che in Russia chiamiamo “Occidente collettivo”, e Mosca. È la Nuova guerra fredda. Peggiore della prima. Perché allora c’erano periodi di distensione, mentre oggi le relazioni sono costantemente assenti o a livelli infimi. Inoltre, la Cina si avvicina sempre più alla Russia. E gli Stati Uniti sono sempre più in rotta di collisione con Pechino. La situazione è esplosiva.
Un’altra differenza, oltre a quanto ha appena detto?
Allora c’erano narrative ideologiche antagoniste. Ma nella Nuova guerra fredda la Nato e la Russia sono solo due imperialismi a confronto. È una guerra fredda senza ideali. Si fa tutto solo per il denaro e il potere. Si potrebbe dire che è una guerra fredda ad alto livello di degrado.
Riccardo Amati
(Intervista dell’11/03/2023 tratta da:
Inserito il 12/3/2023.