«Il marxismo è ancora giovanissimo, quasi nell'infanzia: ha appena cominciato a svilupparsi. Esso rimane dunque la filosofia del nostro tempo: è insuperabile perché le circostanze che l'hanno generato non sono ancora superate. I nostri pensieri, quali che siano, non possono formarsi che su questo humus. Devono contenersi nella struttura che esso fornisce loro o perdersi nel vuoto o retrocedere».
Jean-Paul Sartre (Critica della ragione dialettica, 1960)
Michał Kalecki (1899-1970).
Fonte della foto: https://www.xn--lamaana-7za.uy/opinion/michal-kalecki-el-desempleo-y-la-doctrina-de-las-finanzas-sanas/
di Sergio Zangirolami
Formato al pensiero di Marx, anche attraverso Turgan-Baranovskij e Rosa Luxemburg, ne deriverà la continua attenzione per la divisione della società in classi e per il problema della domanda (il problema della realizzazione del plusvalore).
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Michał Kalecki, economista polacco tra Marx e Keynes
di Sergio Zangirolami
Economista polacco, con una ricca esperienza di studio e insegnamento in Svezia (con Myrdal)1, alla London School of Economics (con Robbins e Hayek)2 e nelle università di Cambridge (con Joan Robinson e Sraffa)3 e Oxford. Dopo la guerra, per una decina d’anni ebbe un importante incarico nell’organizzazione dell’ONU. Tornato in Polonia, continuò la sua attività di studioso e docente, impegnandosi negli organi della pianificazione economica con posizioni spesso in contrasto con quelle ufficiali (vedi Teoria dello sviluppo di una economia socialista, Editori Riuniti 1967, dove dimostra che l’aumento del saggio di sviluppo porta ad una diminuzione della quota del consumo nel reddito nazionale, influendo sfavorevolmente sull’andamento dei consumi nel breve periodo).
Assai scettico sulle proposte di trasformare l’economia centralmente pianificata in un’economia socialista di mercato, tuttavia avanzò a sua volta delle concrete proposte di riforma della pianificazione socialista. Intanto, per cercare di contrastare la inevitabile burocratizzazione della pianificazione, propone di introdurre i consigli operai; inoltre, ritiene necessario sostituire alla produzione lorda – come parametro della pianificazione – il concetto di valore aggiunto, come differenza fra il valore della produzione e i costi sostenuti per ottenerla.
Formato al pensiero di Marx, anche attraverso Tugan-Baranovskij4 e Rosa Luxemburg5, ne deriverà la continua attenzione per la divisione della società in classi e per il problema della domanda (il problema della realizzazione del plusvalore)6. Un problema, quest’ultimo, ben presente a tutti gli studiosi di economia dopo la Grande Crisi del 1929-33 e alla base della teoria keynesiana.
Nei suoi lavori all’inizio degli anni ’30 (fra cui Studi sulla teoria dei cicli economici, Il Saggiatore 1972) Kalecki anticipa risultati che compariranno nella Teoria generale di Keynes7 (Kalecki però scriveva in polacco e in tedesco, lingue assai meno conosciute dell’inglese nel mondo accademico).
Affermerà, intanto, che i capitalisti con le loro decisioni di investimento non limitate dall’esistenza di un risparmio che lo finanzi (dato che l’investimento provoca un aumento più che proporzionale del reddito e questo aumento determina il formarsi di un risparmio aggiuntivo esattamente uguale al valore dell’investimento che aveva messo in moto il processo) determinano il livello del reddito e della occupazione. Mentre non corrisponde alla realtà che, diminuendo i salari, vengano occupati più lavoratori fino ad arrivare alla piena occupazione. I capitalisti, infatti, constatato che la diminuzione dei salari ha effetto sull’intera economia, diminuendo i consumi e quindi le prospettive di profitto, diminuiranno investimenti e produzione e dunque la stessa occupazione. Come apparirà chiaro anche in Keynes, considerare i salari solo come costi di produzione e non anche come componente fondamentale della domanda rappresenta un errore grave di “miopia” per i capitalisti e per i responsabili della politica economica.
Kalecki ha un ruolo importante nel passaggio da una teoria economica (quella dei neoclassici)8 fondata sull’analisi del comportamento dei singoli operatori (consumatori, produttori) a una teoria macroeconomica, fondata sulle grandezze del reddito, consumi, investimenti. Da ciò un contributo alla elaborazione della Contabilità nazionale. Importante sarà la sua constatazione che il ciclo economico (l’alternarsi di fasi di espansione e di fasi di contrazione, con crisi e depressione) è un elemento strutturale del sistema capitalistico e deriva proprio dal fatto che gli investimenti si espandono e si contraggono per l’incapacità di prevedere correttamente e di adeguare la produzione al consumo.
La sua impostazione marxista si farà sentire anche nel contestare la possibilità che si raggiunga la piena occupazione in un sistema capitalistico. Egli infatti ritiene che le indicazioni keynesiane (aumento della spesa pubblica per aumentare il reddito e quindi l’occupazione) potrebbero contrastare la disoccupazione e condurre verso la piena occupazione, se non intervenissero però ragioni “politiche” a impedire il raggiungimento di questo risultato (vedi Aspetti politici del pieno impiego del 1943, in Sul capitalismo contemporaneo, Editori Riuniti 1975).
Le ragioni consistono nel fatto che i “capitani d’industria” preferiscono piuttosto di una politica diretta dell’occupazione costringere lo Stato a mantenere sempre quella “atmosfera di fiducia” (da parte degli imprenditori), senza la quale si ridurrebbero gli investimenti e l’occupazione. Inoltre, e questo è l’elemento più importante, la piena occupazione rafforza le organizzazioni dei lavoratori e riduce gli strumenti in mano agli imprenditori per ottenere la “disciplina nelle fabbriche” e la “stabilità politica”.
Il richiamo a Marx è assai evidente, quando nel I libro del Capitale aveva proposto il concetto di “esercito industriale di riserva”, cioè della massa di disoccupati creata dalla organizzazione produttiva capitalistica e che aveva come immediata conseguenza il mantenimento del salario il più basso possibile, appena sufficiente alla “sussistenza”.
È interessante notare che un campione del più radicale liberismo, Milton Friedman9, ha elaborato la teoria del tasso naturale di disoccupazione, riconoscendo che un certo grado di disoccupazione è connaturato e fisiologico al sistema. Con motivazioni ovviamente del tutto diverse, cioè scaricando sui lavoratori e sulle loro organizzazioni la responsabilità di questo fenomeno, Friedman constata che è molto più naturale per il capitalismo il permanere della disoccupazione, piuttosto che il tendere alla piena occupazione, com’era negli obiettivi della politica keynesiana.
Sergio Zangirolami
(Tratto da: Sergio Zangirolami, Michal Kalecki (1899-1970), in «Il Calendario del Popolo», anno 56, n. 646, ottobre 2000).
Note
1 Gunnar Myrdal (1898-1987), economista svedese, premio Nobel per l’economia nel 1974. Studioso dei problemi economici e sociali dei paesi sottosviluppati.
2 Lionel Robbins (1898-1984), economista inglese. Ha definito l’Economia come “la scienza che studia la condotta umana come una relazione tra scopi e mezzi scarsi applicabili ad usi alternativi”.
Friedrich von Hayek (1899-1992), economista austriaco. Difensore intransigente del liberalismo.
3 Joan Robinson (1903-1983), economista inglese. Sostenitrice delle idee keynesiane, alla cui elaborazione aveva contribuito, ha denunciato il nuovo mercantilismo, con le guerre commerciali e i rapporti ingiusti fra paesi sviluppati e sottosviluppati.
Piero Sraffa (1898-1983), economista italiano, collaborò dal 1927 all’Università di Cambridge in Gran Bretagna. Amico di Antonio Gramsci, gli fu vicino fino alla morte in carcere e ne mise in salvo i Quaderni.
4 Tugan-Baranovskij (1865-1919), economista russo. Sostenne che le crisi derivano da sproporzioni negli investimenti fra settore dei beni capitali e dei beni di consumo.
5 Rosa Luxemburg (1870-1919), economista e dirigente politica polacca. Sostenne che il capitalismo ha bisogno continuamente di espandersi, per contrastare l’abbassamento della domanda interna.
6 Problema della realizzazione del plusvalore: si pone ai capitalisti che, avendo estratto il plusvalore dai lavoratori, lo devono trasformare in profitto, vendendo i loro prodotti in concorrenza con gli altri capitalisti.
7 John M. Keynes (1883-1946), economista inglese. In seguito alla Grande Crisi degli anni ’30 sostenne la necessità dell’intervento dello Stato attraverso la spesa pubblica.
8 Neoclassici: economisti che, fra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento, fino alla Grande Crisi, costruirono delle teorie economiche fondate sul comportamento razionale del singolo soggetto (massimizzazione dell’utilità e del profitto), in una tipica impostazione microeconomica.
9 Milton Friedman (1912), economista statunitense, caposcuola all’Università di Chicago. Ha ottenuto il premio Nobel nel 1976.
Inserito il 02/03/2025.
Matteo Cavalleri e Francesco Cerrato (a cura di)
La battaglia delle idee
Il Partito comunista italiano e la filosofia nel secondo dopoguerra
(Luca Sossella Editore, 2024)
Il rapporto tra il Partito comunista italiano e la filosofia fu tutt'altro che formale o superficiale. La cultura politica del Partito, dei suoi quadri dirigenti e delle sue e suoi militanti, si nutrì spesso di letture e riflessioni filosofiche. Molte filosofe e filosofi italiani furono "intellettuali organici", altre e altri con il Partito dialogarono, talvolta polemizzarono. Il Pci non si limitò a osservare, ma intervenne attivamente nel dibattito filosofico: pubblicando saggi e recensioni sui propri organi di stampa, organizzando convegni e promuovendo dibattiti.
Quali erano le ragioni di questa vicinanza? Chi furono le protagoniste e i protagonisti di questo confronto? Il libro esplora la logica, le questioni teoriche e la storia di un rapporto intenso e necessario, complesso e non privo di attriti, sempre incentrato sul tema della pensabilità e praticabilità della trasformazione storica. (Dalla quarta di copertina del volume).
Lelio La Porta e Guido Liguori (a cura di)
I Marx del Pci
Protagonisti, stagioni, scuole
(Bordeaux, 2025)
Attraverso una molteplicità di voci e contributi, questo libro ricostruisce le diverse letture di Marx che nutrirono la cultura dei comunisti italiani, un patrimonio ideale da riscoprire e studiare ancora. I capitoli che compongono il volume sono dedicati ad Antonio Gramsci, Palmiro Togliatti, Galvano della Volpe (e i dellavolpiani), Lucio Colletti, Cesare Luporini, Valentino Gerratana, Mario Alighiero Manacorda, Antonio Banfi, Nicola Badaloni, Ludovico Geymonat, Biagio De Giovanni, Franco Cassano e Giuseppe Vacca. A cura di Lelio La Porta e Guido Liguori. (Dalla quarta di copertina del volume).
Dalla rivista «Critica marxista»
di Stefano Petrucciani
La discussione che nel 1962 si sviluppa sulle colonne di «Rinascita» nasce anche dalla diffusa percezione della inadeguatezza di un pensiero marxista troppo legato alla tradizione nazionale. Protagonisti: Cesare Luporini, Galvano Della Volpe, Lucio Colletti e altri.
I motivi di fondo delle due «inconciliabili» letture di Marx a confronto. La dialettica, la realtà oggettiva delle contraddizioni e il rapporto Hegel-Marx. Il «metodo» di Marx e il circolo concreto-astratto-concreto.
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Un dialogo tra sordi?
La discussione del 1962 tra filosofi marxisti italiani
di Stefano Petrucciani*
Nella vicenda delle interpretazioni di Marx che vennero proposte nei dibattiti interni al Partito comunista italiano, un capitolo non privo di interesse è la discussione tra filosofi marxisti che si svolse nel 1962 sulle colonne di «Rinascita». Del tema si sono occupati in passato diversi studiosi, e un contributo di particolare significato lo ha fornito Guido Liguori, in un saggio apparso in un volume dedicato a Cesare Luporini1 che ho tenuto presente nello scrivere queste note. Lasciando da parte le premesse, cominciamo innanzitutto col gettare uno sguardo sul contesto della discussione che ci interessa.
Genesi di una disputa
La “discussione del ’62” (i cui protagonisti teorici sono, diciamolo subito, Cesare Luporini e Galvano Della Volpe) riveste un particolare significato proprio perché si situa in uno snodo teorico e storico decisivo, dominato da una serie di questioni che sulla discussione variamente si riflettono. Innanzitutto, la discussione segue alla chiusura della rivista «Società», fondamentale iniziativa culturale del Partito comunista postbellico che aveva risentito fortemente l’impatto della crisi del 1956 e che nel periodo tra quest’anno cruciale e la chiusura con l’annata 1961 aveva visto crescere al suo interno il ruolo della componente dellavolpiana, rappresentata, oltre che dallo stesso Della Volpe, soprattutto da Giulio Pietranera e Lucio Colletti.
Il contesto della discussione era segnato, inoltre, da due significativi processi di trasformazione in atto, tra loro fortemente connessi. Da un lato lo sviluppo della modernizzazione capitalistica del Paese, il boom economico, l’uscita (almeno in una certa misura) dall’arretratezza, la crescita della grande industria con l’emigrazione di lavoratori dal Sud al Nord e l’emergere di nuove lotte operaie. All’interno del Partito comunista vi era pertanto una vivace discussione su arretratezza o modernità del capitalismo italiano2, non priva di riflessi anche sul dibattito filosofico.
In secondo luogo, e collegata con tutto ciò, vi era una diffusa percezione della inadeguatezza di un pensiero marxista troppo legato alla tradizione nazionale (De Sanctis, Labriola, Croce, Gramsci), troppo impregnato dal rapporto con lo storicismo idealistico, poco sensibile alle tendenze più innovative della filosofia, del marxismo e della teoria critica europea e altresì delle contemporanee scienze sociali. Per dirla in breve, era una fase in cui erano appena nati, o stavano già incubando, approcci totalmente innovativi al marxismo come quello operaista (nel 1961 parte la rivista «Quaderni rossi»), quello althusseriano (che deflagra nel 1965 con Pour Marx e Lire le Capital) e quello francofortese che aveva cominciato a penetrare in Italia già dalla metà degli anni Cinquanta.
Questa esigenza di rinnovamento (visibile anche nella nomina, da parte di Palmiro Togliatti, di Rossana Rossanda a responsabile culturale del Pci) trovava, nell’Italia tra la fine dei Cinquanta e l’inizio dei Sessanta, una espressione di forte impatto nel pensiero di Galvano Della Volpe, che infatti, tra le altre cose, fu anche un ispiratore significativo per il primo operaismo di Mario Tronti e Raniero Panzieri, che andavano definendo proprio in quel torno di tempo il loro pensiero originale.
Sul rapporto tra queste due tendenze innovative, quella dellavolpiana e quella operaista, sarebbe interessante sviluppare una riflessione più ampia. Qui mi limito a ricordare semplicemente qualche dato non trascurabile. Per quanto riguarda Panzieri, egli era stato chiamato nel 1949 da Della Volpe a insegnare Storia delle dottrine politiche nell’ateneo messinese, e con Della Volpe aveva collaborato in quel contesto accademico. Sebbene si fosse laureato con Arturo Massolo, con una tesi su Morelly e il Code de la Nature, Panzieri era filosoficamente distante da Massolo e condivideva molto di più la critica dellavolpiana al «carattere illusorio» della dialettica hegeliana3.
Per quanto riguarda Tronti, invece, vale la pena di ricordare che, in un suo impegnativo articolo intitolato Studi recenti sulla logica del Capitale, pubblicato sull’ultimo fascicolo della rivista «Società»4, egli insisteva molto sui meriti teorici di Della Volpe, e in particolare sulla sua valorizzazione della critica marxiana del 1843 alla filosofia hegeliana del diritto pubblico. Tornando più di recente sul filosofo di Imola, in un saggio dedicato alla sua teoria della libertà comunista, Tronti così definiva la teorizzazione dellavolpiana: «Un pensiero irto di spigoli, non conciliante, mirato a sorprendere, poco interessato a convincere, non ortodosso senza essere eretico. Un’acqua che bevemmo, noi allora giovani marxisti in formazione e militanti comunisti inquieti. Grande polemista, aristocraticamente isolato rispetto al senso comune intellettuale della sinistra del tempo, ci fornì preziose cifre di comprensione della realtà e alcune continua a offrircene, come la critica del socialismo liberale»5.
Della Volpe, insomma, piaceva alle giovani leve intellettuali. Il punto di forza della sua “scuola”, come ha osservato precisamente Guido Liguori, «stava nel ritorno a Marx di cui era antesignana e propugnatrice: a fronte dello sviluppo della società italiana e dell’affermarsi di dinamiche “neocapitalistiche” […] appariva ancora più evidente il ritardo non della situazione economico-sociale del Paese (come voleva lo storicismo marxista) ma proprio del marxismo italiano, a lungo intento solo a indagare e ricostruire, non senza forzature, la tradizione culturale nazionale più che a studiare Marx (tutto Marx) e a misurarne la validità ermeneutica sul presente»6. Ma proprio l’ascolto che le tesi dellavolpiane potevano raccogliere spinse gli intellettuali più vicini alla dirigenza del partito, come Luporini (mentre Della Volpe era una specie di corpo estraneo), a proporre una messa a punto teorica oppure, per dirla con un collettiano come Bedeschi, un vero e proprio pronunciamiento7.
In effetti la polemica assunse, soprattutto da parte di Luporini (per questo criticato anche da Gerratana), toni decisamente molto aspri. Tirando in qualche modo le somme, infatti, il filosofo ferrarese scriveva: «Di tutto questo che sono venuto esponendo come meglio mi è riuscito, Della Volpe non ha intravisto nemmeno l’ombra; e ciò fa sì che egli si avvolga in discorsi incredibilmente tortuosi, intessuti di una pesante terminologia “filosofica” quasi mai appropriata alla questione, ma dai quali risulta una cosa sola: che egli (del tutto involontariamente, si badi; perché si tratta di un caso assai diverso dalle coscienti manipolazioni del Colletti) fa dire a Marx precisamente il contrario di quel che Marx intende significare»8.
L’antefatto teorico
Per Luporini, dunque, ci si trovava di fronte a due letture di Marx del tutto inconciliabili e incompatibili. Ma quali erano, detti in estrema sintesi, i temi principali del dissenso circa la interpretazione di Marx? I nodi del contendere si addensano intorno alle questioni, tutte strettamente connesse, della contraddizione, della dialettica e del metodo scientifico marxiano.
Per inquadrarle a partire soprattutto dalla prima, cioè quella della contraddizione, bisogna innanzitutto ricordare che, nell’anno precedente al dibattito di «Rinascita», e cioè nel 1961, erano stati pubblicati due testi molto significativi che della discussione del 1962 costituiscono l’antefatto, e cioè la Prefazione di Lucio Colletti al volume di Evald Ilyenkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, e Marxismo come storicismo di Nicola Badaloni. Il dibattito sulla contraddizione ha qui la sua origine. Come è noto, Colletti andrà sempre più considerando l’idea della “contraddizione” come il vero e proprio punto dolente del marxismo, quello che in ultima analisi motiverà, nel 1974, il filosofo romano a decretare il fallimento teoretico del marxismo stesso.
Il Colletti del 1961 è, evidentemente, ancora lontano da quello del 1974, ma è già molto attento a rivendicare i diritti della non-contraddizione rispetto a quelli di una dialettica che si sviluppa in contraddizioni. Egli propone perciò la tesi singolare secondo la quale il marxismo da un lato deve far propria la consapevolezza dialettica ed hegeliana per cui la ragione è relazione: per dirla con le sue parole, un certo elemento del reale «acquista per me significato solo quando la sua differenza da tutto il resto si “acuisce” a differenza essenziale cioè a opposizione-relazione»9. Ma la comprensione razionale, ovvero relazionale-dialettica della realtà è appunto comprensione di qualcosa che sta ben fermo fuori della mente, con la sua non-contraddittoria positività. In altri termini il momento dialettico, ovvero la «compresenza degli opposti», è necessario «proprio per arrivare alla non-contraddizione», cioè proprio per evitare di attribuire a una cosa ciò che invece appartiene alle altre10. La teoria marxiana, insomma, si distingue da quella hegeliana perché tiene insieme due istanze: «quella della ragione e quella dell’esperienza o materia»11. Ovvero da un lato l’istanza della contraddizione e della dialettica, dall’altro quella della determinatezza esclusiva o della non-contraddizione, nell’ambito di un orizzonte di pensiero che, sulla scorta di Della Volpe, rivendica la positività non-contraddittoria dell’elemento materiale e sensibile e la sua non riducibilità al concetto.
Alle tesi di Colletti Badaloni aveva obiettato, in Marxismo come storicismo, che esse implicavano chiaramente la negazione della realtà oggettiva della contraddizione1212, perché essa veniva confinata nell’ambito della ragione, ed esclusa dalla realtà materiale esistente dove si incontrano solo opposizioni reali. Colletti infatti sosteneva proprio che l’errore di Hegel stava nel non vedere che il continuum dialettico, e cioè «il passaggio di una determinazione nell’altra e di questa nella prima, è appunto soltanto ragione, comprensione degli opposti e non già opposizione reale». Hegel insomma, secondo Colletti, avrebbe scambiato la comprensione della cosa con la cosa stessa, «il pensiero con l’essere, la ragione con la materia»1313. Secondo Badaloni, invece, intendendo la contraddizione come qualcosa di mentale e non di reale, Colletti si priverebbe della possibilità di comprendere quello che per Marx era il punto decisivo, cioè l’analisi delle contraddizioni della società capitalistica, che ne rendono necessario il superamento pratico.
La natura della contraddizione marxiana
Questo tema torna come uno dei punti salienti nella discussione del 1962. Come si deve intendere la contraddizione marxiana? Luporini si pone il problema proprio nel testo che apre la disputa. Se è vero che «l’uomo civile, in qualsiasi forma o linguaggio si esprima, cerca di farlo in modo che non sia autocontraddittorio», allora in che senso la teoria marxiana può parlare di contraddizioni reali? Si può risolvere il problema affermando che nel pensiero marxiano il concetto di contraddizione ha un valore sostanzialmente “metaforico”, cioè sta semplicemente a indicare «il nesso fra forze o tendenze antagonistiche che si determinano reciprocamente in un qualsiasi sistema in movimento?». Questa, sostiene Luporini, è certamente la soluzione «più facile e comoda, accettata oggi da molti marxisti»14. Egli però non la trova del tutto convincente e non manca pertanto di ribadire, con Badaloni, che «il metodo di Marx è fondato innanzitutto sul riconoscimento della oggettività reale della contraddizione e questo riconoscimento è l’elemento di continuità tra Hegel e Marx»15.
Anche Badaloni, in un contributo che intitola proprio La realtà oggettiva della contraddizione, ribadisce ovviamente le tesi che già aveva sostenuto nel volume. Ha il merito però di precisare sinteticamente, cosa che Luporini non fa, come si debba intendere questa parola, “contraddizione”, intorno alla quale, in realtà, fino a quel momento nessuno ha fatto molta chiarezza. La «oggettività reale della contraddizione», scrive infatti Badaloni, sta a indicare «il fatto che in una società determinata le leggi tendenziali di sviluppo non valgono linearmente e in una sola direzione, ma fortificano a determinati livelli anche gli elementi di contrasto e di rottura». Ed è proprio su questa consapevolezza che si sono basate le riflessioni «di Lenin e di Gramsci sull’azione rivoluzionaria»16.
Già da queste prime osservazioni, però, si ricava l’impressione che la disputa sia tanto politicamente acuta quanto poco approfondita dal punto di vista filosofico. Badaloni infatti rimprovera in sostanza a Colletti e a quelli che la pensano come lui di sovrastimare la «ripresa capitalistica attualmente in atto nell’Europa occidentale» assumendola come una conferma della loro interpretazione del Capitale, e mancando così di cogliere la complessità delle contraddizioni in gioco e l’importanza delle peculiarità nazionali17. Lo accusa insomma di avere una visione poco storica e troppo astratta e schematica, con le conseguenze che ciò implica anche sul piano politico. Ma dal punto di vista teorico le critiche di Luporini e Badaloni a Colletti non sembrano in grado di apportare effettivi elementi di chiarificazione. Luporini, come abbiamo visto, rifiuta una interpretazione depotenziata del concetto di contraddizione come contrasto di tendenze antagonistiche operanti all’interno di un sistema dinamico, e continua osservando, in modo tutt’altro che risolutivo, che a suo avviso sussiste ciò che davvero fa problema, e cioè «un nesso assai intimo e profondo fra contraddizione logica e contraddizione dialettica», anche se si tratta di un problema aggrovigliato nel quale non gli è possibile addentrarsi «qui»18. Badaloni, da parte sua, difende la tesi della contraddizione reale, ma al dunque sembra intenderla proprio come quel contrasto distruttivo tra tendenze antagonistiche che invece Luporini considerava come una lettura “riduttiva” della contraddizione dialettica o marxiana.
In questo senso riduttivo, che porta la contraddizione marxiana verso l’opposizione reale, vanno anche le osservazioni precise e accurate di un altro esponente del fronte dellavolpiano, Mario Rossi. Egli rimarca con nettezza e con un ragionamento filologicamente solido la differenza tra la contraddizione hegeliana e quella marxiana. Mentre nel filosofo di Stoccarda «unica realtà della contraddizione è l’immanente nascere e comporsi speculativo della contraddizione stessa, è la vita dell’intero che pone entro di sé la contraddizione al solo scopo di superarla, ossia di comprenderne l’immanente autorisoluzione», in Marx le cose stanno in modo completamente diverso: «la contraddizione è fattuale: è il contrasto di elementi reali della vita dell’uomo in un determinato momento e a un determinato livello della storia della sua attività produttiva; essa non è provocata dall’autosviluppo del tutto, ma dal movimento della storia della produzione stessa; è termine di costatazione e di analisi determinata […]. Infine, essa non si compone da sé, ma è da correggersi con un intervento pratico, dirompente e rivoluzionario rispetto alle condizioni che l’hanno provocata»19. Ci troviamo dunque di fronte, per Rossi, a due modi del tutto eterogenei di intendere il concetto di contraddizione20.
Nella sostanza, questa è anche la tesi cui mette capo l’intervento di Della Volpe intitolato proprio Sulla dialettica. La contraddizione hegeliana, nella visione un po’ neoplatonica che ne propone il filosofo di Imola, è momento transeunte dello autosviluppo dell’Idea che, muovendo dall’originaria unità indifferenziata, si esteriorizza come Natura per poi tornare a se stessa come Spirito; la contraddizione si genera dunque dall’autosviluppo dell’Idea solo per esserne poi conclusivamente superata21. Di tutt’altra natura sono le contraddizioni oggettive marxiane (al plurale). Esse «sono contraddizioni diverse, materiali, determinate, storiche»22, reali e permanenti e non, come quelle hegeliane, apparenti e dileguanti. E solo una dialettica scientifica, ovvero di astrazioni determinate, è in grado secondo Della Volpe di «scoprire e padroneggiare le contraddizioni determinate materiali, e permanenti, del concreto e reale»23.
Due Marx contrapposti
Il dibattito sulla contraddizione si collega ovviamente in modo molto stretto a quello sul metodo di Marx che però – e questo è un limite non da poco di tutta la discussione – viene approcciato non partendo da come Marx ha effettivamente lavorato nel Capitale, ma basandosi invece, così procede Della Volpe, sulle poche pagine relative al «Metodo dell’economia politica» contenute nella Introduzione del 1857 ai Grundrisse; una introduzione, bisogna sempre ricordarlo, incompiuta e mai pubblicata. Nella sostanza, poiché dobbiamo accennare al tema in modo necessariamente molto rapido, vediamo che Della Volpe e Luporini ci presentano due Marx del tutto incompatibili: si potrebbe dire, senza forzare troppo, che si confrontano un Marx analitico e un Marx dialettico. Il Marx di Della Volpe, secondo la ben nota formula del “Galilei del mondo morale”, è un Marx che procede secondo il metodo acquisito dalla moderna scienza sperimentale (anzi, secondo un’immagine piuttosto tradizionale di essa). Può essere riassunto nella formula dellavolpiana del circolo concreto-astratto-concreto, nel senso che la comprensione di una certa realtà storico-sociale muove certamente dalla concreta complessità di una data situazione per enucleare a partire da essa quelle astrazioni determinate che consentono di costruire un modello della realtà studiata e dunque di metterlo alla prova rispetto a un concreto che ora non si presenta più «come un tutto caotico, ma come una ricca articolazione di molte determinazioni»24.
Il metodo è dunque lo stesso che caratterizza la scienza moderna in tutte le sue declinazioni: «dalla legge fisica alla legge economica e a quella morale, variano certo le tecniche che le costituiscono quanto varia l’esperienza e la realtà […] ma non varia il metodo, la logica, il cui simbolo è il circolo suddetto»25; si distingue però radicalmente da quello della moderna economia politica per un aspetto decisivo, che è appunto quello del lavorare non con meri concetti astratti, ma con astrazioni determinate (questo è per Luporini l’unico punto valido di tutta l’analisi dellavolpiana26). In pratica, mentre l’economia mainstream, ieri come oggi, lavora con astrazioni astoriche (in forza delle quali, per esempio, ogni produzione comporta un capitale di partenza, ed è quindi capitale anche la vanga del primo agricoltore), Marx opera esattamente nel modo opposto, cioè distinguendo chiaramente ciò che è comune alle diverse fasi storiche della produzione (per esempio il servirsi di uno strumento di produzione) e la forma che di volta in volta le attività produttive assumono (per cui ad esempio lo strumento di produzione, la vanga, diventa capitale solo nel modo di produzione capitalistico, di cui appunto Marx indaga le leggi specifiche).
Per quanto riguarda poi il tema dellavolpiano del circolo concreto-astratto-concreto, torniamo rapidamente a Marx per poi vedere come si contrappongano, nella interpretazione del suo testo, Della Volpe e Luporini. Nelle poche pagine intorno al metodo, Marx dice una cosa molto semplice. I primi economisti partivano nelle loro analisi da un insieme complesso e caotico, come ad esempio la popolazione, per poi enucleare concetti astratti come salario, prezzo, divisione del lavoro, eccetera. Con la maturazione della disciplina, però, si sviluppò il processo inverso e cioè quello di partire da questi elementi semplici che erano stati individuati per costruire la teoria di un tutto complesso, di un concreto che non è più confuso e indeterminato (come la popolazione), ma è sintesi di molte determinazioni. Il metodo di salire dal semplice al complesso, ovvero dall’astratto al concreto (pensato e articolato) è, scrive Marx, «il metodo scientificamente corretto». Ma sono necessarie due precisazioni: rispetto a Hegel, che segue questo metodo (per esempio nella Logica, dove parte dalla categoria più semplice, l’essere, per sviluppare via via categorie sempre più complesse), bisogna sottolineare che in questo percorso il concreto/risultato non viene creato dal pensiero, ma solo compreso e organizzato. Così come bisogna altresì ricordare che, se il concreto/pensato è un risultato, è pur vero che esso è anche, quando ci accingiamo a studiarlo, «il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione»27.
Appare del tutto chiaro che qui Marx sta descrivendo quello che gli sembra l’unico corretto metodo scientifico, e che questo è il metodo che egli stesso seguirà nel Capitale sviluppando tutto il sistema critico dell’economia a partire dalla semplice categoria ovvero cellula germinale della merce. Marx dice anche che questo giusto metodo è quello seguito da Hegel, che però (secondo Marx – e si tratta di un assunto molto discutibile) interpretò questo svolgimento non come un processo mentale di ricostruzione di qualcosa che esiste indipendentemente là fuori, ma come una vera e propria creazione del reale. Marx afferma anche che questo è il metodo seguito dai grandi economisti classici (anche se certo, aggiungiamo noi, essi lo seguono in modo molto meno strutturato di quanto non faccia Hegel). Una questione ulteriore, che qui possiamo lasciare da parte, è quella che concerne il rapporto tra lo sviluppo logico del sistema scientifico e l’ordine cronologico con cui le diverse categorie sono apparse nella storia; per Marx è chiaro che le due successioni non si identificano.
Il «metodo» di Marx
Ma torniamo al punto fondamentale del metodo. Cosa ne colgono Della Volpe e Luporini? Con la sua tesi del circolo Della Volpe coglie correttamente il fatto che il concreto per Marx è sia (come concreto indifferenziato) punto di partenza, sia (come unità strutturata) punto di arrivo. E coglie anche il fatto che le categorie, dalle più semplici alle più complesse, si succedono nel sistema marxiano secondo l’ordine in cui sono connesse nella moderna società borghese, e non secondo l’ordine cronologico di apparizione sulla scena della storia. Luporini, invece, sostiene che il metodo descritto da Marx come l’unico metodo scientificamente corretto è il metodo seguito dalla moderna scienza economica «fino a Marx escluso»28. Sembra però che su questo punto il discorso di Luporini, per amore di polemica antidellavolpiana, arrivi a sostenere una tesi piuttosto strana. La verità infatti è che il metodo di salire dal più semplice al più complesso è il metodo di Hegel che Marx fa convintamente proprio, descrivendo un itinerario che va dalla semplicità (ma ricca di contraddizioni) della merce fino alla complessità del mercato mondiale. Ma come si fa allora a sostenere che Della Volpe, prendendo fischi per fiaschi, attribuisce a Marx quel metodo che invece sarebbe specifico dell’economia borghese? Si può criticare Della Volpe (e Luporini lo fa) perché sottovaluta ciò che dal punto di vista del metodo scientifico accomuna (nella Introduzione non finita e non pubblicata) Marx e i classici; oppure lo si può criticare perché attribuisce a Marx come scoperta ciò che Marx afferma di ritrovare nei classici (sempre il famoso «salire dall’astratto al concreto»). Ma non si può proprio dire che questo non sia il metodo di Marx. Ed è opportuno ricordare che, per questo aspetto, anche il simpatetico Giannantoni non riesce a concordare pienamente con la critica antidellavolpiana di Luporini29.
Comunque, rovesciando polemicamente la tesi di Della Volpe, Luporini sostiene che il metodo dell’economia marxista può essere meglio riassunto nella formula «dall’astratto all’astratto»30, nel senso che Marx non parte da un presunto concreto, ma da categorie (astratte) già elaborate dai suoi predecessori per costruire su quella base un modello, anch’esso astratto, dell’economia capitalistica. Ma il punto vero della questione non sta in questa discutibile formula. Ciò che nella lettura di Della Volpe manca, e che invece Luporini andrà sempre più valorizzando, è il fatto che Marx si distingue dai classici non perché non faccia proprio il metodo di «salire dall’astratto al concreto» (qui Luporini ha torto) ma perché, distanziandosi dai classici e avvicinandosi a Hegel, sviluppa un «nuovo metodo di esposizione», dove le categorie più complesse scaturiscono sì da quelle più semplici, ma (questo è il punto che Della Volpe non vede) attraverso un processo dialettico, cioè attraverso una dinamica che è messa in moto dalle contraddizioni che di volta in volta si incontrano nella categoria più semplice.
La merce sta all’origine di tutto il processo perché, in quanto unità contraddittoria degli opposti valore d’uso e valore di scambio, è la cellula da cui si genereranno tutte le ulteriori contraddizioni del capitalismo, fino alle crisi. Ma questo punto non è veramente chiaro né al Marx del 1857 (che infatti nei Grundrisse non comincia dalla merce, ma dal denaro), né al Luporini del 1962, che se la prende con Della Volpe ma senza addurre l’unico argomento davvero dirimente, e cioè che la logica del Capitale, come molti cominciarono a vedere negli anni Sessanta, non è comprensibile se non tenendo presente la Logica di Hegel. Il Luporini del 1962 era ancora un filosofo “in transizione”, che non aveva raggiunto la piena chiarezza su questo aspetto. Esso, d’altra parte, sarebbe risultato nel prosieguo del dibattito sempre più innegabile, fino al punto che anche il più acuto allievo di Della Volpe, Colletti, avrebbe dovuto riconoscere la dialetticità della logica marxiana, e dunque, nella sua prospettiva, la sua incompatibilità con la logica analitica e incontraddittoria del sapere scientifico. Dal punto di vista della precisione filologica, dunque, il Marx dialettico (sul quale Luporini non era ancora giunto a piena chiarezza) era certamente più vicino al vero Marx del Marx analitico di Della Volpe (che persino Colletti avrebbe finito per smentire).
Questa considerazione non chiude affatto il discorso, perché restano almeno altre due osservazioni da fare. La prima è che lo svolgimento dialettico è solo una dimensione dell’insieme del metodo scientifico, perché Marx stesso distingue tra il modo della ricerca e il modo dell’esposizione. Quindi il suo metodo di lavoro si articola in due momenti, e solo il secondo di essi è propriamente dialettico. Marx lo dice chiaramente nel Poscritto alla seconda edizione del Capitale: «Certo, il modo d’esposizione deve distinguersi formalmente dal modo di ricerca. La ricerca deve appropriarsi della materia nei particolari, deve analizzare le sue diverse forme di sviluppo e deve rintracciarne l’interno concatenamento. Solo dopo che è stato compiuto questo lavoro, il movimento effettuale può essere esposto in maniera conveniente. Se questo riesce e se la vita della materia si rispecchia ora idealmente, può sembrare che si abbia a che fare con una costruzione a priori»31. Queste considerazioni ci portano a dire che non si può liquidare troppo facilmente l’idea dellavolpiana del circolo concreto-astratto-concreto, nel senso che c’è un prima dell’esposizione dialettica, che è appunto la fase della ricerca, ma sicuramente anche un dopo, cioè quell’ovvio elemento di confronto tra la teoria e gli sviluppi reali sul quale Della Volpe giustamente insisteva32.
Per finire, però, credo si possa proporre anche un’altra riflessione: il Marx di Della Volpe, liberato dalla dialettica, sicuramente non è il Marx “storico”. Ma, dal punto di vista teorico, si può sostenere legittimamente la tesi secondo la quale i risultati scientifici di Marx sarebbero gli stessi, oppure sarebbero ugualmente validi o invalidi, anche a prescindere dalla forma dialettica nella quale sono espressi. A riprova di ciò si potrebbe addurre il fatto che grandi teorici marxisti dello sviluppo capitalistico, come per esempio Paul Sweezy, non si avvalgono dello strumentario hegeliano del quale Marx faceva ampio uso. Un Marx analitico, dunque, è teoricamente possibile, anche se certamente non ha molto a che vedere con il Marx storico.
Stefano Petrucciani
* Rielaborazione della relazione presentata al convegno I Marx del Pci. Protagonisti, stagioni, scuole, organizzato da “Futura umanità. Associazione per la storia e la memoria del Pci” e dal Dipartimento di Filosofia dell’Università “La Sapienza” di Roma (Roma, 26 gennaio 2024).
[Tratto da: Stefano Petrucciani, Un dialogo tra sordi? La discussione tra filosofi marxisti italiani del 1962, in «Critica marxista», n. 1/2024, gennaio-febbraio 2024].
Note
1 Cfr. G. Liguori, Dallo storicismo alla riscoperta delle forme, in Il pensiero di Cesare Luporini, Milano, Feltrinelli, 1996, pp. 243-257. Gli interventi più significativi della discussione sono stati pubblicati in F. Cassano (a cura di), Marxismo e filosofia in Italia 1958-1971, Bari, De Donato, 1973, a cui si farà in seguito riferimento. Oltre alla Introduzione del curatore a questo volume, si vedano anche le considerazioni di G. Bedeschi (La parabola del marxismo in Italia, Roma-Bari, Laterza, 1983, pp. 85 ss.) e di M. Montanari (En attendant Marx. Il marxismo in Italia dal 1945 al 1989, Milano, Biblion Edizioni, 2023, pp. 103 ss.).
2 Al tema fu dedicato un grande e ambizioso convegno nel marzo 1962: cfr. Tendenze del capitalismo italiano. Atti del convegno economico dell’Istituto Gramsci (Roma, 23-25 Marzo 1962), 2 voll., Roma, Editori Riuniti, 1962.
3 Cfr. in proposito C. Violi, Galvano Della Volpe e il rapporto di solidarietà accademica con Panzieri-Debenedetti-Mazzarino, in «Rivista illuminazioni», 2010, n. 14.
4 M. Tronti, Studi recenti sulla logica del Capitale, in «Società», 1961, n. 6, pp. 881-903.
5 M. Tronti, Rileggendo “La libertà comunista”, in G. Liguori (a cura di), Galvano della Volpe. Un altro marxismo, Roma, Edizioni Fahrenheit 451, 2000.
6 G. Liguori, Dallo storicismo alla riscoperta delle forme, cit., p. 246.
7 G. Bedeschi, La parabola del marxismo in Italia, cit., p. 89.
8 C. Luporini, Il circolo concreto-astratto-concreto [1962], ora in F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia, cit., pp. 226-239: 235.
9 L. Colletti, Prefazione a E. Ilyenkov, La dialettica dell’astratto e del concreto nel Capitale di Marx, Milano, Feltrinelli,1961, p. XII.
10 Ivi, p. XI.
11 Ivi, p. XII.
12 N. Badaloni, Marxismo come storicismo, Milano, Feltrinelli, 1975 (I ed.: 1962), p. 201.
13 L. Colletti, Prefazione, cit., pp. XIX-XX.
14 C. Luporini, Appunti per una discussione tra filosofi marxisti in Italia [1062], ora in F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia, cit., pp. 159-163: 161.
15 Ibidem.
16 N. Badaloni, La realtà oggettiva della contraddizione [1962], in F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia, cit., pp. 178-181: 181.
17 Ibidem.
18 C. Luporini, Appunti per una discussione tra filosofi marxisti in Italia, cit., p. 161.
19 M. Rossi, Teoria e prassi [1962], in F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia, cit., pp.197-209: 205.
20 All’intervento di Rossi replica Massolo che, da filosofo acuto quale è, e diversamente dai suoi interlocutori, esorta a non prendere per buona né la critica feuerbachiana di Hegel, che a suo dire rischia di ricadere a un livello prekantiano, né la tesi di Marx secondo la quale Hegel cadde «nell’illusione di concepire il reale come il risultato del pensiero automoventesi». Massolo si colloca, insomma, fuori dalla interpretazione un po’ vulgata di Hegel alla quale restano fermi molti marxisti all’inizio degli anni Sessanta, e che oggi è stata largamente superata. Sulla contraddizione Massolo si limita a citare un passo di Dühring: «La contraddizione è una categoria che può appartenere solo alla combinazione delle idee e non alla realtà. Nelle cose non ci sono contraddizioni o, in altri termini, la contraddizione, posta come reale, è essa stessa il colmo del controsenso» (Cfr. F. Engels, Antidühring, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. XXV, Roma, Editori Riuniti, 1974, p. 113). L’intervento di Massolo è in «Rinascita», 22 settembre 1962, p. 28. A non prendere per oro colato le critiche di Marx a Hegel esorta anche un allievo di Massolo, Loris Ricci Garotti, nel suo intervento in «Rinascita», 8 settembre 1962.
21 G. Della Volpe, Sulla dialettica (una risposta ai compagni e agli altri) [1962], in F. Cassano, Marxismo e filosofia in Italia, cit., pp. 210-225: 221.
22 Ibidem.
23 Ivi, p. 222.
24 Così ricostruisce le tesi di Della Volpe Gabriele Giannantoni nel suo pregevole volumetto Il marxismo di Galvano Della Volpe, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 65.
25 G. Della Volpe, Sulla dialettica, cit., p. 219.
26 C. Luporini, Il circolo concreto-astratto-concreto, cit., p. 230.
27 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. I, Firenze, La Nuova Italia, 1968, p. 27.
28 C. Luporini, Il circolo concreto-astratto-concreto, cit., p. 234 (corsivo di Luporini).
29 G. Giannantoni, Il marxismo di Galvano Della Volpe, cit., p. 122, n. 33.
30 C. Luporini, Il circolo concreto-astratto-concreto, cit., p. 238.
31 K. Marx, Il Capitale, Libro I, a cura di R. Fineschi, Napoli, La città del sole, 2012, p. 21.
32 G. Della Volpe, Sulla dialettica, cit., p. 218.
Inserito il 26/12/2024.
Dal quotidiano «il manifesto»
Colonialismo, neocolonialismo e post-colonialismo
(Marinotti Editore, 2024)
recensione di Gennaro Ascione
«La presente raccolta propone per la prima volta in Italia di una serie di scritti di Jean-Paul Sartre su colonialismo, migrazioni, schiavitù e razzismo. Si tratta di contributi che, pubblicati dal grande filosofo francese nel pieno della lotta anticoloniale tra gli anni Sessanta e Settanta, hanno influenzato diverse generazioni di intellettuali, militanti e politici in tutto il mondo, ma che di recente sono stati riletti e rivalorizzati secondo diverse prospettive teoriche internazionali emergenti – come gli studi postcoloniali, la critica decoloniale e anche i black studies americani – che così hanno gettato nuova luce sia sul suo sistema filosofico e politico complessivo, sia sul suo rapporto con le altre tradizioni di pensiero non europee. Gli scritti anticoloniali e antirazzisti di Sartre risultano infatti ancora sorprendentemente attuali e possono offrire sia nuove chiavi di lettura della storia odierna, sia nuove risposte ai conflitti di questo drammatico presente» (dalla quarta di copertina del volume).
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Se il colono è un venditore
di Gennaro Ascione
La crisi strutturale (e brutale, vedi il Medioriente) di un ordine geopolitico non più adeguato ai rapporti di forza economici contemporanei su scala globale fa risuonare molte delle parole del pensiero critico inadeguate alla comprensione del presente e all’immaginazione del futuro. È quanto afferma anche la Nota del traduttore che chiude il volume Jean-Paul Sartre. Il colonialismo è un sistema. Colonialismo, neocolonialismo e post-colonialismo (Christian Marinotti editore, a cura di Miguel Mellino, pp. 250, euro 24), richiamando le parole del teorico e attivista Youssef Boussoumah: la Palestina è il banco di «prova» dell’umanesimo europeo. Da questo lessico delegittimato, tuttavia, le parole costruite a partire da «colonialismo» ne escono chiarificate.
A questa chiarificazione contribuisce la rilettura del pensiero anticoloniale di Jean Paul Sartre (1905-1980). Muovendosi nella vasta produzione del filosofo francese, il volume curato da Miguel Mellino raccoglie una serie d’importanti contributi tradotti per la prima volta in italiano, o ritradotti dopo decenni, da Andrea Caroselli. Il campo di riflessione sartriana che il libro delimita è quello della denuncia degli aspetti sistematici del colonialismo come processo e prassi, a partire dall’esperienza francese: l’annichilimento dell’uomo ad opera dell’uomo; lo spossessamento delle risorse di una forma economica ai danni delle altre; l’estinzione tendenziale dei saperi altri.
La preziosa introduzione al volume consente di orientarsi nella complessità del ragionamento di Sartre e comprenderne l’attualità. Insita nell’approccio filosofico-politico di Sartre è la lucidità nel rendere visibile la relazione tra l’esistenza del singolo e le strutture di potere. Un nucleo tematico che Mellino racconta collocando gli scritti dell’intellettuale francese nel quadro del marxismo e delle filosofie continentali del Secondo dopoguerra, in dialogo con gli slanci più creativi e radicali dei movimenti artistici, politici e letterari africani della Parigi maghrebina e delle Antille, tra le spaccature interne ai partiti della gauche internazionale durante il cristallizzarsi della Guerra Fredda, infine, dentro agli orizzonti contemporanei della critica postcoloniale e decoloniale.
I nove saggi antologizzati connettono tra loro frammenti di ragionamento nell’arco di tre decenni e mettono a fuoco l’importanza del Sartre cosiddetto «minore». Vale a dire, quei frammenti di riflessione anticoloniale che la sinistra europea ha per lungo tempo relegato ai margini della ricezione del pensiero sartriano, perché malcelatamente incompatibili con la matrice bianca e razzista del pensiero progressista occidentale del XX secolo. Frammenti che, laddove sviluppati in coerenza con le proprie premesse alla luce del panafricanismo del XX secolo, mostrano i limiti eurocentrici dello stesso Sartre.
Si tratta tanto di scritti polemici e destinati a un pubblico più vasto, quanto di saggi dotati di maggiore densità teorica e spesso estrapolati da quadri filosofici più estesi. Qui, uno dei fili che tessono la trama del ragionamento consiste nel ruolo storico del colono. Nel primo saggio, che dà il titolo al volume, Sartre spiega la strategia coloniale francese in Algeria, e come essa sia evoluta fin dalla seconda metà del XIX secolo: «I capitali non usciranno dalla Francia; semplicemente verranno investiti in nuove industrie che venderanno i loro prodotti ai paesi colonizzati. Il risultato immediato fu la creazione dell’Unione doganiera (1884) che assicura il monopolio del mercato algerino a un’industria francese svantaggiata sul mercato internazionale dai suoi prezzi troppo alti. Ma a chi dunque, questa industria intendeva vendere i propri prodotti? Agli algerini? Impossibile: dove avrebbero preso i soldi per pagare? La contropartita di questo imperialismo coloniale è che bisogna creare un potere d’acquisto nelle colonie. E, chiaramente, sono i coloni che beneficeranno di tutti i vantaggi e che saranno trasformati in potenziali acquirenti. Per essere acquirente, il colono deve essere venditore. A chi venderà? Ai francesi della metropoli. E cosa vende senza industria? Prodotti alimentari e materie prime. E quali sono i sacrifici che lo Stato compie per il colono, per quest’uomo adorato dagli dèi e dagli esportatori? La risposta è semplice: gli sacrifica la proprietà musulmana».
Sartre coglie il meccanismo economico che fa del capitalismo un’impresa coloniale fin dalle sue origini nelle Americhe del XV secolo. E che, simultaneamente, fa del colonialismo un processo immediatamente capitalistico nella sua natura di sfruttamento e assoggettamento. Come sottolinea Mellino, «è negli scritti sugli Usa che comincia a emergere in Sartre l’idea che razza e razzismo non siano fenomeni prodotti unicamente dallo sguardo dell’altro, dalla lotta tra le rappresentazioni, ma che debbano essere considerati come parte di un sistema ideologico più ampio, intrinsecamente legato a uno specifico modello di sfruttamento materiale… E in “situazioni” di questo tipo, l’antirazzismo doveva essere necessariamente radicale, poiché non si poteva lottare contro il razzismo senza lottare contro l’organizzazione materiale della società».
Nella dialettica dell’antirazzismo, Sartre delinea l’inestinguibilità della possibilità che il soggetto subalterno ha di produrre la coscienza della propria liberazione. La genesi di questa riflessione estende da Marx il principio logico della soggettivazione, ma mutua la flessibilità delle figure della sopraffazione dal pensiero femminista di Simone de Beauvoir, secondo cui la condizione dello schiavo è analoga a quella della donna. Ed è per questo che, tra le pagine dell’antologia, genere, razza e classe, nella loro reciproca articolazione, sottostanno alla possibilità di formare i luoghi sociali concreti per il riconoscimento del diritto all’esistenza individuale e collettiva. Tanto nelle ex-colonie, quanto nelle zone di guerra, o negli spazi conflittuali delle metropoli post-coloniali. Sulla scorta del pensiero di Sartre, benché oltre lo spazio e il tempo della sua propria contemporaneità.
Gennaro Ascione
(Tratto da: Gennaro Ascione, Se il colono è un venditore, in «il manifesto», 31 gennaio 2025).
Inserito il 01/02/2025.
Dal sito «Citystrike.org»
di John Bellamy Foster
John Bellamy Foster torna alle pietre miliari del pensiero marxista antimperialista – presenti nelle opere di V. I. Lenin, Samir Amin e altri – per affrontare la crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra. Questa visione del mondo e le sue conseguenze, scrive Foster, ha implicazioni preoccupanti non solo per i lavoratori supersfruttati delle periferie, ma per tutti i lavoratori del mondo e per il carattere internazionalista del marxismo contemporaneo.
Clicca per aprire la prima parte
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La sinistra occidentale e la nuova negazione dell’imperialismo
di John Bellamy Foster
Prima parte
È dall’inizio della Prima Guerra mondiale – durante la quale quasi tutti i partiti socialdemocratici europei parteciparono alla guerra interimperialista a fianco dei rispettivi Stati nazionali – e dalla dissoluzione della Seconda Internazionale, che la divisione sulla questione dell’imperialismo non assumeva, a sinistra, dimensioni così serie, manifestandosi come un segno della profondità della crisi strutturale del capitale nel nostro tempo[1]. Sebbene le sezioni più eurocentriche del marxismo occidentale abbiano cercato a lungo, in vari modi, di attenuare la teoria dell’imperialismo, l’opera classica di V.I. Lenin, Imperialismo, fase suprema del capitalismo (scritta nel gennaio-giugno 1916), ha mantenuto per oltre un secolo la sua posizione centrale all’interno di tutte le discussioni sull’imperialismo, non solo per la sua accuratezza nel rendere conto della Prima e della Seconda Guerra Mondiale, ma anche per la sua utilità nello spiegare l’ordine imperiale del secondo dopoguerra[2]. Tuttavia, lungi dall’essere isolata, l’analisi complessiva di Lenin è stata integrata e aggiornata in vari momenti dalla teoria della dipendenza, dalla teoria dello scambio ineguale, dalla teoria dei sistemi-mondo e dall’analisi della catena del valore globale, tenendo conto dei nuovi sviluppi storici. In tutto questo, la teoria marxista dell’imperialismo ha mantenuto un’unità di base che ha ispirato le lotte rivoluzionarie globali.
Oggi, tuttavia, questa teoria marxista dell’imperialismo viene comunemente rifiutata in gran parte, se non nella sua interezza, da sedicenti socialisti occidentali con baricentro eurocentrico. Di conseguenza, il divario tra la visione dell’imperialismo della sinistra occidentale e quella dei movimenti rivoluzionari del Sud globale è più ampio che in qualsiasi altro momento del secolo scorso. Le basi storiche di questa frattura risiedono nel declino dell’egemonia statunitense e nel relativo indebolimento dell’intero ordine imperialista mondiale, incentrato sulla triade Stati Uniti, Europa e Giappone, di fronte all’ascesa economica delle ex colonie e semicolonie del Sud globale. Il tramonto dell’egemonia statunitense, dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica nel 1991, è stato accompagnato dal tentativo degli Stati Uniti/NATO, di creare un ordine mondiale unipolare dominato da Washington.
In questo contesto di estrema polarizzazione, molti, a sinistra, negano lo sfruttamento economico della periferia da parte dei Paesi imperialisti centrali. Inoltre, recentemente tutto questo è stato accompagnato da forti attacchi alla sinistra antimperialista.
Così, oggi, ci troviamo di fronte a proposizioni contraddittorie, provenienti dalla sinistra occidentale, del tipo: 1) una nazione non può sfruttarne un’altra; 2) non esiste il capitalismo monopolistico come base economica dell’imperialismo; 3) la rivalità imperialista e lo sfruttamento tra le nazioni sono stati sostituiti da lotte di classe globali all’interno di un capitalismo transnazionale completamente globalizzato; 4) tutte le grandi potenze sono oggi nazioni capitaliste impegnate in una lotta imperialista intermedia; 5) le nazioni imperialiste possono essere giudicate principalmente in base a uno spettro democratico-autoritario, per cui non tutti gli imperialismi sono nati allo stesso modo; 6) l’imperialismo è semplicemente una politica di aggressione di uno Stato contro un altro; 7) l’imperialismo umanitario volto a proteggere i diritti umani è giustificato; 8) le classi dominanti del Sud globale non sono più antimperialiste e hanno un orientamento transnazionalista o subimperialista; 9) la “sinistra antimperialista” è “manichea” nel suo sostegno al Sud globale moralmente “buono” contro il Nord globale moralmente “cattivo”; 10) l’imperialismo economico si è ora “invertito”, con l’Est/Sud globale che sfrutta l’Ovest/Nord globale; 11) la Cina e gli Stati Uniti sono a capo di blocchi imperialisti rivali; 12) Lenin era soprattutto un teorico dell’interimperialismo, non dell’imperialismo tra centro e periferia[3].
Per comprendere le complesse questioni teoriche e storiche in gioco, è importante tornare all’analisi di Lenin sull’imperialismo, concependola non solo nei termini espressi da Imperialismo, fase suprema del capitalismo, ma in relazione all’insieme dei suoi scritti sull’imperialismo del 1916-1920. Sarà quindi possibile percepire come la teoria del sistema mondiale imperialista si sia sviluppata nel corso dell’ultimo secolo sulla base dell’analisi di Lenin e della Prima Internazionale Comunista (Comintern), seguita da ulteriori affinamenti teorici, dopo la Seconda Guerra Mondiale, nel lavoro dei principali teorici della dipendenza, dello scambio ineguale, del sistema-mondo capitalista e delle catene globali del valore. Questa storia costituirà il punto di partenza per criticare l’attuale negazione dell’imperialismo operata da gran parte della sinistra.
La teoria generale dell’imperialismo di Lenin
Il fatto che i pensatori di sinistra che sostengono il superamento del concetto di imperialismo, facciano comunque riferimento all’opera classica di Lenin, è un’indicazione dell’enorme potenza dell’analisi presente in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo. Oggi, la sinistra eurocentrica sostiene abitualmente che Lenin non si concentrasse sulle questioni di disuguaglianza tra paesi colonizzatori e colonizzati o tra centro e periferia. Piuttosto, ci viene detto che il suo lavoro riguardava principalmente il conflitto orizzontale tra le grandi potenze capitaliste[4]. Così, William I. Robinson, un illustre professore di sociologia presso l’Università della California, e membro del consiglio esecutivo della Global Studies Association of North America (GSA), si spinge a sostenere che la teoria dell’imperialismo di Lenin non aveva nulla a che fare con lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra.
L’idea predominante tra i pensatori di sinistra è che Lenin abbia esposto una teoria dell’imperialismo basata sullo stato-nazione o sull’espansione territoriale. Ciò è fondamentalmente sbagliato. Ha esposto una teoria basata sulla classe. Una nazione non può sfruttare un’altra nazione: questa è solo una reificazione assurda. L’imperialismo è sempre stato un violento rapporto di classe, non tra paesi, ma tra capitale globale e lavoro globale… La maggior parte della sinistra vede lo sfruttatore come una “nazione imperialista”. Questa è una reificazione, in quanto le nazioni non sono, e non sono mai state, macro-agenti. Una nazione non può sfruttare o essere sfruttata[5].
Tuttavia, lungi dal ritenere che lo sfruttamento di una nazione da parte di un’altra sia fondamentalmente contrario al marxismo, Karl Marx mostrava solo disprezzo per coloro che, a suo dire, non riuscivano a comprendere «come un paese possa arricchirsi a spese di un altro»[6]. Allo stesso modo, Lenin sosteneva esplicitamente in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, che la tendenza dominante dell’imperialismo era «lo sfruttamento di un numero sempre maggiore di nazioni piccole e deboli per opera di un numero sempre maggiore di nazioni più ricche o potenti». In seguito, affermava che «lo sfruttamento delle nazioni oppresse… e soprattutto lo sfruttamento delle colonie da parte di un pugno di Grandi Potenze» era la radice economica dell’imperialismo. Lenin diceva chiaramente che parlare di sfruttamento in questo contesto, vuol dire che una nazione imperialista, al centro del sistema mondiale capitalista, «trae profitti in eccesso» da una nazione oppressa nel mondo coloniale[7].
Tuttavia, secondo Vivek Chibber, professore di sociologia alla New York University e curatore di Catalyst, l’intera concezione dell’imperialismo economico come capitalismo monopolistico, espressa da Lenin, era «errata», come lo erano i concetti secondo cui l’imperialismo era economico (e non semplicemente politico), e che nei ricchi paesi capitalisti c’era uno strato superiore della classe operaia (l’aristocrazia operaia) che traeva beneficio dall’imperialismo. In tutti questi concetti, suggeriva Chibber, l’analisi di Lenin era errata, mentre il significato della sua teoria era principalmente circoscritto al regno della competizione intercapitalistica[8].
Questi gravi fraintendimenti, rispetto alla teoria di Lenin e alla sua rilevanza contemporanea, sono in parte riconducibili a una tendenza degli accademici radicali occidentali a studiare il suo L’imperialismo, fase suprema del capitalismo senza prendere in considerazione altri suoi importanti scritti sull’imperialismo. Questi comprendono sei testi fondamentali, scritti tra il 1916 e il 1920: “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione (tesi)”, (scritto nel gennaio-febbraio 1916); “L’imperialismo e la scissione del socialismo”, (scritto nell’ottobre 1916); “Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente”, (novembre 1919); “Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale”, (per il secondo congresso dell’Internazionale comunista, giugno 1920); Prefazione alle edizioni francese e tedesca di L’imperialismo (6 luglio 1920); e il “Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali”, (26 luglio 1920)[9]. Questi testi aggiuntivi di Lenin sulle questioni nazionali e coloniali integrano L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, concentrandosi direttamente sulla questione dello sfruttamento dei paesi sottosviluppati da parte delle principali potenze imperialiste, soprattutto Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Germania, Italia e Giappone (che oggi, con l’aggiunta del Canada, costituiscono il Gruppo dei Sette, o G7)[10].
«Se si volesse dare la definizione più concisa possibile dell’imperialismo», scriveva Lenin in L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, «si dovrebbe dire che l’imperialismo è lo stadio monopolistico del capitalismo». L’ascesa dell’accumulazione monopolistica aveva soppiantato l’era della libera concorrenza, creando una sfera di enormi profitti in eccesso, in un numero relativamente ristretto di società che arrivarono a dominare l’economia[11]. Nelle cinque caratteristiche dell’imperialismo che Lenin elencava, egli sottolineava che la concentrazione e la centralizzazione del capitale su scala nazionale e mondiale era la caratteristica principale dell’imperialismo. La seconda caratteristica era la fusione del capitale bancario col capitale industriale e il formarsi di un’oligarchia finanziaria. La terza era l’esportazione di capitale, distinta dall’esportazione di merci, cioè il passaggio del capitale a un campo operativo globale. La quarta, che riassumeva le tre precedenti, era il dominio del mondo da parte di un numero relativamente piccolo di monopoli capitalistici internazionali. La quinta era la compiuta «ripartizione territoriale del mondo tra le più grandi potenze capitalistiche»[12].
L’analisi di Lenin si opponeva fortemente a quella di Karl Kautsky, il principale teorico del Partito socialdemocratico tedesco, che sosteneva che l’imperialismo si sarebbe sviluppato in un “ultra-imperialismo”, in cui i principali paesi capitalisti si sarebbero unificati attraverso una «federazione dei più forti», una tesi che sarebbe stata smentita dalla Prima e dalla Seconda Guerra Mondiale. Sebbene i principali stati capitalisti, dopo la Seconda Guerra Mondiale, avessero effettivamente creato un fronte imperialista più collettivo, questo fu il risultato dell’egemonia globale degli Stati Uniti, che ridusse gli altri principali stati capitalisti allo status di partner minori. Nel complesso, la visione di Kautsky dell’imperialismo come politica si è dimostrata incommensurabilmente più debole di quella di Lenin come sistema[13].
Come ha osservato il Research Unit for Political Economy (RUPE, India), «l’obiettivo di L’imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin era quello di smascherare le caratteristiche della [Prima] Guerra Mondiale e le sue radici nel capitalismo stesso; quindi, in quell’opera specifica, Lenin non esplorava l’impatto dell’imperialismo sulle colonie e sulle semicolonie»[14]. Per comprendere questa parte della sua analisi, è necessario esaminare altri scritti successivi di Lenin sull’imperialismo, in un periodo in cui egli si confrontava direttamente con la lotta anti-imperialista nelle nazioni della periferia, in particolare in Asia, nel contesto della formazione del Comintern. Dopo la Rivoluzione d’Ottobre, la Russia sovietica si trovò immediatamente a dover fronteggiare gli interventi militari delle potenze imperiali a fianco delle forze bianche nella Guerra civile russa. Winston Churchill, osservava Lenin, proclamava allegramente che la Russia era stata invasa da «una crociata di quattordici nazioni», in primo luogo le grandi potenze imperiali di Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Italia e Giappone, che erano unite nella loro opposizione alla Rivoluzione d’Ottobre[15]. Allo stesso tempo, la Rivoluzione russa ispirava grandi insurrezioni in Asia, come il movimento del Quattro Maggio in Cina (1919), l’agitazione anti-Rowlatt Act in India (1919) e la Grande Rivoluzione Irachena (1920)[16].
Lenin era un pensatore politico troppo abile per non riconoscere le implicazioni di questi nuovi movimenti rivoluzionari. Pertanto si concentrò ancora di più sullo sfruttamento delle economie sottosviluppate, che era sempre stata la principale contraddizione storica alla base della sua analisi dell’imperialismo. Lo sfruttamento di colonie, semicolonie e dipendenze da parte delle potenze imperiali era già visibile negli scritti di Lenin del 1916. In La rivoluzione socialista e i diritti delle nazioni all’autodeterminazione, Lenin sosteneva che un certo grado di autodeterminazione fosse possibile per alcune nazioni colonizzate/dipendenti sotto il capitalismo, ma solo se fosse stato raggiunto attraverso rivoluzioni. Tali rivoluzioni alla periferia del sistema richiedevano, in ultima analisi, che ci fossero rivoluzioni nelle metropoli. «Nessuna nazione», scriveva, riferendosi a una precedente affermazione di Marx, «può essere libera se opprime altre nazioni»[17].
In “L’imperialismo e la scissione del socialismo”, Lenin affermava:
Un pugno di paesi ricchi – sono quattro in tutto, se si parla di una ricchezza “moderna”, indipendente e veramente gigantesca: l’Inghilterra, la Francia, gli Stati Uniti d’America e la Germania – questo pugno ha sviluppato i monopoli in proporzioni immense; esso riceve sovraprofitti che ammontano a centinaia di milioni, se non di miliardi; “vive alle spalle” di centinaia di milioni di abitanti degli altri paesi; lotta nel proprio seno per la spartizione di un bottino particolarmente ricco, particolarmente grasso, particolarmente tranquillo. È questa l’essenza economica e politica dell’imperialismo.[18]
Lenin non solo sosteneva che il capitale monopolistico sfruttava le colonie, le semicolonie e le dipendenze, ottenendo con questi mezzi dei superprofitti, ma che questo, come aveva intuito Friedrich Engels, gli consentiva di “corrompere” una ristretta sezione della classe operaia (lo strato superiore del lavoro), una proposizione nota come tesi dell’aristocrazia operaia[19]. Lo avrebbe ribadito con enfasi nella sua prefazione a L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, del 1920[20]. Era questo, sosteneva, che spiegava la natura più conservatrice del movimento operaio britannico, così come di quello di tutti i principali paesi imperialisti. «Se vogliamo rimanere socialisti», scrisse, la risposta è «andare sempre più in basso», al di sotto dello ristretto strato superiore della classe operaia, «fino alle masse reali: ecco l’importanza e tutto il contenuto della lotta contro l’opportunismo» dell’aristocrazia operaia e della socialdemocrazia[21].
Nel suo “Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente”, Lenin sottolineava come una «insignificante parte della popolazione mondiale» si era data «il diritto di sfruttare la maggioranza della popolazione del globo». In queste circostanze, la lotta contro l’imperialismo ha addirittura la priorità rispetto alla lotta di classe, sebbene esse rimangano intrinsecamente connesse. «La rivoluzione socialista non sarà quindi soltanto, né principalmente, la lotta dei proletari rivoluzionari di ogni paese contro la loro borghesia; no, sarà la lotta di tutte le colonie e di tutti i paesi oppressi dall’imperialismo, di tutti i paesi dipendenti contro l’imperialismo internazionale… La guerra civile dei lavoratori contro gli imperialisti e gli sfruttatori comincia a fondersi, in tutti i paesi avanzati, con la guerra nazionale contro l’imperialismo internazionale»[22].
Lenin sviluppava ulteriormente questa posizione nella “Bozza preliminare di tesi sulle questioni nazionali e coloniali”. Tracciava una netta distinzione tra le «nazioni oppresse, assoggettate, private dei loro diritti» e le «nazioni sovrane che ne sfruttano e ne opprimono altre». Chiariva che «l’internazionalismo proletario esige anzitutto… la subordinazione degli interessi della lotta proletaria in un paese agli interessi di questa lotta nel mondo intero». Il capitalismo, sosteneva, ha spesso cercato di mascherare il livello di sfruttamento internazionale attraverso la creazione di stati che erano nominalmente sovrani, ma che in realtà dipendevano dai paesi imperiali «economicamente, finanziariamente e militarmente»[23].
Il “Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali” di Lenin, ribadiva questi punti e concludeva che nelle attuali condizioni di sottosviluppo delle nazioni oppresse, «ogni movimento nazionale non può che essere democratico borghese». Questi movimenti «rivoluzionari-nazionali», nonostante il loro carattere di classe predominante, dovevano essere sostenuti, ma solo finché erano movimenti «effettivamente rivoluzionari». Lenin rifiutava con forza l’idea «che la fase capitalistica di sviluppo sia inevitabile per tali popoli», sostenendo piuttosto che tali movimenti potevano, data la loro complessa composizione di classe e anti-imperialista, e con l’esempio dell’Unione Sovietica, svilupparsi possibilmente in veri e propri movimenti verso il socialismo e che avrebbero realizzato molti dei compiti di sviluppo, associati al capitalismo, in termini non capitalistici[24].
Quando le “Bozze preliminari di tesi sulla questione nazionale e coloniale” di Lenin vennero presentate al Secondo Congresso del Comintern, furono seguite, con il supporto di Lenin, dalle “Tesi supplementari sulla questione nazionale e coloniale”, scritte dal marxista indiano M.N. Roy, che furono poi adottate insieme alle Bozze preliminari, di Lenin. L’essenza di queste Tesi supplementari, era l’affermazione esplicita che l’imperialismo aveva distorto lo sviluppo economico nelle colonie, nelle semicolonie e nelle dipendenze. Le colonie come l’India erano state deindustrializzate, bloccandone il progresso. Le potenze imperiali avevano estratto superprofitti dai “Paesi arretrati” economicamente, e dalle colonie:
La dominazione straniera ostacola costantemente il libero sviluppo della vita sociale; pertanto il primo passo della rivoluzione deve essere la rimozione di questa dominazione straniera. La lotta per rovesciare la dominazione straniera nelle colonie non consiste nella sottoscrizione degli obiettivi nazionali della borghesia nazionale, ma piuttosto, per il proletariato, nello spianare la strada alla liberazione delle colonie… La vera forza, il fondamento del movimento di liberazione delle colonie, non si lascerà costringere nella stretta cornice del nazionalismo democratico-borghese. Nella maggior parte delle colonie esistono già partiti rivoluzionari organizzati che lavorano a stretto contatto con le masse lavoratrici.[25]
Due anni dopo, nelle “Tesi sulla questione orientale”, del quarto congresso del Comintern del 1922, alcune delle nozioni fondamentali associate alla teoria della dipendenza:
È questa diminuzione [post-Prima Guerra Mondiale] della pressione imperialista nelle colonie, insieme alla rivalità in costante crescita tra i diversi raggruppamenti imperialisti, che ha facilitato lo sviluppo del capitalismo indigeno nei paesi coloniali e semicoloniali, che si è espanso e continua a espandersi oltre i limiti ristretti e restrittivi del dominio imperialista delle grandi potenze. In precedenza, il capitalismo delle grandi potenze cercava di escludere i paesi arretrati dal commercio economico mondiale, al fine di garantirsi, in questo modo, il suo status di monopolio e ottenere super-profitti dallo sfruttamento commerciale, industriale e fiscale di questi paesi. L’ascesa delle forze produttive indigene nelle colonie, è in contraddizione inconciliabile con gli interessi dell’imperialismo mondiale, la cui vera essenza è quella di sfruttare il differente grado di sviluppo delle forze produttive nei diversi ambiti dell’economia mondiale per conseguire super-profitti monopolistici[26].
Le “Tesi sul movimento rivoluzionario nelle colonie e nelle semicolonie”, del Sesto Congresso del Comintern nel 1928, rappresentarono un punto culminante nella teoria dell’imperialismo nel periodo interbellico. Lì, si affermava che «L’intera politica economica dell’imperialismo nei confronti delle colonie è determinata dal suo sforzo di preservare e accrescere la loro dipendenza, di approfondire il loro sfruttamento e, per quanto possibile, di impedire il loro sviluppo indipendente. La maggior parte del plusvalore estorto dalla… forza lavoro a basso costo» nelle colonie e nelle semicolonie viene esportata all’estero, con conseguente «emorragia della ricchezza nazionale dei paesi coloniali»[27].
Il problema teorico e pratico più difficile era la creazione di una base di classe per la rivoluzione anti-imperialista nei paesi sottosviluppati. Lenin sottolineava che la rivolta contro l’imperialismo avrebbe dovuto realizzare gli obiettivi di sviluppo solitamente associati alla borghesia nazionale, ma che la natura della lotta «rivoluzionaria nazionale» non sarebbe stata necessariamente determinata dalla borghesia nazionale. Mao Zedong aveva dato un importante contributo alla lotta anti-imperialista e alla rivoluzione socialista con “Analisi delle classi nella società cinese”, del 1926. Qui Mao sosteneva che la grande borghesia monopolista-capitalista, insieme alla classe dei proprietari terrieri, costituiva una formazione di classe compradora* che fungeva da appendice del capitale internazionale. La piccola borghesia nazionale, invece, era troppo debole e cercava soprattutto di trasformarsi in una grande borghesia. Le forze rivoluzionarie dipendevano quindi dalla piccola borghesia, dal semi-proletariato, dal proletariato e, inoltre, dai contadini[28].
Tutti questi sviluppi della teoria dell’imperialismo, come la maggior parte dei successivi, hanno avuto origine con Lenin. Come scrisse Prabhat Patnaik,
L’importanza di L’imperialismo di Lenin, risiede nel fatto che rivoluzionò totalmente la percezione della rivoluzione. Marx ed Engels avevano già immaginato la possibilità che i paesi coloniali e dipendenti avessero rivoluzioni proprie anche prima della rivoluzione proletaria nelle metropoli capitaliste, ma questi due tipi di rivoluzioni erano viste come disgiunte; ma rimanevano poco chiare sia la traiettoria della rivoluzione nella periferia, che la sua relazione con la rivoluzione socialista nelle metropoli. L’imperialismo di Lenin non solo collegava i due tipi di rivoluzioni, ma rendeva la rivoluzione nei paesi periferici parte del processo di avanzamento dell’umanità verso il socialismo. Vedeva quindi il processo rivoluzionario come un insieme integrato.[29]
Dipendenza, scambio ineguale, sistema mondiale imperialista e catene globali del valore
Dopo la Seconda Guerra Mondiale, il sistema mondiale imperialista si era storicamente evoluto, andando oltre le condizioni geopolitiche dell’epoca di Lenin. Gli Stati Uniti erano ormai la potenza egemonica indiscussa del sistema mondiale capitalista e lanciarono immediatamente una Guerra fredda volta a “contenere” l’Unione Sovietica e a reprimere la rivoluzione in ogni angolo del pianeta. Ciononostante, un’ondata rivoluzionaria di decolonizzazione, in gran parte ispirata dal marxismo, travolse l’Asia e l’Africa dopo il trionfo della Rivoluzione cinese nel maggio del 1949.
A differenza di Asia e Africa, le colonie ufficiali presenti in America Centrale e Meridionale erano in numero minore, e ciò a causa delle rivolte anticoloniali del diciannovesimo secolo contro Spagna e Portogallo, che portarono alla formazione di stati sovrani. Tuttavia, già da tempo gli stati latinoamericani erano costretti a dipendenze economiche, o neocoloniali, prima dalla Gran Bretagna e poi dagli Stati Uniti. Dunque, il principale problema nella regione era quello di superare la dipendenza economica, politica e culturale imposta dall’imperialismo statunitense. Si può dire che la teoria marxista latinoamericana, in particolare quella relativa all’imperialismo, abbia trovato le sue radici nell’opera del marxista peruviano José Carlos Mariátegui, che nel 1929 scriveva: «Siamo anti-imperialisti perché siamo marxisti, perché siamo rivoluzionari, perché ci opponiamo al capitalismo con il socialismo… e perché nella lotta che portiamo avanti contro l’imperialismo straniero stiamo adempiendo al nostro dovere di solidarietà con le masse rivoluzionarie d’Europa»[30]. All’epoca in cui Mariátegui faceva queste affermazioni, la lotta di Augusto César Sandino contro l’intervento degli Stati Uniti in Nicaragua risvegliava la coscienza anti-imperialista in tutta l’America Latina. In seguito, la vittoria della Rivoluzione cubana nel 1959, ispirata dall’anti-imperialismo di José Martí e trasformatasi in una lotta per il socialismo, portò di nuovo alla ribalta la rivoluzione contro l’imperialismo in America Latina, che si univa all’Asia e all’Africa su questo fronte[31].
A causa dell’ondata rivoluzionaria che aveva colpito tutti e tre i continenti del terzo mondo nei primi decenni del secondo dopoguerra, l’originale analisi dell’imperialismo di Lenin veniva approfondita e ampliata, sviluppandosi in una ricca tradizione globalista che rifletteva numerose condizioni storiche e linguaggi diversi, ma che sottolineava in ogni caso la necessità della lotta rivoluzionaria.
Dopo la Seconda guerra mondiale, una figura importante nello sviluppo della teoria dell’imperialismo, ma anche della teoria della dipendenza, è stato Paul A. Baran, autore di The Political Economy of Growth (1957)[32]. Baran è nato a Nikolaev, in Ucraina, nell’Impero russo zarista nel 1910. Studiò economia al Rossijskij ėkonomičeskij universitet im. G. V. Plechanova di Mosca e all’Università di Berlino, lavorando anche come assistente economico di Friedrich Pollock all’Institut für Sozialforschung di Francoforte. Successivamente emigrò negli Stati Uniti e studiò economia all’Università di Harvard durante la rivoluzione keynesiana. Durante la Seconda Guerra Mondiale e nell’immediato dopoguerra, lavorò con lo Strategic Bombing Survey in Germania e Giappone. Dopo la guerra, lavorò per il Federal Reserve Board e poi ottenne una posto di ruolo come professore di economia alla Stanford University. Prima della pubblicazione di The Political Economy of Growth, Baran tenne una serie di lezioni all’Università di Oxford, dove fu elaborata gran parte del libro, e lavorò per l’Indian Statistical Institute di Calcutta[33]. Fu un forte sostenitore della Rivoluzione cubana ed esercitò un’importante influenza su Che Guevara. Nel 1966, Baran e Paul M. Sweezy scrissero, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura sociale ed economico americana[34].
Rispecchiando questo background estremamente vasto, Baran incorporava nel suo lavoro non solo le teorie imperialiste di Lenin, del Comintern e di Mao, ma anche le esperienze della pianificazione economica sovietica e indiana. Allo stesso tempo, integrava queste esperienze con le mutate condizioni storiche del periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale. Si trovava, quindi, in una posizione del tutto favorevole per essere riconosciuto come uno dei pilastri della teoria marxiana della dipendenza. Sosteneva che l’imperialismo aveva «distorto in modo inquantificabile» e bloccato lo sviluppo in tutto il mondo sottosviluppato[35]. Nel 1830, i paesi di quello che sarebbe stato definito il “terzo mondo” rappresentavano il 60,9% del potenziale industriale mondiale. Nel 1953, questa percentuale era scesa al 6,5%[36]. Introducendo il suo concetto di “surplus economico” (che nella sua forma più semplice può essere espresso come «la differenza tra la produzione attuale effettiva della società e il suo consumo attuale effettivo»), Baran dimostrò che il problema di fondo che impediva lo sviluppo nei paesi sottosviluppati era il trafugamento del surplus da parte delle principali potenze imperialiste, che poi investivano la quantità di surplus rubato nelle proprie economie, o nella periferia, in modo tale da incrementare lo sfruttamento dei paesi sottosviluppati sul lungo periodo[37]. Come Engels e Lenin, Baran sosteneva che uno strato superiore di lavoratori nei paesi del centro imperiale beneficiava indirettamente dell’imperialismo, e formava così una «aristocrazia operaia che raccoglieva, al contrario della maggior parte della classe operaia, le briciole dal tavolo monopolistico»[38].
Un elemento importante della teoria della dipendenza di Baran, era il confronto tra Giappone e India. Il Giappone rappresentava un caso singolare di sviluppo economico al di fuori dell’Europa o delle colonie europee di colonizzatori bianchi. Nel diciannovesimo secolo, le potenze imperialiste avevano concentrato i loro sforzi in Asia orientale, al fine di sottomettere la Cina, non riuscendo a colonizzare il Giappone. Con la Restaurazione Meiji del 1868, avvenuta in risposta alle crescenti minacce militari e alla nascente imposizione di trattati ineguali da parte dell’Occidente, il Giappone fu in grado di creare la base sociale interna per una rapida industrializzazione, facilitata dall’appropriazione del know-how tecnologico occidentale. Nel 1905, la sua vittoria nella guerra russo-giapponese segnò l’ingresso del Giappone nello status di grande potenza. Al contrario, l’India, che era stata colonizzata dal Regno Unito nel diciottesimo secolo, vide la sua industria distrutta dagli inglesi, tenuta in uno stato permanente di sottosviluppo, o sviluppo dipendente[39].
Rifacendosi a Mao, Baran insisteva sul fatto che una classe di comprador, o grande borghesia (alleata con i grandi proprietari terrieri) dei paesi sottosviluppati, era direttamente legata al capitale internazionale e svolgeva un ruolo parassitario nei confronti delle proprie società[40]. «Il compito principale dell’imperialismo oggi», scriveva, era di «prevenire o, se ciò è impossibile, rallentare e controllare lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati». Sosteneva che, «mentre ci sono state enormi differenze tra i paesi sottosviluppati», sotto questo aspetto, «il mondo sottosviluppato, nel suo insieme, ha continuamente trasferito una gran parte del proprio surplus economico ai paesi più avanzati, a causa di interessi e dividendi. Tuttavia, la cosa peggiore è che è molto difficile dire quale sia stato il male maggiore per quanto riguarda lo sviluppo economico dei paesi sottosviluppati: la rimozione del loro surplus economico da parte del capitale straniero o il suo reinvestimento da parte di imprese estere?»[41]. Sotto quasi tutti gli aspetti, l’economia dipendente era una mera «appendice al ‘mercato interno’ del capitalismo occidentale»[42]. Quindi, l’unica risorsa era la rivoluzione contro l’imperialismo, e l’istituzione di un’economia pianificata socialista. Qui Baran indicava l’esempio della Cina, che, uscendo «dall’orbita del capitalismo mondiale», era diventata una fonte di «stimolo e ispirazione per tutti gli altri paesi coloniali e dipendenti da altre potenze»[43].
The Political Economy of Growth fu pubblicato solo due anni dopo la Conferenza di Bandung del 1955, che dava il via al Movimento dei paesi non allineati del Terzo Mondo, e la sua influenza fu enorme[44]. Sebbene i paesi latinoamericani non avessero preso parte alla Conferenza di Bandung, la nuova prospettiva terzomondista contribuì a generare un’esplosione di ricerche dedicate al marxismo e all’analisi radicale del fenomeno della dipendenza in America Latina, che fu ispirata, molto più concretamente, dalla Rivoluzione cubana. Baran visitò Cuba nel 1960, insieme a Leo Huberman e Paul Sweezy, e incontrò Che Guevara, all’epoca presidente della Banca nazionale che si associò strettamente all’analisi generale di Baran sul sottosviluppo. Il Che avrebbe poi dichiarato, nel 1965, che «da quando il capitale monopolistico ha preso il controllo del mondo, ha tenuto in condizioni di povertà la maggior parte dell’umanità, dividendo tutti i profitti tra il gruppo dei paesi più potenti»[45]. Tra i principali contributori all’analisi della dipendenza, in America Latina e nei Caraibi, figurano Vânia Bambirra, Theotônio Dos Santos, Rodolfo Stavenhagen, Fernando Henrique Cardoso, Pablo González Casanova, Ruy Mauro Marini, Walter Rodney (il cui lavoro più noto si è concentrato sul sottosviluppo dell’Africa), Clive Thomas ed Eduardo Galeano[46]. Anche l’economista tedesco-americano Andre Gunder Frank ha prodotto un profondo impatto con la pubblicazione, nel 1967, del suo Capitalism and Underdevelopment in Latin America, che metteva in evidenza «lo sviluppo del sottosviluppo»[47].
In Africa, Samir Amin, un giovane economista marxista franco-egiziano, introdusse nella sua tesi di dottorato del 1957 (completata all’età di 26 anni nello stesso anno in cui fu pubblicato il libro di Baran), una critica a tutto campo dello sviluppo mainstream, poi pubblicata con il titolo Accumulation on a World Scale. Successivamente ha contribuito in modo fondamentale all’analisi della dipendenza, dello scambio ineguale e alla teoria dei sistemi-mondo. Gran parte dell’analisi di Amin si concentrava sulla distinzione, da un lato, tra le economie “autocentriche” presenti nel cuore del sistema capitalista mondiale, orientate alle proprie logiche interne e alla riproduzione espansa, e dall’altro, tra le economie “disarticolate” della periferia, dove la produzione era strutturata in relazione alle esigenze delle economie imperialiste. La natura disarticolata delle economie periferiche sotto l’imperialismo, indicava come unica vera alternativa, un delinking* rivoluzionario dalla logica dell’ordine imperialista mondiale. Per Amin, tuttavia, il delinking non riguardava una separazione assoluta dall’economia mondiale o un “ritiro autarchico”. Piuttosto, esso implicava che avvenisse un delinking dal sistema mondiale basato sul valore, organizzato attorno a un centro dominante e una periferia dominata, per avviare una transizione verso un mondo più “policentrico”[48].
Un contributo fondamentale alla teoria dell’imperialismo è stato Unequal Exchange: A Study of the Imperialism of Trade (1969) dell’economista marxista francese Arghiri Emmanuel[49]. Il lavoro di Emmanuel, che ha dato vita a un lungo dibattito, sosteneva che nell’era del neocolonialismo la relazione tra i paesi centrali e quelli della periferia era una relazione basata sulla diseguaglianza nel processo di scambio, tale per cui un paese otteneva più valore-lavoro di un altro a causa della mobilità globale del capitale, unita all’immobilità globale del lavoro. I termini di questo problema erano stati impostati da Amin, il quale aveva mostrato che lo scambio diseguale esisteva quando la differenza di salari tra il Nord globale e il Sud globale era maggiore della differenza tra le loro produttività. Amin proseguiva sostenendo che la legge del valore ora operava a livello mondiale sotto il capitale finanziario monopolistico globalizzato[50].
La realtà della classe dirigente nel mondo sottosviluppato, secondo Amin, era una realtà di “compradorizzazione e transnazionalizzazione”, che richiedeva nuove strategie rivoluzionarie anti-imperialiste, dal momento che non esisteva più una borghesia nazionale in quanto tale. In queste circostanze, una strategia rivoluzionaria di delinking sarebbe dipesa dalla «costruzione di un blocco sociale anti-comprador» con l’obiettivo di consentire un progetto sovrano, separato dal controllo del sistema mondiale imperialista. Per quanto riguarda l’imperialismo e la classe negli stati capitalisti avanzati, Amin suggeriva che la teoria dell’aristocrazia operaia di Lenin non era sufficiente per affrontare il modo in cui l’intera «ineguale divisione internazionale del lavoro» creava ampie strutture di supporto all’imperialismo all’interno degli stati imperialisti centrali che non potevano essere semplicemente eliminate. In questo caso era necessaria la «costruzione di un blocco anti-monopolista»[51].
Gran parte della teoria marxista della dipendenza, a partire dagli anni ’70, si fuse con la teoria del sistema-mondo (in seguito sistemi-mondo), grazie agli studi pionieristici di Oliver Cox, Immanuel Wallerstein, Frank, Amin e Giovanni Arrighi[52]. La teoria del sistema-mondo superò alcuni dei limiti della teoria della dipendenza, concependo gli stati-nazione come parte di un sistema-mondo capitalista. Il sistema-mondo, nella sua divisione in centri e periferie (ma capace di includere semiperiferie e aree esterne) diventava così il centro dell’analisi. Tuttavia, in alcune versioni della teoria del sistema-mondo, in particolare nel lavoro di Arrighi, permaneva una divergenza rispetto alla teoria dell’imperialismo, dovuta al fatto che le relazioni politico-economiche internazionali venivano ridotte a semplici egemonie mutevoli, in linea con l’economia politica internazionale dominante[53].
Già negli anni ’60, gli economisti politici radicali si erano concentrati sulla critica delle multinazionali, intese come la forma globale assunta dal capitale monopolistico e quindi le principali cinghie di trasmissione dell’imperialismo economico. In questo contesto, fu pionieristica l’analisi di Stephen Hymer, che, con la sua rivoluzionaria tesi del 1960 dedicata a The International Operations of National Firms: A Study of Direct Foreign Investment, fornì, proprio nell’anno in cui il termine appariva per la prima volta, una teoria delle “multinazionali” basata sull’organizzazione industriale e sulla teoria del monopolio. A questa analisi seguì quella sul ruolo delle multinazionali e dell’imperialismo, in Il capitale monopolistico, di Baran e Sweezy, e “Notes on the Multinational Corporation”, di Harry Magdoff e Sweezy (1969). La traiettoria mondiale di queste società è diventata centrale per l’intera teoria dell’imperialismo come in The Age of Imperialism: The Economics of US Foreign Policy di Magdoff (1969)[54].
Negli anni ’70 e ’80, gran parte della ricerca sull’imperialismo si è spostata dal regno dell’economia politica a quello della cultura. In linea con la precedente critica di Joseph Needham all’”Eurocentrismo” degli anni ’60, nel 1989 Amin introdusse la sua influente critica pubblicando Eurocentrismo, mentre Edward Said scriveva Orientalismo (1978) e poi Cultura e imperialismo (1993)[55]. Con l’ascesa dell’ecosocialismo, la critica dell’imperialismo venne estesa anche alla questione dell’imperialismo ecologico[56].
Nel corso del ventunesimo secolo, la maggior parte delle analisi dell’imperialismo economico si è concentrata sull’arbitraggio globale del lavoro e sulle catene globali del valore. Mai prima d’ora l’estrazione di surplus del Nord globale dal Sud globale è stata dimostrata in modo così approfondito per mezzo di studi empirici. Ciò deriva dal fatto che lo sfruttamento internazionale è ora più sistematico che mai: radicato nelle catene del valore del sistema globale e incarnato nell’esportazione di beni manifatturieri dalla periferia alla semiperiferia sino al centro[57]. Da ciò è risultato il crescente rilievo delle teorie di “supersfruttamento” (vale a dire, livelli di sfruttamento nel Sud globale che superano la media globale e minano i bisogni essenziali di sussistenza dei lavoratori del Sud) come sviluppato nel lavoro di pensatori come Marini, Amin, John Smith e Intan Suwandi[58].
Oggi, grazie alla ricerca di Jason Hickel e dei suoi colleghi sappiamo che tra il 1995 e il 2021 il Nord globale è stato in grado di estrarre dal Sud globale 826 miliardi di ore di lavoro netto appropriato. Misurato con i salari del Nord, si tratta di un valore pari a 18,4 trilioni di dollari. Alla base di questo fenomeno, c’è il fatto che i lavoratori del Sud globale ricevono salari inferiori dell’87-95% rispetto a quelli del nord, per un lavoro identico e svolto con gli stessi livelli di competenza. Lo stesso studio ha concluso che il divario salariale tra il Nord globale e il Sud globale stava aumentando, con i salari del Nord in aumento di undici volte rispetto ai salari del Sud tra il 1995 e il 2021[59]. Questa ricerca sull’arbitraggio del lavoro globale contemporaneo è abbinata al recente lavoro storico di Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik che ha documentato l’astronomico drenaggio di ricchezza durante il periodo del colonialismo britannico in India. Il valore stimato di questo drenaggio nel periodo 1765-1900, contabilizzato fino al 1947 (ai prezzi del 1947) al 5% di interesse, era di 1.925 trilioni di dollari; contabilizzato fino al 2020, ammonta a 64.82 trilioni di dollari[60].
Occorre sottolineare che l’attuale drenaggio di surplus economico del Nord globale dal Sud globale, tramite lo scambio ineguale di lavoro incorporato nelle esportazioni da parte di quest’ultimo, si aggiunge al normale flusso netto di capitale che va dai paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, così come registrato nei conti nazionali. Ciò include il saldo del commercio di merci (importazioni ed esportazioni), i pagamenti netti a investitori e banche straniere, i pagamenti per trasporto merci e assicurazioni e una vasta gamma di altri pagamenti effettuati al capitale straniero come royalty e brevetti. Secondo la Conferenza delle Nazioni Unite sul commercio e lo sviluppo (UNCTAD), i trasferimenti netti di risorse finanziarie dai paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, nel solo 2017 ammontavano a 496 miliardi di dollari. Nell’economia neoclassica, questo fenomeno è noto come il paradosso del flusso inverso di capitale, o del capitale che scorre in salita, e che si cerca inefficacemente di spiegare con vari fattori contingenti piuttosto che riconoscere la realtà dell’imperialismo economico[61].
Per quanto riguarda la dimensione geopolitica dell’imperialismo, nel corso di questo secolo l’attenzione si è concentrata sul continuo declino dell’egemonia statunitense. L’analisi si è focalizzata sui tentativi di Washington, a partire dal 1991, sostenuti da Londra, Berlino, Parigi e Tokyo, di invertire questa tendenza. L’obiettivo era quello di instaurare la triade Stati Uniti, Europa e Giappone, con Washington preminente, come potenza globale unipolare attraverso un più “nudo imperialismo”. Questa dinamica controrivoluzionaria ha infine portato all’attuale Nuova Guerra Fredda[62].
Eppure, nell’ultimo secolo, nonostante tutti gli sviluppi della teoria dell’imperialismo, non è tanto la teoria dell’imperialismo quanto l’intensificazione effettiva dello sfruttamento del Sud globale da parte del Nord globale, unita alla resistenza di quest’ultimo, a essere venuta in primo piano. Come sosteneva Paul Sweezy nel 1972, in Modern Capitalism and Other Essays, nel ventesimo secolo il punto focale della resistenza proletaria si è spostato in modo decisivo dal Nord globale al Sud globale[63]. Quasi tutte le rivoluzioni avvenute dal 1917 hanno avuto luogo nella periferia del sistema capitalista mondiale e sono state rivoluzioni contro l’imperialismo. La stragrande maggioranza di queste rivoluzioni si è verificata sotto gli auspici del marxismo. Tutte hanno subito azioni controrivoluzionarie da parte delle grandi potenze imperialiste. Solo gli Stati Uniti sono intervenuti militarmente centinaia di volte dopo la Seconda Guerra Mondiale, soprattutto nel Sud globale, causando la morte di milioni di persone[64]. Tra la fine del ventesimo e l’inizio del ventunesimo secolo, le principali contraddizioni del capitalismo sono state quelle di imperialismo e classe.
(1/2. Segue)
John Bellamy Foster
(Tratto dal sito: https://www.citystrike.org/2024/12/27/la-sinistra-occidentale-e-la-nuova-negazione-dellimperialismo/).
Note
* Concetto coniato all’interno degli studi economico-sociali. In ambito produttivo delinking significa: disaccoppiamento del benessere dalla crescita economica, dalla produzione. N.d.T.
[1] L’opposizione alla prima guerra mondiale includeva il Partito socialista italiano e il Partito socialista d’America, insieme al Partito bolscevico di V.I. Lenin e alla Lega di Spartaco di Rosa Luxemburg e Karl Liebknecht. Sulla relazione tra lo scioglimento della Seconda Internazionale e le controversie attuali, vedi Zhun Xu, “The Ideology of Late Imperialism: The Return of the Geopolitics of the Second International”, Monthly Review 72, n. 10, 03.2021, pp. 1–20.
[2] V.I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, in Opere complete, vol. 22, Roma, Editori Riuniti, 1966, pp. 187-303. Utilizzando fase suprema nel sottotitolo, Lenin non negava l’esistenza di forme di imperialismo precedenti a questa fase storica. Piuttosto, stava evidenziando il fatto che negli ultimi anni del diciannovesimo secolo era sorta una fase completamente nuova, monopolistica o imperialista del capitalismo, che rappresentava una trasformazione qualitativa della produzione capitalista. Utilizzò il termine imperialismo per riferirsi simultaneamente sia a un fenomeno generico presente nell’intera storia del capitalismo sia a una fase storicamente specifica. Vedi Lenin, L’imperialismo, 259-260. Il libro di Lenin fu inizialmente sottotitolato L’ultima fase del capitalismo e in seguito cambiato in La fase suprema del capitalismo, in linea con quella che sembra essere stata la sua intenzione fin dall’inizio. Entrambi i sottotitoli, Ultima e Massima, lasciavano spazio all’emergere storico di fasi transitorie più degenerate del capitalismo durante il suo lungo declino e la sua caduta, un decadimento che Lenin riteneva fosse già iniziato. Sebbene Victor Kiernan sostenesse che il riferimento allo Stadio più Alto potesse essere visto come “implicazione” che questo fosse lo “stadio finale”, era anche aperto a un’interpretazione più storicamente contingente. V.I. Lenin, Collected Works, Mosca, Progress Publishers, sd), immagine della copertina originale, pp. 192–93; Victor Kiernan, Marxism and Imperialism, Londra, Edward Arnold, 1974, p. 39.
[3] Tra le opere rappresentative che promuovono una o più di queste opinioni figurano: William I. Robinson intervistato da Frederico Fuentes, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation and the Global Police State, Links, 19.10.2023; William I. Robinson, The Unbearable Manicheanism of the ‘Anti-Imperialist Left, The Philosophical Salon, 07.08.2023; William I. Robinson, The Travesty of ‘Anti-Imperialism’, Journal of World-Systems Research 29, n. 2, 2023, pp. 587–601; William I. Robinson, Into the Tempest, Chicago, Haymarket, 2018, pp. 99–121; Vivek Chibber intervistato da Alexander Brentler, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home, Jacobin , 16.10.2022; Gilbert Achcar, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools, The Nation, 06.04.2021; Jerry Harris intervistato da Bill Fletcher, Why Doesn’t the World Make Sense Any More?, Znetwork.org, 01.05.2024; Jerry Harris, Multi-Polarity: A New Realignment?, Against the Current, luglio-agosto 2024; Ashley Smith, As US-China Tensions Mount We Must Resist the Push Toward Interimperialist War, Truthout, 04.05.2023; David Harvey, A Commentary on A Theory of Imperialism, in Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, A Theory of Imperialism, New York, Columbia University Press, 2017, pp. 169, 171; Ho-fung Hung, Clash of Empires: From “Chimerica” to the “New Cold War”, Cambridge, Cambridge University Press, 2022; Ho-fung Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of US-China Rivalry, Spectre, 10.12.2021, spectrejournal.com.
[4] Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of US-China Rivalry; Hung, Clash of Empires, p. 62, 65.
[5] Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Exploitation and the Global Police State.
[6] Karl Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, in Karl Marx, La miseria della filosofia, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 176.
[7] V.I. Lenin, L’mperialismo, pp. 299; V.I. Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, Opere complete , vol. 23, pp. 104.
[8] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home.
[9] Lenin, L’imperialismo e scissione del socialismo; V.I. Lenin, La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione (tesi), Opere complete, vol. 22, pp. 147–160; V.I. Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, Opere complete, vol. 30, pp. 130–140; V.I. Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, Opere complete, vol. 31, pp. 159–165; V.I. Lenin, Rapporto della Commissione sulle questioni nazionale e coloniale, Opere complete, vol. 31, pp. 228–233. Un utile opuscolo pubblicato in Cina include il secondo, il quarto e il quinto di questi saggi: V.I. Lenin, Lenin on the National and Colonial Questions: Three Articles, Pechino, Foreign Languages Press, 1975. L’Imperialismo, fase suprema del capitalismo di Lenin, come spiega Prabhat Patnaik, deve essere letto insieme agli scritti sopra citati «per un apprezzamento complessivo della sua teoria dell’imperialismo». (Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism and Other Essays, Nuova Delhi, Tulika, 1995, p. 80.
[10] Per una breve analisi che tenga conto di questa parte della teoria complessiva di Lenin e sottolinei la sua relazione con lo sviluppo della teoria della dipendenza, vedi Claudio Katz, Dependency Theory After Fifty Years: The Continuing Relevance of Latin American Critical Thought, Boston, Brill, 2022, pp. 26–29.
[11] Lenin, L’imperialismo, p. 265-266;
[12] Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, pp. 266-267. Un diffuso errore economicistico commesso soprattutto dai teorici marxisti occidentali è stato quello di suggerire, senza alcun supporto reale, che Lenin vedesse l’imperialismo come un prodotto dell’esportazione di capitale, o che avesse la sua causa in una qualche teoria della crisi economica, o nel sottoconsumo o nella tendenza alla riduzione del tasso di profitto. Al contrario, lo stesso Lenin sosteneva che l’imperialismo fosse la fase monopolistica del capitalismo e che quindi fosse fondamentale per il sistema quanto la ricerca del profitto. Non aveva quindi bisogno di particolari spiegazioni economiche. Come scrisse Oskar Lange, «La ricerca di profitti monopolistici in eccesso [da parte del capitale monopolistico] è sufficiente a spiegare la natura imperialista del capitalismo odierno. Di conseguenza, le teorie speciali dell’imperialismo, che ricorrono a costruzioni artificiali, come la teoria di Rosa Luxemburg… sono del tutto inutili». (Oskar Lange, citato da Harry Magdoff in Imperialism: From the Colonial Age to the Present, New York, Monthly Review Press, 1978, p. 279). Per una critica della ristretta visione economicistica dell’opera di Lenin sull’imperialismo, vedi Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism and Other Essays , pp. 80–101.
[13] Lenin, L’imperialismo, pp. 267-273; Karl Kautsky, Ultra-imperialism, New Left Review 1/59, gennaio–febbraio 1970, pp. 41–46; Paul A. Baran, The Political Economy of Growth, New York, Monthly Review Press, 1957, p. vii.
[14] Research Unit for Political Economy (RUPE), On the History of Imperialism Theory, Monthly Review 59, n. 7, dicembre 2007, p. 50.
[15] Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, p. 136.
[16] RUPE, On the History of Imperialism Theory, p. 43.
[17] Lenin, “La rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodeterminazione (Tesi)”, p. 149; Tom Lewis, “ Marxism and Nationalism, parte 1 ” International Socialist Review 14 (ottobre-novembre 2000), isreview.org.
[18] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, pp. 112-113.
[19] Vedi Eric Hobsbawm, “Lenin and the ‘Aristocracy of Labor,’” Monthly Review 21, n. 11, aprile 1970, pp. 47–5
[20] Lenin, L’imperialismo, pp. 279.
[21] Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, p. 117.
[22] Lenin, Rapporto al secondo congresso di Russia delle organizzazioni comuniste dei popoli dell’Oriente, 137.
[23] Lenin, Primo abbozzo di tesi sulle questioni nazionale e coloniale, p. 160, 163, 165.
[24] Lenin, Rapporto della Commissione sulle questioni nazionali e coloniali”, 228–233; V. I. Lenin, “Comments to the Second Congress of the Communist International on the National and Colonial Question,” Minutes of the Second Congress of the Communist International, Fourth Session, July 25, 1920, Marxists Internet Archive, marxists.org.
[25] MN Roy, “Tesi supplementari sulle questioni nazionali e coloniali”, verbali del secondo congresso dell’Internazionale comunista, 25 luglio 1920, Marxists Internet Archive; RUPE, “Sulla teoria della storia dell’imperialismo”, 44.
[26] Theses on the Eastern Question, Resolutions 1922, Fourth Congress of the Communist International, 1922.
[27] Theses on the Revolutionary Movement in the Colonies and Semi-Colonies, Sixth Congress of the Communist International, 1928.
[28] Mao Zedong, Analysis of the Classes in Chinese Society, marzo 1926, Marxists Internet Archive; RUPE, On the History of Imperialism Theory, pp. 46–50.
[29] Prabhat Patnaik, The Theoretical Significance of Lenin’s Imperialism, People’s Democracy, 21.01.2024.
[30] JJosé Carlos Mariátegui, Anti-Imperialist Viewpoint, First Latin American Communist Conference, June 1929, Marxists Internet Archive; José Carlos Mariátegui, An Anthology, Harry E. Vanden e Marc Becker, New York, Monthly Review Press, 2011.
[31] Vedi José Martí, Our America, New York, Monthly Review Press, 1977.
[32] Baran, The Political Economy of Growth.
[33] Sulla vita e l’opera di Baran, vedi John Bellamy Foster, introduzione a Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, The Age of Monopoly Capital: Selected Correspondence, 1949–1964, a cura di Nicholas Baran e John Bellamy Foster, New York, Monthly Review Press, 2017, pp. 13–48.
[34] Paul A. Baran e Paul M. Sweezy, Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura sociale ed economico americana, Torino, Einaudi, 1968.
[35] Baran, The Political Economy of Growth, p. 162.
[36] David Christian, Maps of Time (Berkeley: University of California Press, 2004), 406–9, 435; Paul Bairoch, “Le principali tendenze nelle disparità economiche nazionali dalla rivoluzione industriale”, in Bairoch e Maurice Lévy-Leboyer, a cura di, Disparities in Economic Development since the Industrial Revolution (New York: St. Martin’s Press, 1981), 7–8.
[37] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 22–43.
[38] Baran, The Political Economy of Growth, p. 119.
[39] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 140–161; Jon Halliday, Una storia politica del capitalismo giapponese (New York: Monthly Review Press, 1975), 17–18.
[40] Baran, The Political Economy of Growth, pp. 170, 195–98, 205, 214–58.
[41] Baran, The Political Economy of Growth, p. 184, 197.
[42] Baran, The Political Economy of Growth, p. 174.
[43] Baran, The Political Economy of Growth, p. 10.
[44] Vijay Prashad, The Darker Nations, New York, New Press, 2007, pp. 31–50. Parti di questo testo, e dei paragrafi successivi, si basano su: John Bellamy Foster, The Imperialist World System: Paul Baran’s The Political Economy of Growth After Fifty Years, Monthly Review 59, n. 1, maggio 2007, pp. 1–16.
[45] Che Guevara, “Discorso alla conferenza afro-asiatica in Algeria”, 24 febbraio 1965, Marxists Internet Archive; “ Dichiarazione su Paul A. Baran ”, Monthly Review 16, n. 11 (marzo 1965): 107–8.
[46] Vedi in particolare Eduardo Galeano, Le vene aperte dell’America Latina, Segrate (Mi), Sperling & Kupfer, 1997; Walter Rodney, How Europe Underdeveloped Africa, Washington, DC, Howard University Press, 1981; originariamente pubblicato nel 1972; KT Fann e Donald Hodges, a cura di, Readings in US Imperialism, Boston, Porter Sargent, 1971; Ruy Mauro Marini, The Dialectics of Dependency, New York, Monthly Review Press, 2022, edizione originale, 1973.
[47] Andre Gunder Frank, Capitalism and Underdevelopment in Latin America, New York, Monthly Review Press, 1967.
[48] Samir Amin, Delinking: Toward a Polycentric World, Londra, Zed Books, 1990, pp. vii, xii, 62–66; Samir Amin, Accumulation on a World Scale, New York, Monthly Review Press, 1974; Samir Amin, Unequal Development, New York, Monthly Review Press, 1976; A Biographical Dictionary of Dissenting Economists , Samir Amin (nato nel 1931), Philip Arestis e Malcolm Sawyer (a cura di), Cheltenham, Edward Elgar, 2000, p. 1.
[49] Arghiri Emmanuel, Unequal Exchange: A Study of the Imperialism of Trade, New York, Monthly Review Press, 1972. Emmanuel è noto anche per il suo articolo del 1972, “White-Settler Colonialism and the Myth of Investment Imperialism”. Il colonialismo era originariamente un concetto marxista, sviluppato in linea con Marx, Baran, Maxime Rodinson e altri. Arghiri Emmanuel, “White-Settler Colonialism and the Myth of Settler Colonialism,” New Left Review 1/73, maggio-giugno 1972, pp. 35-57; Maxime Rodinson, Israel: A Colonial Settler-State?, New York, Monad Press, 1973. Su Marx e il colonialismo, vedi Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 8, gennaio 2024. Per il trattamento riservato da Baran al colonialismo dei coloni bianchi, vedi Baran, The Political Economy of Growth.
[50] Samir Amin, Self-Reliance and the New Economic Order, Monthly Review 29, n. 3, luglio-agosto 1977, p. 6; Samir Amin, Lo Sviluppo ineguale. Saggio sulle formazioni sociali del capitalismo periferico, Torino, Einaudi, 1997; Samir Amin, Modern Imperialism, Monopoly Finance Capital, and Marx’s Law of Value, New York, Monthly Review Press, 2018.
[51] Amin, Delinking, pp. 33, 90–91, 157–58; Samir Amin, The Long Revolution of the Global South, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 401–2; Aijaz Ahmad, introduction to Samir Amin, Only People Make Their Own History, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 27–28.
[52] Vedi in particolare Oliver Cox, Capitalism as a System, New York, Monthly Review Press, 1964; Immanuel Wallerstein, The Modern World-System, Orlando, Florida, Academic Press Inc., 1974, pp. 2–13, 347–57; Immanuel Wallerstein, The Capitalist World-Economy, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; Samir Amin, Giovanni Arrighi, Andre Gunder Frank e Immanuel Wallerstein, Dynamics of Global Crisis, New York, Monthly Review Press, 1982.
[53] Giovanni Arrighi, Geometria dell’imperialismo: i limiti del paradigma hobsoniano, Milano, Feltrinelli, 1978.
[54] Stephen Herbert Hymer, The International Operation of National Firms, Cambridge, Massachusetts, MIT Press, 1976; Stephen Herbert Hymer, The Multinational Corporation: A Radical Approach, Cambridge, Cambridge University Press, 1979; Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, Notes on The Multinational Corporation, Part I, Monthly Review 21, n. 5, ottobre 1969, pp. 1–13; Harry Magdoff e Paul M. Sweezy, “ Notes on The Multinational Corporation, Part II, Monthly Review, novembre 1969, pp. 1–13.
[55] Joseph Needham, Within Four Seas: The Dialogue of East and West, Toronto, University of Toronto Press, 1969; Samir Amin, Eurocentrism, New York, Monthly Review Press, 1989, 2009; Edward Said, Orientalismo, Milano, Bollati Boringhieri, 1991; Edward Said, Cultura e imperialismo. Letteratura e consenso nel progetto coloniale dell’Occidente, Roma, Gamberetti Editrice, 1995. La questione dell’eurocentrismo nella teoria marxista fu affrontata da Mariátegui nel 1929 con Anti-Imperialist Viewpoint.
[56] Vedi, ad esempio, John Bellamy Foster e Brett Clark, Ecological Imperialism: The Curse of Capitalism, in Socialist Register 2004: The New Imperial Challenge, Leo Panitch e Colin Leys (a cura di), New York, Monthly Review Press, 2003, pp. 186–201.
[57] John Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, New York, Monthly Review Press, 2016; Intan Suwandi, John Bellamy Foster e R. Jamil Jonna, Global Commodity Chains and the New Imperialism, Monthly Review 70, n. 10, marzo 2019, pp. 1–24; Intan Suwandi, Value Chains, New York, Monthly Review Press, 2019, pp. 1–24; Jason Hickel, Morena Hanbury Lemos e Felix Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy, Nature Communications 15, 2024; Jason Hickel, Christian Dorninger, Hanspeter Wieland e Intan Suwandi, Imperialist Appropriation in the World Economy: Drain from the Global South through Unequal Exchange, 1990–2019, Global Environmental Change 72, marzo 2022, pp. 1–13; Zak Cope, Divided World Divided Class, Montreal, Kersplebedeb, 2015; Mateo Crossa, Unequal Value Transfer from Mexico to the United States, Monthly Review 75, n. 5, ottobre 2023, pp. 42–53; Michael Roberts, Further Thoughts on the Economics of Imperialism, The Next Recession, 23.04.2024; John Bellamy Foster e Robert W. McChesney, The Endless Crisis, New York, Monthly Review Press, 2012.
[58] Marini, The Dialectics of Dependency, pp. 130–36; Smith, Imperialism in the Twenty-First Century, pp. 219–23.
[59] Hickel, Lemos e Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy; Phie Jacobs, Rich Countries Drain ‘Shocking’ Amount of Labor from the Global South, Science, 06.08.2024.
[60] Utsa Patnaik e Prabhat Patnaik, The Drain of Wealth: Colonialism Before the First World War, Monthly Review 72, n. 9, febbraio 2021, p. 15.
[61] United Nations Conference on Trade and Development (UNCTAD), Topsy-Turvy World: Net Transfer of Resources from Poor to Rich Countries, Policy Brief n. 78, maggio 2020; Harry Magdoff, International Economic Distress and the Third World, Monthly Review 33, n. 11, aprile 1982, pp. 8–13; Robert Lucas, Why Doesn’t Capital Flow from Rich to Poor Countries?, American Economic Review 80, n. 2, maggio 1990, pp. 92–96.
[62] John Bellamy Foster, Naked Imperialism, New York, Monthly Review Press, 2006; John Bellamy Foster, John Ross, Deborah Veneziale e Vijay Prashad, Washington’s New Cold War: A Socialist Perspective, New York, Monthly Review Press, 2022; John Bellamy Foster, The New Cold War on China, Monthly Review 73, n. 3, luglio-agosto 2021, pp.1–20.
[63] Paul M. Sweezy, Modern Capitalism and Other Essays, New York, Monthly Review Press, 1972, pp. 147–65.
[64] US Congressional Research Services, Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798–2023, 07.06.2023; David Michael Smith, Endless Holocausts, New York, Monthly Review Press, 2023.
Inserito il 03/01/2025.
di John Bellamy Foster
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La sinistra occidentale e la nuova negazione dell’imperialismo
di John Bellamy Foster
Seconda parte
La crescente negazione dell’imperialismo da parte della sinistra occidentale
La negazione della realtà dell’imperialismo, in tutto o in parte, ha una lunga storia nella sinistra eurocentrica occidentale, a partire dal vero e proprio “imperialismo sociale” della Fabian Society in Gran Bretagna, riflessa nello sciovinismo sociale di tutti i principali partiti socialdemocratici europei al tempo della Prima Guerra Mondiale. Tuttavia, con la rinascita della sinistra occidentale nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, in particolare negli anni ’60 e ’70, i socialisti occidentali avevano adottato una posizione fortemente anti-imperialista, sostenendo le lotte di liberazione nazionali in tutto il mondo. Questo iniziò ad affievolirsi con il declino del movimento contro la guerra del Vietnam, nei primi anni ’70[65].
Nel 1973, Bill Warren, nella New Left Review, introdusse l’idea che Marx, nel suo “The Future Results of the British Rule in India” (1853), avesse visto l’imperialismo come una forza progressista, una visione che, dichiarava Warren, è stata in seguito erroneamente ribaltata da Lenin[66]. L’interpretazione di Marx da parte di Warren era in contrasto con il trattamento, molto più approfondito, di teorici negli Stati Uniti, in India e in Giappone che a partire dagli anni ’60, dimostravano che Marx, fin dai primi anni ’60 dell’Ottocento, aveva riconosciuto il modo in cui il colonialismo impediva lo sviluppo nelle colonie[67]. Tuttavia, l’idea che Marx, e persino Lenin, avessero adottato la visione dell’imperialismo [come] pioniere del capitalismo, – titolo/sottotitolo del libro di Warren, pubblicato postumo nel 1980 – è divenuta un postulato comunemente accettato a sinistra[68].
Alla base delle critiche all’imperialismo economico provenienti dai circoli eurocentrici occidentali c’è stato il rifiuto della tesi dell’aristocrazia operaia di Engels e Lenin. Quindi, l’idea secondo cui una parte della classe operaia del nucleo imperialista dell’economia globale trae vantaggio dall’imperialismo è stata generalmente esclusa in quanto politicamente discutibile. Tuttavia, l’esistenza di un’aristocrazia del lavoro, a un certo livello, è difficile da negare su qualsiasi base realistica. Un’indicazione di ciò è che uno studio dopo l’altro conferma che la dirigenza sindacale dell’AFL-CIO [American Federation of Labor e Congress of Industrial Organizations] degli Stati Uniti è storicamente orientata al sindacalismo d’impresa ed è strettamente legata al complesso militare-industriale. È stata complice dell’ordine costituito. La dirigenza dell’AFL-CIO ha lavorato con la CIA per tutto il periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale per reprimere i sindacati progressisti in tutto il Sud del mondo, appoggiando i regimi più sfruttatori. Non c’è dubbio che, in questi e altri aspetti, lo strato superiore dei lavoratori (o i loro rappresentanti) si sia opposto opportunisticamente alle esigenze sia della maggioranza dei lavoratori degli Stati Uniti sia del movimento proletario mondiale nel suo complesso. In Europa, la leadership sindacale associata ai partiti socialdemocratici ha storicamente mostrato simili inclinazioni. La schiacciante “bianchezza” della leadership della maggior parte dei sindacati dei paesi occidentali e il razzismo così evidente in essi contribuiscono ulteriormente a spiegare il sostegno reazionario alle politiche imperialiste da parte dei loro governi[70].
Di fronte a tali contraddizioni storiche, un nuovo approccio alla negazione dell’imperialismo da parte della sinistra fu introdotto da Geometria dell’imperialismo (1978) di Arrighi, che nonostante il titolo, cercò di usare il concetto di egemonia (parte della teoria dell’imperialismo) per sostituire il concetto di imperialismo nel suo complesso, riducendolo ai suoi aspetti geopolitici ed evitando la questione dello sfruttamento economico internazionale. Per Arrighi, le vecchie teorie dell’imperialismo, a partire da quella di Lenin, erano “obsolete”. Ciò che rimaneva era un sistema-mondo, costituito da stati-nazione che si contendevano l’egemonia. In Il lungo XX secolo (1994), Arrighi si asteneva del tutto dal riferirsi al termine “imperialismo” in relazione al mondo del dopoguerra; abbandonando anche il concetto di capitale monopolistico tramite la neoclassica teoria dei costi di transazione[71].
Ma furono gli effetti combinati della caduta del Muro di Berlino – e la successiva ondata di globalizzazione dopo il 1989 – con la spinta aggressiva di Washington verso un ordine unipolare, che hanno portato la sinistra a negare, molto più apertamente, l’imperialismo. Ironicamente, in un momento in cui i liberali celebravano un nuovo “nudo imperialismo”, gran parte della sinistra globale ha abbandonato ogni nozione critica della teoria dell’imperialismo, offrendo persino, in alcuni casi, sostegno all’ideologia del nuovo impero[72]. In questo modo, l’egemonia ideologica esercitata dal capitale sulla sinistra occidentale è stata messa in piena evidenza[73]. In Whatever Happened to Imperialism?, del 1990, Prabhat Patnaik suggerì che «il silenzio assordante» sull’economia politica dell’imperialismo tra i marxisti europei e statunitensi negli anni ’80 e ’90 – che costituiva una netta rottura con gli anni ’60 e ’70 – non era il prodotto di un ampio dibattito teorico all’interno del marxismo. Piuttosto, potrebbe essere attribuito al «rafforzamento e consolidamento stesso dell’imperialismo»[74].
Un esempio dell’arretramento della sinistra occidentale dalla teoria dell’imperialismo è stato Impero di Michael Hardt e Antonio Negri, pubblicato dalla Harvard University Press nel 2000 e lodato da tutti i media dominanti degli Stati Uniti, tra cui il New York Times, Time e Foreign Affairs. Adottando una prospettiva esplicita di “mondo piatto” non del tutto dissimile da quella che fu poi promossa dal giornalista del New York Times Thomas L. Friedman, nel suo lavoro del 2005, The World Is Flat, Hardt e Negri sostenevano che l’imperialismo gerarchico di un tempo era stato ormai sostituito dallo «spazio liscio del mercato mondiale capitalista». «Non era più possibile», dichiararono, «demarcare ampie zone geografiche come centro e periferia, Nord e Sud». In effetti, «l’imperialismo», si spingevano ad affermare, «crea in realtà una camicia di forza per il capitale» interferendo con le propensioni del capitalismo al mondo piatto. Hardt e Negri avrebbero dato alla loro idea di un ordine globale-costituzionale regolamentato, modellato sugli Stati Uniti, ma allo stesso tempo decentrato e deterritorializzato, il nome di “Impero”, per distinguerlo dall’imperialismo[75].
Il lavoro di Hardt e Negri ha contribuito a ispirare il geografo marxista David Harvey nel suo The New Imperialism, del 2003. Qui, Harvey ha reindirizzato la teoria dell’imperialismo attraverso il concetto marxiano di “espropriazione originaria” (o “cosiddetta accumulazione primitiva”), ribattezzandola «accumulazione per espropriazione»[76]. L’espropriazione, associata alla rapina o alla spoliazione, piuttosto che allo sfruttamento interno al processo economico, è diventata l’essenza del “nuovo imperialismo”. Il ruolo dello sfruttamento, presente nella teoria dell’imperialismo di Lenin – e che lo collegava direttamente al capitalismo monopolistico – è stato messo da parte nell’analisi di Harvey e ha portato a fantasticare un “New Deal” imperialista, o una rinnovata politica di buon vicinato come soluzione al conflitto internazionale. Questa visione non riusciva a vedere l’imperialismo come dialetticamente connesso al capitalismo, e come fondamentale per tale sistema quanto la ricerca del profitto stesso[77].
Sebbene sia spesso stato definito come uno dei principali teorici dell’imperialismo, Harvey ha esplicitamente abbandonato il nocciolo della teoria sviluppata da Lenin, da Mao e dai teorici della dipendenza, dello scambio ineguale e del sistema-mondo, classificando l’intera tradizione, quasi secolare, come visione della “sinistra tradizionale”. Harvey ha invece presentato la sua prospettiva come affine a quella di Impero, di Hardt e Negri, che a suo dire, ha posto «una configurazione decentrata dell’impero, che ha molte nuove qualità postmoderne»[78]. Nella misura in cui dipendeva ancora dalla teoria marxista classica dell’imperialismo, questa sua prospettiva si basava sulla nozione di imperialismo, formulata da Rosa Luxemburg, come conquista ed espropriazione di settori non capitalistici, soprattutto nelle aree esterne. Questo forniva così nuovi mercati per sostenere l’accumulazione, che veniva poi assorbita nel sistema capitalista complessivo. L’imperialismo, in questa visione, costituiva una realtà auto-annichilente. Sebbene la rinnovata attenzione all’espropriazione da parte di Harvey sia stata importante, l’inserimento di questa visione – che sminuiva il ruolo dello sfruttamento internazionale – rappresentava un passo indietro[79].
Con The Enigma of Capital, pubblicato nel 2010, Harvey andò oltre, sostenendo che si era verificato uno «spostamento senza precedenti» che aveva «invertito il drenaggio di ricchezza proveniente dall’Asia orientale, sud-orientale e meridionale verso l’Europa e il Nord America, che si verificava dal XVIII secolo, un drenaggio che Adam Smith aveva segnalato con rammarico nel suo La ricchezza delle nazioni … [Questo] ha alterato il centro di gravità dello sviluppo capitalista»[80]. A sostegno di questa tesi c’è un rapporto, del 2008, del National Intelligence Council degli Stati Uniti su Global Trends 2025, che prevedeva un mondo più multipolare. Ma se da un lato quel rapporto prevedeva che le economie asiatiche avrebbero continuato a crescere più velocemente di quelle degli Stati Uniti e dell’Europa fino al 2025, in linea con il declino dell’egemonia statunitense e la crescente multipolarità, dall’altro non indicava ciò che Harvey definiva un’«inversione» nei flussi di capitale a livello globale, tanto meno un’inversione dello storico drenaggio di capitale da Est/Sud a Ovest/Nord[81].
La recente stima di Hickel e dei suoi colleghi (già citata) di 18,4 trilioni di dollari di valore sottratti nel 2021 dal Nord globale al Sud globale nel processo di scambio ineguale – oltre alle centinaia di miliardi di dollari di trasferimento annuale di risorse finanziarie dai Paesi in via di sviluppo a quelli sviluppati, che ammontano, solo nel 2012, secondo l’UNCTAD (United Nations Conference on Trade and Development), a 977 miliardi di dollari – rende chiaro che nello storico drenaggio di capitale, la nozione di «inversione» formulata da Harvey è infondata. Secondo uno studio di Matteo Crossa, il trasferimento di valore attraverso lo scambio ineguale nel settore manifatturiero dell’esportazione dal Messico agli Stati Uniti, è stato di 128 miliardi di dollari nel solo 2022[82].
Nel 2014, Harvey non ha inserito l’”imperialismo” nel suo Diciassette contraddizioni e la fine del capitalismo. Nel 2017, ha annunciato che «l’imperialismo» dovrebbe essere visto come «una sorta di metafora, piuttosto che qualcosa di reale»[83]. Un anno dopo, ha proseguito affermando di preferire l’approccio geometrico del sistema-mondo di Arrighi che «abbandona il concetto di imperialismo (o, se vogliamo, la rigida geografia di centro e periferia stabilita nella teoria dei sistemi-mondo) in favore di un’analisi più aperta e fluida delle egemonie mutevoli all’interno del sistema mondiale»[84]. In questo modo, l’analisi del “nuovo imperialismo” di Harvey, che, fin dall’inizio, era stata progettata per abbandonare gran parte della teoria marxista classica dell’imperialismo, si è integrata con l’analisi geopolitica mainstream, escludendo le nozioni di centro-periferia, Nord-Sud e qualsiasi concezione coerente di imperialismo economico.
Lo storico e sociologo canadese Moishe Postone, oggi più noto per il suo Time, Labor and Social Domination (1993), nel 2006 ha esposto un’analisi che criticava duramente la teoria e la politica anti-imperialiste. «Molti di coloro che si opponevano alle politiche americane» in Medio Oriente e altrove, ha scritto:
hanno fatto ricorso a… inadeguati e anacronistici quadri concettuali e posizioni politiche “anti-imperialiste”. Al centro di questo neo-anti-imperialismo c’è una concezione feticistica dello sviluppo globale, ovvero una interpretazione concretistica di processi storici astratti in termini di agenti politici. Il dominio astratto e dinamico del capitale, come quello degli Stati Uniti o, in alcune varianti, come quello degli Stati Uniti e di Israele, è stato feticizzato a livello globale… L’articolo evidenzia la sovrapposizione di concezioni feticizzate del mondo e suggerisce che tali concezioni hanno conseguenze molto negative per la costituzione, oggi, di un’adeguata politica antiegemonica. Questo risvegliato manicheismo, che è in contrasto con altre forme di anti-globalizzazione… non è adeguato al mondo contemporaneo e, in alcuni casi, può addirittura servire come ideologia legittimante per quelle che cento anni fa sarebbero stato definite rivalità imperialiste.[85]
Ma poiché gli Stati Uniti costituiscono indiscutibilmente il centro egemonico del capitale monopolistico-finanziario globale, impegnato ora in una guerra permanente nel Sud globale, l’affermazione di Postone, secondo cui una prospettiva che si concentra su ciò è “feticistica”, finisce in un labirinto di contraddizioni da cui non può uscire[86]. L’idea che la politica anti-imperialista debba essere sostituita da una politica antiegemonica e anti-globalizzazione, si espone all’accusa di feticizzare una globalizzazione astratta, perdendo di vista l’intera realtà storica dell’imperialismo fino ai giorni nostri.
I più recenti sviluppi della negazione della teoria dell’imperialismo da parte della sinistra eurocentrica occidentale, oggi estesa anche alle critiche della sinistra anti-imperialista, sono stati strettamente paralleli ai cambiamenti dell’ordine globale, associati al declino dell’egemonia statunitense. Dopo la grande crisi finanziaria del 2007-2009 e la continua ascesa della Cina, Barack Obama ha istituito il suo “Pivot to Asia”. A ciò ha fatto seguito la Nuova Guerra Fredda contro la Cina avviata dall’amministrazione di Donald Trump e portata avanti dall’amministrazione di Joe Biden. Washington ha fatto ricorso a un maggiore uso del potere finanziario degli Stati Uniti per implementare sanzioni massicce ai paesi considerati estranei e in contrasto con il potere degli Stati Uniti. Questa situazione è stata accentuata dall’inizio della guerra Ucraina-Russia (o guerra per procura NATO-Russia) nel 2022. Di conseguenza, i punti di vista sull’imperialismo di vari pensatori di sinistra sono stati radicalmente riconfigurati e li portò a un più esplicito abbandono della tradizionale critica dell’imperialismo.
È in questo contesto storico che Chibber, in un’intervista del 2022 su Jacobin, ha scelto apertamente di rifiutare tutti gli elementi fondamentali della teoria dell’imperialismo di Lenin. Ha esordito sostenendo che «l’imperialismo deve essere distinto dal capitalismo». Inoltre ha dichiarato che la nozione di Lenin, di imperialismo come capitalismo monopolistico, era «errata», in quanto «alla fine del ventesimo secolo e all’inizio del ventunesimo, non c’era una tendenza al monopolio di natura sistemica». In questo caso, l’attacco di Chibber al concetto stesso di capitale monopolistico ha rivelato la sua ignoranza dell’enorme crescita della concentrazione e centralizzazione del capitale negli ultimi decenni, associata a successive ondate di fusioni che hanno portato a un continuo aumento del potere monopolistico e alla centralizzazione della finanza. Nel 2012, le prime duecento imprese (tutte corporation) degli Stati Uniti, su un totale di 5,9 milioni di corporation, 2 milioni di società di persone, 17,7 milioni di imprese individuali non agricole e 1,8 milioni di imprese individuali agricole, rappresentavano circa il 30% dei profitti lordi degli Stati Uniti, e questa quota è in rapido aumento. I ricavi delle prime cinquecento corporation globali equivalgono oggi a circa il 35-40% del reddito mondiale totale[87]. Nel 2020, le transazioni delle Global Value Chain (GVC) [catene globali del valore] da parte di multinazionali, rappresentavano la maggior parte del commercio mondiale. L’«intensificazione delle GVC» di un paese, secondo la Banca Mondiale, aumenta nella misura in cui le esportazioni del paese incorporano input importati da altri paesi. Come spiegato nel The World Development Report 2020: Trading for Development in the Age of Global Value Chains, «i maggiori contributori [del mondo] all’intensificazione delle GVC [nel 1990-2015] sono stati Germania, Stati Uniti, Giappone, Italia e Francia», con il Regno Unito non molto distante. Al centro delle catene globali del valore del mondo ci sono quindi le stesse grandi potenze imperiali (sede di imprese monopolistiche globali) dei tempi di Lenin[88].
Dopo aver scartato la nozione di capitale monopolistico, Chibber è in grado di eliminare qualsiasi nozione coerente di sfruttamento internazionale o imperialismo. «I flussi internazionali di capitale non costituiscono imperialismo», scrive, «quello è solo capitalismo», come se l’imperialismo fosse completamente separato dalle leggi economiche del movimento del capitalismo. La teoria di Lenin, ci viene detto, era politica piuttosto che economica, basata principalmente sulla «competizione tra stati». Inoltre, l’analisi di Lenin era fatalmente «sbagliata» anche sotto altri aspetti. Così, l’analisi di Lenin (insieme a quella dei successivi leninisti), ci viene detto, era lineare e stadiale, con tutti i paesi che dovevano passare attraverso «uno stadio capitalista», una posizione, tuttavia, che, come abbiamo visto, Lenin rifiutava esplicitamente. Peggio ancora, la critica di Lenin all’imperialismo includeva la nozione di aristocrazia operaia, che, secondo Chibber, «non ha alcun significato per un’analisi generale del capitalismo del Nord o globale»[89].
Secondo Chibber, «l’anti-imperialismo» può essere definito come qualsiasi «azione collettiva nel tuo [proprio] paese contro il militarismo e l’aggressione del tuo [proprio] governo contro altri paesi». Ciò costituisce una definizione puramente nazional-politica, separata sia dall’internazionalismo proletario sia da qualsiasi resistenza diretta alle leggi del movimento del capitalismo stesso nella sua fase di monopolio. Ne consegue, secondo questa definizione, che l’anti-imperialismo è una lotta nazionale contro una politica aggressiva e militarista, piuttosto che un’opposizione all’imperialismo come sistema. Nel complesso, conclude Chibber, si è passati da «un mondo leninista a un mondo kautskiano». Quindi, l’imperialismo deve essere visto in termini kautskiani come una mera politica nazionale, che comprende l’unità dei paesi al centro del sistema e scollegata dalla questione dello sfruttamento mondiale[90]. Non sorprende, quindi, che nel libro di Chibber del 2022, The Class Matrix, incentrato sulla classe nella società capitalista avanzata, non vi sia alcun trattamento dell’imperialismo, del capitalismo monopolistico o addirittura del militarismo[91].
In modo simile, Robinson nel capitolo, Beyond the Theory of Imperialism, del suo libro del 2018 Into the Tempest, afferma che: «L’immagine classica dell’imperialismo come relazione di dominio esterno è ormai superata… La fine dell’espansione del capitalismo è la fine dell’era imperialista del capitalismo mondiale. Il sistema conquista ancora spazio, natura ed esseri umani… Ma non è l’imperialismo nel vecchio senso di capitali nazionali rivali, o la conquista da parte di stati centrali di regioni precapitaliste» che dovrebbe essere oggetto di analisi oggi. È invece necessaria una teoria del capitalismo globale che sposti tutto questo, concentrandosi principalmente sul cambiamento delle “dinamiche territoriali”[92].
Più recentemente, negli articoli, The Unbearable Manicheanism of the ‘Anti-Imperialist’ Left, e The Travesty of Anti-Imperialism, Robinson ha cercato di sostituire l’imperialismo con la sua idea di un capitalismo completamente globalizzato, governato da una classe capitalista transnazionale. Prendendo di mira figure come Vijay Prashad del Tricontinental Institute, Robinson critica qualsiasi nozione di sfruttamento del Sud globale o “ex Terzo Mondo”, da parte del Nord globale. Contestando in generale la teoria marxista dell’imperialismo, egli sostiene che una nazione non può sfruttare un’altra nazione[93]. «Per imperialismo», afferma Robinson, intendiamo solo «l’espansione violenta del capitale verso l’esterno, con tutti i meccanismi politici, militari e ideologici che questo comporta». La teoria dell’imperialismo di Lenin, sostiene, aveva la sua «essenza» nella «rivalità… delle classi capitalistiche nazionali» e non nella lotta per lo sfruttamento delle nazioni della periferia del mondo capitalista, ciò che Lenin stesso, contrariamente a Robinson, definiva come «l’essenza economica e politica dell’imperialismo»[94].
Per Robinson, le condizioni del capitalismo globale sono oggi così alterate che non c’è alcuna relazione con la «struttura precedente in cui il capitale coloniale metropolitano semplicemente [!] travasava il plusvalore dalle colonie e lo depositava nelle casse coloniali». È vero che gli Stati Uniti si impegnano in interventi militari nel mondo: «se vogliamo chiamare questo imperialismo», allora «va bene», ma non dobbiamo confonderlo con la tradizionale teoria marxista dell’imperialismo come sfruttamento internazionale[95].
Allo stesso modo, Gilbert Achcar, professore al SOAS (School of Oriental and African Studies) presso la University of London, ha pubblicato nel 2021 un articolo su The Nation intitolato, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools. Qui accusava l’intera sinistra anti-imperialista di “campismo”, ovvero di fedeltà a un campo o blocco particolare, nella misura in cui si opponeva inequivocabilmente all’imperialismo ibrido (economico, militare, finanziario e politico) diretto dagli Stati Uniti e dai loro alleati della triade contro i paesi del Sud globale. Quei socialisti che si sono fermamente uniti ai popoli della periferia per principio e contro tutti gli interventi militari e le sanzioni economiche, sono stai accusati di fare in tal modo una «apologia dipinta di rosso dei dittatori». Allo stesso tempo, Achcar ha indicato qui e altrove che è del tutto appropriato, a suo avviso, per “anti-imperialisti progressisti” sostenere l’intervento militare delle potenze imperialiste occidentali, a favore di un cambiamento di regime, come nel caso dell’intervento in Libia del 2011, se questo è destinato ad aiutare sul campo i movimenti presunti progressisti[96].
Le sinistre occidentali, solitamente socialdemocratiche, hanno rivolto dure critiche a Cuba e al Venezuela postrivoluzionari per i loro presunti fallimenti morali, politici ed economici. Tali accuse vengono mosse al di fuori di qualsiasi contesto politico significativo, basandosi principalmente sull’accettazione acritica di resoconti propagandistici dei media statunitensi ed europei, ignorando in gran parte gli enormi successi di questi stati. Le critiche non tengono conto del fatto che entrambe le nazioni sono attualmente sottoposte alle più severe forme di guerra d’assedio internazionale mai sviluppate. I blocchi economici e le sanzioni finanziarie sono progettati per negare a queste società anche il cibo e le medicine più essenziali, abbinati a periodici tentativi di colpo di stato, tutti progettati dalla CIA e dalla Casa Bianca. Tuttavia, la piena portata del ruolo degli Stati Uniti è bypassato da una sinistra che sembra operare secondo le regole di quello che l’Hoover Institution chiamava «imperialismo democratico»[97].
Alcuni critici della sinistra anti-imperialista oggi prendono di mira Samir Amin, sostenendo che il distacco dall’imperialismo non può avvenire, nemmeno, secondo l’accezione di Amin, di creazione di un «mondo più policentrico» non più dominato dalle metropoli imperiali dell’economia globale. Non ci sono dubbi che oggi stia emergendo un mondo più multipolare. Tuttavia, Jerry Harris, segretario organizzativo della GSA (Global Study Association), ha sostenuto in un’intervista condotta da Bill Fletcher (sindacalista di lunga data e membro del consiglio esecutivo della GSA), che il passaggio a un mondo multipolare è impossibile nell’attuale capitalismo completamente globalizzato o transnazionale, governato da una classe capitalista transnazionale. Secondo questa visione, che è identica a quella di Robinson, non c’è via d’uscita dall’attuale ordine mondiale poiché non ci sono più vere divisioni imperialiste o stati nazionali autonomi (eccetto forse alcuni Paesi rinnegati, e quindi non c’è alcuna possibilità al di fuori della totalità del capitalismo globale[98]. Qui, l’analisi dei teorici del capitale transnazionale di sinistra non riesce a comprendere che il capitale, per quanto si globalizzi, non è in grado di costituire uno stato globale. Quindi, non può esserci una classe capitalista veramente globale o uno stato capitalista transnazionale. Il sistema del capitale, come ha osservato István Mészáros, è intrinsecamente centrifugo e antagonista a livello globale, inevitabilmente diviso in stati-nazione in competizione. La natura di questa contraddizione si manifesta oggi con il vano tentativo degli Stati Uniti di creare un sistema unipolare attorno a se stessi, anche quando la loro egemonia si affievolisce, indicando la fase più letale dell’imperialismo[99].
Un altro sviluppo teorico caratteristico della sinistra eurocentrica occidentale è stato l’adozione in forma ridotta della teoria dell’imperialismo di Lenin, vista come un semplice modello di conflitto interimperialista orizzontale tra grandi potenze. In questo caso, la Cina e la Russia sono rappresentate come un unico blocco (sebbene rappresentino sistemi politico-economici molto diversi), impegnato in una rivalità imperialista con la triade Stati Uniti, Europa e Giappone. I paesi di medio livello o semiperiferici del Sud globale entrano nel quadro come potenze “subimperialiste”, un concetto introdotto per la prima volta da Marini nel contesto della ‘teoria della dipendenza’, ma ora utilizzato in un modo molto diverso[101]. L’imperialismo, in questa nuova visione, non è più associato principalmente al ruolo di sfruttamento globale da parte delle grandi potenze imperiali, come Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia e Giappone, che, costituendo il centro del sistema mondiale capitalista, hanno dominato la storia secolare dell’imperialismo. La caratterizzazione degli stati imperialisti viene estesa anche alle economie semiperiferiche ed emergenti, classificate ora come imperialiste o subimperialiste, nel senso di considerare l’imperialismo soprattutto in termini orizzontali piuttosto che verticali.
Secondo Ashley Smith, caporedattore della rivista Spectre, che scrive per Tempest, gli Stati Uniti «sono in competizione», non solo con la Cina e la Russia e i loro alleati, ma anche con «stati subimperiali come Israele, Iran, Arabia Saudita, India e Brasile»[102]. (L’idea che gli Stati Uniti siano in competizione con Israele sorprenderà senza dubbio alcuni!) Eppure, come ha affermato in modo convincente l’economista marxista Michael Roberts,
«dubito che il sub-imperialismo ci aiuti a comprendere il capitalismo contemporaneo. Indebolisce la demarcazione tra il blocco imperialista centrale e la periferia dei paesi dominati. Se ogni paese è «un po’ imperialista»… [il concetto di imperialista] inizia a perdere la sua validità come concetto utile. I cosiddetti paesi sub-imperialisti non ricevono grandi e duraturi trasferimenti di valore e risorse dalle economie più deboli. Nel nostro lavoro [Roberts e Guglielmo Carchedi] sull’imperialismo e nel lavoro empirico di altri, questa struttura gerarchica del trasferimento di valore non viene riscontrata. India, Cina e Russia trasferiscono al blocco imperialista quantità di valore molto più grandi rispetto al Sud America. Prendiamo in considerazione i BRICS, i migliori candidati per essere “sub-imperialisti”. Non ci sono prove di trasferimenti di valore significativamente grandi e duraturi da economie più deboli e/o vicine[103].
Oggi, l’argomentazione interimperialista si basa sulla presentazione della Repubblica Popolare Cinese come una potenza imperialista (e apertamente capitalista) nello stesso senso degli Stati Uniti, ignorando il ruolo del “socialismo con caratteristiche cinesi” e l’intera strada cinese verso lo sviluppo, così come i processi di scambio ineguale. Robinson fa un passo avanti, non solo sostenendo con fervore che la Cina è imperialista, ma anche unendosi al New York Times nel mettere in discussione l’integrità di alcuni di coloro che si trovano nella sinistra anti-imperialista, come Prashad e il Tricontinental Institute for Social Research, che esprimono solidarietà con la Cina come paese in via di sviluppo post-rivoluzionario, allineato con il Sud del mondo contro l’imperialismo[104].
Tuttavia, i tentativi da parte della sinistra occidentale eurocentrica di definire la Cina imperialista non possono trovare altra base che la rapida crescita economica della Cina, le sue crescenti esportazioni di capitali, le misure adottate per rafforzare la propria sicurezza regionale (a fronte dell’accerchiamento da parte delle basi militari e delle alleanze statunitensi) e la messa in discussione dell’ordine imperiale basato sulle regole, sotto il dominio degli Stati Uniti e dell’Occidente. Pierre Rousset in International Viewpoint dichiara che «non esiste grande potenza capitalista che non sia imperialista. La Cina non fa eccezione». Ma il suo tentativo di fornire esempi concreti di ciò, per quanto riguarda la Cina, si riduce a insignificanza se messo a confronto con il sistema mondiale imperialista comandato dagli Stati Uniti e dalla triade nel suo complesso. Così, siamo portati a credere che la Cina sia imperialista, poiché «occupa un significativo spazio marittimo» nella sua regione; governa Hong Kong (non più colonia britannica ma restituita alla Cina); interferisce in altri paesi tramite la sua ‘Via della seta’, volta a promuovere lo sviluppo economico; e si sa che in alcune occasioni ha utilizzato il debito come mezzo di leva politico-economica[105].
Ancora più difficile, per chi cerca di caratterizzare la Cina come imperialista in senso classico, è il fatto che la politica estera cinese – invece di unirsi all’ordine imperiale basato su regole e dominato dagli Stati Uniti, o di sostituirlo con quello che potrebbe essere considerato un nuovo ordine imperialista – è stata orientata a promuovere l’autodeterminazione delle nazioni, opponendosi alla geopolitica dei blocchi e agli interventi militari. La triplice ‘Iniziativa per la sicurezza globale’, ‘Iniziativa per lo sviluppo globale’ e ‘Iniziativa per la civiltà globale’ di Pechino, costituiscono insieme le principali proposte per la pace mondiale nella nostra era[106]. La Repubblica Popolare Cinese ha poche basi militari all’estero, non ha effettuato alcun intervento militare all’estero e non si è impegnata in alcuna guerra se non in relazione alla difesa dei propri confini.
Contrariamente a quanto ha suggerito Harvey, la Cina non si è appropriata del surplus economico generato negli Stati Uniti. Anzi, è vero il contrario. Il basso costo unitario del lavoro delle merci prodotte nel Sud globale ha portato a un aumento dei margini di profitto lordo per le multinazionali del centro del sistema, le cui merci sono prodotte in Cina e in altri Paesi in via di sviluppo e poi esportate per essere consumate nel Nord globale, dove il prezzo finale di vendita delle merci è molte volte superiore al prezzo di esportazione delle merci nei Paesi produttori. Come ha mostrato Minqi Li, nel 2017 la Cina ha registrato una perdita netta di lavoro nel commercio estero («calcolata come il lavoro totale incorporato nei [suoi] beni e servizi esportati meno il lavoro totale incorporato nei [suoi] beni e servizi importati»), pari a quarantasette milioni di anni-lavoro; mentre gli Stati Uniti hanno registrato un guadagno netto di lavoro nello stesso anno di sessantatré milioni di anni-lavoro[107]. La Cina si è sviluppata rapidamente, in queste circostanze di supersfruttamento internazionale, grazie alla sua apertura al mercato mondiale, alla leva del suo potente settore statale, a un approccio relativamente pianificato allo sviluppo e ad altri fattori chiave. Allo stesso tempo, gran parte del surplus generato nel settore manifatturiero-export della sua economia è stato drenato, riempiendo le casse delle multinazionali con sede nel centro dell’economia mondiale. Attualmente, il reddito pro capite degli Stati Uniti è 6,5 volte quello della Cina. In questo aspetto fondamentale, la Cina è ancora in gran parte un paese in via di sviluppo[108].
Tutto ciò non significa negare che la Cina sia emersa come una grande potenza economica e che, in virtù delle sue dimensioni e della sua dinamica di crescita interna, minaccia l’egemonia globale degli Stati Uniti, in particolare per quanto riguarda la produzione economica vera e propria. Tuttavia, gli Stati Uniti e la triade nel suo complesso – le grandi potenze imperiali al centro del sistema mondiale capitalista – mantengono ancora (anche se in rapida diminuzione) l’egemonia tecnologica, finanziaria e militare in tutto il mondo e continuano a fare affidamento sull’estrazione netta di surplus economico dal Sud globale.
In netto contrasto con la Cina, gli Stati Uniti, nel corso della loro storia sono intervenuti militarmente in 101 paesi, in alcuni dei quali più volte. A partire dalla Seconda Guerra Mondiale, hanno portato a termine centinaia di guerre/interventi militari/colpi di stato in cinque continenti. Questi interventi hanno subito un’accelerazione dopo la dissoluzione dell’Unione Sovietica e la fine della Guerra Fredda. Oggi, nel contesto di una Nuova Guerra Fredda, Washington sta espandendo la sua catena di alleanze militari, esplicitamente mirate ad assicurare la sua preminenza militare in ogni regione del mondo. Gli Stati Uniti hanno 902 basi militari all’estero (di cui circa quattrocento circondano la Cina stessa). Il Regno Unito, che agisce come socio minore, ha invece 145 basi militari all’estero[109].
Un articolo del luglio 2024 intitolato The ‘Multipolar World’: A Euphemism to Support Multiple Imperialisms, scritto da Frederick Thon Ángeles e dai suoi colleghi, pubblicato sulla rivista The Call dei Democratic Socialists of America, accusa gli anti-imperialisti che esprimono simpatia per la Cina e il Sud globale, di ripetere gli errori della Seconda Internazionale. Ci viene detto che «la sinistra che sostiene questo nuovo ‘mondo multipolare’ e che addirittura simpatizza con le nuove potenze imperialiste (Cina, Russia) o con i loro alleati [come Cuba e Venezuela], non sta facendo altro che ripetere gli errori della destra della socialdemocrazia nell’era delle guerre mondiali e dell’imperialismo della prima metà del ventesimo secolo». Coloro che sostengono un mondo policentrico o multipolare «distorcono i principi rivoluzionari del marxismo, in modo tale da allontanarli [la sinistra anti-imperialista] dalla lotta per il socialismo e aprire la strada alla guerra e alla distruzione»[110].
Qui la storia è stata completamente capovolta. Nessuno dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, che si unirono ai rispettivi stati in una guerra per la divisione del mondo, in particolare per lo sfruttamento delle colonie, simpatizzava con “i miserabili della terra”[111]. Solo i bolscevichi in Russia, così come la piccola Lega di Spartaco formata da Luxemburg e Karl Liebknecht in Germania, si opposero alla Prima Guerra Mondiale e si schierarono con il mondo sottosviluppato. Seguire Lenin e Luxemburg non significa ripetere l’errore dei socialdemocratici della Seconda Internazionale. Piuttosto, la situazione è capovolta: schierarsi con le nazioni imperialiste contro i paesi sottosviluppati significa commettere un’offesa all’umanità simile a quella della maggior parte dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale. Stare con il Sud globale non può essere visto come una distorsione “dei principi rivoluzionari del marxismo”. Il luogo della rivoluzione, per più di un secolo, è stata la periferia, non il centro, del mondo capitalista.
Assumere una posizione anti-imperialista non significa abbandonare la lotta di classe nel cuore delle nazioni capitaliste, anzi, è proprio il contrario. Come sosteneva Lenin, data l’ineluttabile realtà di un’aristocrazia operaia che costituisce lo strato superiore del movimento operaio nei paesi imperialisti, è necessario andare più a fondo per vedere la lotta esattamente nei termini di coloro che sono maggiormente oppressi dal capitalismo e dal colonialismo. Non è un caso che il movimento anti-imperialista negli Stati Uniti abbia sempre avuto le sue radici più profonde nella tradizione radicale nera, esemplificata all’inizio del ventesimo secolo da William E.B. Du Bois, e rappresentata oggi dalla Black Alliance for Peace. Razzismo e imperialismo sono sempre stati intrinsecamente legati tra loro, con il risultato che qualsiasi movimento anti-imperialista autentico è un movimento contro il capitalismo razziale[112].
Commemorando Lenin nel centenario della sua morte, Ruth Wilson Gilmore ha sottolineato quanto la critica di Lenin all’imperialismo sia stata storicamente cruciale per la lotta radicale nera negli Stati Uniti. «Con ambizioni universali e internazionaliste, questo movimento [radicale nero] si è collegato e ha condiviso ispirazione e analisi con i movimenti di liberazione anti-imperialisti globali… La violenza organizzata dell’imperialismo continua a perseguitare la terra con i suoi residui carnosi e spettrali – il sottosviluppo accumulato – e nelle contemporanee profonde relazioni di potere ineguali che attraverso le élite spingono il valore verso l’alto, verso il “nord economico”, ovunque risiedano i proprietari». Ovunque, le popolazioni indigene sono sempre state in prima linea nell’opposizione al colonialismo/imperialismo. Come ha spiegato Roxanne Dunbar-Ortiz in An Indigenous Peoples’ History of the United States, le guerre coloniali genocide contro le popolazioni indigene degli Stati Uniti sono semplicemente confluite nell’imperialismo d’oltreoceano statunitense[113].
Oggi, il sistema mondiale imperialista sta intensificando lo sfruttamento mondiale e ci sta portando sull’orlo dell’annientamento globale attraverso un’emergenza ecologica planetaria e la crescente probabilità di una guerra termonucleare senza limiti. In queste circostanze, per i pensatori di sinistra, affermare che l’anti-imperialismo sia il nemico significa sostenere l’imperialismo, la barbarie e lo sterminismo. Come ha detto Mariátegui, «Siamo anti-imperialisti perché siamo marxisti, perché siamo rivoluzionari, perché ci opponiamo al capitalismo con il socialismo», e perché rappresentiamo l’umanità mondiale nel suo insieme.
(2/2. Fine)
John Bellamy Foster
(Tratto dal sito: https://www.citystrike.org/2024/12/27/la-sinistra-occidentale-e-la-nuova-negazione-dellimperialismo/).
Note
[65] Bernard Semmel, Imperialism and Social Reform, Garden City, New York, Doubleday, 1960.
[66] Bill Warren, Imperialism and Capitalist Industrialization, New Left Review 181, 1973, pp. 4, 43, 48, 82; Karl Marx e Friedrich Engels, On Colonialism, New York International Publishers, 1972, pp. 81–87.
[67] Horace B. Davis, Nationalism and Socialism, New York, Monthly Review Press, 1967, pp. 59–73; Kenzo Mohri, Marx and ‘Underdevelopment,’ Monthly Review 30, no11, aprile 1979, pp. 32–43; Sunti Kumar Ghosh, Marx on India, Monthly Review 35, n. 8, gennaio 1984, pp. 39–153.
[68] Bill Warren, Imperialism: Pioneer of Capitalism, Londra, Verso, 1980, pp. 97–98. L’idea errata che anche Lenin vedesse l’imperialismo come pioniere dello sviluppo si può trovare in Albert Szymanski, The Logic of Imperialism, New York, Praeger, 1983, p. 40.
[69] Ad esempio, Geoffrey Kay, allora docente di economia all’Università di Londra, scrisse che, in base alla sua maggiore produttività (e all’enfasi sul plusvalore relativo), «il tasso di sfruttamento nei paesi avanzati è, in generale, più alto di quello del mondo sottosviluppato». Geoffrey Kay, The Economic Theory of the Working Class, New York, St. Martin’s Press, 1979, p. 52. Vedi anche Ernest Mandel, Late Capitalism, Londra, Verso, 1975, p. 354; Charles Bettelheim, Appendix I, Theoretical Comments, in Arghiri Emmanuel, Unequal Exchange, pp. 302–3044; Alex Callinicos, Imperialism and Global Political Economy, Londra, Polity, 2009, pp. 179–181; e Joseph Choonara, Unraveling Capitalism Londra, Bookmarks, 2009, pp. 34–35. Per una confutazione generale di tali opinioni, vedi Smith, Imperialism in the Twenty-First Century.
[70] Jeff Schuhrke, Blue-Collar Empire: The Untold Story of Labor’s Global Anticommunist Crusade, Londra, Verso, 2024; Kim Scipes, The AFL-CIO’s Secret War Against Developing Country Workers, Lanham, Maryland, Lexington Books, 2011; Paul Buhle, Taking Care of Business: Samuel Gompers, George Meany, Lane Kirkland, and the Tragedy of American Labor, New York, Monthly Review Press, 1999.
[71] Arrighi, La geometria dell’Imperialismo, pp. 171–73; Giovanni Arrighi, Il lungo XX secolo: denaro, potere e le origini del nostro tempo, Milano, Il Saggiatore, 1994, nuova ed. 2014. Per una critica della teoria dei costi di transazione in questo contesto, vedi John Bellamy Foster, Robert W. McChesney e R. Jamil Jonna, Monopoly and Competition in Twenty-First Century Capitalism, Monthly Review 62, n. 11, aprile 2011, pp. 27–31.
[72] Per una critica dell’imperialismo umanitario, vedi Jean Bricmont, Humanitarian Imperialism, New York, Monthly Review Press, 2006.
[73] Sulla natura della sottomissione della sinistra all’egemonia ideologica del capitale per quanto riguarda l’imperialismo, vedi Domenico Losurdo, Il marxismo occidentale. Come nacque, come morì, come può rinascere, Roma-Bari, Laterza, 2017, rist. 2017.
[74] Prabhat Patnaik, Whatever Happened to Imperialism?, Monthly Review 42, n. 6, novembre 1990, p. 4.
[75] Michael Hardt e Antonio Negri, Impero, Milano, Rizzoli, 2003; John Bellamy Foster, Imperialism and ‘Empire’, Monthly Review 53, n. 7, dicembre 2001, pp. 1–9; Atilio A. Boron, Empire’ and Imperialism: A Critical Reading of Michael Hardt and Antonio Negri, Londra, Zed, 2005; Losurdo, Il marxismo occidentale, 184; L’ipotesi del mondo piatto è stata ampliata da Friedman, il quale ha affermato in modo fuorviante che ciò era in accordo anche con Marx ed Engels. Thomas Friedman, Il mondo è piatto – Breve storia del ventunesimo secolo, Milano, Mondadori, 2007.
[76] David Harvey, The New Imperialism, Oxford, Oxford University Press, 2003, pp. 137–82. Sulla preferenza di Marx per l’espressione “espropriazione originaria” rispetto alla cosiddetta “accumulazione primitiva [originaria]” dell’economia politica classico-liberale, vedi Ian Angus, The Meaning of ‘So-Called Primitive Accumulation’, Monthly Review 74, n. 11, aprile 2023, pp. 54–58.
[77] Harvey, The New Imperialism, p. 209.
[78] Harvey, The New Imperialism, pp. 6–7, 137–40, 137–49; David Harvey, The Limits to Capital, Londra, Verso, 2006, pp. 427–445; Rosa Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Contributo alla spiegazione economica dell’imperialismo, Torino, Einaudi, 1960.
[79] La teoria dell’accumulazione della Luxemburg si basava sull’idea che il capitalismo non potesse esistere come sistema autosufficiente e avesse bisogno di conquistare “mercati terzi” per riprodursi. Harvey, The New Imperialism, pp. 6–7,137–40, 137–49, 299; Harvey, The Limits to Capital, pp. 427–445; Luxemburg, L’accumulazione del capitale. Sulle differenze tra le teorie di Lenin e Luxemburg sull’imperialismo, vedi Magdoff, Imperialism: From the Colonial Age to the Present, pp. 263–273.
[80] David Harvey, The Enigma of Capital, Oxford, Oxford University Press, 2010, pp. 34–35; David Harvey, A Commentary on A Theory of Imperialism, pp. 169–171.
[81] US National Intelligence Council, Global Trends 2025, Washington, DC, US Government Printing Office, novembre 2008, p. 4.
[82] Hickel, Lemos e Barbour, Unequal Exchange of Labour in the World Economy, pp. 15–17; Crossa, Unequal Value Transfer from Mexico to the United States, p. 50; UNCTAD, The Topsy-Turvy World.
[83] David Harvey citato in Salar Mohandesi, The Specificity of Imperialism, Viewpoint , 01.02. 2018.
[84] David Harvey, Realities on the Ground: David Harvey Replies to John Smith, Review of African Political Economy, 05.02.2018, roape.net.
[85] Moishe Postone, History and Helplessness: Mass Mobilization and Contemporary Forms of Anticapitalism, Public Culture 18, n. 1, 2006, pp. 96–97; Moishe Postone, Time, Labor, and Social Domination: A Reinterpretation of Marx’s Critical Theory, Cambridge, Cambridge University Press, 1996.
[86] L’argomentazione di Postone criticava siprattutto Noam Chomsky e Naomi Klein, concentrandosi sulle loro descrizioni del ruolo degli Stati Uniti e di Israele in Medio Oriente.
[87] Foster, McChesney e Jonna, Monopoly and Competition in Twenty-First Century Capitalism.
[88] World Bank, World Development Report 2020: Trading for Development in the Age of Global Value Chains, Washington, DC, International Bank for Reconstruction and Development, 2020, p. 15, 19, 26; Benjamin Selwyn e Dara Leyden, “World Development under Monopoly Capitalism, Monthly Review 73, n. 6, novembre 2021, pp. 21–24.
[89] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home.
[90] Chibber, To Fight Imperialism Abroad, Build Class Struggle at Home. L’analisi di Chibber segue la teoria di Kautsky sull’ultra-imperialismo, che separava il concetto di imperialismo da quello di sfruttamento mondiale. Vedi Anthony Brewer, Marxist Theories of Imperialism, Londra, Routledge, 1990, p. 130.
[91] Vivek Chibber, The Class Matrix, Cambridge, Massachusetts, Harvard University Press, 2022.
[92] Robinson, Into the Tempest, pp. 99–121. Sulle debolezze empiriche della tesi del capitale transnazionale, vedi Samir Amin, Transnational Capitalism or Collective Imperialism?, Pambazuka News , 23.03.2011; Ha-Joon Chang, Things They Don’t Tell You About Capitalism, New York, Bloomsbury, 2010, pp. 74–87; Ernesto Screpanti, Global Imperialism and the Great Crisis, New York, Monthly Review Press, 2014, pp. 57–58.
[93] Robinson, The Unbearable Manicheanism of the ‘Anti-Imperialist’ Left,; Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation, and the Global Police State; Robinson, The Travesty of ‘Anti-Imperialism’, p. 592.
[94] William I. Robinson, Il capitalismo globale e la crisi dell’umanità, Cambridge, Cambridge University Press, 2014, p. 126; Lenin, L’imperialismo e la scissione del socialismo, p. 113.
[95] Robinson, Capitalist Globalization, Transnational Class Exploitation, and the Global Police State.
[96] Gilbert Achcar, How to Avoid the Anti-Imperialism of Fools, The Nation, 06.04.2021; Roger D. Harris, Anti-Anti-Imperialism: Gilbert Achcar’s Leftist Imperialism with Caveats, Mint Press, 01.06.2021; Gilbert Achcar, Reflections of an Anti-Imperialist After Ten Years of Debate, New Politics, settembre 2021, newpol.org; Gilbert Achcar, Libya: A Legitimate and Necessary Debate from an Anti-Imperialist Perspective, Le Monde diplomatique, 28.03.2011, mondediplocom.
[97] Gabriel Hetland, Why Is Venezuela Spiraling Out of Control? NACLA, 15.04.2017, nacla.org; Jordan Woll, Jacobin Magazine Attacks Venezuela, Cuba, and TeleSur, Liberation News, 12.06.2017, liberationnews.org. In un recente articolo su Sidecar, una pubblicazione online associata a New Left Review, Gabriel Hetland non solo ripete le critiche estremamente distorte alle elezioni del 2024 in Venezuela da parte del sistema mediatico imperiale, ma indica chiaramente che la preoccupazione principale è «che le politiche socialdemocratiche» siano viste come «insostenibili nel ventunesimo secolo». Qualsiasi sostegno al Venezuela deve quindi essere abbandonato per il bene della politica socialdemocratica, nonostante siano riconosciute le sanzioni estreme da parte degli Stati Uniti, e i tentativi di colpo di stato. Gabriel Hetland, Fraud Foretold?, Sidecar, 21.08.2024. Per una visione alternativa, vedi Drago Bosnic, Venezuelan Presidential Election from a Serbian Observer’s Perspective—Interview, BRICS Portal, 26.08.2024. Sull’”imperialismo democratico” vedi Stanley Kurtz, Democratic Imperialism: A Blueprint, Hoover Institution, 01.04.2003.
[98] Harris, Why Doesn’t the World Make Sense Any More?; Alessandro Borin, Michelle Mancini e Daria Taglioni, Measuring Countries and Sectors in GVC, World Bank Blog, 22.11.2021, worldbank.org
[99] István Mészáros, The Uncontrollability of Global Capital, Monthly Review 49, n. 9, febbraio 1998, p. 32; István Mészáros, Socialism or Barbarism, New York, Monthly Review Press, 2001, pp. 28–29. Robinson abbandona del tutto il regno della realtà nella sua teoria dello “stato capitalista transnazionale emergente”. Robinson, Global Capitalism and the Crisis of Humanity , pp. 65–69.
[100] Hung, Rereading Lenin’s Imperialism at the Time of U.S.-China Rivalry; Hung, Clash of Empires, p. 62, 65.
[101] Ruy Mauro Marini, Brazilian Sub-Imperialism, Monthly Review 23, n. 9, febbraio 1972, pp. 14–24.
[102] Ilya Matveev, We Live in a World of Growing Interimperialist Rivalries, Jacobin, maggio 2024; Ashley Smith, Imperialism and Anti-Imperialism Today, Tempest, 24.05.2024..
[103] Michael Roberts, 50 Years of Dependency Theory, The Next Recession, 04.11.2023; Guglielmo Carchedi e Michael Roberts, The Economics of Modern Imperialism, Historical Materialism 29, n. 4, 2021, pp. 23–69; Andrea Ricci, Unequal Exchange in the Age of Globalization, Review of Radical Political Economics 51, n. 2, 201).
[104] Scrivendo The Travesty of ‘Anti-Imperialism’, pubblicato su The Journal of World-Systems Research, Robinson ripete le calunnie mosse da organi di informazione istituzionali contro Prashad, tra cui The Daily Beast e New Lines Magazine – e più di recente, da quando l’articolo di Robinson è stato pubblicato per la prima volta, dal New York Times – che coinvolgono ingenti donazioni finanziarie a Tricontinental Institute for Social Research, di cui Prashad è direttore esecutivo. Le donazioni in questione provengono da Roy Singham, presidente del comitato consultivo internazionale di Tricontinental, figura di spicco con una lunga storia di attivismo anti-razziale/capitalista, anti-imperialista e socialista negli Stati Uniti e in tutto il mondo, che ha fatto fortuna nello sviluppo di software. Basandosi sulla Nuova Guerra Fredda con attacchi in stile McCarthy da parte di media corporativi contro Singham, per via delle sue simpatie verso il socialismo con caratteristiche cinesi, così come sul suo sostegno finanziario a Tricontinental e ad altre organizzazioni di sinistra in tutto il mondo, Robinson sostiene che Prashad «sembra essere politicamente compromesso» a causa dell’accettazione da parte di Tricontinental di donazioni fatte da Singham. È vero che, viste dal punto di vista imperialista, tali donazioni sono illegittime nella misura in cui sono in conflitto con gli obiettivi della Nuova Guerra Fredda di Washington. Tuttavia, l’accusa di Robinson, secondo cui Prashad è quindi “politicamente compromesso” non ha senso da un punto di vista anti-imperialista, dove l’accettazione di tali finanziamenti è del tutto in accordo con una critica fondamentale del sistema mondiale imperialista. Robinson, The Travesty of ‘Anti-Imperialism’, p. 592; A Global Web of Chinese Propaganda Leads to a US Tech Mogul, New York Times, 10.082023; Vijay Prashad, My Friends Prabir and Amit and in Jail in India for their Work in the Media, Counterpunch, 04.10.2023.
[105] Pierre Rousset, China: A New Imperialism Emerges, International Viewpoint, 18.11.2021.
[106] Vedi Notes from the Editors, Monthly Review 75, n. 6, novembre 2023.
[107] Minqi Li, China: Imperialism or Semi-Periphery?, Monthly Review 73, n. 3, luglio-agosto 2021, p. 57. Un errore nel testo originale faceva riferimento ai calcoli della perdita netta di manodopera della Cina per includere «non solo il trasferimento netto di lavoro che deriva dalle sfavorevoli condizioni scambio di lavoro della Cina, ma anche il lavoro incorporato nei ‘surplus commerciali’ della Cina» (Li, China: Imperialism or Semi-Periphery?, p. 56). Sulla metodologia, vedi Minqi Li, China in the 21st Century, Londra, Pluto, 2015, pp. 200–202. Vedi anche Foster e McChesney, The Endless Crisis, pp. 165–74; Suwandi, Jonna e Foster, Global Commodity Chains and the New Imperialism.
[108] Comparing United States and China by Economy, Statistics Times, 29.08.2024
[109] Hyper-Imperialism: A Decadent New Stage, Tricontinental Institute, 23.01.2024; U.S. Congressional Research Service, Instances of Use of United States Armed Forces Abroad, 1798–2023, 07.06.2023; John Pilger, There Is a War Coming Shrouded in Propaganda, John Pilger (blog), 01.05.2023, braveneweurope.com.
[110] Frederick Thon, Manuel Rodríguez Banchs e Jorge Lefevre Tavárez, “Il ‘mondo multipolare’: un eufemismo per imperialismi multipli”, The Call , 6 luglio 2024, socialistcall.com.
[111] Frantz Fanon, I dannati della terra, Torino, Einaudi, 1962.
[112] Principles of Unity, Black Alliance for Peace, blackallianceforpeace.com. Per conoscere i saggi anti-imperialisti di Du Bois durante, e dopo, la Prima Guerra Mondiale, notevoli come critiche al capitalismo razziale e all’imperialismo, vedi WEB Du Bois, Darkwater, Mineola, New York, Dover, 1999; Charisse Burden-Stelly“ Modern US Racial Capitalism: Some Theoretical Insights, Monthly Review 72, n. 3, luglio-agosto 2020, pp. 8-20.
[113] Ruth Wilson Gilmore, On the Centenary of Lenin’s Death, Verso (blog), 25.01.2024; Roxanne Dunbar-Ortiz, An Indigenous Peoples’ History of the United State, Boston, Beacon, 2014, pp. 16.
Inserito il 03/01/2025.
Nikolaj Bucharin (1888-1938) tra Iosif Stalin (1878-1953) e Sergo Ordžonikidze (1886-1937) sulla tribuna del Mausoleo di Lenin (fine anni ’20 del XX sec.).
Fonte della foto: https://dzen.ru/a/YwZ7Pu9xc2_Vjm58
Questioni del socialismo
di Alessandro Valentini
Si possono anche non condividere tutte le affermazioni contenute in questa riflessione di Alessandro Valentini, ma egli ha l’indubbio merito di riproporre alla nostra attenzione una figura che nel dibattito tra marxisti è stata spesso dimenticata o messa ai margini: Nikolaj Bucharin. La tendenza, da più parti, a sottovalutare il contributo di questo pensatore ed economista non ha certo giovato alla ricchezza del confronto teorico nell’ambito del marxismo. È invece il caso di riprendere lo studio delle sue opere e del suo pensiero.
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La rivincita postuma di Bucharin
di Alessandro Valentini
È più che mai attuale l’insieme del corpo teorico di Marx ed Engels che aiuta, come sostiene Xi Jinping, a capire meglio la realtà, a comprendere il mondo per cambiarlo, anche se da anni ormai in Occidente si sostiene che il marxismo sia in crisi. Bisognerebbe intanto abolire il termine marxismo coniato da Stalin nell’ambito di un corpo dottrinario e statico del suo marxismo-leninismo. I grandi teorici del pensiero socialista lo definivano in ben altro modo, a iniziare da Marx e Engels che parlavano di socialismo scientifico, di Lenin che nella sua analisi discusse di concezione materialistica della storia e di Gramsci che usò il concetto di filosofia della prassi. È vero che è in profonda crisi una certa visione del marxismo, quella tramandata sia dalle socialdemocrazie, eredi della Seconda internazionale, sia dai partiti comunisti occidentali risalenti all’Internazionale Comunista voluta da Lenin. Ben altra è la situazione nel resto del mondo, a cominciare dalla Cina, ma si potrebbero citare molti altri paesi, prima di tutto il Vietnam e Cuba, e per molti versi anche la Russia. Senza dimenticare il ruolo di tante forze rivoluzionarie che agiscono per affermare i valori di giustizia sociale e di emancipazione dei popoli dall’imperialismo. In tutti questi paesi il pensiero di Marx vive e contribuisce enormemente alla costruzione dello Stato socialista o alle lotte per realizzarlo. Non siamo quindi di fronte alla crisi del marxismo ma ad una sua crescita e sviluppo in diverse e significative parti del mondo.
Questo originale sviluppo del pensiero di Marx ha un importante ispiratore: Bucharin. Certamente vi sono pure Lenin come Gramsci, e di recente altri ancora, come Mao e Castro, ma Bucharin è stato fondamentale per spurgare il marxismo dalla componente anarco-comunista, come la definiva Losurdo, per dare soluzione ai problemi dell’economia e della produzione, alla funzione dello Stato e per definire la legalità socialista, ampiamente messa in discussione negli anni Trenta del secolo scorso. Ciò che oggi è in crisi in Occidente è la concezione del pensiero di Marx delle socialdemocrazie, il marxismo-leninismo di Stalin e le svariate e sempre più residuali forme di trotskismo. Anche in Italia il pensiero di Bucharin è stato ispiratore di dirigenti comunisti del calibro di Togliatti e di Amendola, che per ragioni storiche non potevano dirlo apertamente in quanto la gabbia dello stalinismo orientava la linea ufficiale.
Bucharin, con la politica della Nep, sostenuta dall’ultimo Lenin, aveva colto un grande problema di fondo: la statalizzazione dei mezzi di produzione e la pianificazione erano insufficienti a far decollare economicamente il paese. Il socialismo non può essere una forma di livellamento egualitario verso il basso, dove tutti sono sì uguali, ma poveri. Il socialismo, nel tutelare i bisogni di tutti, deve essere anche capace di promuovere il merito, l’ascesa sociale: uno scienziato, un medico, un educatore, un agricoltore che migliora la propria produzione agricola, insomma tutti coloro che svolgono bene il proprio lavoro non possono e non devono essere semplicemente equiparati a dei lavoratori subordinati che svolgono compiti prevalentemente manuali. Questa visione ha condotto al fenomeno di permettere la scalata sociale solo a chi faceva parte dell’apparato di partito. Una tale situazione a lungo andare è divenuta nefasta, ha favorito la formazione di una burocrazia che si mangiava il consenso di una parte consistente della popolazione. Questa incongruenza è una delle ragioni del crollo dell’Urss.
Il comunismo di guerra può essere una soluzione solo per una breve fase del tutto eccezionale. Abbiamo visto ciò che è accaduto in Cambogia con Pol Pot, dove il comunismo di guerra ha provocato una situazione aberrante e drammatica con la messa in discussione della stessa legalità socialista. E abbiamo presente l’esempio della Cina, dove durante la Rivoluzione Culturale molti grandi guasti sono stati prodotti dalle componenti anarco-comuniste, appoggiate anche da Mao. Si è dovuto passare alla direzione di Deng Xiaoping, formatosi in segreto sui testi in russo di Bucharin, per rimettere ordine nel paese. Mao è stato il padre della Repubblica Popolare, ma chi ha reso la Cina un grande paese moderno è stato Deng.
Che la costruzione del socialismo si debba realizzare sull’asse strategico centralità e valorizzazione del lavoro e sul ruolo forte dello Stato che eserciti un suo controllo sul mercato misto, non è una idea di oggi in comune a tutti gli Stati socialisti, ma viene da lontano, dalla Nep, una politica economica fatta propria dall’ultimo Lenin ma ispirata da Bucharin.
Bucharin, alla morte di Lenin, si schierò con Stalin contro Trotskij che considerava la politica della Nep liquidatoria della rivoluzione, proponendo invece una statalizzazione centralizzata e pianificata dei mezzi di produzione. E solo dopo la liquidazione del trotskismo Stalin si rivolse contro Bucharin per adottare pari pari la politica proposta da Trotskij. Su questa vicenda una certa storiografia sostiene che Stalin, a differenza di Bucharin, era consapevole della minaccia della Germania nazista all’Urss e quindi puntava ad una accelerazione, anche forzata, dell’industria pesante del paese, per sostenere una possibile guerra che effettivamente poi ci sarebbe stata. Questa interpretazione critica ci può stare, ma è anche vero che all’indomani della guerra e negli anni successivi, né l’ultimo Stalin, né Krusciov, né Breznev, fecero nulla per recuperare nella sostanza il pensiero di Bucharin. Si deve giungere a Gorbaciov con la sua perestrojka, ristrutturazione dell’economia, e glasnost’, trasparenza politica, perché ci fosse la riabilitazione di Bucharin. Ma la trasparenza politica – che era necessaria per affermare una piena legalità socialista – fu realizzata scopiazzando i sistemi politici occidentali e non come sviluppo di una dialettica politica democratica socialista. Fu questo un errore fatale che modificò la stessa proposta della perestrojka (della ristrutturazione dell’economia), fu così portata avanti come allargamento della glasnost al fine di creare un sistema politico ed economico alternativo al potere sovietico.
Questo errore esiziale di Gorbaciov non fu commesso dal Partito comunista cinese, da Deng e dai suoi successori. I drammatici fatti di Tienanmen sono stati l’apice di uno scontro politico durissimo avvenuto nel Pcc proprio su questa questione: tra ristrutturazione dell’economia e dialettica politica socialista. D’altronde in Cina un sistema di partiti politici alleati con il Pcc già si era formato dai tempi della rivoluzione cinese, un sistema di cooperazione multipartitica che si è rinnovato, consolidato e sviluppato nel corso di 75 anni svolgendo un ruolo insostituibile nella modernizzazione del paese, confermando in tutti i passaggi salienti della storia cinese di essere un fattore vitale per la capacità di governare la Cina tramite l’affermarsi – oggi codificata anche nel diritto – della legalità socialista. I tempi del disordine provocato dall’ultrasinistra, dalle forme più esasperate del maoismo, sono alle spalle della Cina moderna, prima potenza economica mondiale che in circa trent’anni ha sconfitto la povertà facendo uscire oltre 400 milioni di cinesi dalla miseria. Un processo di crescita e di progresso mai realizzato nella storia dell’umanità.
Oggi, dunque, il socialismo si sviluppa in una economia di mercato sotto il controllo dello Stato. Si sono fatti passi da gigante sulla legalità socialista e nel definire una teoria dello Stato. Non siamo a tal proposito fermi alla teoria dello Stato di Stalin del socialismo in un solo paese, ma neppure a quella togliattiana, definita soprattutto negli interventi nell’Assemblea costituente della nuova Repubblica Italiana scaturita dalla sconfitta del nazifascismo e dalla fine della monarchia.
È evidente che se diamo uno sguardo a quella che si chiama adesso in Europa sinistra queste riflessioni su Bucharin non piacciono a chi si ricollega al pensiero marxista-leninista e lo ha come bussola delle sue pratiche politiche; ovviamente sono anche contestate dal micro-mondo del trotskismo o dell’anarchismo e neppure sono prese in considerazione da chi era socialista o socialdemocratico e si richiama in qualche modo all’esperienza storica della Seconda Internazionale, ma è oggi subalterno al neoliberismo, a un certo progressismo, in definitiva al dominio del capitale finanziario. Ma ciò che è più grave, le possibili ricadute della riconsiderazione del pensiero di Bucharin sono spesso contestate anche da quei settori che, pur provenienti dal Pci, sono fortemente caratterizzati dal pensiero di Ingrao. Il loro ingraismo li porta a non riconoscere la funzione positiva che ebbero nel Pci le politiche riformatrici del suo nucleo dirigente strategico formato dall’asse Togliatti-Longo-Amendola. Per mantenere il loro punto di vista parlano allora della crisi del marxismo, cioè della loro crisi in quanto il pensiero di Marx vive e indica itinerari nuovi da percorrere in ogni parte del mondo.
Ragionamenti che definiscono la Cina un Paese capitalista o la Russia un Paese imperialista, senza neppure porsi il problema che 80 anni di potere sovietico non si cancellano facilmente e che la politica antimperialista e anticoloniale di Putin di oggi è nel Dna del popolo russo, sono fatti semplicemente per giustificare la crisi profonda in cui si è impantanata una cosiddetta “sinistra”. Avviene allora che per avere un padre nobile si mitizza Berlinguer in tutte le salse possibili, facendo spesso del mito un uso politico spregiudicato per altri obiettivi, totalmente opposti rispetto a quelli su cui ha speso una vita da comunista Berlinguer. Così, in ultima istanza, moltissimi rincorrono un vago progressismo, consegnandosi, senza neanche combattere, al capitale finanziario e al suo sistema politico a-democratico.
In questi ultimi anni mi sono sempre più convinto che oltre allo studio e all’approfondimento del pensiero di Marx ed Engels, di Lenin e di Gramsci, sia meritorio riprendere un lavoro di conoscenza e di divulgazione anche di Bucharin in cui troviamo alcune delle risposte necessarie per dare maggior corpo alla lotta per il socialismo.
È la sua grande rivincita postuma.
16 dicembre 2024
Alessandro Valentini
(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore, consultata il 16/12/2024: https://www.facebook.com/sandro.valentini1).
Inserito il 17/12/2024.
Lenin e Bogdanov impegnati in una partita a scacchi ospiti di Gor’kij nella sua villa di Capri (1908).
Fonte della foto: https://www.chayka.org/file/2612
Dal quotidiano «il manifesto»
di Giovanna Ferrara
Negli anni 1908-1910 Gor’kij, Lunačarskij e Bogdanov portarono avanti a Capri una scuola di partito per militanti bolscevichi, ma le tesi bogdanoviane sulla “cultura proletaria” e sulla forza del collettivo capace di “costruire Dio” richiesero il diretto intervento di Lenin, che dall’esilio parigino scese direttamente nell’isola dei faraglioni per giocare una difficile partita a scacchi.
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I bolscevichi, la “Scuola di Capri” e la scomunica di Lenin
di Giovanna Ferrara
Non possono che avere avuto un ruolo determinante sul misticismo rivoluzionario di Gor’kij le barche di legno sui cui tendalini a strisce gialle e bianche si tuffa il cielo più denso del Mediterraneo, quello che avvolge Capri. Quelle visioni sigillano un patto continuo e gaudente tra uomo e natura, quasi fossero amanti avvinghiati dalla paradossale promessa di un presente rigoglioso di piacere che dice: «La gioia cresce in modo meraviglioso, se del mondo ci si compiace tutti insieme».
Romanzi, scritti, riflessioni, parole (e qui c’è la mente) e poi passeggiate sugli scogli, pranzi contadini, le agavi a coprire gli occhi (e qui c’è il corpo). Che si tratti di qualcosa di romantico è una potente verità: un gruppo che dibatte sulla necessità di «costruire Dio», di tessere cioè una religione terrena di riscatto che non metta al bando i miracoli ma li produca nella forma di una rivoluzione ascritta a un organismo collettivo, è qualcosa che fa tremare di nostalgia per un tempo che aveva così tanta confidenza col possibile. «Se quell’appassionato fermento che agita gli elementi insoddisfatti della società contemporanea, quella sete di vita, di sole, di armonia sociale, di libertà e solidarietà prenderà il sopravvento, l’umanità imboccherà la strada maestra dello sviluppo estetico», scriveva l’«eretico» Lunačarskij a proposito di quell’esperimento che è la «scuola di Capri».
Presenze irreali
Niente toglie a quella nostalgia la considerazione che si trattò di un tempo fatto anche di scissioni e inimicizie, di tristi fini e nuovi inizi. È un tempo sospeso, un tempo che si affaccia ancora ogni volta che ci domandiamo come può comunicare il guizzo individuale con la necessità moltitudinaria della rivoluzione, come salvare il mistico mentre si tenta la biografia del presente, come far agire insieme, all’unisono, esperienza e conoscenza. A Capri Lenin fu soprattutto una presenza irreale. A lui erano destinate le lettere che Maksim Gor’kij e Aleksandr Bogdanov inviavano a Parigi per convincerlo dell’assoluta necessità di fondare a Capri una scuola capace di creare la «cultura proletaria», grazie a un nuovo modo di pensare il rapporto tra intellettuali e operai, basata su un tentativo inedito di unire l’utopismo del primo con lo scientismo del secondo. Lenin si oppose sempre a quel progetto.
Lo riteneva irrazionale, a causa dei facili entusiasmi dello scrittore, e pericoloso per il tentativo del filosofo Bogdanov di strappargli il monopolio sull’«ortodossia» bolscevica dopo la scissione con i menscevichi. Il fallimento del tentativo del 1905 aveva portato i rivoluzionari in giro per il mondo, in Stati e città dove si riorganizzava il sogno, si pubblicavano giornali, si formulavano ipotesi. Nelle maglie di questa rete finì anche questo lussurioso scoglio del Mediterraneo, dal quale forse arrivava il tentativo più filosoficamente periglioso di interpretazione del marxismo.
I sospetti di Lenin non erano farneticanti: qualcosa in quel cielo accadeva ed era strano e difficile da incanalare nella «perfetta ossessione» che inanellò gli eventi fino all’ottobre del 1917. Marx ed Engels, negli ampi locali della scuola di Capri, parlavano con Nietzsche e Dostoevskij. Numi tutelari che indagavano questo nuovo ateismo così lontano dalla monolitica concezione illuministica. «Calcolo e sogno, ragione strumentale e immaginazione chimerica, organizzazione rigorosa e fede arbitraria formavano un sistema ideologico che avrebbe esplicato le sue potenzialità nel corso della lotta rivoluzionaria», si legge nel bel libro L’altra rivoluzione, dedicato dallo storico Vittorio Strada alla vicenda caprese.
Tra letteratura e politica
Lenin fu nell’isola solo in due brevi occasioni: dal 23 al 29 aprile del 1908 fu ospite a villa Blaesus, sulle curve decentriche di via Krupp, dal cui terrazzo Gor’kij ribattezzava i faraglioni «i faraoni», in una delle interminabili cene in cui era solito incantare gli ospiti con raffinate riflessioni sulla politica e notevoli suggestioni sulla letteratura. Poi dal 1° al 13 luglio del 1910 fu a villa Spinola, di proprietà del medico che in quegli anni scopriva il siero antidifterico. Si trattava di un ex monastero appoggiato solidamente a Monte San Michele, scelto per le ampie stanze e particolarmente adatto al rigido programma educativo.
Di quei soggiorni resta la foto di una partita a scacchi. Bogdanov contro Lenin, formidabile iconoclastia di uno scontro: sullo sfondo il generoso sguardo dello scrittore a osservare i due uomini che incarnavano con gesti e sguardi il bivio di una storia che si svolgeva a migliaia di chilometri da lì. Tutti e tre i personaggi principali di questa scena si incontrarono a Pietroburgo, sempre a casa dello scrittore, nel 1904 per fondare il primo giornale della frazione bolscevica, «Vperëd» («Avanti»). Nel 1905 la frattura: Bogdanov, con il romanzo Stella Rossa e dopo l’uscita del volume filosofico Empiriomonismo, sosteneva che il fallimento rivoluzionario era da ascrivere alla mancanza di una visione del futuro, di una utopia socialista che desse per paradosso concretezza alle formule marxiste.
Per Lenin si trattava di un pervertimento del marxismo, di un allontanamento inspiegabile: «Questo è troppo, questo non è marxismo». Lenin e Bogdanov insieme era il sogno sognatissimo da Gor’kij. Il meno riuscito: tra di loro ci fu solo silenzio e il muovere dei pezzi. Al gruppo di Capri arrivò una ufficiale scomunica da parte del partito cui seguì lo sprezzante commento di Bogdanov: «Lenin è stato vittima di un errore comune a tutti i letterati contemporanei, egli non vede il suo lettore». Questa è una storia sottratta alla storia. Quello che successe dopo, i bilanci di meriti e demeriti, di ispirazioni e furori, le sono estranei. A quel dibattito possiamo ancora partecipare, a quei panorami possiamo ancora accedere, quelle commozioni possono ancora essere nostre, perché «la questione cardinale della primavera prima o poi deve essere risolta».
Giovanna Ferrara
(Tratto da: Giovanna Ferrara, Scacco matto alla storia sull’isola dei faraglioni, in «Inserto rivoluzionario 1917-2017» n. 12, allegato a «il manifesto» del 23 agosto 2017).
Inserito il 17/11/2024.
Il volume dedicato alla “Scuola di Capri”
di Vittorio Strada
All’impresa politico-culturale caprese portata avanti da Maksim Gor’kij, Aleksandr Bogdanov e Anatolij Lunačarskij è dedicato un volume curato dal famoso slavista Vittorio Strada (1929-2018), con saggi anche di Jutta Scherrer e Georgij Gloveli. Il saggio che presentiamo introduce il libro, incentrandosi in particolare sul “padrone di casa”, lo scrittore Maksim Gor’kij, ma dando anche un quadro generale sulla “Scuola” e sulle idee dei suoi sodali.
Non sfuggirà al lettore un marcato antisovietismo (e anticomunismo) da parte del Vittorio Strada che scrive questo saggio del 1994: egli infatti, pur “nascendo” comunista (da giovane collaborò per anni con Togliatti a «Rinascita»), si legò agli scrittori sovietici del dissenso e nel 1980 uscì dal PCI per aderire al Partito Socialista di Bettino Craxi. Alcune sue affermazioni contenute nel presente saggio sono chiaramente parziali, sono tuttora discusse dalla storiografia ma restano senza un accertato fondamento storico (per esempio, quella secondo cui Stalin avrebbe fatto uccidere Gor’kij). Nonostante ciò, il saggio nel suo complesso è interessante e porta alla luce in Italia un capitolo importante della storia del Partito Bolscevico.
L.C.
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Gor’kij e i bolscevichi “eretici” di Capri
di Vittorio Strada
Nel 1909 Capri si trovò, senza saperlo, nel nucleo della storia mondiale del nostro secolo, di una storia i cui sviluppi allora erano imprevedibili anche per il più attento osservatore. Alla storia Capri era stata legata nei secoli remoti, quando nell’area mediterranea, centrata su Roma, agiva un forza storica che era destinata a universalizzarsi, dando l’impulso a un’unificazione del mondo. Ma all’inizio del nostro secolo i centri del movimento storico stavano altrove, e tra essi quello russo era forse il maggiore. Certo, nessuno a quel tempo poteva prevedere il destino che la Russia avrebbe avuto, per sé e per il resto dell’umanità, nei decenni successivi, anche se nella stessa Russia erano state fatte prognosi profetiche sulle energie catastrofiche che, ancora sotterranee, minacciavano di esplodere in quell’immenso paese. Del resto, anche nell’Occidente europeo la Russia, trasformata dalle riforme di Pietro il Grande e sempre più presente nella politica continentale e mondiale, era guardata come un enigma inquietante, la cui grande letteratura affascinava e turbava coi suoi interrogativi abissali una cultura ancora cullata nell’illusione di un progresso inarrestabile. È vero che anche nell’Europa occidentale si erano levate voci disarmoniche rispetto all’orgogliosa sicurezza della cultura dominante, come quella di Nietzsche, ma esse restavano marginali; e non per nulla trovarono un’eco particolare proprio in Russia, mentre Nietzsche scoprì una consonanza profonda e singolare in un russo, Dostoevskij, colui che tra tutti i suoi connazionali più lucidamente aveva sentito la crisi della civiltà europea “tradizionale” e le sue ripercussioni minacciose in quella propaggine estrema di tale civiltà che era la sua patria.
Fu una scheggia di questa nuova storia europea e mondiale, in maturazione all’inizio del secolo, che capitò a Capri nel 1909. Una scheggia che contribuì non poco alla costruzione di tale storia. Quegli emigrati russi, intellettuali e operai, che in quell’anno erano convenuti dalle lontane pianure russe in quella paradisiaca roccia marina per organizzare e frequentare una scuola programmata per una nuova cultura, non furono i protagonisti di un episodio minore della cronaca del movimento rivoluzionario russo e di quello socialdemocratico in particolare. Non lo furono già per il fatto che tra quei russi c’era una figura come quella di Maksim Gor’kij, scrittore di fama mondiale legato a Capri e alla penisola sorrentina da un rapporto intenso e duraturo; e accanto a lui c’erano figure come quella di Aleksandr Bogdanov e Anatolij Lunačarskij, intellettualmente significative e politicamente rilevanti per la futura Russia sovietica, mentre sullo sfondo si delineava la figura di Lenin, avversario di quella Scuola, e vincitore nello scontro con quei suoi avversari ideologici, quasi la partita a scacchi tra lui e Bogdanov, immortalata in una celebre fotografia fatta l’anno prima a Capri, si fosse conclusa con uno scacco matto dato a quest’ultimo. Oggi, tuttavia, come ulteriore riflessione su quell’immagine, ci si può domandare se storicamente la partita sia stata davvero vinta da Lenin e se la Storia non abbia invece rovesciato la scacchiera con un colpo di mano imprevisto da entrambi i giocatori, così razionalisticamente sicuri di poter dominare l’intero corso storico, quasi si trattasse delle combinazioni e dei movimenti dei pezzi nelle caselle. Tornando dal senno di poi all’illusione di allora, vediamo che, a Capri nel 1909, se gli abitanti dell’Isola non potevano sapere e capire che cosa quei russi preparassero nelle loro riunioni, dall’altra, neppure quei russi sapevano e capivano veramente quello che, di fatto, stavano preparando. A Parigi, Lenin, che cercava di sabotare quella Scuola e che in ciò ebbe successo, sapeva e capiva meglio di ogni altro quello che si preparava in Russia e di cui egli stesso era il primo regista. Lenin era stato l’artefice teorico e pratico di quella scissione nel giovane Partito Operaio Socialdemocratico Russo dalla quale erano nati due movimenti sempre più divergenti, detti menscevismo e bolscevismo. Il secondo, in un momento difficile come quello successivo alla rivoluzione del 1905, si era a sua volta scisso in due parti: in una preminente, leniniana, e in un’altra minoritaria, bogdanoviana, legata cioè a un altro leader bolscevico, Aleksandr Bogdanov, il cui contrasto con Lenin, del quale era stato collaboratore stretto, aveva un carattere multiplo: politico, teorico, personale. In sostanza, tralasciando un’analisi dei concreti motivi di dissidio che sono esposti in ogni buon manuale di storia e che si possono trovare in altre pagine del presente libro, la lotta tra leniniani e bogdanoviani non era una lotta tra bolscevichi e antibolscevichi, ma tra bolscevichi per il titolo di bolscevismo autentico, coerente, rivoluzionario. Si trattava di una lotta politica per la direzione della frazione bolscevica, in primo luogo, ma anche di una lotta culturale per l’indirizzo ideologico dell’azione rivoluzionaria. La “Scuola di Capri”, organizzata dai bogdanoviani e osteggiata da Lenin, non era quindi un’operazione tattica in una guerra di gruppi di partito: essa era il laboratorio di una cultura che si proponeva radicalmente alternativa rispetto a quella definita “borghese” e profondamente diversa anche dalla cultura di cui erano portatori sia il movimento socialdemocratico europeo e in Russia il menscevismo, sia lo stesso bolscevismo leniniano. Quest’ultimo agli occhi di Bogdanov e dei suoi compagni di idee, appariva “moderato”, troppo legato a idee tradizionali, come quelle filosofiche del menscevico Plechanov, ad esempio, condivise sostanzialmente anche da Lenin.
I bogdanoviani non si proponevano di elaborare semplicemente una nuova tattica politica per il movimento operaio russo dopo la sconfitta del 1905: sul tappeto erano l’elaborazione di una cultura operaia o proletaria e la definizione stessa del marxismo, dato che il retaggio politico intellettuale di Marx e di Engels era passibile di interpretazioni diverse e di diverse “contaminazioni” con altri filoni culturali. La situazione sarebbe stata “normale” se si fosse trattato di un dibattito acсаdemico: si trattava invece di una accesissima disputa politica incentrata sul concetto di “ortodossia”, ossia di “vero” marxismo, disputa in cui erano in gioco interessi generali e personali. Naturalmente, entrare oggi anche indirettamente in quella disputa e parteggiare per l’una o per l’altra parte sarebbe insensato, almeno per uno storico. Ha senso, invece, dire che lo stesso bolscevismo, come il marxismo in generale, è stato un fenomeno tutt’altro che statico e omogeneo anche in senso culturale, oltre che politico. C’è stato indubbiamente un nucleo “duro” del bolscevismo, che ha in Lenin il suo creatore, ma intorno a quel nucleo stabile si sono sovrapposti vari strati, soprattutto dopo la vittoria bolscevica nell’ottobre 1917, quando, da una parte, si creò un’ortodossia leninista (marx-leninista), e, dall’altra, in essa confluirono e si scontrarono altre componenti, da Trockij a Bucharin, per non parlare di Stalin. Una di queste componenti è stata quella di Bogdanov, dei suoi compagni di idee e della sua “cultura proletaria”. Si tratta di un amalgama assai complesso da cui è nata l’ideologia sovietica nel suo sviluppo e, di riflesso, l’ideologia del movimento comunista mondiale, a sua volta diversificato nelle sue diramazioni locali (continentali e nazionali), ma sempre unificato dal nucleo originario marx-leninista.
Capri, dunque, all’inizio del nostro secolo, alla vigilia quasi della guerra mondiale e della rivoluzione comunista, era la sede di un avvenimento tutt’altro che marginale: tra tanta bellezza mediterranea quegli esuli russi dibattevano un insieme di idee che, legate alla loro cultura, erano tuttavia nate nel cuore della cultura europea. Se si vuole sintetizzare simbolicamente l’anima di quelle idee, due nomi sono necessari: quello di Marx e quello di Nietzsche. Ad essi si deve unire il nome di Dostoevskij, presente in tutta la vita spirituale russa del tempo e in maniera crescente anche in quella europeo-occidentale come colui che, per una misteriosa veggenza, aveva scrutato attraverso le figure e i destini dei suoi romanzi l’apocalittico futuro anticipato nelle pagine di Marx e di Nietzsche. Potrà parere strano che Marx, Nietzsche, Dostoevskij, spiriti così diversi e lontani tra loro, abbiano aleggiato su quel gruppo di bolscevichi, raccolti a Capri in una scuola di rivoluzionari. Ma non si trattò, naturalmente, di una sorta di triade meccanica, bensì di un rapporto sottile, complesso, contraddittorio, in cui solo Marx costituiva una presenza consapevole, riconosciuta, “ufficiale”, mentre Nietzsche e Dostoevskij erano una presenza segreta, sotterranea, solo in parte confessata. Gli autori del Capitale, della Volontà di potenza e di Delitto e castigo sovrastavano l’intera cultura russa del primo Novecento, non meno che quella europeo-occidentale, costituendo una costellazione intorno alla quale si disponevano tutti gli altri astri del firmamento spirituale di allora, da Tolstoj a Ibsen, da Hegel a Stirner, da Kierkegaard a Solov’ëv. È significativo che la mente teorica della “Scuola di Capri”, Aleksandr Bogdanov, la cui “tettologia” ovvero “scienza dell’organizzazione universale” dimostra un rigoroso razionalismo d’impronta positivistica, al suo lavoro programmatico Novyj mir (Il mondo nuovo, 1904) abbia premesso tre epigrafi: la prima tratta dalla Bibbia, la seconda da Marx, la terza da Nietzsche: “L’uomo è un ponte verso il superuomo”. Anche Bogdanov, il più “scientifico” dei bolscevichi capresi, risentiva in parte di quell’atmosfera nietzschiana che i suoi due compagni Gor’kij e Lunačarskij respiravano a pieni polmoni. Del resto, senza tracciare semplicisticamente troppo netti confini tra Bogdanov da una parte e Gor’kij e Lunačarskij dall’altra, strettamente uniti per di più tutti e tre dall’idea della costruzione di una mitica “cultura proletaria”, si deve riconoscere che la sintesi o la collaborazione dello scientismo e dell’utopismo più estremi sul fondamento di un progetto e di un movimento politico rivoluzionario organizzato è un fenomeno significativo che nell’ideologia marxista ha trovato, nel nostro secolo, l’espressione più drammatica e grandiosa.
Il fatto è che, al di là di ogni influsso diretto, tutta la cultura rivoluzionaria russa, e in particolare quella ultraradicale bolscevica, in forza del suo stesso progetto di trasformazione totale della realtà e di costruzione di un “mondo nuovo”, non poteva non partecipare al fermento e al fervore etico-religioso che animava tutta la cultura del tempo. In Russia la problematica etico-religiosa all’inizio del secolo aveva preso il nome di “ricerca di Dio”: non si trattava di un movimento omogeneo, ma di un insieme di tendenze individuali caratterizzate da una libera riflessione sul cristianesimo e sulla cultura, sulla loro crisi nell’ambito della generale crisi della civiltà europea. I nomi sono noti: da Berdjaev a Sestov, da Merežkovskij a Ivanov, da Rozanov a Bulgakov. Nietzsche e Dostoevskij, oltre a Tolstoj e a Solov’ëv, erano i numi tutelari di questa ricerca, che aveva ricevuto il suo impulso anche da Marx, dal suo ateismo profondamente nuovo rispetto a quello tradizionale di stampo illuministico, un ateismo che, animato da un grandioso progetto rivoluzionario totale la cui attuazione avrebbe reso superflua la stessa esigenza religiosa, costituiva, in un certo senso, una controreligione, una sfida alla fede che proveniva dal suo stesso interno, una sorta, insomma, di “ateismo religioso”. Alla “ricerca di Dio” dei pensatori religiosi fece da contraltare, in campo rivoluzionario, una “costruzione di Dio”, secondo il termine usato da Gor’kij e ripreso da Lunačarskij. In essa la problematica etico-politico-religiosa di Marx, Nietzsche e Dostoevskij confluiva e si trasformava, dando luogo a una nuova ideologia che, combattuta dal rigido razionalista Lenin, era destinata, tuttavia, ad entrare nel fondo genetico del bolscevismo, a costituire quasi la sua seconda anima “utopistica” accanto a quella “scientistica” preminente nella dottrina bolscevica ufficiale. Calcolo e sogno, ragione strumentale e immaginazione chimerica, organizzazione rigorosa e fede arbitraria formavano un sistema ideologico che avrebbe esplicato le sue potenzialità non solo nel corso della lotta rivoluzionaria, ma ancor più dopo la sua vittoria, quando si elaborò una potente ideologia statale e internazionale comunista, in cui, oltre alla corrente fondamentale del marxismo-leninismo, in modo non dichiarato confluirono idee diverse, tra cui quella della “costruzione di Dio”. L’autore di questa sintesi destinata a imperare per vari decenni fu Stalin.
Nel 1909 i bolscevichi di Capri, come il loro avversario Lenin a Parigi, erano ancora ben lontani da questo futuro, del quale essi erano però, più o meno consapevolmente, i creatori. Nella Scuola dell’isola mediterranea intellettuali e operai russi si interessavano di storia, economia, politica, filosofia, letteratura con una passione fervida e schietta che è testimoniata in tutti i ricordi. Tra essi la figura più cospicua e più complessa era indubbiamente quella di Maksim Gor’kij. Anatolij Lunačarskij non aveva una personalità intellettuale comparabile alla sua: oratore brillante, ricco di interessi culturali, aperto alle idee del tempo, gli faceva difetto una forza creativa e le sue ricerche teoriche apparivano povere fuori dell’ambito marxista, dove suonavano ecletticamente eretiche, stingendosi però al confronto con la libera e profonda riflessione filosofica. Quanto a Bogdanov, personalità intellettuale e morale di non comune rilievo tra i marxisti russi, lasciò senza dubbio un’impronta nella cultura con le sue opere epistemologiche e con le sue idee sulla “cultura proletaria”, ma anch’egli occupa un posto secondario rispetto a quello che Maksim Gor’kij ha conquistato nella storia non solo letteraria, ma generalmente culturale russa ed europea del nostro secolo. Ora che è finito il mito ufficiale sovietico di Gor’kij, crollato assieme al sistema di potere che lo aveva edificato come uno dei propri capisaldi ideologici, la figura e l’opera di questo scrittore devono essere sottoposti ad una libera analisi critica, la quale, tuttavia, non deve dar luogo a un antimito, a una diminuzione e a una svalutazione, quasi che in Maksim Gor’kij non si sia concentrato un momento fondamentale della storia del secolo. E gli anni italiani e, in particolare, gli anni capresi, soprattutto il cruciale 1909, sono di grande importanza nella biografia etico-intellettuale di questo scrittore.
L’ultimo periodo della vita di Gor’kij, quello che va dal suo ritorno definitivo in patria nel 1933 (ritorno preceduto da soggiorni nell’Urss, con rientri in Italia, a partire dal suo viaggio a Mosca nel 1928, segno del suo progressivo avvicinamento al regime comunista), ha lasciato un’impronta indelebile su tutta la sua figura e la sua opera. Un’impronta positiva per i fautori di quel regime, in quanto Gor’kij divenne allora il personaggio più autorevole e rappresentativo della letteratura e, in generale, della cultura sovietica, in un momento in cui esse erano totalmente sottomesse al potere del Partito e del suo capo Stalin. Un’impronta negativa per chi invece già allora, come è il caso degli scrittori russi costretti all’esilio, sapeva bene in che stato di servitù, e con quanta violenza, fossero state ridotte tutte le componenti nazionali dell’Urss, compresa quella russa, e come di questa servitù e di questa violenza soffrissero la cultura e la letteratura. Il fatto che uno scrittore di fama mondiale come Gor’kij abbia offerto l’avallo del suo prestigio alla dittatura comunista nella fase staliniana, giustificando le repressioni poliziesche del regime e teorizzando quella sua ideologia letteraria che prese il nome di “realismo socialista”, resta indubbiamente una grave macchia nella sua biografia morale e intellettuale. Una macchia che non è attenuata dal fatto che, come può considerarsi quasi certo, Gor’kij sia stato fatto uccidere da Stalin. Il dittatore comunista eliminò sistematicamente i suoi complici, come nel caso di Bucharin e di tanti altri, il che non riscatta queste sue vittime dalle colpe commesse al servizio non tanto di Stalin, quanto del regime, di cui Stalin era semplicemente la massima espressione. Stalin si era avvalso con grande profitto del servizio offertogli da Gor’kij con la sua “legittimazione” e col suo appoggio culturale. E quando capì che lo scrittore non aveva più nulla da dargli e anzi, ormai insoddisfatto del suo ruolo e consapevole del suo asservimento, poteva addirittura diventare pericoloso, lo tolse di mezzo. Gor’kij, come infiniti altri, non aveva fatto che rafforzare il sistema di violenza e di menzogna di cui cadde poi vittima. L’ultimo periodo della vita di Maksim Gor’kij, se lo consideriamo con animo di storico, si presenta come la coerente fase finale dello sviluppo precedente, uno sviluppo di cui il periodo caprese è stato un momento decisivo. Può sembrare paradossale, ma fu proprio nella solare isola di Capri che, nel lontano 1909, maturarono le idee di quella “costruzione di Dio” che, due decenni e mezzo più tardi, nella torva Mosca staliniana divenne una delle componenti del “realismo socialista”, sia pure senza un riferimento esplicito a quelle lontane idee in odore di “eresia”. È nel periodo caprese che Gor’kij porta a compimento il suo passaggio dalla fase iniziale della sua formazione, caratterizzata dal culto nietzschiano dell’individualità forte e ribelle la cui energia vitale negatrice di ogni norma si scontra con la soddisfatta grettezza di un conformismo filisteo, a una fase in cui la forza creativa non è più riconosciuta nel singolo, espressione di un individualismo decadente e distruttivo, bensì nella collettività in lotta contro la società costituita e foriera di un’umanità unita e solidale. È il periodo “marxista” di Gor’kij, di un marxismo che, nel suo caso, non fu certo teorico e “scientifico”, ma emozionale e mitopoietico, e che lo portò a dare il suo appoggio al movimento socialdemocratico rivoluzionario e, in particolare, al bolscevismo, di cui divenne un libero, ma convinto, sostenitore. Il suo rapporto particolare con Lenin, rapporto di fiducia se non di amicizia, non gli impedì di trovarsi in alcuni momenti cruciali su posizioni opposte a quelle del capo bolscevico: nel 1909, quando lo scrittore condivise le posizioni di Bogdanov e divenne il centro della “Scuola di Capri”, e poi al tempo della presa del potere da parte dei bolscevichi nell’ottobre 1917, quando egli (in una serie di articoli raccolti sotto il titolo Nesvoevremennye mysli [Pensieri intempestivi]) con fermezza si pronunciò contro quella che egli considerava una irresponsabile avventura, un catastrofico e spietato esperimento ideato da astratti rivoluzionari. Eppure Gor’kij fu parte organica di quella cultura, composita e insieme omogenea, di cui il bolscevismo si alimentò in tutte le sue fasi, da Lenin a Stalin fino alla sua fine. Come spiegare questa “diversità” di Gor’kij e, insieme, questa sua indissolubilità dal bolscevismo? Come spiegare il fatto che egli, critico di Lenin e di Trockij e di tutti i dirigenti bolscevichi nel momento della conquista del potere e della vittoria rivoluzionaria, sia poi diventato, dopo un decennio circa di dorato esilio in Italia, il più autorevole e prestigioso sostegno culturale e letterario di Stalin, di cui solo da ultimo, quando ormai era troppo tardi, capì la vera natura? Come spiegare il fatto che le idee elaborate da Gor’kij nel periodo della “Scuola di Capri”, idee che furono criticate da Lenin e quindi furono quasi cancellate nella biografia ufficiale dello scrittore, alimentarono poi il suo grande discorso inaugurale di quel Congresso degli scrittori sovietici del 1934 che segnò la proclamazione del “realismo socialista” e il trionfo dell’ideologia marxleninista come strumento di direzione letteraria?
Questi interrogativi si risolvono sostanzialmente se si tengono presenti due momenti: il primo è che un’ideologia come quella marxista-leninista non è stata immobile e monolitica, nonostante la sua pretesa di dogmatica assolutezza, ma, soggetta sempre alla suprema volontà di un Capo e agli interessi generali dell’Impresa rivoluzionaria così come essi erano interpretati dal vertice, si è sviluppata nel tempo ed ha accolto, intorno ad un nucleo intangibile, elementi diversi, amalgamandoli variamente; il secondo momento è che i bolscevichi di Capri, lungi dall’essere antileninisti, erano in disaccordo con Lenin in quanto si consideravano più bolscevichi e più leninisti di lui e ritenevano che la loro filosofia rispondesse meglio di quella leniniana all’attivismo rivoluzionario del bolscevismo. Questo secondo punto è di particolare importanza perché in quel primo contrasto interno al bolscevismo si prefigurava quella lotta per l’ortodossia che poi si ripeterà, in tutt’altre forme, dopo la morte di Lenin. Se nel 1909 Gor’kij reputò che il vero spirito del bolscevismo fosse nelle idee dei suoi compagni capresi, una ventina d’anni più tardi egli si convinse che tale spirito autentico si trovava nell’opera di Stalin. Nell’un caso e nell’altro egli era mosso da uno stesso impulso: quel collettivismo pseudoreligioso, espresso nella “costruzione di Dio”, che nel 1909 egli sviluppava letterariamente nel romanzo Ispoved’ (Confessione), e che nella Russia sovietica tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta credeva di vedere in via di attuazione. Quando criticava Lenin al tempo della conquista del potere, Gor’kij non veniva meno alle sue idee e quella sua critica non era certo affine all’opposizione antibolscevica della cultura russa liberale “borghese”. Il fatto è che allora Gor’kij commise un errore di valutazione analogo a quello in cui incorse un decennio più tardi, quando diede la sua adesione a Stalin: nel primo caso, quando criticava la rivoluzione di Lenin, egli era convinto che essa fosse incapace di realizzare i fini che si proponeva, anzi, che quei fini (comunisti) fossero minacciati da una rivoluzione che, secondo lui, scatenava forze puramente distruttive, senza essere in grado di incanalarle verso un’azione costruttiva; nel secondo caso, quando accettò la rivoluzione staliniana, egli era convinto che essa, domate le forze anarchico-eversive, avesse iniziato una grande opera di edificazione collettiva, giustificando i mezzi repressivi coi fini alti che attuava. In realtà le due rivoluzioni erano momenti di un’unica grandiosa, tragica, catastrofica azione storica (della storia russa e mondiale) che andava infinitamente al di là dei fini e dei valori socialisti che ne formavano l’ideologia, un’azione che deve essere analizzata, compresa, decifrata nell’orizzonte dell’intero sviluppo del nostro secolo. Gor’kij fu uno dei protagonisti di questa grande vicenda, un protagonista che svolse un ruolo tutt’altro che secondario, soprattutto quando assunse una responsabilità senza precedenti per uno scrittore: quello di ricevere direttamente dal Capo del più totale potere della storia l’investitura per la guida di un’intera letteratura e cultura che non era neppure più nazionale (russa), ma internazionale, secondo l’ideologia (marxista-leninista) di una rivoluzione che, per sua dichiarata missione, era mondiale. Ma nel momento della sua apoteosi Maksim Gor’kij trovò il più penoso dei fallimenti.
Se torniamo al 1909 e agli anni limitrofi, quando l’ideologia gorkiana si cristallizzò in modo definitivo, troviamo nell’autore de La madre due teorie: una minore, riguardante la Russia, e una maggiore, riguardante l’umanità. La prima teoria è pessimistica: la Russia è divisa tra due “anime”, scrisse egli in un articolo intitolato appunto Dve duši (Due anime); c’è in essa un’anima urbana, intellettuale, attiva, “occidentale”, e un’anima agricola, oscurantista, passiva, “asiatica”; la prima trova la sua espressione più alta nella classe operaia e nell’intelligencija che forma una cultura nuova, adeguata alla sua azione civilizzatrice collettiva; la seconda è radicata nelle masse contadine, soggette ai loro gretti interessi individuali o familiari e incapace di una visione razionale ampia e comune. La rivoluzione leniniana nel 1917 appariva a Gor’kij rischiosa perché, secondo lui, avrebbe scatenato le oscure masse mugiche, le quali avrebbero così spazzato via il sottile strato civilizzato, di recente formazione in Russia. La teoria maggiore di Gor’kij si basava su una fede assoluta nella ragione scientifica e tecnica come garante di un Progresso globale dell’umanità, Progresso di cui la cultura costituisce la forza di direzione e di anticipazione. In Gor’kij la fede nel Progresso e nella Ragione trova nel collettivismo il suo coronamento in quanto solo in esso viene superata ogni limitazione particolare, sia individualista che classista, e solo in esso trovano la loro attuazione i valori e le speranze della cultura umana. Cultura umana che, interpretata alla luce di questo suo esito terminale, viene inevitabilmente schematizzata e, per così dire, mutilata, come in un letto di Procuste: a essere amputata è, naturalmente, la cultura della “decadenza” borghese e, in particolare, della decadenza borghese russa, che Gor’kij dichiara oltremodo “obbrobriosa”. Ma tartassato è anche Dostoevskij, ad esempio, l’atteggiamento polemico verso il quale costituisce un motivo costante del pensiero gorkiano. Ma, a parte ciò che viene espunto, anche quello che resta viene sottoposto a una trattazione semplificatrice o, almeno, assai discutibile. Proprio nelle lezioni sulla storia della letteratura russa che egli tenne per gli studenti della “Scuola di Capri” si delinea un quadro arbitrario, il cui interesse sta nel suo carattere di documento utile per capire l’ideologia gorkiana.
Oltre alle lezioni sulla storia della letteratura russa, l’altro frutto, complementare al primo, del periodo caprese è il romanzo Confessione, in cui la “costruzione di Dio” trova la sua compiuta espressione letteraria, teorizzata da Lunačarskij nei suoi articoli su Gor’kij e nel suo libro Socializm i religija (Socialismo e religione). L’eroe del romanzo è uno dei tanti personaggi gorkiani che, come il loro autore, peregrina per la vasta terra russa, facendo la propria educazione spirituale attraverso incontri, esperienze, riflessioni. In questo senso si tratta di un originale “romanzo di formazione”, di un viaggio alla ricerca di una verità capace di dare un senso alla vita, una verità che, dopo varie prove anche di carattere religioso, Matvej, con l’autore, crede finalmente di trovare nella convinzione che Dio non è creatore, ma che esso stesso è creato e il suo creatore è il popolo. Non c’è altro Dio all’infuori del “popolo immortale, signore onnipotente”, la cui energia è capace di miracoli, come quello che converte Matvej alla nuova religione, quando una giovane paralitica è guarita dalla forza magica che sprigiona dalla massa radunata intorno a lei durante una processione. Quello che si definirebbe un effetto di suggestione è considerato un prodigio e tale esso è almeno in quanto dà vita e fiducia all’anima di Matvej e gli apre quella prospettiva dotata di senso e capace di azione che egli disperatamente cercava. Non solo Confessione, ma anche La madre, scritto nel 1906, è, sia pur in modo non così esplicito e programmatico, permeato da questo senso religioso, definito “costruzione di Dio”, che fa di un episodio rivoluzionario la parabola di un nuovo Vangelo e trasforma la biografia di un socialista in una agiografia. Il ribelle eslege, il bosjak, il vagabondo “nietzschiano” delle prime opere gorkiane si è ormai definitivamente trasformato nel “rivoluzionario di professione” marxleninista. Lenin, nemico della “costruzione di Dio”, apprezzò La madre, nonostante le sue evidenti debolezze, per la sua funzione e tempestività propagandistica, preparando la sua trasformazione in un “classico” del “realismo socialista”.
Ma, indipendentemente da ogni strumentalizzazione politica, questo romanzo di Gor’kij, che certamente è lungi dall’essere il suo migliore, ha avuto una risonanza enorme ed ha contribuito enormemente alla sua popolarità, segno che la “religione dell’umanità”, da lui teorizzata sulla scia di Feuerbach e di Comte e soprattutto di Marx e del populismo, rispondeva a esigenze sentite nell’ambito del socialismo non solo russo. Queste stesse esigenze avevano simultaneamente trovato una traduzione teorica negli scritti di Lunačarskij, il quale usa l’espressione “ateismo religioso” per definire l’“essenza sensibile del socialismo”. La religione trova in Lunačarskij tre definizioni complementari, le quali tutte servono a convalidare la sua definizione del socialismo come attuazione terrena del mito: l’anima della religione sta nella “speranza della vittoria del Bene e del Bello”, speranza che il socialismo esaudisce; la religione è un’aspirazione a “risolvere positivamente il problema della contraddizione tra le leggi della vita (i bisogni umani) e le leggi della natura”, contraddizione che le vecchie religioni e le vecchie filosofie di tipo religioso pretendevano di risolvere “interpretando” il mondo, ma che la “nuova religione” risolve “trasformando” il mondo e quindi sostituendo al mito religioso la scienza e alle pratiche magiche la tecnica; infine la religione eleva l’individuo al di là dei suoi limiti, fondendolo con la collettività, ideale che il socialismo attua non in forma mistica, bensì concretamente, in quanto in essa l’uomo diventa parte creativa di una grande realtà comune e si sente “parte mortale di un elemento immortale: la vita collettiva”. La “costruzione di Dio” è l’edificazione di questo nuovo mondo e di questa anima nuova, che supera l’individualismo e unifica la persona come momento di un’unificata umanità.
A Capri, nel 1909, Maksim Gor’kij e Anatolij Lunačarskij pensavano a questa religione del futuro, a un’umanità che, costruendo la propria unità collettiva, avrebbe costruito un nuovo Dio, cioè avrebbe deificato se stessa. Per questo essi erano marxisti bolscevichi, seguaci di Lenin, ammiratori della sua genialità tattica e della sua lucidità teorica, ma, convinti di essere loro la vera espressione del bolscevismo, nemici del razionalismo troppo arido di Lenin e critici del suo dogmatismo troppo ortodosso. Solo Lenin, però, in decisive circostanze storiche, poté offrire, con la sua rivoluzione, le condizioni della possibilità per quella “costruzione di Dio” che egli, ateo totalmente irreligioso, irrideva e osteggiava, senza capire che non solo La madre, ma anche la “costruzione di Dio” faceva parte dell’ideologia del nuovo potere. La “cultura proletaria“, altro frutto della “Scuola di Capri” e in particolare creatura di Bogdanov, riusciva invisa al freddo raziocinio e al rigoroso calcolo di Lenin. Ma anch’essa, nella forma modificata di una specifica cultura sovietica e comunista o marxista, sarebbe stata accolta nell’arsenale ideologico del nuovo potere, che sintetizzò razionalismo scientista e volontarismo fideista nel mito di un Superuomo collettivo e di un umanismo totalitario. Le avventure, e disavventure, delle idee e soprattutto delle ideologie sono sorprendenti, ma hanno sempre una loro logica. E l’ha anche la tragica peripezia del comunismo marxista e leninista, un capitolo della cui storia ebbe come teatro l’isola di Capri.
Quanto a Maksim Gor’kij, egli, a differenza degli altri protagonisti di questa vicenda, non può essere ridotto al ruolo di attore secondario del dramma rivoluzionario russo e mondiale. La sua figura è molto più complessa e profonda di quella di ogni altro membro della “Scuola di Capri” e la sua opera, per quanto critico possa e debba essere soprattutto oggi l’atteggiamento verso di essa, non ha perso la sua autenticità e il suo rilievo. Se, come si è detto, l’ultimo periodo della vita di Gor’kij, quello all’ombra di Stalin, getta un riflesso sinistro su tutta la sua figura, questa è troppo grande, troppo legata alla tragedia della cultura del suo tempo e del suo popolo, per dissolversi nella massa del “realismo socialista”. Non si tratta di equilibrare meriti e demeriti e di ricordare, accanto ad azioni vergognose di Gor’kij come la sua esaltazione del lavoro forzato nel Gulag, le azioni meritevoli come la sua difesa dell’intelligencija nei primissimi anni del bolscevismo. Con tutte le sue contraddizioni, con tutte le sue illusioni, con tutte le sue responsabilità, Maksim Gor’kij resta una figura centrale della letteratura russa non solo con le sue opere migliori, ma persino con quelle più ridondanti di pathos romantico-rivoluzionario, documento di una malattia del secolo. Nella sua vita così ricca di avvenimenti, di incontri, di esperienze, gli anni italiani restano una zona luminosa, stranamente legata all’immensa Russia sovvertita e lacerata, ai suoi abissi di spiritualità, alle sue speranze e tragedie. E, tra tutte, forse l’immagine più pregnante è quella fotografia in cui Gor’kij, a Capri, osserva pensoso Lenin e Bogdanov che giocano a scacchi, simbolo di una partita storica che entrambi persero, ma che a pagare furono altri: le incalcolabili vittime materiali e morali di un’illusoria costruzione di un falso dio.
Vittorio Strada
(Tratto da: Vittorio Strada, L’altra rivoluzione. Gor’kij, Lunačarskij, Bogdanov. La “Scuola di Capri” e la “Costruzione di Dio”, La Conchiglia, 1994, pp. 11-28).
Inserito il 24/11/2024.
A.V. Lunačarskij e M. Gor’kij nel 1928.
Foto: TASS.
Fonte della foto: https://rodina-history.ru/2015/10/06/rodina-govorun.html
di Michail Romanenko*
La “costruzione di Dio” (bogostroitel’stvo) è una piattaforma ideologica della socialdemocrazia russa nata a metà del primo decennio del XX secolo. I suoi principali rappresentanti furano A.V. Lunačarskij, V. Bazarov (V.A. Rudnev), P.S. Juškevič. Ad essi si unirono M. Gor’kij (A.M. Peškov), M.N. Ljadov e altri.
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Lunačarskij, il marxismo come religione e la “costruzione di Dio”
di Michail Romanenko*
La costruzione di Dio (bogostroitel’stvo) è una piattaforma ideologica della socialdemocrazia russa nata a metà del primo decennio del XX secolo. I suoi principali rappresentanti furano A.V. Lunačarskij, V. Bazarov (V.A. Rudnev), P.S. Juškevič. Ad essi si unirono M. Gor’kij (A.M. Peškov), M.N. Ljadov e altri.
La costruzione di Dio apparve dopo la sconfitta della rivoluzione del 1905, negli anni della reazione, quando nella coscienza pubblica si manifestarono stati d’animo di disperazione, sconforto, malinconia e incredulità, e tra gli esponenti dell’intelligencija si manifestò una brama di religione e di misticismo e sorse la cosiddetta “febbre della ricerca” (V. Bazarov), cioè la dolorosa ricerca di una via d’uscita dalla precaria situazione sociale, ideologica e morale venutasi a creare. Anche alcuni socialdemocratici che erano membri della fazione bolscevica si dedicarono alle questioni religiose. Da parte loro si cominciò a criticare il marxismo e si tentò di combinarlo con l’empiriocriticismo (machismo) come filosofia della «scienza naturale moderna» fino agli appelli a «gettare di dosso il logoro mantello del vecchio materialismo»1. Fu questo il contesto in cui la costruzione di Dio si formò come movimento religioso-filosofico e ideologico all’interno della socialdemocrazia russa: la sua essenza consisteva nella la creazione (o costruzione = stroitel’stvo) di una nuova, più alta religione, una religione senza Dio, «la religione del socialismo scientifico».
La base filosofica della costruzione di Dio era costituita dalle idee dell’empiriocriticismo (machismo), che sul suolo russo, nelle opere di A.A. Bogdanov (A.A. Malinovskij), acquisirono la forma di empiriomonismo e, in P.S. Juškevič, quella di empiriosimbolismo che, a suo dire, restava “nell’ambito delle idee della filosofia sociale di Marx”2.
Il concetto di costruzione di Dio fu espresso in modo più completo e adeguato da Anatolij Vasil’evič Lunačarskij (1875-1933). Considerando che la filosofia di Marx veniva toccata solo in poche pagine dei suoi primi lavori3, egli vedeva proprio nelle opinioni di Bogdanov quella forma «sviluppata» di visione filosofica del mondo che poteva servire come base per ricerche religiose orientate al socialismo. Scriveva: «…troviamo nella sua visione del mondo, nelle sue brillanti costruzioni sulle solide basi del più genuino marxismo, un terreno eccellente per il fiorire della coscienza religiosa socialista»4.
Cercando di superare il dualismo dell’essere e del pensiero (materia e coscienza), Lunačarskij, seguendo Bogdanov, sostenne che il materiale e l’ideale si confrontano come diversi stadi dell’organizzazione degli stessi elementi. Il mondo è basato su elementi neutri. «Questi elementi non sono né fisici né mentali, sono semplicemente l’essere»5. Organizzati nell’esperienza, danno il mondo fisico, organizzati nell’individuo, danno il mondo psichico. La nostra conoscenza, essendo secondo Lunačarskij il risultato di «esperienza socialmente organizzata», è di natura relativa e non riflette alcuna realtà oggettiva, perché l’era successiva la distruggerà sicuramente e la sostituirà con altre. Su questa base relativistica, Lunačarskij espresse sfiducia nella scienza, nelle sue capacità predittive, e credeva che l’ideale socialista potesse essere solo oggetto di fede e di sogni, soprattutto perché sotto il socialismo una persona avrà bisogno di fede, sete di felicità, di una “nuova religione”. «…Nella speranza della vittoria, nell’impegno, nell’esercizio della forza c’è una nuova religione. Insieme all’apostolo Paolo possiamo dire: “Siamo salvi nella speranza”»6.
Va notato che Lunačarskij intendeva la religione non come fede nelle forze soprannaturali, ma come orientamento al valore, come rimozione delle contraddizioni tra ideale e realtà. «La religione – scrisse – è un tale pensiero sul mondo e una tale visione del mondo che risolve psicologicamente il contrasto tra le leggi della vita e le leggi della natura»7. Poiché il socialismo risolve la contraddizione tra l’ideale sociale e il mondo circostante – ciò che pretende ogni religione –, ma non su una base mistica trascendentale, bensì su una base interpretata razionalisticamente, quella della “pura esperienza”, del lavoro collettivo, poiché il marxismo, in quanto socialismo scientifico, è l’ultima e più perfetta forma di religione. Il socialismo deriva dalla ricerca religiosa del passato; è religioso nella sua essenza, sebbene sia fecondato dal «fatto della crescita economica dell’umanità».
L’ideale socialista, valutato da un punto di vista psicologico, estetico, morale, sembrava a Lunačarskij un fenomeno maestoso che incarna la bellezza, la ragione, la libertà, l’umanesimo, cioè i desideri e le aspirazioni più intimi delle masse oppresse, fornendo una soluzione a tutte le questioni dolorose della vita, incluse quelle personali come l’amore, la speranza, la paura della morte, la malinconia, la solitudine, fattori non soggetti alla scienza. Egli sosteneva che il proletariato nella lotta per il socialismo aveva bisogno del sostegno di tutti gli strati della società, che saranno più facilmente permeati dalla coscienza, dalla maestà e dall’umanità dell’ideale socialista in un involucro religioso e combatteranno prontamente ed entusiasticamente per la sua attuazione sotto la guida del proletariato «portatore di Dio». Per fare questo, è necessario eliminare l’apparenza fredda e dura dell’insegnamento marxista, la sua terminologia economica monotona, scientificamente grigia e, in una peculiare forma semipoetica, rivelare il contenuto interiore degli insegnamenti di Marx ed Engels, per riconoscere il socialismo scientifico come «la luce delle luci, l’ardente concentrazione delle speranze umane, la più grande poesia, il più grande entusiasmo, la più grande religione»8, affinché acquisisca una nuova forza attrattiva per tutti, anche per gli strati più arretrati del proletariato, soprattutto di quello rurale, influenzato dalle istanze religiose. In altre parole, è necessario dare al marxismo un’ampiezza estetica e morale, introdurre in esso un elemento emotivo che stimoli l’energia. Secondo Lunačarskij, proprio per la sua natura, ricca di «tesori di idealismo pratico», l’ideale socialista richiede un’interpretazione religiosa. Egli vedeva in questo modo la religione (senza identificarla con alcuna forma storica di religione) come la soluzione a quei problemi che, secondo lui, il marxismo e il socialismo scientifico erano chiamati a realizzare, vale a dire l’eliminazione delle contraddizioni tra l’ideale e la realtà, la realizzazione delle aspirazioni umane al lavoro libero e ad una vita felice. Per fare questo è necessario togliere «tutto ciò che ha valore» dalla religione positiva, purificarla «da impurità, ipotesi assurde e metodi falsi»9 ed elevarla a una nuova altezza. Il marxismo apparirà allora come il completamento della ricerca di tutte le religioni, come una sorta di sistema religioso sintetico, dove il posto di Dio sarà preso da grandi quantità sovraindividuali: l’Umanità e il Cosmo. Questo sarà un ateismo religioso o una religione atea.
Il percorso della lotta per il socialismo, per esempio per il trionfo dell’uomo nella natura, è la costruzione di Dio; i suoi atomi sono persone le cui attività, volte a creare una società ideale in cui regnano l’onniscienza, l’onnipotenza, la vita completa ed eterna, acquisiscono carattere religioso, poiché “costruiscono” «la convivenza amorevole degli uomini sulla terra», dove l’uomo è Dio per l’uomo. La ricerca dell’ideale, credevano Lunačarskij e altri “costruttori di Dio”, unisce le persone, dà origine ad azioni creative attive e collettiviste, in cui si realizza il principio della «più grande forza vitale possibile», della «massima vita». La lotta eroica delle persone per un futuro luminoso è una manifestazione delle forze religiose che costruiscono Dio; per esempio, come scrive Gor’kij in Confessione (1908): «La volontà del popolo si sta risvegliando, la cosa più bella è essere uniti dopo essere stati separati con la forza, molti stanno già cercando come unire tutte le forze della terra in una, da cui si formi un dio che comprenda tutta la terra, luminoso e bello». La costruzione del socialismo è una risposta completa a tutte le questioni religiose, e così si realizza il completamento e la distruzione di tutte le religioni precedenti, e questo, secondo Bazarov, è il «superamento creativo di Dio»10. D’ora in poi Dio è umanità socialista integrale, questa è la forza della ragione, della volontà collettiva. Gli oggetti del culto superindividuale (al posto di Dio) diventano i «grandi valori» (come dei santuari): «la grande speranza, il grande sogno, il grande obiettivo». Ecco la religione dell’uomo nuovo, concretizzata nella teoria e nella pratica del socialismo e del marxismo.
I costruttori di Dio propagandarono attivamente le loro opinioni tra i lavoratori e altri segmenti della popolazione. Nel 1909, sull’isola di Capri (in Italia), essi organizzarono una scuola per lavoratori – un «centro letterario per la costruzione di Dio» (come lo definì Lenin) – e poi il gruppo Vperëd (Avanti). La loro posizione incontrò il sostegno di alcuni menscevichi e socialisti rivoluzionari nonché di qualche rappresentante del clero.
La propaganda della costruzione di Dio tra la classe operaia provocò aspre critiche da parte dei membri del partito bolscevico e menscevico, primo fra tutti Plechanov [G.V. Plechanov era considerato il padre del marxismo russo, ndt]. Lenin scrisse diverse lettere a Gor’kij nelle quali sottolineava la natura non scientifica e il danno pratico della costruzione di Dio. Criticando Lunačarskij per aver «divinizzato le più alte potenzialità umane», distingueva tra le «buone intenzioni» (Lunačarskij pensava sinceramente di svolgere un lavoro utile per promuovere le idee del marxismo) e il significato oggettivo e sociale delle sue opinioni, che in realtà significava una distorsione della teoria marxista.
Plechanov, nella sua opera Sulla cosiddetta questione religiosa in Russia, sottolineò come scienza e religione fossero incompatibili e che l’idea di Dio non organizza le masse, ma le fa addormentare, distraendole dalla lotta per la loro liberazione.
In generale, la costruzione di Dio non ebbe una diffusione significativa; i suoi sostenitori abbandonarono ulteriori tentativi di interpretare il marxismo in una direzione religiosa, e i loro gruppi si disintegrarono. Entro la metà del secondo decennio del XX secolo la costruzione di Dio come piattaforma ideologica cessò di esistere. Nel 1925 Lunačarskij pubblicò una versione ridotta e riveduta della sua opera Religione e socialismo con il titolo Da Spinoza a Marx, e nel 1931 ammise che la sua passione per la costruzione di Dio aveva rappresentato «il mio più grande errore»11.
Michail Romanenko*
(Traduzione di Leandro Casini)
* M.V. Romanenko, dottore in scienze filosofiche, professore, membro dell’Accademia Slava Internazionale.
(Tratto da: Michail Romanenko, Bogostroitel’stvo, in http://lunacharsky.newgod.su/issledovania/bogostroitelstvo/).
Note
1 Луначарский А. В. Атеизм // Очерки по философии марксизма. Философский сборник. М., 1908. С. 160. [Lunačarskij A.V., Ateizm, in Očerki po filosofii marksizma. Filosofskij sbornik, Moskva, 1980, p. 160].
2 Юшкевич П. С. На тему дня // «Вершины». Кн. 1. Спб., 1909. С. 383. [Juškevič P.S., Na temu dnja, in «Veršiny», vol. 1, Sankt-Peterburg, 1909, p. 383].
3 См.: Луначарский А. Религия и социализм. Спб., 1911.4. 2. С. 324. [Vd. Lunačarskij A., Religija i socializm, Sankt-Peterburg, 1911.4.2, p. 324].
4 Там же. С. 377–378. [Ivi, pp. 377-378].
5 Там же. С. 284. [Ivi, p. 284].
6 Луначарский А. Религия и социализм. Спб., 1908. Ч. 1. С. 48–49. [Lunačarskij A., Religija i socializm, Sankt-Peterburg, 1908, parte 1, pp. 48-49].
7 Луначарский А. Будущее религии // «Образование», 1907, № 10. С. 21. [Lunačarskij A., Buduščee religii, in «Obrazovanie», 1907, n. 10, p. 21].
8 Луначарский А. Религия и социализм. Ч. 2. С. 395. [Lunačarskij A., Religija i socializm, parte 2, p. 395].
9 Там же. Ч. 1. С. 42. [Ivi, parte 1, p. 42].
10 Базаров В. Богоискательство и “богостроительство” // «Вершины». Кн. 1. Спб., 1909. С. 355. [Bazarov V., Bogoiskatel’stvo i “bogostroitel’stvo”, in «Veršiny», vol. 1, Sankt-Peterburg, 1909, p. 355].
11 Луначарский А. В. Литературное наследство. М., 1970. Т. 82. С. 497. [Lunačarskij A.V., Literaturnoe nasledstvo, Moskva, 1970, vol. 82, p. 497].
Raniero Panzieri (in primo piano) con Mario Tronti, Gaspare De Caro e Toni Negri ai tempi dei «Quaderni Rossi»..
Fonte della foto: https://www.facebook.com/photo.php?fbid=914422547354114&set=pb.100063591316061.-2207520000&type=3
Dal sito di «Contropiano»
di Franco Astengo
Per il sessantesimo anniversario di Raniero Panzieri, Franco Astengo traccia per «Contropiano» un ricordo di un intellettuale originale e innovatore.
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Raniero Panzieri, l’operaismo, il socialismo
Nell’ottobre del 1964 moriva, a soli 44 anni, Raniero Panzieri: figura ispiratrice di molte delle idee degli anni Sessanta che influenzarono alquanto anche gli anni Settanta.
Fu dirigente del PSI in Sicilia e a Roma. Diresse la rivista «Mondo operaio» del PSI. In questo periodo tradusse Il Capitale. Trasferitosi a Torino collaborò con la casa editrice Einaudi . Fondò la rivista «Quaderni Rossi» con altri, tra cui Mario Tronti e Toni Negri.
Nella rivolta di piazza Statuto a Torino del 1962, intuì l’emergere della centralità della fabbrica e dell’operaio massa. Posizioni e ricerche che lo avevano fatto allontanare dal PSI e dalla sua corrente di sinistra nella quale aveva a lungo militato: un distacco che gli impedì anche di aderire, nel gennaio 1964 pochi mesi prima della morte, allo PSIUP.
Attraverso l’elaborazione sviluppata su «Quaderni Rossi», Panzieri riscoprì alcuni testi di Marx fino a quel punto largamente ignorati come la IV sezione del I libro del Capitale, il “frammento sulle macchine” dei Grundrisse, il Capitolo VI del Capitale (inedito), facendo emergere nel dibattito i concetti di sussunzione formale e di sottomissione reale del lavoro al capitale per indagare i processi di trasformazione economico-sociali e per analizzare l’organizzazione taylorista e fordista del lavoro.
Su quelle basi teoriche Panzieri elaborò i concetti di “operaio massa” e di “composizione di classe”.
Panzieri indicava la strada dell’alternativa in lotte di fabbrica che presentassero la richiesta di un controllo operaio sulla produzione (come produrre, per chi produrre: con Lucio Libertini Panzieri fu autore di “sette tesi per il controllo operaio”).
L’avanzamento di questa domanda “tutta politica”, di presa di potere “nella e sulla fabbrica”, fu disconosciuta dalle organizzazioni ufficiali del movimento operaio, tutte intente – in quella fase – a muoversi sulla linea delle politiche keynesiane indirizzate alla sfera dei bisogni e dei consumi (era il momento del cosiddetto “miracolo italiano”).
Le lotte di fabbrica di quel periodo spiazzarono, però, l’analisi marxista ufficiale incentrata sulla arretratezza del capitalismo italiano, sulla necessità della ricostruzione nazionale e sull’esaltazione della capacità produttiva del lavoro.
L’ analisi di Panzieri incontrò il limite del non incrociarsi con la possibilità di realizzare, in quella fase, una adeguata rappresentanza politica.
L’elemento dell’impostazione della lotta di classe dentro la modernizzazione capitalistica nel senso della costruzione dell’alternativa avrebbe dovuto costituire l’essenza dell’opposizione socialista al centro-sinistra che invece assunse la forma politicista dello PSIUP.
Forse lo PSIUP avrebbe potuto rappresentare un punto di coagulo intellettualmente all’altezza se all’interno di quel partito fosse stato possibile misurarsi con i temi della classe e del rapporto tra essa e la modernizzazione industriale in Occidente e le tendenze che essa avrebbe suscitato nel movimento operaio.
Lo PSIUP (Panzieri morì il 9 ottobre 1964, quando il partito era sorto da pochi mesi) si rivelò insufficiente per eccesso di politicismo e di legame con lo schema bipolare (tema che non si è affrontato in questa sede e che rimane comunque fattore decisivamente insuperabile in quell’epoca se pensiamo a ciò che si verificò, pochi anni dopo, con l’invasione della Cecoslovacchia e la successiva radiazione del gruppo del “Manifesto” dal PCI).
Si sarebbe dovuta rinvenire la capacità di uscire dall’egemonia dello schema togliattiano di lettura di Gramsci del “Risorgimento incompiuto” e dell’identità nazionale della classe operaia.
I due punti che Togliatti mutuò da Gramsci attraverso la pubblicazione “ragionata” dei Quaderni e che rimangono comunque le stimmate di identità peculiare del comunismo italiano anche rispetto al materialismo dialettico sovietico.
Un’identità consolidata ed egemone, quella assunta dal PCI, che poteva essere affrontata attraverso la rilettura, assieme ai nuovi classici della sociologia americana dell’epoca e dei teorici della Scuola di Francoforte, anche dalla lettura di un altro Gramsci: quello di Americanismo e fordismo.
Rimane il “forse” che per quella strada si sarebbe potuti uscire dallo schema del “bipartitismo imperfetto”.
Dei “se” e dei “ma” però sono piene le fosse e in questo caso ne ho compiuto un utilizzo colpevolmente abusivo, ma Panzieri va ricordato anche in questo momento in cui la sinistra appare in ritardo nel comprendere la nuova complessità delle contraddizioni tra antico schema “materialista” e novità “post-materialiste”, tra struttura e sovrastruttura.
Franco Astengo
(Tratto da: Franco Astengo, Sessanta anni dalla morte di Raniero Panzieri, in https://contropiano.org/interventi/2024/10/08/sessanta-anni-dalla-morte-di-raniero-panzieri-0176286).
Inserito il 09/10/2024.
Dalla rivista online «L’ospite ingrato»
Saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967)
(Pisa, Pacini Editore, 2024)
recensione di Giuseppe Muraca
Un saggio che offre un panorama completo di ciò che, dal punto di vista culturale e intellettuale, si mosse a sinistra del PCI dopo l’anno di svolta 1956: la nascita di numerose riviste, la pubblicazione di molti saggi importanti che cercarono di ridefinire e riattualizzare il marxismo e di ridare vigore a un’idea del socialismo che si era affossata e incancrenita nelle chiusure della fase stalinista.
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Luca Mozzachiodi
Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967)
(Pisa, Pacini Editore, 2024)
recensione di Giuseppe Muraca
La crisi del marxismo e della sinistra avvenuta a partire dalla fine degli anni settanta hanno reso ormai lontana la stagione della Nuova sinistra, che dopo le opere di Giovanni Bechelloni (a c. di), Cultura e ideologia della nuova sinistra (1973), e di Attilio Mangano, Le culture del ’68 (1989) e L’altra linea (1992) negli ultimi trent’anni nella sua totalità e complessità raramente è stata oggetto dell’indagine storiografica. A rompere questo lungo silenzio ci ha pensato il giovane studioso Luca Mozzachiodi che ad essa ha da poco dedicato un libro molto importante, frutto di anni di lavoro, Preparando il Sessantotto: saggisti e scrittori nelle riviste della nuova sinistra (1956-1967). Le speranze, i drammi e le delusioni del 1956, «Ragionamenti» e la crisi dello stalinismo, «Officina» una rivista di transizione, il boom economico e le prime lotte operaie, Franco Fortini da Dieci inverni a Verifica dei poteri, Raniero Panzieri organizzatore politico e culturale e teorico marxista, il rinnovamento del marxismo e la nascita e il percorso delle riviste «Quaderni Rossi» e «Classe operaia», la fase pre-sessantottina dei «Quaderni piacentini», Cesare Cases allievo di Lukács, Renato Solmi studioso della Scuola di Francoforte e della nuova sinistra americana, Mario Tronti e l’operaismo, Alberto Asor Rosa e la critica al populismo: questi sono alcuni dei principali argomenti del libro, e tanto altro ancora. Un libro compatto, ricco di spunti e di riflessioni e rigoroso come pochi, che ricostruisce l’attività di quei piccoli gruppi di intellettuali militanti e organizzatori politici e culturali che dagli anni più duri dello stalinismo e della guerra fredda fino all’avvento del neocapitalismo e nel corso degli anni Sessanta hanno speso le loro energie per affermare una linea politica e culturale diversa da quella della sinistra ufficiale, e che alla critica dello stalinismo, dello zdanovismo, del togliattismo e del marxismo nazional-popolare hanno unito l’impegno per una nuova cultura e un nuovo pensiero marxista basato sull’unità tra teoria e prassi, tra politica e cultura. Diversi per formazione e per interessi e spesso in disaccordo tra di loro, ciò che li univa era la creazione di nuovi metodi e strumenti di ricerca e di analisi e di spazi autonomi di elaborazione teorica e culturale liberi dai condizionamenti imposti dalle dirigenze politiche della sinistra, l’opera di sprovincializzazione della cultura italiana e l’attenzione verso quelle esperienze teoriche e politiche che si ponevano su un nuovo versante e che venivano trascurate, criticate o rimosse dal marxismo ortodosso. Pur riconoscendo in parte il ruolo dei partiti tradizionali, essi hanno privilegiato l’iniziativa dal basso, il primato e l’autonomia della classe e la democrazia diretta, costituendo delle piccole minoranze che hanno promosso dei progetti e delle iniziative (riviste ciclostilate e diffuse in poche centinaia di copie, attività editoriali, convegni, istituti di ricerca e di organizzazione politica e culturale) che erano in conflitto coi dogmi e le istituzioni burocratiche della sinistra e del socialismo sovietico. Proprio per questo motivo la loro attività venne ostacolata ed emarginata dall’atteggiamento di chiusura ideologica del PCI, che mal tollerava la critica e la polemica.
La data di partenza del discorso di Mozzachiodi è ovviamente il 1956, un anno che per molti versi ha chiuso un ciclo e al tempo stesso un anno di rottura e di svolta da cui ha origine una nuova stagione politica e culturale. Il XX Congresso del PCUS, con la denuncia dei crimini di Stalin e il culto della personalità da parte di Kruscev, l’VIII congresso del PCI e la rivolta polacca e ungherese e l’occupazione dei carri armati sovietici aprono una nuova fase politica, quella della destalinizzazione e della fine del frontismo, segnata da polemiche e lacerazioni sul fronte della sinistra. Emblematica da questo punto di vista è stata l’esperienza della rivista milanese «Ragionamenti» (e in parte delle bolognesi «Opinione» e «Officina») che dopo un inizio in sordina si scontra con gli intellettuali del PCI e critica duramente l’invasione sovietica e il socialismo burocratico. Coloro che negli anni precedenti avevano criticato da sinistra la linea politica e culturale dominante uscirono allo scoperto partecipando all’intenso e serrato dibattito che ha interessato e coinvolto tutta la stampa della sinistra, e non solo. Negli anni seguenti molti intellettuali abbandonarono il PCI (tra cui Antonio Giolitti e Italo Calvino), Fortini nel 1958 ruppe con il PSI, mentre il fronte dei marxisti critici ed eterodossi incomincerà a dividersi e a seguire direzioni diverse: tra chi, come i Guiducci, Momigliano e Pizzorno, lavorerà per superare Marx e la dittatura del proletariato, e chi invece, come Bosio, Panzieri, Montaldi, Cases, Luciano Della Mea e lo stesso Fortini, procederà verso un’uscita a sinistra dallo stalinismo e dallo storicismo. Si concluse così un sodalizio politico e culturale durato quasi dieci anni. Con la fine degli anni Cinquanta il graduale avvicinamento dei socialisti all’area di governo ha segnato di fatto la sconfitta e l’emarginazione politica di Panzieri, di Bosio, di Fortini e di Luciano Della Mea che nutrivano la convinzione di un necessario ripensamento e di una rifondazione del marxismo, in netta contrapposizione alle ideologie tecnocratiche e modernizzanti del neocapitalismo, della coesistenza pacifica e alla politica di “programmazione democratica” del nascente centrosinistra.
Infatti, proprio all’inizio degli anni Sessanta, nel pieno del boom economico e del risveglio operaio, nacquero le prime riviste e i piccoli gruppi della nuova sinistra, che contribuirono a creare un nuovo pensiero marxista, in alternativa sia alla sinistra ufficiale che all’industria culturale e al sistema neocapitalistico, tra cui i «Quaderni Rossi», fondati a Torino nel 1961 da Raniero Panzieri, e i «Quaderni piacentini», fondati nel 1962 da Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi: mentre i redattori della prima applicano le teorie di Marx allo sviluppo neocapitalistico e s’incontrano con gli operai davanti ai cancelli della Fiat e delle altre industrie per condurre le loro inchieste con il metodo della con-ricerca, gli animatori della seconda, ispirandosi inizialmente alle posizioni di Franco Fortini, conducono una battaglia culturale contro il sistema e la vecchia sinistra. Nel ’64, dopo la rottura fra Mario Tronti e il direttore dei «Quaderni Rossi» nasce «Classe operaia», che porta ad un’idealizzazione e mitizzazione della classe operaia. Queste sono le riviste su cui si sofferma in particolare l’attenzione di Mozzachiodi e che in vario modo gettano le basi di un nuovo discorso teorico, politico, culturale e letterario. Si afferma così una nuova generazione di giovani intellettuali militanti che, dopo la lacerante crisi del 1956, tra il luglio ’60, la formazione del centro-sinistra e la rivolta di piazza Statuto a Torino aveva maturato, in opposizione ai miti e ai valori della società neocapitalistica e alla linea politica riformista e moderata del movimento operaio tradizionale, le proprie scelte ideologiche e che aveva fatto proprio della rivista lo strumento privilegiato di ricerca, d’intervento e di dibattilo teorico, politico e culturale. Ed è così che proprio nella prima metà degli anni Sessanta si verificò l’incontro e la collaborazione tra due generazioni di intellettuali della nuova sinistra, tra quella dei “dieci inverni” (dei vari Fortini, Panzieri, Montaldi, Bosio, Giovanni Pirelli, Luciano della Mea, Roversi, Cases, ecc.) e quella del 1956 (dei vari Asor Rosa, Tronti, Rieser, Piergiorgio Bellocchio, Grazia Cherchi, Fofi, Mottura, Negri, Alquati, Lanzardo, Bologna, Luperini, ecc.). Al di là delle differenze, obbiettivo comune di quei piccoli gruppi d’intellettuali era la critica del neocapitalismo, la creazione di una nuova cultura e il rinnovamento del marxismo in senso classista e rivoluzionario e la fondazione di un nuovo internazionalismo, nella prospettiva di un radicale mutamento della società contemporanea, perseguendo un’idea di un “comunismo diverso” che poi alimenterà l’attività politica della generazione sessantottina e dei gruppi rivoluzionari. Perciò essi s’impegnarono con dedizione ed entusiasmo gobettiani, improvvisandosi editori, per creare nuove forme e strumenti diversi di comunicazione, di ricerca e di dibattito politico-culturale, in netto contrasto sia alla moderna industria culturale che alla sinistra “ufficiale”. Tutte le riviste della nuova sinistra furono infatti prodotte e autogestite dai principali animatori e questo permise loro una quasi totale indipendenza dal contesto politico e culturale, diventando col tempo dei punti di riferimento per un pubblico sempre più ampio di intellettuali e militanti collocati a sinistra delle organizzazioni tradizionali del movimento operaio. Nel 1965 uscirono Verifica dei poteri e l’antologia Profezie e realtà del nostro secolo di Franco Fortini, Scrittori e popolo di Alberto Asor Rosa e l’anno seguente Operai e capitale di Mario Tronti, quattro libri di rottura che influenzeranno profondamente la generazione del Sessantotto suscitando discussioni e polemiche tra i gruppi e la stampa della nuova sinistra. Bisogna però considerare che nella prima metà degli anni Sessanta le riviste della nuova sinistra circolarono quasi clandestinamente e raramente superarono il migliaio di copie, e soltanto nella seconda metà del decennio, con il radicalizzarsi della situazione politica mondiale (le lotte civili e antirazziali in USA, la nascita della nuova sinistra americana, la guerra del Vietnam, le lotte antiimperialistiche in America Latina e nei paesi del terzo mondo, la Rivoluzione culturale cinese, ecc.), esse riuscirono ad interessare e ad influenzare progressivamente un giovane ceto intellettuale sempre più massificato e politicizzato che si poneva appunto alla sinistra del PCI e del PSI. Tuttavia, l’improvvisa esplosione della contestazione studentesca colse in gran parte di sorpresa anche i gruppi minoritari della nuova sinistra, che avevano pensato e lavorato per una sollevazione della classe operaia, anche se non c’è dubbio che la loro ricerca teorica, politica e culturale sia da considerare una delle matrici del movimento studentesco, dell’autunno caldo e della sinistra extraparlamentare. Quello è stato il periodo della massima espansione e del successo delle riviste (del n. 33 dei «Quaderni piacentini» si vendettero quindicimila copie), ma anche della loro trasformazione in quanto i grandi movimenti di massa hanno posto delle problematiche e innescato dei processi sociali e politici di vasta portata, tanto è vero che persino le più spregiudicate sono state costrette a modificare la loro precedente impostazione («Classe operaia» concluse la sua pubblicazione nel 1967, mentre «Classe e Stato» addirittura chiuse in pieno 1968): non a caso il discorso specificatamente culturale e letterario venne quasi del tutto abbandonato e furono privilegiate la ricerca teorica e la riflessione politica: infatti da quel momento «Quaderni piacentini» e «Rendiconti» smisero di pubblicare poesie e testi letterari. Insomma, venne avvertita di colpo l’urgenza di mettersi al passo col movimento, pubblicando saggi interpretativi e documenti della rivolta universitaria e dell’autunno caldo, molti dei quali sono ancora indispensabili per capire il movimento sessantottino. E proprio nel corso del 1968 uscirono sui «Quaderni piacentini» i celebri saggi Contro l’università di Guido Viale, Il dissenso e l’autorità di Franco Fortini, La politica ridefinita di Carlo Donolo e Il desiderio dissidente di Elvio Fachinelli che hanno contribuito a fare della rivista di Piacenza il più autorevole e il più letto periodico della nuova sinistra.
Luca Mozzachiodi conclude giustamente il suo discorso nel 1967 perché il 1968 rappresenta per molti versi una nuova data periodizzante e una nuova rottura, tra primato della politica, critica antiautoritaria e radicale del sistema universitario e scolastico e dell’autonomia e della separatezza della cultura e dell’intellettuale. I gruppi del movimento studentesco hanno raccolto i messaggi politici dei protagonisti e delle riviste della nuova sinistra, ma al tempo stesso hanno attuato una ridefinizione della cultura e della politica. Si afferma insomma un nuovo clima politico, un nuovo modo di intendere la politica e il ruolo dell’intellettuale. Cioè, con le lotte studentesche e operaie è iniziato un nuovo periodo politico che porterà alla nascita dei partiti e dei giornali della sinistra rivoluzionaria (Servire il Popolo, Avanguardia operaia, Lotta continua, Il Manifesto, Potere operaio, ecc. ecc.), che segneranno l’affermazione di vecchie e nuove ortodossie e la storia italiana degli anni Settanta.
Giuseppe Muraca
(Tratto da: https://www.ospiteingrato.unisi.it/luca-mozzachiodipreparando-il-sessantottogiuseppe-muraca/).
Inserito il 09/09/2024.
Dalla rivista «Critica marxista»
recensione di Antonino Infranca
Alle Edizioni Punto Rosso va il merito di aver raccolto alcuni saggi del filosofo francese André Tosel (1941-2017) sui padri del marxismo: Studi su Marx (ed Engels). Verso un comunismo della finitudine (Milano, 2020). Tosel ebbe un ruolo fondamentale nella diffusione delle teorie marxiste nei circoli accademici. Fu autore di molti libri sul marxismo e sui teorici marxisti (scrisse su Marx ed Engels, su Gramsci e Lukács), ma anche su Spinoza, Hegel, Kant. Collaborò, tra le altre, alle riviste «Actuel Marx» e «La Pensée».
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Marxismo e comunismo in Tosel
di Antonino Infranca
Il nuovo libro di André Tosel, Studi su Marx (ed Engels). Verso un comunismo della finitudine (trad. it. M. Vanzulli, Milano, Punto Rosso, 2020, pp. 136) esce a quattro anni dalla morte del filosofo francese ed è una raccolta di saggi pubblicati nella prima metà degli anni Novanta del secolo passato. C’è un filo conduttore, ed è il biasimo e il rammarico per l’incapacità della sinistra di sapere affrontare la situazione storica, determinata dal crollo dei regimi comunisti dell’Est. Tosel non considera quei regimi veri regimi socialisti, anzi per alcuni aspetti ne erano per lui la negazione più radicale. Vanzulli ricorda nell’introduzione che «il nome di Marx non viene preservato dalle vicende del comunismo novecentesco, come può fare chi ritenga che Marx sia sì l’autore più importante per capire il capitalismo moderno, e anche quello contemporaneo, ma non l’autore del comunismo» (p. 5). Nonostante tutto, però, a mio parere, non si possono attribuire a Marx le storture del comunismo realizzato, perché Marx non diede mai indicazioni su come costruire e strutturare il comunismo o il socialismo. Questo spazio vuoto della teoria fu riempito da regimi che nella loro pratica politica fecero, spesso, dimenticare la loro origine marxista. Il loro crollo ha poi portato la sinistra a una situazione di apatica incapacità di reagire, di pensare, di porsi una nuova prospettiva di azione politica, di lanciare una sfida al neoliberalismo dominante. Ma è un discorso diverso.
Tosel si rammarica, a più riprese, della disemancipazione, cioè dell’abbandono dell’idea di emancipazione. Egli pensa l’emancipazione in termini di libertà (p. 94) – a mio parere sarebbe da preferire alla libertà la liberazione, cioè l’azione di liberarsi da un presente sempre più invivibile, senza futuro. Questa disemancipazione non libera dal fatto basilare che «la storia è la tragedia della ripro- duzione dell’inumano nel cuore stesso dell’uomo» (p. 24). Tosel, quindi, è spinto da una forte tensione etica, che però pare restare dentro una sostanziale impotenza, dettata dal momento storico. Anche se ci sono parole d’ordine importanti nel libro, come il richiamare l’etica e la politica al loro ruolo originario di produrre individui integrali e liberi dall’«individualismo possessivo» del liberalismo (p. 19).
Tosel avanza la proposta di un “comunismo della finitudineö, privo però di teleologia, cioè di un’attività che punti alla riproduzione, retta dalla valorizzazione, che finisce per diventare produzione per la produzione. Una teleologia che schiaccia ogni attività libera di emancipazione. Alla fine i paesi comunisti finirono per essere risucchiati dal meccanismo capitalistico della produzione per la produzione. Secondo Tosel ciò avvenne perché l’assoluto razionalismo produttivo si impadronì della produzione. Sparirono i bisogni degli uomini come scopo della produzione stessa e una classe dominante lontana da questi bisogni impose la propria teleologia alla produzione. Tosel, quindi, propone «la forma filosofica immanente a una teoria dell’emancipazione finalmente libera dal razionalismo dell’autoproduzione del genere e dell’individualismo possessivo» (р. 41), emancipazione che sfocia nel comunismo della finitudine positiva, libera dal dominio, che apre la questione della comunità o, più precisamente, dell’«essenza comune», di quella sostanza che costituisce l’individuo moderno come essere singolo, ma al contempo sociale.
Tosel avanza sette tesi (pp. 45-48) per la sua proposta di analisi della situazione esistente nella società capitalistica, senza alternativa al liberalismo dominante:
1) lo scollegare il lavoro vivo dalla sua forma capitalistica, in modo che il sistema delle azioni etico-politiche non sia più considerato un semplice accidente;
2) la negazione del lavoro vivo alla propria sussunzione reale sotto il capitale come apertura del lavoro a forme inedite di comunicazione;
3) la dissociazione del lavoro vivo dalla produzione, la sua trasformazione in strumento al servizio dell’atto vivo del lavoro e del libero sviluppo di una individualità libera;
4) la ridefinizione del sistema di azioni etico-politiche che ne deriva, in modo da reggere le forme di vita orientate alla “vita buona”;
5) l’elaborazione di una logica della produ-azione che metta insieme la spiegazione teleologica con la comprensione pratica, modificatrice di sé e del mondo;
6) una critica dell’economia politica che faccia emergere il rimosso delle azioni produttive;
7) una teoria della produ-azione che sia un pensiero della mediazione che critica la fissazione dell’agire sulla produzione o sull’azione.
Tosel poi sviluppa a partire da questi sette punti una propria analisi del capitalismo, in relazione con alcuni pensatori. Uno di questi è John Rawls e la sua teoria della giustizia, a cui Tosel contrappone Spinoza. Contro Rawls, Tosel non trova in Marx l’uso di una idea di giustizia che chieda di essere riconosciuta e applicata. Ma, nonostante ciò, considera la critica dell’economia politica come strumento che fa emergere l’ingiustizia quale essenza del sistema capitalistico. Si pensi alla non completa retribuzione del valore prodotto dall’operaio, alla sottrazione e sussunzione di valore del lavoro dell’operaio da parte del capitale, il cosiddetto plusvalore, che è in realtà plus-lavoro, tempo della vita dell’operaio che gli viene sottratto ingiustamente e che viene sussunto ingiustamente dal capitale.
Il comunismo realizzato non aveva sovvertito questa situazione, l’aveva riprodotta, anche se in forme diverse dal capitalismo. Il suo crollo ripropone questa ingiustizia come questione irrisolta, anzi aumentata dallo sfruttamento imposto alla natura, che mette in pericolo la sopravvivenza dell’umanità. Il libro di Tosel vuole essere il recupero della forza di emancipazione contenuta nel pensiero marxiano-engelsiano, sia dal capitalismo dominante, sia dalla memoria del socialismo realizzato. La sua proposta si espande ad ampio raggio e diventa imprescindibile per chi voglia riprendere la lotta di liberazione e di emancipazione dal capitalismo.
Antonino Infranca
(Tratto da: Antonino Infranca, Marxismo e comunismo in Tosel, in «Critica marxista», n. 4, luglio-agosto 2021).
Inserito il 26/08/2024.
Da «l’Unità» – 30 agosto 1964
In occasione dei 60 anni dalla morte di Palmiro Togliatti riprendiamo da «l’Unità», organo del PCI, il ricordo che ne tracciò il grande intellettuale francese.
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Il mio amico Togliatti
di Jean-Paul Sartre
Io sono uno straniero, eppure sento il dolore dell’Italia come un dolore mio. Questo rende evidente, senza possibilità di dubbio, il prestigio internazionale di Togliatti. Ma c’è un’altra cosa: per chi incontrava dei responsabili del PCI fuori del loro paese, in mezzo a rappresentanti di altri partiti comunisti, balzava agli occhi la singolarità del vostro Partito: esso era amato. E, ho finito per comprenderlo, ciò che prima di tutto era amato in voi – al di là di ogni questione personale – era Togliatti. Per parlare solo della mia esperienza, non è stato lui quello che ho conosciuto per primo. Ma i miei primi amici comunisti – che facevano parte della delegazione italiana al Congresso di Vienna – facevano spicco sugli altri per una libertà di parola, una lucidità di pensiero, una lieve ironia verso sé stessi, che non mascheravano né la loro passione né la loro fedeltà. Si citava molto Marx, attorno a loro; essi non lo citavano: applicavano i suoi principi e il suo metodo, non esclusivamente alla sola borghesia ma alla storia del loro partito, a quella dei paesi socialisti, rigorosamente. Il marxismo in loro diveniva ciò che deve essere: un immenso e paziente sforzo di ricerca che unisca alla pratica la teoria, una perpetua riflessione su se stessi.
Essi hanno sempre rifiutato l’idea che le società socialiste e i partiti comunisti – e il loro stesso partito – sfuggano alle interpretazioni marxiste, evitando con ciò quell’errore fin troppo naturale, ma grave di conseguenze, che ha portato i figli di Freud, nei loro ricordi di infanzia, a sottoporre tutti alla psicanalisi eccetto il loro padre.
Io ne ero affascinato; mi dicevo: qui è l’intelligenza italiana. Attribuivo la loro libertà intellettuale alle tradizioni di questo paese che ha visto tanta gloria e tanti lutti e che, nel pieno della sua crescita, conserva il ricordo di tante glorie scomparse. In questo senso, non mi ingannavo: ma le spiegazioni attraverso il passato non valgono gran che, se non si aggiunge loro quella attraverso il presente e attraverso l’avvenire. Il PCI, era l’Italia. Ma quando ho incontrato Togliatti, ho pensato: l’Italia, è lui. Egli la conserva, la mantiene e la trasforma. Lui, l’uomo di tutti e l’uomo del suo Paese, preservando il suo partito da ogni dogmatismo e guidandolo con pazienza, con fierezza verso il socialismo.
La prima volta che l’ho veduto – era, se non mi inganno, nel luglio 1954 – una cosa mi ha stupito: ero abituato ai gesti da parata, alle precauzioni – spesso giustificatissime – dei capi-partito, dei capi di Stato. Mi invitò a cena in una trattoria di Trastevere e vi arrivò solo, con i miei amici Alicata e Guttuso, e altre due o tre persone che, a parte il rispetto che debbo loro, non potevano essere scambiati per delle guardie del corpo. Eppure sei anni prima, più o meno in quei giorni, un giovane pazzo di estrema destra, spinto al delitto dalla campagna d’odio della stampa, aveva sparato su di lui, a bruciapelo, tre colpi che lo avevano condotto alle soglie della morte. Ebbene, era quel resuscitato che veniva, a passi lenti e leggeri, molto disteso, incontro a me. Era lui quello che prese posto in quella trattoria infestata di stranieri, di italiani indubbiamente ostili. Santa Maria in Trastevere era allora una piazza strana. Sul marciapiede, tanti poveri, quasi tutti giovani, tanti bambini: in un caffè, poi scomparso, le madri portavano i bambini, li allattavano, non rincasavano prima di mezzanotte nella loro torrida stanza, per evitare loro l’afa degli appartamenti romani. Poche automobili, ricche e vistose, con la sigla USA; all’esterno dei ristoranti, tanti ricchi. A quell’epoca ricchi e poveri non formavano due mondi separati: venivano tollerati quei buongustai che mangiavano alla luce di lampadine rosse, al suono di una musica servile e di canzoni dolciastre, con l’impressione di degradarsi. Non immagino da noi una cosa simile. Eppure, la lotta di classe è in Italia altrettanto dura, a volte più dura, ma non ha gli stessi caratteri. E il turista, di importazione casalinga, viene preso in giro, derubato ma rispettato.
Togliatti mi fece sedere all’esterno e, sul principio, nessuno riconobbe quell’uomo vestito da piccolo borghese, dal volto arguto, sorridente, dal gesto facile ma marcato da una sorta di timidezza. E poi, tutto a un tratto, mentre ci portavano la pasta asciutta, si fece folla. Moravia mi aveva detto, vedendo passare la Lollobrigida, nel mese di giugno 1952: «Per avere una celebrità simile, bisogna essere una diva». Ebbene no: Togliatti non era un divo: proprio un uomo come gli altri, sulla sessantina. Ma la folla circondava il ristorante: che occhi! Avevano perduto ogni durezza. Vi leggevo un grande affetto. Prima alcuni, poi tutti insieme si misero a gridare: «Togliatti! Viva Togliatti!». I clienti stranieri si chiedevano con inquietudine quale colonna del Foro, quale monumento fosse improvvisamente apparso in mezzo a Trastevere. I clienti italiani sapevano chi fosse; parlavano a bassa voce, a disagio. Se Togliatti fu contento di verificare una volta di più la sua popolarità, non lo lasciò trasparire. Parlava e soprattutto, con la sua estrema cortesia, la sua curiosità sempre vigile, mi interrogava sulla Francia e mi ascoltava. Curvo su una vecchia svizzera dalle chiome blu, il cantante del ristorante sussurrava una canzone napoletana. Sentì gridare, si voltò e venne verso di noi. Pallido di emozione: «Compagno Togliatti – disse – io sono iscritto al Partito». Tirò fuori il portafoglio e mostrò con fierezza la tessera. «Cosa vuoi che canti?». «Cantaci – disse Togliatti – qualche vecchia canzone romana». Le cantò, e una la ricorderò sempre. Reazionaria, indubbiamente:
«Allarme! Allarme!
Li turchi so’ sbarcati
Garibaldi è alle porte di Roma»
Togliatti ascoltava sorridendo, sensibile più alla spontaneità delle canzoni che al loro contenuto. Ai tempi quando il papa era padrone di Roma, degli uomini avevano inventato questo. Degli uomini: questo a lui bastava. Egli non ha mai condannato nessuno senza cercare di comprendere. La folla accompagnava il cantante con le sue grida soffocate ma piene di speranza. I clienti della trattoria avevano finito col capire. Che strana scena: quell’uomo impassibile e sorridente circondato da un piccolo cerchio di odio, e, più in là, da un grande semicerchio di amore. Al nostro tavolo, ci si cominciava a preoccupare: una provocazione dei ricchi avrebbe causato l’invasione del ristorante, la gazzarra. Due americani scelsero proprio quel momento per fischiare. Due fischi deboli, soffocati dalla paura. Fuori, li udirono, vi fu un rumore di tuono. Alicata, Pajetta, Guttuso, gli chiesero con fermezza di lasciare il tavolo: sarebbe andata a finire male, se fosse restato. Egli diede loro ascolto, si alzò di malumore e, nell’automobile che ci conduceva via, non aprì quasi più bocca. Vedevo davanti a me un uomo irritato perché era stato privato dei diritti che gli altri uomini hanno.
In seguito l’ho rivisto spesso nelle trattorie romane. Una volta ricordo, la sua figliola adottiva venne a salutare Simone de Beauvoir che cenava con me Da Pancrazio: aveva con sé i suoi libri di scuola. Io alzai la testa: due metri più in là, Togliatti cenava, tranquillo, voltato verso la strada, in compagnia di una donna e di due uomini. Perché quella ostinazione modesta ma invincibile? Lo so: tutti i responsabili del PC italiano fanno così, sono loro che mi hanno aiutato a conoscere Roma. Ma lui? Lui rischiava la pelle.
Amava la vita delle masse
Non era né una sfida né una ostentazione: la lotta clandestina e la guerra di Spagna gli avevano dato sufficienti occasioni di dimostrare il suo coraggio perché non avesse più bisogno di mostrarlo. No: ho capito poco alla volta che egli voleva essere contemporaneamente il capo del suo partito e un uomo in mezzo agli uomini. Ricordo quell’aneddoto su Lenin, che andava a piedi dal barbiere e aspettava il suo turno leggendo il giornale: era allora – e da poco – il capo dell’URSS; si voleva la sua morte un po’ dappertutto, tanto è vero che gli spararono addosso e che non guarì mai da quelle ferite. Questa condotta esemplare non è stata seguita, a quanto ne sappia io, che da due uomini: Fidel Castro e Togliatti.
Per questo motivo, sin da principio, l’ho amato. Ho visto altri capi, in seguito; sono passato, per raggiungerli nel loro studio, tra siepi di poliziotti e di guardie del corpo. Parlavano bene, ma erano soli: mai, in nessuno di loro, ho trovato un simile amore semplice e forte per le strade affollate, per le masse. Essi parlavano a queste, dall’alto, da lontano, e godevano nel vedere, a perdita d’occhio, quel caviale nero, le teste degli ascoltatori. Ma non entravano in queste, ripugnava loro di diventare un granello di quel caviale. Togliatti amava gli uomini fino a questo punto: anche lui parlava loro da una tribuna; era il suo compito. Ma, appena poteva, si mescolava alle folle, queste lo spingevano e lo sballottavano. Quanto le solitudini delle sue montagne, egli amava la vita unanime delle città. Non si è tagliato mai fuori delle masse. Molto più che una tattica, un simile amore – che io posso capire perché lo condivido – era un elemento del suo carattere. Risultato: due milioni di militanti iscritti, otto milioni di elettori. Votando per lui, le masse hanno capito che votavano per se stesse. E quando gli hanno sparato addosso nel 1948, la collera le ha buttate per le strade, contro i poliziotti e i soldati; il governo si è sentito perduto…
Il suo partito è fatto a sua immagine. Quando vedevo sulle mura di San Gimignano – quasi su quelle delle chiese – dei manifesti che invitavano tutti senza distinzione alla festa dell’Unità, quando scoprivo, nel centro di una cittadina italiana, nell’ora della siesta, un vecchio sonnecchiante sulla soglia di una pesante porta aperta a due battenti su una sala vuota e leggevo, sopra la sua testa, «Sezione del PCI», comprendevo la portata politica di quella che era inizialmente una dote personale. Il Partito non custodiva se stesso: si metteva sotto la protezione del popolo. Esso rischiava così gli attentati dinamitardi: ce ne sono stati, ma meno che altrove. Ma non si isolava dalla Nazione, rifiutava agli anticomunisti il diritto di chiamarlo «separatista».
Senza alcun dubbio, la dura sorte del PCI fu di formarsi – a prezzo di quali sacrifici – nella lotta clandestina contro Mussolini e di apparire agli altri antifascisti come un movimento di resistenza nazionale contro il fascismo che conduceva la nazione alla rovina. Allora esso non era né anti-staliniano né staliniano: l’URSS era lontana, la situazione dell’Italia si imponeva su tutto. Dopo la guerra, fu necessario temporeggiare.
Ma quale sollievo, col XX Congresso! E chi, se non Togliatti, ha compreso che il Partito del popolo deve vivere in simbiosi col popolo, che gli insegnamenti della guerriglia non devono essere dimenticati nell’istante in cui essa finisce? La guerra popolare non termina con la pace: essa è la forma privilegiata della lotta di classe, e l’unico modo, per un partito comunista, di essere internazionale, è di spingere fino in fondo la propria unità con la Nazione. Da questo punto di vista, si può dire – e Togliatti un poco me lo ha detto – che «la via italiana del comunismo» era in germe nella lotta contro il fascismo. Sin da quell’epoca, il PCI si batteva da solo, non poteva né giovarsi dell’aiuto sovietico né seguire i consigli del Comintern: contavano soltanto le sue alleanze con gli altri antifascisti, il rapporto fluttuante delle forze in campo.
«Non si fa ciò che si vuole – ha detto Togliatti – si fa ciò che si può». Ma ciò che si può determina ciò che si è. Il Partito poteva e doveva liberare la nazione da Mussolini: per questo motivo è diventato un partito nazionale. Nazionale ma non nazionalista; Togliatti ha spiegato bene che il policentrismo era l’unica via verso l’unità. Accettare ordini esterni – fossero pure decisi dalla unione di tutti i partiti comunisti – significa rischiare di tagliarsi fuori dalla società contesa nella quale si vive, perché essi sono difficilmente adattabili a ciascuna situazione particolare. La loro stessa universalità li condanna. Occorrono principi comuni, uno scopo universale e che ciascuno raggiunga questo scopo, partendo da quei principi, come vuole. Il rimprovero che si è potuto muovere, in certi momenti, all’URSS, il suo volontarismo, Togliatti lo evitava assolutamente: si fa ciò che si può. Questo non significava che egli fosse fatalista: il campo dei possibili è, certo, limitato, ma si può scegliere, e poi, una volta fatta la scelta, Togliatti vi si ancorava con fermezza, volontariamente, senza indietreggiare di un dito, né abbandonare nulla. Ma la sua intelligenza viva e aperta, prima di intraprendere qualunque cosa, voleva abbracciare tutto il possibile e scegliere con calma. Dicono che abbia mormorato, nel 1948, sul letto che si pensava dovesse essere il suo letto di morte: «Nessuna avventura, compagni, nessuna avventura!».
In quell’istante una marea umana si rovesciava sull’Italia, pareva portar via tutto, egli lo sapeva o lo indovinava; ma sapeva anche che il governo, dopo il primo momento di panico, avrebbe reagito, avrebbe fatto ricorso all’esercito. L’insurrezione popolare avrebbe dovuto fallire perché non era preparata, perché sarebbe stata un atto passionale e non una impresa. Un fallimento voleva dire il Terrore, dieci anni di ritardo per il movimento operaio decimato. Fu lui, dal suo letto, a fermare la tempesta di collera che gli industriali e i politici non hanno dimenticato. Si vide la sua popolarità, si vide la sua prudenza. Si vide soprattutto che egli non voleva mettere il paese a ferro e a sangue. Di questa moderazione, quasi tutti – anche gli anticomunisti – gli furono riconoscenti. Egli voleva che l’Italia fosse diversa, con un altro regime e altre strutture; non voleva – come troppo spesso si era detto – gettare l’Italia in una avventura nella quale forse sarebbe colata a picco.
Da quel giorno, il PCI, possente, robusto e tranquillo, diventò senza averlo voluto di proposito, un partito nazionale. Lo accusavano, naturalmente – come fanno dappertutto altrove – di prendere i suoi ordini da Mosca. Ma non ci credevano, nessuno pensava sul serio che la solidarietà profonda dei comunisti italiani col paese della Rivoluzione si spingesse fino alla subordinazione. Vi furono momenti duri, indubbiamente: fu necessario tacere.
Ma mi trovavo a Roma nel novembre 1956 quando altrove gli insorti di Budapest venivano chiamati versagliesi e fascisti. Io vivo da comunista, leggo tutti i giorni l’Unità: non condividevo il loro punto di vista e non potevo credere alla necessità dell’intervento russo. Ma, per me, erano dei fratelli. Guttuso era sconvolto, ancor più di me. Lo era anche Togliatti, non vi è alcun dubbio. Mai l’Unità insultò i vinti. Presentava l’insurrezione ungherese come una sventura nazionale e, pur sostenendo l’intervento, invitava i vincitori a ricostruire in modo tale che fosse impossibile il ritorno di violenze simili.
Fu lui, infine, ad opporsi finché poté alla condanna del Partito cinese, benché questo lo prendesse a bersaglio e benché egli condividesse le idee di Mosca sulla politica di Pechino. Così il suo Partito, nazionale e libero – libero perché nazionale – faceva di tutto per salvaguardare l’unità internazionale.
L’unità, è, io credo, una parola chiave per capirlo. Ma quest’uomo umano e buono non voleva che essa fosse imposta dall’esterno né al suo Partito da un’assemblea internazionale né ai suoi militanti da una autorità superiore e separata dalle masse. I suoi modi erano singolari e profondamente efficaci. L’ho visto parlare con dei militanti che non sempre erano d’accordo fra di loro. Egli diventava il loro capo soltanto in quanto riprendeva per suo conto le loro contraddizioni, le dissolveva nell’unità della sua unica persona, e impediva, con ciò stesso, che i conflitti esplodessero e i gruppi rivali si affrontassero.
Un amico mi ha raccontato questa storia. Egli è in disaccordo con certi aspetti di Rinascita, va a pranzo con Togliatti e glielo dice. Togliatti confuta uno per uno i suoi argomenti e lo lascia senza averlo convinto. Qualche tempo dopo, riunione dei redattori di Rinascita e dei responsabili della cultura. I primi oratori sostengono il medesimo punto di vista di Togliatti; il mio amico chiede la parola per rispondere; Togliatti si alza e gli dice: «Se tu non hai niente in contrario, parlo prima io». E il mio amico, meravigliato, lo sente riprendere per suo conto la maggior parte delle obiezioni che la settimana precedente egli stesso aveva confutato. Insomma era, adesso, Togliatti contro Togliatti. Terminò criticando il mio amico e alcuni altri per non averlo avvertito prima.
Questa storia dimostra – ma occorre? – che Togliatti sapeva ascoltare e riflettere. Era una testa dura, non gli piaceva darsi torto: il suo primo movimento di fronte ad un contraddittore, era il contrattacco. Poi, terminata la conversazione, egli la continuava dentro a se stesso. Pesava obiettivamente il pro e il contro e – cosa rara in un responsabile – non temeva, in certi casi, di darsi torto. In fondo, non permetteva che a se stesso di convincere se stesso, ma accadeva che si convincesse contro le sue decisioni iniziali, partendo dalle obiezioni formulate dagli altri. Mi piace più questo che se avesse ceduto subito: significa unire la forza del carattere alla libertà dell’intelligenza. Ma quello che più mi ha colpito, è che abbia parlato lui per primo, accusandosi, lui, il capo, riprendendo per suo conto i rilievi espressi, togliendo in anticipo al mio amico ogni ragione di intervenire se non per dichiarare: «Sono del parere di Togliatti». Se l’avesse fatto, il mio amico, indubbiamente con eccessivo sdegno, si sarebbe fatto dei nemici. Anche degli amici, suppongo; la cultura sarebbe divenuta un campo chiuso nel quale si sarebbero affrontati due gruppi di partigiani. E il capo, anche se avesse parlato in seguito e dato ragione a uno dei due gruppi, li avrebbe lasciati non riconciliati; alla prima occasione, la battaglia sarebbe ricominciata, più dura. Facendo lui stesso le critiche, volgendole ad autocritica, prendeva tutto su di sé e poteva pizzicare i suoi collaboratori senza umiliare nessuno dato che i suoi colpi raggiungevano prima di tutto lui stesso. E poi univa le ragioni di tutti in una sintesi abile e provvisoria che permetteva di temporeggiare e di lasciare aperta la questione e, contemporaneamente, di chiudere la discussione. Quanto alle decisioni finali, egli si riservava di prenderle quando il conflitto fosse maturato o scomparso.
In molti altri paesi, coloro che lasciano il Partito o che ne sono cacciati sarebbero stati colpiti a morte. Moralmente e a volte fisicamente: è un fatto che la direzione delle masse si concilia difficilmente con il rispetto della persona. Togliatti sapeva unire l’una all’altra: gli esclusi – ce ne sono stati, naturalmente, ma meno che altrove – non perdono la loro personalità il giorno in cui il Partito non vuol più saperne di loro; vivono.
L’aneddoto che ho raccontato mostra bene la cura che questo responsabile di un partito di due milioni di uomini sapeva avere di ciascuno di loro: non spezzare, non umiliare mai, era la sua regola. Per merito suo, un comunista italiano può vantarsi di essere un uomo intero. Quanto a me, ho sentito spesso, dalla cortesia con la quale mi interrogava, su un paese che egli conosceva bene quanto me, che nella sua attenzione c’era un rispetto per l’uomo, chiunque fosse, che gli esponeva delle idee sincere e vissute. E anche, che le idee sue erano formate ma nessuna preconcetta, che egli conservava sempre la speranza che l’interlocutore, anche senza rendersene conto, lo avrebbe aiutato a metterle a fuoco, se necessario a cambiarle.
Un grande capo e un grande intellettuale
Il giorno dei suoi funerali ho visto, accanto alla sede del suo Partito, la parola «monolite» tracciata su un muro, indubbiamente dalla mano di un giovane fascista. Mi avrebbe fatto sorridere se ne avessi avuto l’animo: nessuno era meno monolitico di lui e – di conseguenza – del suo partito. Egli aveva saputo congiungere due facoltà difficilmente compatibili, una delle quali deve appartenere al capo responsabile e l’altra è indispensabile all’intellettuale: incrollabile nella azione senza mai rimettere in causa i principi, il metodo e lo scopo, non formulava mai un pensiero che non contenesse il germe della propria critica. Per questo motivo la grande maggioranza degli scrittori ha sempre avuto buoni rapporti col Partito. Diversamente dalla Francia dove, per tradizione, gli intellettuali conservatori o reazionari sono una forza reale, l’Italia annovera, a destra, molto pochi intellettuali. La maggioranza degli intellettuali italiani non sono entrati nel partito, ma conducono con esso la maggior parte delle sue lotte. Così – come deve essere, ma come non è sempre – il partito degli sfruttati è anche il partito degli intellettuali.
Anche questa, è opera sua. Quando fondò Rinascita, dopo la guerra, alcuni comunisti protestarono; bisognava ricostruire e combattere, che bisogno c’era di una rivista teorica? Anche tra coloro che avevano più ardentemente combattuto Mussolini, vent’anni di fascismo avevano lasciato delle tracce: credevano al divorzio tra pensiero e azione. Togliatti non cedette. L’uomo aveva questa contraddizione, la più feconda: gli italiani e gli spagnoli, al tempo della guerra di Spagna, avevano riconosciuto il suo talento di organizzatore. Ma quest’uomo di azione era rimasto fino alla punta delle unghie un intellettuale.
Indubbiamente metteva la sua cultura e la sua alta intelligenza tutte intere al servizio delle masse sfruttate. Ma conservò fino all’ultimo l’odio per lo schematismo e per le semplificazioni. La frase di Marx: «Non vogliamo capire il mondo, vogliamo cambiarlo», egli la faceva propria, aggiungendo – cosa che Marx non avrebbe disapprovato –: ma cambiarlo è l’unico modo per capirlo, giacché l’azione illumina ciò che è, partendo da ciò che sarà.
Leggendo i suoi discorsi, i suoi scritti, salta agli occhi cento volte una parola: nuovo. Tutto per lui è sempre nuovo: in ogni situazione, egli vede prima di tutto il nuovo, l’imprevisto. Il dopoguerra vedrà sorgere l’Ordine Nuovo dove egli lavora con Gramsci, il fascismo propone compiti nuovi, è esso stesso una reazione della borghesia senza precedenti; nuova è la seconda guerra mondiale, e nuovi i problemi del secondo dopoguerra, e, infine, quelli che nascono dal dominio dei monopoli e da quello che, davvero a torto, viene chiamato «il miracolo italiano». Ogni volta, bisogna adattarsi, capire. Adoperare fino in fondo il metodo marxista: sì, è l’unico vero. Pretendere che Marx abbia previsto tutto, che niente sia cambiato dopo il Manifesto comunista e cavarsela con qualche citazione, questo no. Egli ha detto una volta che bisogna spingere l’analisi più sul particolare, non trascurare nulla; non si spiegherà mai nulla se ci si limita a vedere in qualsivoglia congiuntura la famosa manovra difensiva del capitalismo minacciato. Ci sono le tradizioni, il passato, le masse, i rapporti interni delle forze di sinistra, le false manovre, cento altri fattori, nessuno dei quali va trascurato: anche il capitalismo fa ciò che può, non ciò che vuole; in ogni momento, se lo si vuol comprendere, occorre determinare il campo delle sue possibilità. E, è ancora lui a dirlo, le forme che nascono dalla storia, cioè dalle nostre lotte, sono troppo complesse perché noi possiamo prevederle.
Per questo motivo, per merito di questo spirito di analisi e di sintesi, che viene da Gramsci e da Togliatti, il PCI non è unicamente il partito degli operai, e neppure quello degli intellettuali: è il più intelligente dei partiti. Dopo un momento di sbandamento, è stato il primo ad adattare la sua lotta a quella forma «nuova e complessa» sorta dalla politica dei monopoli e che viene chiamata, a torto o a ragione, «neocapitalismo». Grazie alla libertà del suo capo, esso è diventato per i suoi aderenti non soltanto la promessa di una futura liberazione, ma la loro libertà presente di pensare e di agire e di capire il mondo e di spezzare le proprie alienazioni. Per questi stessi motivi e non soltanto per i motivi tattici che sappiamo — difendere le libertà borghesi perché esse fra le mani delle masse diventano eccellenti strumenti di lotta — il PCI è diventato in Italia contro gli stessi borghesi il migliore difensore della democrazia.
Per tutti questi motivi, io lo amavo: ritrovavo lui in tutti i miei amici comunisti, anche quando non lo vedevo. C’era uno stile Togliatti che, spero, gli sopravvivrà. Eppure lui, nella sua tranquilla semplicità, col suo sorriso, la sua ironia — che, mi è stato detto, poteva essere corrosiva, ma che io trovavo affascinante, — con la sua cultura e, sotto la sua calma, la sua forza a fior di pelle, come se un gigante si fosse insinuato per magia e concentrato nel corpo di un professore di liceo, lui era inimitabile. Anche per questo colui che rimpiango non è soltanto l’uomo che ha forgiato con le sue mani un partito di uomini duri e liberi: questo partito gli saprà sopravvivere e seguire la sua strada. È prima di tutto il vecchio calmo e possente che ho visto per l’ultima volta nel maggio scorso. Un uomo che amavo. Il mio amico Togliatti.
Jean-Paul Sartre
(Tratto da: Jean-Paul Sartre, Il mio amico Togliatti, in «l’Unità», anno XLI, n. 234, 30 agosto 1964).
Inserito il 24/08/2024.
Albert Einstein (1879-1955).
Fonte della foto: https://www.socialistes.cat/es/actualitat/albert-einstein-1879-1955-2/
di Albert Einstein
L’articolo del grande scienziato pubblicato sul primo numero della rivista socialista americana «Monthly Review» nel 1949.
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Perché il socialismo?
di Albert Einstein
È opportuno che una persona non esperta in questioni economiche e sociali esprima opinioni in merito al socialismo? Credo di sì, per svariate ragioni.
Consideriamo la questione dal punto di vista del sapere scientifico. Sembrerebbe non esserci fondamentali differenze di metodo tra l’astronomia e l’economia: in entrambe gli scienziati lavorano per scoprire leggi generalmente accettabili per un circoscritto insieme di fenomeni, allo scopo di mostrare l’interconnessione di questi fenomeni il più chiaramente che sia possibile. Ma in realtà le differenze metodologiche esistono. Nel campo economico la scoperta di leggi generali è resa difficile dal fatto che spesso i fenomeni economici osservati sono interessati da numerosi fattori che sono difficili da valutare separatamente. Inoltre, l’esperienza che si è accumulata dall’inizio del cosiddetto periodo civilizzato della storia dell’umanità è stata, come è ben noto, ampiamente influenzata e limitata da fattori che in natura sono molto lontani dall’essere esclusivamente economici. Per portare un esempio, la gran parte dei maggiori stati della storia devono la loro esistenza a politiche di conquista. Il popolo conquistatore si impose, legalmente ed economicamente, come classe privilegiata del paese conquistato. Avocò a sé il monopolio della proprietà terriera e nominò il clero all’interno dei suoi ranghi. I preti, tramite il monopolio dell’educazione, trasformarono la divisione in classi della società in un istituzione permanente creando un sistema di valori dal quale il popolo, in larga misura inconsciamente, venne manovrato nel suo comportamento sociale.
La tradizione storica, però, appartiene per così dire al passato. Da nessuna parte siamo stati completamente soggiogati ideologicamente da ciò che Thorstein Veblen definì la “fase predatoria” dello sviluppo dell’umanità. I fatti economici oggi osservabili fanno parte di quella fase e, di conseguenza, le leggi che possiamo derivare da essi non sono applicabili ad altre fasi. Ora, poiché lo scopo reale del socialismo è proprio quello di superare ed andare oltre la fase predatoria dello sviluppo dell’umanità, la scienza economica nel suo stato attuale può fare solo un po’ di luce sulla futura società socialista.
In secondo luogo, il socialismo si indirizza ad un fine etico-sociale. La scienza, però, non può creare fini ed ancor meno inculcarli negli uomini; al massimo, può informare circa i mezzi più adatti ad ottenere certi fini. Questi stessi fini, però, sono stati concepiti da personalità con vigorosi ideali morali e, se questi non sono scomparsi ma ancora forti e vitali, sono fatti propri e perseguiti da quei numerosi esseri umani che, con consapevolezza più o meno estesa, determinano la lenta evoluzione della società.
Dovremmo perciò fare attenzione a non sopravvalutare la scienza ed il metodo scientifico quando trattiamo di questioni legate alle relazioni umane; non dobbiamo nemmeno presupporre che solo alcuni siano esperti in merito ed abbiano diritto a far sentire la loro voce sulle questioni dell’organizzazione sociale.
È già da un po’ che tantissime voci hanno affermato che oggi la società umana attraversa una crisi e che la sua stabilità è seriamente compromessa. Tipico di una simile situazione è che gli individui si mostrino indifferenti o persino ostili verso il piccolo o grande gruppo cui fanno parte. Per illustrare il mio pensiero, permettetemi di riportare qui un’esperienza personale. Di recente discutevo con un uomo intelligente e gentile sulla minaccia di un’altra guerra che, come penso, avrebbe seriamente minacciato l’esistenza del genere umano e facevo notare come soltanto un miracolo avrebbe potuto preservarlo da quel pericolo. Di fronte a ciò il mio ospite, con estrema tranquillità e disinvoltura, mi disse: “Perché siete così decisamente contrario alla scomparsa della specie umana?”1.
Sono certo che meno d’un secolo fa nessuno avrebbe fatto, con tale facilità, una tale affermazione. Si tratta dell’affermazione di un uomo che s’è sforzato inutilmente di raggiungere un equilibrio interno ed ha pressoché perso la speranza di riuscirvi. Si tratta dell’espressione di una solitudine dolorosa e di un isolamento cui numerose persone ricavano sofferenza. Quale ne è la causa? Esiste una via d’uscita?
Facile è sollevare tali questioni, meno facile rispondervi con un certo grado di sicurezza. Ciononostante, devo provarci al meglio delle mie forze, benché sia cosciente del fatto che i nostri sentimenti ed i nostri sforzi sono spesso contraddittori ed oscuri, che non possono essere espressi in facili e semplici formule.
L’uomo è contemporaneamente un essere solitario ed un essere sociale. Come essere solitario, cerca di garantirsi la propria sicurezza e quella di coloro a lui più vicini, di soddisfare i suoi desideri individuali e sviluppare lue capacità innate. Come essere sociale, cerca d’ottenere il riconoscimento e l’affetto dei suoi simili, di condividerne i desideri, di confortarli nei loro dolori e di migliorarne le condizioni di vita. Solo la coesistenza di questi diversi sentimenti, spesso in conflitto, forma lo specifico carattere di un individuo e la loro specifica combinazione determina il punto in cui un individuo può cogliere un equilibrio interiore e contribuire al benessere generale. Certo è possibile che la forza relativa di queste due spinte sia principalmente stabilità dall’eredità; ma la personalità che alla fine emerge è ampiamente determinata dall’ambiente in cui un individuo ha avuto la sorte di trovarsi durante il suo sviluppo, dalla struttura sociale in cui cresce, dalla tradizione di quella società e dalla valutazione che essa da a particolari tipi di comportamento. L’astratto concetto di “società” significa concretamente per il singolo essere umano l’insieme delle sue relazioni dirette ed indirette con i suoi coetanei e con tutte le persone delle varie generazioni. L’individuo può pensare, sentire, lottare e lavorare da solo, ma egli dipende dalla società cosi tanto – nella sua esistenza fisica, intellettuale ed emotiva – da essere impossibile raffigurarlo o comprenderlo fuori da una determinata struttura sociale. È la “società” che gli fornisce il cibo, il vestiario, una casa, gli strumenti di lavoro, il linguaggio, le strutture mentali e la maggior parte delle sue conoscenze; la sua vita è resa possibile tramite il lavoro e le realizzazioni di milioni e milioni di uomini, passati e presenti, nascosti all’interno della piccola parola “società”.
È perciò evidente come la dipendenza dell’individuo dalla società sia un fatto naturale che non può essere abolito, né più né meno che nel caso delle formiche e delle api. Va detto, però, che, mentre l’intero ciclo vitale di api e formiche è completamente determinato da ferrei istinti ereditari, i modelli sociali e le forme di reciproca dipendenza degli esseri umani sono estremamente variabili e possono essere cambiati. La memoria, la capacità di formare nuove combinazioni, la capacità naturale del linguaggio verbale hanno permesso tra gli esseri umani degli sviluppi che non sono dettati direttamente da necessità biologiche. Questi sviluppi si evidenziano nelle tradizioni, nelle istituzioni, nelle forme organizzative, nella letteratura, nelle scoperte scientifiche, nelle realizzazioni ingegneristiche e nelle opere d’arte. Questa cosa spiega come accade che, da un certo punto di vista, l’uomo può influenzare la sua vita attraverso il proprio comportamento e che, in questo processo, la riflessione e la ricerca consapevoli possono svolgere un ruolo2.
L’uomo acquisisce alla nascita, per eredità genetica, una costituzione fenotipica che occorre ritenere fissa ed inalterabile, che comprende i bisogni naturali caratteristici del genere umano. Inoltre, durante l’arco della sua esistenza, acquisisce una struttura culturale traendola dalla società tramite la comunicazione e molti altri tipi d’influenze. È questa struttura culturale che, col tempo, è soggetta a cambiamento e determina in larghissima misura le relazioni tra l’individuo e la società. L’antropologia moderna ci ha insegnato, tramite lo studio comparato delle cosiddette civiltà primitive, come il comportamento sociale degli esseri umani può essere molto differente, dipendendo dai modelli culturali maggioritari e dal tipo di organizzazione prevalente nella società. È su ciò che coloro i quali lottano per migliorare il destino dell’uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati dalla loro costituzione biologica a distruggersi reciprocamente o restare in preda all’arbitrio di un destino malvagio, da loro stessi causato.
Se ci domandassimo come occorrerebbe mutare la struttura sociale e la predisposizione culturale umana allo scopo di rendere la vita degli esseri umani il più soddisfacente possibile, dovremmo essere sempre consapevoli del fatto che ci sono determinate condizioni che ci è impossibile modificare. Come detto precedentemente, la natura biologica umana non è, per motivi materiali, soggetta a cambiamento. Inoltre, gli sviluppi tecnologici e demografici degli ultimi secoli hanno creato vincoli permanenti. All’interno di popolazioni selezionate in modo relativamente numeroso insieme ai beni indispensabili alla loro sopravvivenza, sono assolutamente necessari un’avanzata divisione del lavoro ed un sistema produttivo fortemente centralizzato. È finita del tutto l’epoca (che, guardando indietro nel passato, può sembrarci idilliaca) in cui individui o gruppi relativamente piccoli potevano essere del tutto autosufficienti. Non è un’esagerazione approssimativa dire che il genere umano costituisce, oggi come ieri, una comunità planetaria di produzione e consumo.
Sono adesso giunto al punto in cui posso mostrare in breve cos’è per me l’essenza della crisi della nostra epoca. Questa crisi riguarda le relazioni dell’individuo con la società. L’individuo è divenuto più che in qualunque altro tempo consapevole della sua dipendenza dal resto della società. Egli, però, non avverte questa dipendenza come una risorsa positiva, come un legame intrinseco, come una forza protettiva, ma al contrario come una minaccia ai suoi diritti naturali o alla sua esistenza materiale. Inoltre, la sua posizione sociale è tale che le spinte egoistiche del suo comportamento vengono sempre più accentuate mentre le sue spinte sociali, che sono di natura più deboli, si deteriorano progressivamente. Tutti gli esseri umani, quale che sia la loro posizione sociale, soffrono a causa di questo processo di deterioramento. Inconsciamente prigionieri del proprio egotismo, si avvertono insicuri, isolati, privati dell’ingenua, semplice e non sofisticata gioia di vivere. L’uomo può trovare un significato nella vita, per quanto breve e pericolosa, solo all’interno dei rapporti sociali.
Il caos economico della società capitalistica nella sua forma attuale è, secondo la mia opinione, la vera causa del male. Ci avvertiamo innanzitutto come un’enorme comunità di produttori i cui membri cercano incessantemente di defraudarsi reciprocamente dei frutti del lavoro comune – non necessariamente tramite la forza, ma alla fin fine tramite la complicità delle leggi. Da questo punto di vista, è fondamentale comprendere che i mezzi di produzione – in altri termini l’intera capacità produttiva necessaria sia alla produzione dei beni di consumo sia alla produzione di tutto il resto – possono in virtù della legge essere, e solitamente lo sono, proprietà privata di determinati individui.
Per semplicità, nella discussione seguente chiamerò “lavoratori” tutti coloro che sono esclusi dalla proprietà dei mezzi di produzione – anche se ciò non è affatto l’uso comune di tale termine. Il proprietario dei mezzi di produzione è nella posizione di comprare la forza lavoro del lavoratore. Utilizzando i mezzi di produzione, il lavoratore produce nuovi beni che passano nella proprietà del capitalista. Il punto essenziale di questo processo è la relazione tra ciò che il lavoratore produce e ciò che gli viene pagato – sia l’uno sia l’altro misurati in termini di valore reale. Per quanto il contratto di lavoro possa essere “libero”, ciò che il lavoratore riceve è determinato non dal valore reale dei beni che ha prodotto, ma, da un lato, dai propri bisogni minimali, dall’altro, dalla richiesta di forza lavoro da parte dei capitalisti in relazione al numero di lavoratori in concorrenza per l’impiego. È fondamentale comprendere che, anche in teoria, la paga del lavoratore non è determinato dal valore del suo lavoro.
Il capitale privato tende ad essere concentrato in poche mani, in parte a causa della competizione tra i capitalisti, in parte perché lo sviluppo tecnologico e la crescente divisione del lavoro spingono alla formazione di più grandi unità produttive a spese di quelle più piccole. Il risultato di tali dinamiche consiste in un’oligarchia del capitale privato, il cui enorme potere non può ragionevolmente essere controllato nemmeno da una società organizzata politicamente in forma democratica. Questo è e vero finché i membri del potere legislativo sono selezionati da partiti politici in larga misura finanziati, o comunque influenzati, dai capitalisti privati che, per motivi di praticità, separano l’elettorato dalla legislatura3. Di conseguenza, i rappresentanti del popolo, di fatto, non proteggono sufficientemente gli interessi dei settori popolari soggiogati dai privilegi dei pochi. Inoltre, nelle attuali condizioni. È inevitabile che i capitalisti privati controllino, direttamente o indirettamente, le principali forme della comunicazione (stampa, radio, educazione…). Davvero, è estremamente difficile, anzi nella maggior parte dei casi del tutto impossibile, per il singolo cittadino raggiungere conclusioni valide e far uso con intelligenza dei suoi diritti politici.
La situazione in un’economia fondata sulla proprietà privata del capitale e così normalmente caratterizzatala due fattori basilari:
1. i mezzi di produzione (capitale) sono posseduti in forma privata ed i detentori ne dispongono a loro arbitrio;
2. il contratto di lavoro è libero.
Ovviamente non esiste una società capitalistica pura. In particolare, va osservato che i lavoratori, tramite lunghe e dolorose lotte, sono giunti a conquistare per certe categorie di lavoratori una forma in qualche modo migliorata del “libero contratto di lavoro”. Nel complesso, però, l’economia odierna non differisce molto dal capitalismo “puro”.
La produzione viene diretta in base al profitto, non in base alla sua utilità. Non c’è alcuna garanzia che tutti quelli abili e disponibili a lavorare saranno sempre in grado di trovare un impiego – la norma è anzi quella che vede un numeroso esercito di disoccupati. Il lavoratore vive costantemente con addosso la paura di perdere il lavoro. Quando lavoratori disoccupati e malpagati non riescono più a garantire un mercato in grado di dare profitti, la produzione dei beni di consumo diminuisce con la conseguenza di un’enorme miseria generale. Il progresso tecnologico pressoché sempre sfocia in un aumento della disoccupazione, invece che in un alleggerimento del carico di lavoro per tutti. L’obiettivo del profitto, insieme con la competizione tra i capitalisti, è la responsabile dell’instabilità nell’accumulazione e nell’utilizzazione del capitale la quale conduce ad una dura e crescente depressione. La sfrenata competizione comporta un enorme spreco di forze produttive ed a quel deperimento della coscienza sociale che ho menzionato in precedenza.
Considero questo mancato sviluppo degli individui il male peggiore del capitalismo. Il nostro intero sistema educativo soffre di questo male. Viene inculcata nello studente un’esagerata predisposizione alla competizione, che è addestrato nel culto del successo economico come preparazione per la sua vita futura.
Sono convinto che esista una sola strada per eliminare questi gravi mali, vale a dire l’affermazione di un’economia socialista accompagnato da un sistema educativo orientato a fini sociali. In una tale economia i mezzi di produzione sono posseduti dalla collettività e da essa utilizzati in modo pianificato. Un’economia pianificata che regoli la produzione in base ai bisogni della comunità distribuirebbe il lavoro necessario tra tutti quelli abili al lavoro e garantirebbe i mezzi di sussistenza ad ogni uomo, donna e bambino. L’educazione dell’individuo, oltre a favorire lo sviluppo del sue innate capacità, tenderebbe a sviluppare in lui un senso di responsabilità verso i propri simili al posto della esaltazione del potere politico ed economico presente nella nostra attuale società.
Va tuttavia ricordato che un’economia pianificata non è ancora il socialismo. Un’economia pianificata in quanto tale può essere congiunta al completo asservimento dell’individuo. Il raggiungimento del socialismo comporta la soluzione di alcuni problemi sociali e politici molto difficili: come impedire, data la necessità della centralizzazione, alla burocrazia di divenire onnipotente e prepotente? Come proteggere i diritti dell’individuo ed in più assicurare un contrappeso democratico al potere della burocrazia?4
Chiarire questi problemi del socialismo è di fondamentale importanza nella nostra epoca di transizione. Dal momento che, nelle attuali circostanze, una discussione libera e senza intralci è soggetta ad un possente tabù, ritengo la fondazione di questa rivista un importante servizio pubblico.
Albert Einstein
(Traduzione e note di Enrico Voccia)
(Tratto da: Albert Einstein, Perché il socialismo?, Napoli, Copy Art, 2006, supplemento a «Porta di massa. Laboratorio autogestito di Filosofia, Epistemologia e Scienze Politico-Sociali», autunno 2005-inverno 2006).
Note
1 È probabile che qui Einstein si riferisca a John von Neumann, all’epoca suo amico, ma che poi assunse posizioni politiche notevolmente reazionarie, al punto da ispirare l’immagine dello scienziato pazzo nel film Il Dottor Stranamore di Stanley Kubrick.
2 Questo passaggio del breve saggio einsteiniano influenzerà moltissimo il fondatore della cibernetica Norbert Wiener, che utilizzerà pressoché la stessa argomentazione.
3 Si noti, in merito alla nota successiva, questo indiretto accenno einsteiniano alla necessità di una sorta di democrazia diretta come meccanismo politico di una futura società socialista.
4 Qui Einstein prende radicalmente le distanze (“un’economia pianificata non è ancora il socialismo”) dalle esperienze di “socialismo realizzato”, mostrando le sue preferenze per un socialismo di matrice in qualche modo libertaria.
Inserito il 03/08/2024.
Dal sito «antropocene.org»
di John Bellamy Foster
Per il settantacinquesimo anniversario di «Monthly Review», John Bellamy Foster rivisita l’eredità di Albert Einstein e i suoi profondi legami con la rivista, compresa la sua paternità dell’articolo Why Socialism?, pubblicato nel primo numero (maggio 1949). Attraverso documenti storici e le parole del famoso fisico, Foster riscopre l’impegno di Einstein per il socialismo, sia a parole che nei fatti, e il suo legame con i fondatori di «Monthly Review».
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“Perché il socialismo?” di Einstein e la «Monthly Review»: una ricostruzione storica
di John Bellamy Foster
Un memorandum della primavera del 1949 contenuto nell’“Albert Einstein File” del FBI, che fa parte del Vault [archivio] dell’FBI di documenti rilasciati grazie al Freedom of Information Act, afferma:
Un agente sul campo ha comunicato che nell’aprile 1949 è stata distribuita una circolare nell’area di Nashua, New Hampshire, che annunciava il lancio di una nuova rivista intitolata “Monthly Review”, “una rivista socialista indipendente”. L’uscita del primo numero è datata come edizione del maggio 1949. Il primo numero conterrà articoli di Albert Einstein - “Perché il socialismo[?]”; Paul M. Sweezy - “Recenti sviluppi nel capitalismo americano”; Otto Nathan - “La transizione al socialismo in Polonia”; Leo Huberman - “Il socialismo e il lavoro americano”. [....] Re: Rapporto di New York, datato 3-15-51 Spionaggio-CH.1
Il resto del messaggio è oscurato. Un altro memorandum, che lo segue immediatamente nel fascicolo Einstein dell’FBI e che è redatto in maniera simile, riporta:
Avvisato l’Ufficio di New York che la “Monthly Review”, 66 Barrow Street, New York City, autoproclamatasi “una rivista socialista indipendente”, ha fatto la sua prima apparizione nel maggio del 1949. Il primo numero conteneva articoli di Albert Einstein e altri. Questo rapporto [investigativo] affermava inoltre che uno studio degli articoli contenuti, e un controllo dei redattori e dei collaboratori, rivelava che questa rivista era di ispirazione comunista e seguiva la linea approvata dal Partito Comunista [...]. Rapporto di New York, datato 1-30-50; Re: Sicurezza interna.2
Albert Einstein, il fisico teorico più famoso del mondo e lo scienziato più celebrato, era fuggito dalla Germania dopo l’ascesa di Adolf Hitler, emigrando negli Stati Uniti nel 1933, dove divenne cittadino nel 1940. Tuttavia, per l’FBI di J. Edgar Hoover, Einstein rimaneva una figura pericolosa e antiamericana, che minacciava la sicurezza interna degli Stati Uniti con la sua stessa presenza nel Paese. La sua pubblicazione nel 1949 di un articolo intitolato Why Socialism? per il nuovo periodico «Monthly Review: An Independent Socialist Magazine» fu quindi vista dall’FBI come una conferma diretta delle sue forti “simpatie comuniste”.
L’FBI aveva aperto il fascicolo su Einstein nel 1932, quando stava cercando di immigrare negli Stati Uniti, con un lungo rapporto della Woman Patriot Corporation (WPC), che nel suo estremo anticomunismo, sosteneva che Einstein non era ammissibile nel Paese. «Nemmeno Stalin stesso», accusava la WPC, «è affiliato a così tanti gruppi internazionali anarco-comunisti per promuovere… la rivoluzione mondiale e infine l’anarchia, come ALBERT EINSTEIN»3. L’FBI continuò a raccogliere tutto ciò che poteva sui numerosi legami socialisti di Einstein per il resto della sua vita4.
Sebbene Einstein avesse inviato una lettera al Presidente Franklin D. Roosevelt il 2 agosto 1939 sulla possibilità di sviluppare una bomba atomica – lettera che è stata più volte considerata come una diretta premessa del Progetto Manhattan – l’esercito americano lo dichiarò un rischio per la sicurezza, e fu escluso dallo sviluppo, e persino dalla conoscenza, della realizzazione della bomba atomica durante la Seconda guerra mondiale, compresa la decisione del Presidente Harry S. Truman di sganciarla su Hiroshima e Nagasaki5.
Alla fine degli anni Quaranta era già iniziata la “Paura Rossa” associata al maccartismo, dal nome del senatore statunitense Joseph McCarthy. Nell’aprile del 1949, solo un mese prima della pubblicazione di Perché il socialismo? di Einstein su «Monthly Review», la rivista «Life» (sorella del «Time») inserì Einstein in un servizio fotografico di due pagine che ritraeva i cinquanta principali “Dupes and Fellow Travelers” [Ingannevoli compagni di viaggio N.d.T.] del comunismo nel Paese. Il servizio comprendeva anche personaggi celebri come il compositore e direttore d’orchestra Leonard Bernstein, l’attore Charlie Chaplin, il poeta Langston Hughes, la drammaturga Lillian Hellman, il deputato americano Vito Marcantonio, il professore di studi americani F.O. Matthiessen, il drammaturgo Arthur Miller, il fisico atomico Philip Morrison, la scrittrice Dorothy Parker e il commentatore radiofonico J. Raymond Walsh. L’ex vicepresidente degli Stati Uniti Henry A. Wallace veniva descritto nella pagina precedente come un «compagno di viaggio di spicco»6.
All’epoca, ad accrescere i timori e i sospetti dell’FBI, legati alla generale isteria anticomunista, fu senza dubbio il fatto che Perché il socialismo? di Einstein costituì una delle più stringenti e al tempo stesso potenti argomentazioni a favore del socialismo che fossero mai state scritte. Si tratta di un saggio che ha superato la prova del tempo e che oggi, a settantacinque anni di distanza, è molto più celebrato in tutto il mondo di quanto non lo fosse alla data della sua pubblicazione.
«In questo senso, sono un socialista»
Nel 1949 Einstein non era un nuovo iniziato al socialismo. Nel 1895, all’età di 16 anni, si era trasferito in Svizzera per studiare alla Scuola Politecnica Federale di Zurigo7. Per Einstein, il 1905 sarebbe stato l’“anno miracoloso”, durante il quale avrebbe conseguito il dottorato di ricerca presso l’Università di Zurigo e pubblicato cinque lavori rivoluzionari di fisica teorica (tra cui la sua tesi di dottorato) che lo avrebbero reso famoso in tutto il mondo. Sarebbe stato venerato mondialmente come una personificazione del progresso e della creatività umana.
Ma la creatività di Einstein come scienziato e il suo universalismo non furono mai separati dal suo impegno per una società più egualitaria. Era un socialista convinto, legato a innumerevoli gruppi e cause radicali e un convinto oppositore di ogni forma di discriminazione. Dopo la sua apertura nel 1911, trascorse molto tempo al Grand Café Odeon di Zurigo, luogo di incontro per i radicali russi, tra cui Alexandra Kollontai e, più tardi, V.I. Lenin e Leon Trotsky, oltre a numerose figure culturali d’avanguardia. Fu senz’altro coinvolto nelle numerose e accese discussioni politico-culturali che vi si svolgevano. Il suo non era un socialismo timido. In alcune circostanze storiche riteneva che le rivoluzioni fossero necessarie. Il 19 novembre 1918, il giorno in cui il Kaiser Guglielmo II abdicò, com’è noto Einstein affisse sulla porta della sua aula: “LEZIONE ANNULLATA: RIVOLUZIONE”8. Un anno dopo scrisse: «Sostengo un’economia pianificata… in questo senso sono un socialista»9. Nel 1929 dichiarò: «Onoro Lenin come un uomo che si è completamente sacrificato e ha dedicato tutte le sue energie alla realizzazione della giustizia sociale. Non considero pratici i suoi metodi, ma una cosa è certa: gli uomini come lui sono i guardiani e restauratori della coscienza dell’umanità»10. In un articolo del 1931, The World as I See It [Il mondo come io lo vedo], scrive: «Considero le distinzioni di classe ingiustificate e, in ultima istanza, basate sulla forza»11.
Anche se in seguito prenderà le distanze dal carattere sovietico dell’organizzazione, Einstein, insieme a Bertrand Russell, Upton Sinclair e altri socialisti indipendenti, nel 1932 sottoscriverà la chiara presa di posizione dell’International Congress Against Imperialist Wars12. Nel 1945 dichiarerà: «Sono convinto [...] che in uno Stato ad economia socialista, le prospettive per l’individuo medio di raggiungere il massimo grado di libertà, compatibilmente con il benessere della comunità, siano migliori»13.
Come spiegherà Otto Nathan, amico e collaboratore di Einstein, in Einstein on Peace del 1960:
Einstein era un socialista. Credeva nel socialismo perché, da convinto egualitario, si opponeva alla divisione in classi del capitalismo e allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo che, secondo lui, questo sistema facilitava in modo più ingegnoso di qualsiasi altra organizzazione economica precedente. Era un socialista perché era certo che l’economia capitalista non fosse in grado di garantire adeguatamente il benessere di tutte le persone e che l’anarchia economica del capitalismo costituisse la fonte di molti mali della società contemporanea. Infine, era socialista perché era convinto che, con il socialismo, esistesse una maggiore possibilità di raggiungere il massimo grado di libertà compatibile con il benessere pubblico rispetto a qualsiasi altro sistema conosciuto dall’uomo.14
La Albert Einstein Foundation e l’ascesa del maccartismo nell’istruzione superiore
Nel 1933 Einstein entrò a far parte del neonato Institute for Advanced Study di Princeton. Qui trascorrerà molto tempo con Nathan, professore ospite del dipartimento di economia di Princeton e che, come lo stesso Einstein, era un rifugiato dalla Germania nazista. Nathan, economista socialista, aveva conseguito il dottorato in economia e diritto in Germania nel 1921 ed era stato consigliere economico del governo di Weimar. Negli Stati Uniti, nel 1930-31, aveva fatto parte del President Emergency Committee on Employment [Comitato di Emergenza per l’Occupazione] di Herbert Hoover. Nel 1933 si dimise dal suo incarico in Germania e fu assunto come visiting lecturer a Princeton nel 1933, dopodiché insegnò alla New York University dal 1935 al 1942, a Vassar dal 1942 al 1944 e alla Howard University dal 1946 al 1952. All’inizio degli anni ’40 Nathan tenne una conferenza sull’economia marxista per il gruppo di studio marxista del Vassar College. Lavorò a stretto contatto con Einstein dal 1933 fino alla morte di quest’ultimo nel 1955, spesso come consulente finanziario. Einstein lo definì il suo «più intimo amico» e confidente. Nathan fu l’unico esecutore testamentario e co-amministratore fiduciario (insieme alla segretaria di Einstein, Helen Dukas) del patrimonio di Einstein. Durante la loro lunga collaborazione, Einstein fece di Nathan il suo rappresentante sulle questioni politiche ed educative, sottolineando il loro comune accordo su tutte le questioni15.
Per Einstein, un’educazione umana e progressista era direttamente collegata all’avanzamento della causa socialista. Nel 1946-47 avrebbe avuto un ruolo di primo piano, insieme a Nathan, nella fondazione della Brandeis University, originariamente concepita come un’istituzione di istruzione superiore laica di stampo ebraico che avrebbe dovuto incarnare anche una nuova e più ampia concezione di università libera. Qui sarebbero potute convergere le idee di Einstein sulla riforma dell’istruzione e su un radicale cambiamento sociale. La fondazione della Brandeis fu una risposta al “quota system” [sistema di quote] utilizzato dalle istituzioni statunitensi della Ivy League [università d’élite nord-occidentali N.d.T.], così come da quasi tutti gli altri college e università, che limitava il numero di studenti ebrei, insieme a quelli di altre minoranze16. La proposta originaria fu di intitolare questa nuova università a Einstein, ma egli rifiutò e dichiarò che avrebbe dovuto essere intitolata a «un grande ebreo che fosse anche un grande americano», il che portò a intitolare l’università all’ex giudice della Corte Suprema degli Stati Uniti Louis Brandeis17. Tuttavia, il sostegno di Einstein fu fondamentale per l’avviamento della nuova università. La principale fonte di finanziamento fu la Albert Einstein Foundation for Higher Learning, il cui consiglio di amministrazione comprendeva Nathan. Il presidente della Fondazione fu S. Ralph Lazrus, un ricco uomo d’affari con una visione politica progressista, legato alla catena di grandi magazzini Allied Stores e alla Benrus Watch Company. Il Consiglio di amministrazione della Brandeis era presieduto da George Alpert, un avvocato conservatore di Boston, presidente della Boston and Maine Railroad e figura di spicco della filantropia ebraica18.
Nel gennaio 1947 Paul M. Sweezy, uno dei più importanti economisti di sinistra del mondo, autore di La teoria dello sviluppo capitalistico (1942) – che si era appena dimesso dalla carica di professore di economia ad Harvard –, presentò un rapporto di ottantasette pagine, intitolato A Plan for Brandeis University, che delineava una proposta di struttura per la nuova università19. Il piano di Sweezy era stato chiaramente commissionato dalla Albert Einstein Foundation, e cioè da Nathan in qualità di rappresentante di Einstein. Nathan, mentre insegnava alla New York University, si incontrava quasi quotidianamente con il suo buon amico, il giornalista socialista Leo Huberman. Di conseguenza, Nathan conobbe Sweezy, con il quale Huberman aveva una forte amicizia e uno stretto rapporto di lavoro20.
Il piano Brandeis di Sweezy mirava a creare un’università più aperta, accessibile e orientata al futuro, diversa da tutte quelle allora esistenti negli Stati Uniti. Si basava su «due premesse principali». In primo luogo, «il cuore e l’anima dell’università» sarebbero stati «i suoi docenti», che avrebbero diretto l’università stessa come autorità suprema. Tutti gli standard e gli incentivi avrebbero dovuto essere determinati dall’interno, piuttosto che dall’esterno. In secondo luogo, l’Università stessa sarebbe stata come «una comunità di studio e apprendimento». Sweezy indicò che tutti gli sforzi sarebbero dovuti convergere nella creazione di una piccola istituzione di prim’ordine, iniziando con una facoltà di cento persone e un corpo studentesco di circa cinquecento. Inizialmente, avrebbero avuto un ruolo di primo piano le scienze sociali e umanistiche, con la facoltà organizzata in scuole e non in dipartimenti. Sottolineò inoltre che si sarebbe data priorità «all’attrazione di persone non bianche [Negro] qualificate sia per i docenti che per il corpo studentesco» e che un certo numero di borse di studio offerte dall’Università sarebbe stato riservato «esclusivamente agli studenti non bianchi». Queste proposte erano tutte in linea con i punti di vista di Nathan e Einstein, con Nathan che presentò uno schema di cinque pagine della struttura della nuova università con il quale integrava il piano più ampio di Sweezy. Un lavoro critico fondamentale presente in A Plan for Brandeis University di Sweezy era The Higher Learning in America di Thorstein Veblen21.
Tuttavia, sarebbe presto sorto un conflitto tra la Albert Einstein Foundation for Higher Learning e il Consiglio di Amministrazione della Brandeis in merito ai piani accademici progressisti della Fondazione. Il conflitto sarebbe nato nel corso della selezione di un presidente per la nuova università. Alla ricerca di un potenziale presidente, e con il sostegno di Einstein, Nathan si recò a Londra per incontrare Harold Laski, senza dubbio incoraggiato da Huberman e Sweezy, che avevano entrambi studiato con Laski alla London School of Economics (LSE)22. Laski, ex docente di Harvard, poi per molti anni professore alla LSE e membro dell’esecutivo del Partito Laburista britannico, era ampiamente riconosciuto come uno dei principali pensatori politico-economici del mondo. Nel 1939, Laski scrisse un articolo, Why I Am a Marxist, originariamente pubblicato negli Stati Uniti su «The Nation» e successivamente ristampato su «Monthly Review» alla sua morte nel 1950. Rispondendo alla Grande Depressione e all’ascesa del nazismo, dichiarò: «È giunto il momento di un attacco centrale alla struttura del capitalismo. Soltanto una socializzazione su larga scala può porre rimedio alla situazione. L’alternativa [alla socializzazione] in tutta la civiltà occidentale […] è, a mio avviso, una rapida deriva verso il fascismo»23.
Nathan e Einstein ritenevano che Laski, uno dei principali pensatori ebrei del mondo, impegnato nell’educazione laica e con forti valori socialisti, rappresentasse la scelta ideale per la presidenza della Brandeis, in grado di dare forma all’università più libera, più aperta e più progressista che avevano immaginato. Einstein, con il sostegno iniziale di Alpert e con quella che, secondo lui, era l’autorizzazione del Consiglio di Amministrazione e della Fondazione (anche se in seguito sarebbe stata messa in discussione), scrisse a Laski, invitandolo a prendere in considerazione la possibilità di assumere l’incarico di presidente della Brandeis24. Nella lettera del 15 aprile 1947 Einstein scriveva:
Caro signor Laski,
Come ha saputo dal mio amico Otto Nathan qualche mese fa, stiamo qui facendo uno sforzo molto serio per fondare una nuova università, che riteniamo sia diventata necessaria a causa del quota system apertamente o implicitamente utilizzato da quasi tutti i college e le università americane. Speriamo che la nuova istituzione renda più facile per i giovani uomini e donne di fede ebraica e di altre minoranze ottenere un’istruzione di prima classe. Allo stesso modo, speriamo di rendere possibile a quegli scienziati e studiosi, che nelle condizioni attuali soffrono di gravi discriminazioni, di trovare un luogo dove poter insegnare e lavorare. L’Università sarà in mani ebraiche, ma siamo determinati a trasformarla in un’istituzione animata da uno spirito libero e moderno, che enfatizzi soprattutto lo studio e la ricerca indipendenti e che non conosca discriminazioni a favore o contro nessuno in ragione del sesso, del colore, della fede, dell’origine nazionale o dell’opinione politica. Tutte le decisioni sulle politiche educative, sull’organizzazione dell’insegnamento e della ricerca saranno nelle mani del corpo docente.
Il Consiglio di Amministrazione mi ha delegato l’autorità di scegliere il primo presidente dell’Università. Costui avrà l’arduo compito di aiutarci a determinare le fondamenta dell’Università e di selezionare e organizzare il corpo docente iniziale da cui dipende tutto ciò. Siamo tutti convinti che tra tutti gli ebrei viventi Lei sia l’uomo che, accettando la grande sfida, avrebbe maggiori probabilità di successo. Non solo Lei conosce gli Stati Uniti e le sue istituzioni accademiche più intimamente di molti educatori americani, ma la Sua reputazione di studioso eccezionale è diffusa in tutto il Paese.
Le scrivo, quindi, per chiederle se sarebbe disposto a prendere in considerazione un simile invito.25
Laski rispose quasi immediatamente all’offerta di Einstein, scrivendo che, purtroppo, per motivi personali e familiari, oltre che per il suo impegno nella lotta per il socialismo in Gran Bretagna, non era in grado di lasciare Londra e quindi non poteva accettare l’incarico26. Tuttavia, nonostante la lettera di Laski che rifiutava l’incarico fosse già stata ricevuta, Alpert vedeva chiaramente nell’offerta a Laski una problema potenzialmente conflittuale e un modo per prendere il controllo della direzione dell’Università. L’obiettivo [di Alpert] era quello di emarginare Nathan e Lazrus, e quindi Einstein, indebolendo il ruolo della Albert Einstein Foundation nella scelta della direzione accademica dell’Università. Così, nonostante il suo iniziale sostegno dell’offerta a Laski, Alpert prese la strada opposta. Sostenne improvvisamente, sebbene l’accusa fosse dubbia e priva di prove evidenti, che Nathan e Lazrus (coinvolgendo indirettamente lo stesso Einstein) avevano oltrepassato la loro autorità nel proporre un’offerta simile a Laski. Alpert negò che il Consiglio di Amministrazione della Fondazione avesse autorizzato l’offerta in una riunione, che dichiarò essere stata priva del numero legale27. Più precisamente, insistette sul fatto che la scelta di Laski fosse inaccettabile perché rifletteva una politica radicale e “antiamericana”. La risposta di Einstein fu quella di difendere Nathan e Lazrus, chiarendo che avevano la sua piena fiducia e che avevano agito in linea con le sue idee. Sottolineò che era stato lui stesso a scrivere la lettera a Laski dopo aver ottenuto l’approvazione di Alpert, del Consiglio di Amministrazione e della Fondazione. Einstein interruppe quindi il suo legame con la Brandeis, assicurandosi che il nome della Albert Einstein Foundation for Higher Learning venisse cambiato in Brandeis Foundation e che sia Nathan che Lazrus si dimettessero dalle loro cariche.
Secondo Alpert, le cui osservazioni sull’incidente furono riportate dal «New York Times» il 23 giugno 1947, con il titolo Left Bias Charged in University Row, i collaboratori di Einstein si erano «arrogati il diritto di definire la politica accademica», mirando a dare all’Università «un orientamento politico radicale» e appoggiando «di nascosto» una «scelta assolutamente inaccettabile». Nelle parole di Alpert, «istituire un’Università sponsorizzata dagli ebrei e porre a capo di essa un uomo del tutto estraneo ai principi americani di democrazia, della stessa pasta dei comunisti, avrebbe fin dall’inizio condannato l’Università all’impotenza. Sulla questione dell’americanismo non posso scendere a compromessi». Altri giornali ripresero la vicenda, sostenendo che Laski fosse criticabile in quanto «socialista di fama internazionale»28. Non era una semplice coincidenza che le accuse politiche di Alpert fossero del tutto in accordo con le opinioni del National Council for American Education, un’organizzazione ferventemente anticomunista fondata nel 1946 che lanciò il maccartismo nelle università. Con l’introduzione delle tattiche maccartiste, Alpert dichiarava che era inaccettabile che qualsiasi figura intellettuale associata a idee socialiste potesse dirigere un’università statunitense29.
Einstein rimase scioccato dalle tattiche da Paura Rossa utilizzate contro di lui e i suoi collaboratori, come si evince dalla bozza di risposta alle dichiarazioni pubbliche di Alpert. La sua risposta pubblica, tuttavia, fu contenuta e puntuale:
Le dichiarazioni alla stampa rilasciate da George Alpert e da un altro membro del Consiglio di Amministrazione della Brandeis University in occasione del ritiro mio e dei miei amici, il professor Otto Nathan e S. Ralph Lazrus, mi hanno convinto che non fosse mai troppo presto per interrompere un legame dal quale non ci si poteva aspettare nulla di buono dalla comunità. I miei colleghi ed io eravamo giunti con molta riluttanza alla conclusione che il tipo di istituzione accademica a cui eravamo interessati non poteva essere realizzata nelle circostanze attuali e con l’attuale leadership.30
Come scrisse William Zuckerman nella rivista ebraica «The American Hebrew»: «La dichiarazione del signor Alpert è [… quella] di un politico reazionario e di parte, che si addice a un membro del Comitato per le attività antiamericane, non a un presidente di un’università che porta il nome del defunto giudice Brandeis»31.
La campagna di Wallace e la nascita della «Monthly Review»
Nel clima repressivo dell’epoca, il fallimento della creazione di un nuovo tipo di università – aperta e democratica, senza discriminazioni razziali nelle politiche di ammissione, con una visione più progressista, con un controllo assoluto sull’istituzione da parte della facoltà e con l’introduzione di valori socialisti di uguaglianza – ebbe un effetto profondo su Einstein. Nel 1948, nel bel mezzo dell’isteria anticomunista allora diretta contro tutti i movimenti di sinistra del Paese, incluse le organizzazioni dei lavoratori radicali, dei diritti civili e della sinistra accademica che avevano formato una coalizione durante il New Deal di Roosevelt, Einstein sostenne Wallace, il candidato del Partito Progressista alle elezioni presidenziali. Wallace godeva del sostegno delle forze radicali che avevano fornito gran parte dell’impulso al New Deal di Roosevelt. La sua campagna si oppose alla Guerra Fredda, sostenne il controllo internazionale delle armi nucleari e appoggiò i diritti civili e i diritti dei lavoratori. Una famosa foto scattata poco prima del lancio ufficiale del Partito Progressista mostra Einstein e Paul Robeson accanto a Wallace32. Huberman e Sweezy scrissero il preambolo della piattaforma del Partito Progressista, che fu adottata alla Convenzione di Filadelfia nel luglio 1948. Sweezy avrebbe assunto l’incarico di presidente della campagna di Wallace nel New Hampshire33.
Pur raccogliendo oltre un milione di voti, Wallace perse nettamente le elezioni, in parte a causa della campagna di vessazione contro i simpatizzanti comunisti [red-baiting] condotta contro di lui dal candidato alla presidenza del Partito Democratico, l’allora presidente Truman34. In seguito alla disastrosa sconfitta di Wallace, Huberman, Sweezy, Nathan e, a quanto pare, anche Einstein, giunsero alla conclusione che una delle ragioni principali della disfatta elettorale di Wallace risiedesse nell’incapacità di articolare una visione positiva, che poteva provenire solo dal socialismo. Einstein riteneva che Wallace fosse «senza dubbio un liberale», ma non un socialista35.
In queste circostanze, Huberman, Sweezy e Nathan si convinsero che negli Stati Uniti fosse necessario un periodico socialista indipendente che fornisse l’educazione e la visione politica necessarie, anche se ciò potesse rappresentare, nel contesto dei tempi, solo una mera «azione di sostegno, un’azione di retroguardia»36. Di conseguenza, iniziarono a lavorare insieme per fondare quella che divenne la «Monthly Review». Furono aiutati da Matthiessen, che negli anni ’30 aveva lavorato con Sweezy alla formazione della Harvard Teacher’s Union ed era anche un attivo sostenitore di Wallace. Matthiessen fornì alla rivista un importante contributo di 5.000 dollari in ciascuno dei primi tre anni di vita37. Nathan fu un membro silenzioso del gruppo editoriale fondatore della nuova rivista, non volendo apparire sulla testata a causa degli attacchi maccartisti già rivolti ai professori universitari. Scrisse per i primi due numeri di «Monthly Review» e fu strettamente coinvolto nella sua progettazione e nel suo sviluppo. Tuttavia, il suo ruolo si ridimensionò gradualmente nel primo anno di pubblicazione. Il suo contributo più duraturo alla «Monthly Review» fu quello di incoraggiare Einstein a scrivere per il primo numero38.
Così, quando il numero inaugurale di «Monthly Review» fu pubblicato nel maggio 1949, Huberman e Sweezy vi figuravano come redattori, mentre i quattro autori degli articoli del numero (dopo i due editoriali) erano, nell’ordine: Einstein, Sweezy, Huberman e Nathan. Fu l’articolo di Einstein, nel primo numero della «Monthly Review», ad assumere il compito principale di definire il significato del socialismo stesso e attirò l’attenzione dell’FBI sulla rivista.
Esisteva una lunga tradizione di importanti socialisti che pubblicavano articoli intitolati Perché sono socialista39. Nathan, con il sostegno di Huberman e Sweezy, suggerì ad Einstein di scrivere un saggio di questo tipo. Tuttavia Einstein decise di adottare un formato completamente diverso, non basato sulle sue opinioni soggettive, ma su un’argomentazione oggettiva e chiara per la scelta di una via socialista. Con questo formato, dal tono molto peculiare, l’articolo di Einstein assunse un carattere scientifico40.
Einstein e le ragioni oggettive in favore del socialismo
Scritto con estrema brevità, Perché il socialismo? di Einstein era lungo poco più di sei pagine. Sebbene fosse un prodotto esclusivamente suo, mostrava l’influenza di due grandi pensatori socioeconomici: Veblen e Karl Marx. Come scrisse, con parole celebri, C. Wright Mills in un’introduzione a Teoria della classe agiata di Veblen, «Thorstein Veblen è il miglior critico dell’America che l’America abbia prodotto»41. Negli anni Quaranta Veblen era uno degli autori preferiti di Einstein. Nel 1944 Einstein scrisse: «Devo innumerevoli ore felici alla lettura delle opere di [Bertrand] Russell, cosa che non posso dire di nessun altro scrittore scientifico contemporaneo, ad eccezione di Thorstein Veblen»42. Einstein vedeva in Marx un grande pensatore, che collocava al fianco di Baruch Spinoza quale esponente della libertà umana derivante dalla tradizione ebraica. Come dichiarò: «Nella tradizione del popolo ebraico c’è un amore per la giustizia e la ragione che deve continuare a lavorare per il bene di tutte le nazioni, ora e in futuro. Nei tempi moderni questa tradizione ha prodotto Spinoza e Karl Marx»43.
La prima metà di Perché il socialismo? si rifaceva alla prospettiva di Veblen. Einstein iniziò il suo saggio con una domanda e una risposta: «È consigliabile per chi non sia un esperto di problemi economici e sociali esprimere delle opinioni sulla questione del socialismo? Per un complesso di ragioni credo di sì». Egli proseguì spiegando che «in nessuna parte del mondo abbiamo di fatto superato quella che Thorstein Veblen chiamò “la fase predatoria” dello sviluppo umano. […] Dato che il vero scopo del socialismo è precisamente quello di superare e di procedere oltre la fase predatoria dello sviluppo umano, la scienza economica, al suo stato attuale, può gettare ben poca luce sulla società socialista del futuro»44. Ed era anche vero che il socialismo aveva come obiettivo «un fine etico-sociale» al quale la scienza, come normalmente intesa, poteva contribuire poco. Pertanto, gli esperti degli attuali assetti economici non erano «gli unici ad avere il diritto di esprimersi su questioni che riguardano l’organizzazione della società»45.
La principale occupazione di Einstein in quel periodo era la lotta per la pace nel mondo di fronte alla minaccia esistenziale rappresentata dalle armi nucleari. La questione della pace era direttamente collegata al rapporto tra individuo e società. Il tipico individuo nel capitalismo contemporaneo era così alienato e sconvolto dalle terribili circostanze allora prevalenti, sia di origine economica che derivanti dalla minaccia della guerra, da mettere spesso in discussione il concetto stesso di umanità. Come scrisse Einstein: «Recentemente discutevo con una persona intelligente e di larghe vedute sulla minaccia di una nuova guerra che, secondo me, comprometterebbe seriamente l’esistenza dell’umanità, e facevo notare che solo un’organizzazione sopranazionale potrebbe offrire una forma di protezione da questo pericolo. Allora il mio interlocutore, con voce molta calma e fredda, mi disse: “Perché lei è così profondamente contrario alla scomparsa della razza umana?”»46.
Nient’altro, affermò Einstein, indicava così chiaramente la crisi sociale e morale contemporanea: «Sono sicuro che solo un secolo fa nessuno avrebbe fatto una domanda del genere con tanta leggerezza. È l’affermazione di un uomo che ha lottato invano per raggiungere un equilibrio interno e ha perduto, più o meno, la speranza di riuscirvi. È l’espressione di una solitudine e di un isolamento dolorosi di cui soffrono moltissimi in questi tempi. Quale ne è la causa? Esiste una via d’uscita?»47. Il rifiuto stesso di affrontare la crisi esistenziale dell’umanità, giungendo a negare l’importanza della continuazione dell’esistenza umana, esasperava la disperazione e l’alienazione che allora, come oggi, dilagavano, rendendo necessaria la ricerca di una via d’uscita.
«L’uomo», osservava Einstein in Perché il socialismo?, «è allo stesso tempo un essere solitario e un essere sociale». Il carattere dell’essere umano è quindi il prodotto di spinte sia individuali che sociali, che riflettono forze interne ed esterne48. Ogni persona ha sia una «costituzione biologica» ereditata che una «costituzione culturale» che proviene dalla società, le quali insieme influenzano il suo sviluppo. Tuttavia, gli individui sono in grado di influenzare la propria vita in una certa misura grazie alla consapevolezza, alla comunicazione e alle azioni che ciascuno sceglie di intraprendere all’interno dei vincoli presentati dalla società, che è a sua volta soggetta a cambiamenti. «Il comportamento sociale degli esseri umani può essere molto diverso, a seconda degli schemi culturali predominanti e dei tipi di organizzazione che prevalgono nella società. È su questo fatto che coloro che lottano per migliorare il destino dell’uomo possono fondare le loro speranze: gli esseri umani non sono condannati, a causa della loro costituzione biologica, a distruggersi l’un l’altro, ad opera delle proprie mani, alla mercè di un fato crudele»49.
È questa forte convinzione che condusse Einstein, nel suo saggio, ad affrontare la struttura della società attuale. La dipendenza dell’individuo dalla società di oggi, scriveva, è tale che l’individuo «non sperimenta tale dipendenza come […] un legame organico, come una forza protettrice, ma piuttosto come una minaccia ai suoi diritti naturali, o addirittura alla sua esistenza». Questo perché la struttura della società è tale da accentuare «gli impulsi egoistici» e allo stesso tempo da indebolire «gli impulsi sociali» presenti nella composizione dell’individuo, «che per natura sono più deboli», andando così contro il fatto insormontabile che «l’uomo può trovare un significato nella vita, breve e pericolosa com’è, soltanto dedicandosi alla società»50.
Basandosi su Marx per gran parte della sua argomentazione, Einstein sottolineò che mentre esiste «un’enorme comunità di produttori» nell’odierna «società capitalista», la stragrande maggioranza di questi ultimi è privata «dei frutti del lavoro collettivo», dal momento che «l’intera capacità produttiva» è «per la maggior parte […] la proprietà privata di singoli». In questo articolo, delineò «per ragioni di semplicità» (cioè ad un alto livello di astrazione), le caratteristiche principali di una società di classe capitalista. In tale sistema, «i ‘lavoratori’ … [o] tutti coloro che non partecipano alla proprietà dei mezzi di produzione» sono costretti a vendere la loro «forza-lavoro» ai «proprietari dei mezzi di produzione»51. Il proprietario è quindi in grado di appropriarsi dell’intero surplus (valore) generato al di là di quello che viene pagato al lavoratore per soddisfare “le necessità di sopravvivenza” di quest’ultimo. «È importante comprendere», scrisse Einstein, «che anche in teoria il salario del lavoratore non è determinato dal valore del suo prodotto»52.
Le principali contraddizioni della società capitalista di classe, secondo Einstein, derivavano dalla sua diffusione della disuguaglianza. Invece di tendere a condizioni egualitarie, «il capitale privato tende a concentrarsi in poche mani» per mezzo del normale funzionamento del processo di accumulazione, per cui «la formazione di unità produttive più grandi» avviene «a spese di quelle più piccole». Questo processo genera «un’oligarchia del capitale privato» che è così potente da «non poter essere controllata efficacemente nemmeno da una società organizzata in maniera democratica». Ciò è tanto più vero in quanto i politici eletti e i partiti a cui appartengono sono «ampiamente finanziati o comunque influenzati da capitalisti privati» che si frappongono tra l’elettorato e la maggior parte della popolazione. «Inoltre, nelle condizioni esistenti, i capitalisti privati controllano inesorabilmente, direttamente o indirettamente, le principali fonti di informazione (stampa, radio, istruzione)», che mediano tra coloro che governano la società e la popolazione nel suo complesso53.
Il capitalismo, spiegava Einstein, è un sistema in cui «la produzione è portata avanti per il profitto, non per l’uso», con il risultato che molti rimangono svantaggiati e trascurati. Il sistema è sostenuto da «un esercito di disoccupati», per cui il lavoratore teme costantemente di essere reinserito nell’esercito di riserva del lavoro. I nuovi sviluppi tecnologici tolgono spesso l’impiego al lavoratore, aumentando così ulteriormente l’esercito dei disoccupati e il potere relativo dei proprietari54. «Il movente del profitto», insieme alla concorrenza sfrenata, sono responsabili di gravi crisi economiche, di un «enorme spreco di lavoro» e delle «storture della coscienza sociale nei singoli individui». Quest’ultimo è «la tara peggiore del capitalismo», poiché permette di mettere la società contro la popolazione. «Tutto il nostro sistema educativo» coltiva questi valori alienati e quindi «soffre di questo male»55.
«Sono convinto che vi è un solo mezzo per eliminare questi gravi mali», dichiarò Einstein, «cioè la creazione di un’economia socialista congiunta a un sistema educativo che sia orientato verso obiettivi sociali. In una tale economia, i mezzi di produzione sono di proprietà della società stessa e vengono utilizzati secondo uno schema pianificato» in linea con le esigenze sociali, oltre che individuali. «L’educazione dell’individuo, oltre a incoraggiare le sue innate capacità, si proporrebbe di sviluppare in lui un senso di responsabilità per i suoi simili anziché la glorificazione del potere e del successo, come avviene nella nostra società attuale»56. Qui vediamo l’importanza che egli attribuisce, come espresso nella sua lettera a Laski, alla creazione di un’istituzione educativa libera da «discriminazioni a favore o contro chiunque, a causa del sesso, del colore della pelle, del credo, dell’origine nazionale o dell’opinione politica» - un’istituzione in cui «tutte le decisioni sulle politiche educative, sull’organizzazione dell’insegnamento e della ricerca saranno nelle mani della facoltà», e non di consigli di amministrazione colmi di magnati del business.
«Un’economia pianificata», ha insistito Einstein, «non rappresenta ancora il socialismo». Essa non comporta necessariamente la fine della «schiavitù dell’individuo». La realizzazione del socialismo richiedeva la soluzione di alcune questioni cruciali come l’estensione e non la limitazione della democrazia, la lotta alla burocrazia e la protezione dei diritti dell’individuo. Concludeva il suo articolo facendo riferimento alla «Monthly Review», di cui sosteneva pienamente la fondazione: «Chiarire questi problemi del socialismo è di fondamentale importanza nella nostra epoca di transizione. Dal momento che, nelle attuali circostanze, una discussione libera e senza intralci è soggetta ad un potente tabù, ritengo la fondazione di questa rivista un importante servizio pubblico»57.
Il “potente tabù” era il maccartismo che all’epoca dominava l’intero discorso della società statunitense. Einstein stesso ne aveva subito direttamente la violenza: rispetto ai suoi tentativi, accusati di antiamericanismo, di creare una nuova e più libera università a Brandeis; rispetto al suo ruolo nella campagna di Wallace, che lo portò a essere incolpato di essere un «imbroglione e un seguace del comunismo»; e rispetto agli attacchi in stile caccia alle streghe contro molti dei socialisti e dei radicali con cui era più strettamente legato. Sebbene la reputazione e lo status a livello mondiale di Einstein lo rendessero virtualmente intoccabile, questo non era vero per gli altri autori che scrissero per il primo numero di «Monthly Review». Huberman, Sweezy e Nathan sarebbero stati convocati dall’inquisizione maccartista e minacciati di carcerazione per aver rifiutato di fare i nomi e di collaborare, appellandosi al Primo Emendamento, come notoriamente raccomandato da Einstein58.
“Perché il socialismo?” o “Perché il liberalismo?”
La potenza del nome di Einstein e la forza delle sue opinioni sono tali che ancora oggi, settantacinque anni dopo la pubblicazione di Perché il socialismo?, si cerca di negare o sminuire il suo impegno per il socialismo e di sostenere che l’articolo era di scarsa importanza, non diceva ciò che sembrava dire, era contraddetto dalla stessa evoluzione intellettuale di Einstein, e non ha alcun significato reale per i nostri tempi. La maggior parte delle biografie di Einstein ignora la sua opinione politica, considerandola di scarsa importanza59. In realtà, ciò ha a che fare con il fatto scomodo che Einstein era un politico radicale, spesso visto come un tribuno della sinistra.
Tuttavia, negli ultimi anni, l’interesse per le opinioni politiche di Einstein è aumentato notevolmente in seguito alla pubblicazione nel 2002 di The Einstein File, di Fred Jerome, che ha registrato le persecuzioni dell’FBI nei confronti di Einstein per le sue opinioni politiche di sinistra. Nel 2007, David E. Rowe e Robert Schulmann, entrambi noti studiosi di Einstein, hanno pubblicato con Princeton University Press la raccolta Einstein on Politics. Il libro è stato subito riconosciuto come una risorsa inestimabile, che riunisce materiali provenienti da numerose fonti, alcune delle quali inedite. Rowe e Schulmann hanno fornito non solo un’introduzione generale, ma anche ampi commenti sui vari articoli inclusi nella loro raccolta.
La carenza più vistosa del libro di Rowe e Schulmann è l’esclusione delle numerose trattazioni di Einstein sul razzismo, oltre a quelle pubblicate sul giudaismo, sul sionismo, su Israele e la Palestina. «Solo dopo la [Seconda Guerra mondiale]», scrivono i due, Einstein iniziò «a parlare con maggiore insistenza del perdurante retaggio della schiavitù che si manifesta nel sentimento di superiorità dell’America bianca nei confronti dei neri». In questo caso si sentirono obbligati a qualificare questa affermazione, riconoscendo che già nel 1931-32 Einstein aveva scritto sul razzismo negli Stati Uniti, ma tralasciarono il fatto cruciale che l’articolo chiave a cui si fa riferimento era stato scritto per la rivista «The Crisis», diretta nientemeno che da W.E.B. Du Bois60. Solo Robeson, e non Du Bois, compare nel resoconto di Rowe e Schulmann sull’attività politica di Einstein – e anche in questo caso, Robeson è menzionato solo in relazione alla famosa fotografia che lo ritrae insieme a Einstein e Wallace61.
Tuttavia, c’è un’altra e più sottile mancanza in Einstein on Politics, legata all’agenda politica del libro, che mira a trasformare Einstein da socialista a liberale. In questo caso, Rowe e Schulmann cercano di capovolgere la più famosa affermazione di Einstein sul socialismo, “Perché il socialismo?”. Nonostante il titolo, sostengono Rowe e Schulmann, Einstein in realtà non era affatto a favore del socialismo, ma piuttosto di una sorta di liberalismo di sinistra. È implicita l’idea che Perché il socialismo? avrebbe dovuto intitolarsi “Perché il liberalismo?”. In questo modo criticano aspramente Nathan, il più intimo amico e confidente di Einstein e l’esecutore fiduciario del suo patrimonio, per aver completamente frainteso Einstein descrivendolo come un socialista62. Perché il socialismo?, siamo portati a credere, può sembrare un argomento a favore del socialismo, ma questo viene presto sfatato se «correttamente contestualizzato»63.
Una parte di questa “corretta contestualizzazione”, a quanto pare, deriva dall’osservazione che Einstein era spesso critico nei confronti dell’Unione Sovietica e aveva indicato in una lettera che alcune teorie bolsceviche erano «ridicole» – come se questo significasse di per sé il rifiuto totale del socialismo64. Inoltre, una “corretta contestualizzazione” di Perché il socialismo?, sostengono in modo non plausibile i curatori di Einstein on Politics, include il riconoscimento che, nel criticare «l’oligarchia del capitale», l’intenzione di Einstein, secondo le loro parole, era «non tanto di promuovere il socialismo come sistema economico, ma di sostenere un’economia pianificata come strumento significativo per raggiungere fini etico-sociali». In questo modo essi aggirano la concezione, chiaramente espressa dallo stesso Einstein, secondo cui l’economia pianificata era un necessario primo passo “socialista”, anche se non sufficiente, nel complessivo processo di creazione di un socialismo completo65.
Poiché Einstein credeva nei diritti umani e nella democrazia, i curatori di Einstein on Politics presumono stranamente che non potesse essere un socialista. Così, ci viene detto che le sue argomentazioni in Perché il socialismo? contro «la disuguaglianza di reddito e lo sfruttamento delle persone economicamente vulnerabili», che egli attribuiva al sistema capitalistico, se “correttamente contestualizzate”, potevano essere viste come rientranti «nel tradizionale obiettivo liberale dell’autorealizzazione dell’individuo», interessato ai diritti democratici, piuttosto che costituire, come Einstein stesso pensava, argomenti a favore del socialismo democratico66.
Passando alla questione degli intellettuali e della classe operaia, i difensori di una “corretta contestualizzazione” della politica di Einstein affermano che, in quanto intellettuale, egli non aveva un’esperienza diretta con le condizioni della classe operaia o con la classe operaia stessa, e quindi necessariamente «riponeva la sua fede negli appelli alla ragione da parte di un’intellighenzia liberale» – come se la fede negli appelli alla ragione da parte di un’intellighenzia socialista fosse semplicemente fuori portata per lui67. Sebbene Einstein non fosse direttamente collegato alla classe operaia, era circondato da socialisti, molti dei quali erano collegati alla classe operaia.
In un ulteriore tentativo di capovolgere la politica di Einstein, la schietta dichiarazione di Nathan, secondo cui Einstein era un socialista a causa del suo profondo impegno per l’egualitarismo, è soggetta a un feroce attacco da parte di Rowe e Schulmann. Essi sostengono che Nathan, nonostante la sua stretta amicizia con Einstein, abbia frainteso il vero carattere del grande uomo, che era in realtà incline a un “fervente elitarismo”68.
Infine, viene sottilmente suggerito che una “corretta contestualizzazione” delle concezioni di Einstein in Perché il socialismo? lo vedrebbe come un ingenuo «filosofo morale», incapace di orientarsi nel mondo reale della politica, che lo porta a sostenere utopisticamente un futuro socialista, nascondendo al tempo stesso le sue innate tendenze liberali69.
In questo modo, non solo Einstein (insieme a Nathan) è sottoposto alla “corretta contestualizzazione” di Rowe e Schulmann, ma lo è anche la pubblicazione dell’articolo su «Monthly Review». Rowe e Schulmann sostengono che Huberman e Sweezy (e Nathan dietro le quinte), i redattori di «Monthly Review», «cercarono di appropriarsi» di Einstein per i propri fini di sinistra pubblicando Perché il socialismo? «in pompa magna» nel maggio 1949. Eppure, lungi dall’essere «in pompa magna», l’unico commento su Einstein o sul suo articolo nel numero inaugurale di «Monthly Review» fu un’unica riga che identificava l’autore: «Albert Einstein è il fisico di fama mondiale»70. Il suo articolo non fu messo in primo piano all’interno della rivista, poiché seguiva due importanti editoriali, né fu evidenziato in copertina. Piuttosto che appropriarsene «in pompa magna», i redattori di «Monthly Review» potrebbero essere ragionevolmente criticati per aver sottovalutato l’importanza del saggio di Einstein.
La sensazione che gli illustri curatori di Einstein on Politics vorrebbero senza dubbio trasmettere è che Einstein fosse tutt’altro che un partecipante volontario a tutto questo. Tale opinione, tuttavia, è smentita dai suoi stretti rapporti con Nathan; dai suoi legami indiretti con Sweezy nella pianificazione della Brandeis University; dai ruoli di primo piano che Huberman, Sweezy e Einstein giocarono tutti nella campagna di Wallace; e dal paragrafo finale del suo articolo che indica un forte sostegno alla nuova rivista.
Non contenti di queste accuse, Rowe e Schulmann continuano a dichiarare, quasi a voler gettare ombre sull’ulteriore «appropriazione» del suo saggio, che l’articolo di Einstein è stato ristampato dalla «Monthly Review» «ogni anno» nel corso della sua storia. Eppure, nei cinquantotto anni di pubblicazione della rivista mensile, all’epoca in cui Rose e Schulmann scrivevano, l’articolo di Einstein era stato ristampato solo otto volte, all’incirca una volta ogni sette anni71.
La costante lotta politica per il socialismo
La difesa del socialismo da parte di Einstein era in totale sintonia con le sue posizioni in materia di istruzione, razzismo, colonialismo e pace. La persecuzione per sospette simpatie comuniste in relazione ai suoi progetti per la Brandeis University, ai suoi impegni socialisti e alla sua lettera a Laski, è continuata fino a questo secolo72. Tuttavia, nella maggior parte dei casi, la Brandeis University ha preferito minimizzare il conflitto politico, presentando Einstein come una figura magnanima, interessata alla costituzione dell’università e sottintendendo il proprio costante impegno per utilizzare al meglio il suo nome73.
Quasi sempre Einstein declinò educatamente le offerte di lauree ad honorem da parte delle università, non solo perché erano numerose, ma anche perché non si sentiva a suo agio con la natura dell’istruzione superiore negli Stati Uniti74. Ma quando nel maggio del 1953 gli fu offerta una laurea ad honorem da Abram L. Sachar, primo presidente della Brandeis, non inviò la sua solita risposta educata, ma spiegò con rabbia che «ciò che è accaduto nella fase di allestimento non è stato causato da un malinteso», ma è stato ingannevole e inconcepibile «e non può più essere rimediato». In una precedente risposta del luglio 1949 a una richiesta di Sachar, egli aveva fatto riferimento alla «inattendibilità e alla falsità di alcuni membri del Consiglio di Amministrazione», che lo aveva portato a interrompere tutti i legami con la Brandeis University75.
Eppure, mentre Einstein deplorava il modo in cui le università degli Stati Uniti, compresa la Brandeis, erano governate dal business e da interessi politici elitari, nel 1946 fu disposto ad accettare una laurea honoris causa dalla piccola Lincoln University della Pennsylvania, che, quando fu fondata nel 1854, fu la prima università storicamente afroamericana. Nel discorso pronunciato in quell’occasione, come riportato dal «Baltimore Afro-American» (in generale, la stampa tradizionale ignorò il discorso), Einstein disse: «Il mio viaggio presso questa istituzione è a nome di una causa utile. Negli Stati Uniti c’è una separazione tra le persone di colore e i bianchi. Questa separazione [segregazione] non è una malattia delle persone di colore. È una malattia dei bianchi. Non intendo tacere al riguardo». In un articolo, strettamente correlato, del gennaio 1946 su The Negro Question, Einstein dichiarò: «La visione sociale degli americani… il loro senso dell’uguaglianza e della dignità umana è limitato agli uomini di pelle bianca. Più mi sento americano, più questa situazione mi addolora. Posso sottrarmi alla sua complicità solo dichiarandolo apertamente». In risposta all’ondata di linciaggi che si verificò quell’anno in tutta la nazione, si unì a Robeson come co-presidente dell’American Crusade to End Lynching (Crociata americana per porre fine ai linciaggi), nonostante l’FBI avesse definito l’organizzazione un fronte comunista76.
Nel 1951 il governo federale incriminò Du Bois, allora presidente del Peace Information Center con sede negli Stati Uniti, insieme ad altri quattro funzionari del Centro, per non essersi registrati come “agenti stranieri”. Il Peace Information Center fu accusato di aver diffuso l’Appello del Consiglio Mondiale della Pace di Stoccolma del 1950, classificato dalle autorità statunitensi come agente dell’Unione Sovietica77. L’Appello di Stoccolma mirava a vietare le armi nucleari ed era stato firmato da diversi milioni di persone. Nel tribunale federale Du Bois fu difeso dal focoso avvocato e deputato radicale Marcantonio78. Einstein aveva accettato di testimoniare a favore di Du Bois, ma Marcantonio, per ottenere il massimo effetto, trattenne questa informazione fino all’ultimo momento, mentre chiamava i testimoni della difesa. Come ha ricordato la moglie di Du Bois, Shirley Graham Du Bois, quel giorno in tribunale:
L’accusa si ritirò la mattina del 20 novembre… Marcantonio… disse al giudice che doveva essere presentato un solo testimone della difesa, il dottor Du Bois. [Ma] Marcantonio aggiunse con disinvoltura al giudice: «Il dottor Albert Einstein si è proposto di comparire come testimone a favore del dottor Du Bois». Il giudice [Matthew F.] McGuire guardò Marcantonio a lungo e poi aggiornò la corte per il pranzo. Alla ripresa dell’udienza, il giudice McGuire… accolse la richiesta di assoluzione.79
Era chiaro che la pubblicità internazionale che sarebbe derivata dal far testimoniare Einstein in difesa di Du Bois era troppo per il giudice, che archiviò il caso per mancanza di prove, prima ancora che Einstein potesse salire sul banco dei testimoni80.
Einstein deplorava l’imperialismo statunitense. Come scrisse nel 1955 a Elisabetta di Baviera, regina madre del Belgio: «Non riesco a liberarmi dal pensiero che questa, l’ultima delle mie patrie, abbia inventato a suo uso e consumo un nuovo tipo di colonialismo, meno appariscente del colonialismo della vecchia Europa. Il dominio sugli altri Paesi si ottiene investendo il capitale americano all’estero, il che rende quei Paesi fortemente dipendenti dagli Stati Uniti. Chiunque si opponga a questa politica o alle sue implicazioni viene trattato come un nemico degli Stati Uniti». Egli era fermamente convinto che gli Stati Uniti fossero i principali responsabili della tragedia della guerra di Corea81.
Il noto impegno di Einstein nei confronti del Sionismo è spesso usato come un modo per negare o aggirare le sue opinioni radicali e socialiste. Un articolo del «Time» intitolato Einstein’s Complicated Relationship to Judaism [La complicata relazione di Einstein con l’ebraismo], a firma di Samuel Graydon, pubblicato il 19 dicembre 2023, nel bel mezzo della continua guerra israeliana a Gaza, sosteneva che Einstein fosse un vero e proprio sionista e che «avesse superato le sue istintive obiezioni all’elemento nazionalista insito nel movimento, ovvero la creazione di uno Stato ebraico». Questo, tuttavia, è un mito creato quasi subito dopo la sua morte e progettato per nascondere la verità82. Piuttosto che esplorare a fondo la questione, che avrebbe sollevato domande difficili, l’articolo del «Time» devia rapidamente nei dettagli sull’immigrazione di Einstein negli Stati Uniti e sul suo presunto patriottismo americano, nonostante gli attacchi maccartisti contro di lui, collegando questo favoloso americanismo con il suo «impegno per la causa sionista», verso il quale, ci viene detto, «non vacillò nei suoi ultimi anni»83. In realtà, Einstein si oppose costantemente alla creazione di uno “Stato ebraico” in Israele, sostenendo invece la necessità di uno Stato “binazionale” che comprendesse sia gli ebrei che i palestinesi, e per questo è stato definito un “sionista culturale” in contrapposizione a “sionista politico”. Egli sosteneva che l’immigrazione ebraica dovesse essere limitata a ciò che era compatibile con l’integrazione pacifica di ebrei e palestinesi in una patria comune84.
Nell’articolo del «Time» mancava completamente qualsiasi riferimento alla lettera dell’8 dicembre 1948 al «New York Times», firmata da Einstein, Hannah Arendt, Sidney Hook, Seymour Melman ed altri intellettuali ebrei, che metteva in guardia dall’ascesa in Israele del partito Herut (Libertà) di Menachem Begin, il progenitore dell’odierno Likud di Benjamin Netanyahu. La lettera di Einstein e dei suoi cofirmatari descriveva il Partito della Libertà di Begin come «un partito politico molto simile per organizzazione, metodi, filosofia politica e attrattiva sociale ai partiti nazista e fascista»85. La distruzione quasi totale di Gaza da parte delle Forze di Difesa Israeliane a seguito dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023, che ha portato, ad aprile 2024, a più di centomila vittime, tra cui più di trentamila morti – la maggior parte dei quali donne, bambini e altri non combattenti – e ad un numero molto superiore di persone che rischiano di morire di fame, ha riportato l’attenzione mondiale sull’avvertimento di Einstein in merito all’evoluzione dello Stato israeliano86.
Negli ultimi anni, la principale preoccupazione di Einstein era la minaccia dell’annientamento umano dovuta alle armi nucleari. Nel 1946 divenne presidente dell’Emergency Committee of Atomic Scientists (ECAS) [Comitato di Emergenza degli Scienziati Atomici]. Oltre a Einstein, tutti i membri del Comitato avevano lavorato allo sviluppo della bomba atomica. Molti erano stati insigniti del Premio Nobel. Tuttavia, l’FBI inserirà l’ECAS nell’elenco dei gruppi del fronte comunista, a causa dei suoi sforzi per sottrarre lo sviluppo atomico alle forze armate e porlo sotto il controllo internazionale, in un momento in cui gli Stati Uniti avevano ancora il monopolio sulle armi nucleari87.
Il 1° marzo 1954 gli Stati Uniti effettuarono un disastroso test di bomba all’idrogeno, denominato in codice “Castle Bravo”, sull’atollo di Bikini, nelle Isole Marshall. Prevista come un’esplosione con una potenza di sei megatoni, si rivelò, a causa di un errore di calcolo degli scienziati coinvolti, la più grande esplosione nucleare mai condotta dagli Stati Uniti, pari a quindici megatoni, mille volte la potenza esplosiva della bomba sganciata su Hiroshima. Il fallout si estese per undicimila chilometri quadrati, ricadendo sulle popolazioni degli atolli abitati delle Isole Marshall e su un peschereccio giapponese a ottantadue miglia di distanza, al di fuori della zona di pericolo ufficiale. Quando il peschereccio, il Lucky Dragon, fece ritorno in Giappone, si scoprì che i pescatori erano affetti da malattie da radiazioni. La notizia raggiunse rapidamente Einstein e lo colpì profondamente. Sebbene l’amministrazione Eisenhower cercasse di nascondere la portata del disastro, gli scienziati iniziarono a porre domande e a fornire propri dati, costringendo l’amministrazione a rendere pubbliche molte delle informazioni in suo possesso. Il risultato fu un’enorme preoccupazione a livello mondiale per i pericoli del fallout nucleare derivante dai test nucleari in superficie e per la corsa agli armamenti nucleari in generale. Questo avrebbe portato alle enormi lotte di scienziati e cittadini negli anni successivi per l’approvazione del Nuclear Test Ban Treaty [Trattato sulla messa al bando degli esperimenti nucleari], firmato nel 1963, che segnò il primo grande successo del moderno movimento ambientalista, iniziato con le preoccupazioni per gli esperimenti nucleari in atmosfera88.
L’ultima dichiarazione firmata da Einstein nell’aprile del 1955, pochi giorni prima della sua morte, fu a sostegno di quello che è diventato noto come il “Manifesto Russell-Einstein”, in cui si dichiarava che «autorevoli esperti sono unanimi nel dire che una guerra con bombe‐H potrebbe eventualmente porre fine alla razza umana. Si teme che, se molte bombe‐H fossero lanciate, potrebbe verificarsi uno sterminio universale. […] Esortiamo i governi del mondo a rendersi conto, e a dichiararlo pubblicamente, che il loro scopo non può essere ottenuto con una guerra mondiale, e li invitiamo di conseguenza a trovare i mezzi pacifici per la soluzione di tutti i loro motivi di contesa»89. Come ha affermato Einstein in Perché il socialismo?, il tentativo di trovare una “via d’uscita” dalla minaccia di estinzione umana porta in direzione del socialismo.
L’impegno di Einstein per il socialismo non si basava semplicemente sulla socializzazione dei mezzi di produzione e sulla creazione di un’economia pianificata. Piuttosto, egli riteneva che «il socialismo… richiede che il potere sia concentrato sotto l’effettivo controllo della cittadinanza, in modo che l’economia pianificata vada a beneficio dell’intera popolazione… Solo la costante lotta politica e la vigilanza possono creare e mantenere tale condizione». Infatti, «stancarsi in questa lotta» per la democrazia e i diritti umani, che potevano essere raggiunti pienamente solo con il socialismo, «significherebbe la rovina della società»90. Fino all’ultimo, Einstein si considerava, secondo le sue stesse parole, un «rivoluzionario politico… un Vesuvio che brucia il fuoco», che lotta per conto di un’umanità comune91.
John Bellamy Foster
(Traduzione e revisione di Giovanni Fava, Walter Dal Cin e Luciano Dal Mas)
(Tratto da: «Monthly Review», vol. 76, n. 01 del 01/05/2024, in: https://www.antropocene.org/index.php/518-perche-il-socialismo-di-einstein-e-monthly-review).
Note
1 Federal Bureau of Investigation, Albert Einstein, Parte 8 di 14 (originariamente numerata 6 di 9) (s.d.), p. 45, 1002, vault.fbi.gov; Fred Jerome, The Einstein File, St. Martin’s Press, New York, 2002, pp. 114–15.
2 Federal Bureau of Investigation, Albert Einstein, Parte 8 di 14 (originariamente numerata 6 di 9) (s.d.), p. 46, 1003; Fred Jerome, The Einstein File, St. Martin’s Press, New York, 2002, pp. 114–15.
3 FBI, Albert Einstein, Parte 1 di 14 (originariamente numerata 1 di 9) (s.d.), p. 14; Jerome, The Einstein File, p. 7.
4 Il file dell’FBI su Einstein continuò a fare riferimento al suo articolo Perché il socialismo? fino agli anni Cinquanta, basandosi sulle informazioni fornite dall’organizzazione anticomunista American Business Consultants Incorporated e dalla sua newsletter, Counter Attack. FBI, Albert Einstein, Parte 9 di 14 (originariamente numerata 6 di 9) (s.d.), p. 82, 1149.
5 Albert Einstein a Franklin D. Roosevelt, 02.08.1939 (lettera originariamente redatta da Leo Szilard in consultazione con Einstein e inviata a Roosevelt con la firma di Einstein), The Manhattan Project: An Interactive History, U.S. Department of Energy, osti.gov; Silvan S. Schweber, Einstein and Oppenheimer, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2008, pp. 42–46; David E. Rowe e Robert Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, David E. Rowe e Robert Schulmann (a cura di), Princeton University Press, Princeton, 2007, pp. 40–41. Come scrive Fred Jerome: «Einstein attribuì la colpa dei bombardamenti atomici sul Giappone alla politica estera anti-sovietica di Truman». Disse a un intervistatore del «Sunday Express» di Londra che se Franklin D. Roosvelt fosse vissuto durante la guerra, Hiroshima non sarebbe mai stata bombardata» (Jerome, The Einstein File, p. 56). L’opinione di Einstein sull’uso della bomba atomica sul Giappone come primo passo della guerra fredda era condivisa da molti altri scienziati dell’epoca, in particolare dal fisico nucleare britannico premio Nobel P. M. S. Blackett. Vedi P. M. S. Blackett, Fear, War, and the Bomb, McGraw Hill, New York, 1949, pp. 131-39.
6 Red Visitors Cause Rumpus/The Russians Get a Big Hand from U.S. Friends/Dupes and Fellow Travelers Dress Up Communist Fronts, «Life» 26, n. 14, 04.04.1949, pp. 39–43; Jerome, The Einstein File, p. 107. Il fisico atomico Morrison scrisse regolarmente, in una rubrica dedicata alla scienza, su «Monthly Review» negli anni Cinquanta e nei primi anni Sessanta. Il commentatore radiofonico Walsh era un ex istruttore di economia di Harvard e un amico di Sweezy che scrisse per la «Monthly Review» negli anni Cinquanta.
7 John J. Simon, Albert Einstein, Radical, «Monthly Review» 57, n. 1, maggio 2005, 1–2; A Coffee House with History, ODEON Zurich, odeon.ch; Ronald W. Clark, Einstein: The Life and Times, Harry N. Abrams, New York, 1984, p. 22.
8 Simon, Albert Einstein, Radical, p. 2.
9 Einstein, citato da Rowe e Schulmann nell’introduzione a Einstein on Politics, p. 47.
10 Einstein, citato da Lewis S. Feuer, Einstein and the Generations of Science, Basic Books, New York, 1974, p. 25; Albert Einstein, On the Fifth Anniversary of Lenin’s Death, 06.01.1929, in Einstein on Politics, p. 413. Scrivendo a Hedwig e a Max Born nel 1920, Einstein aveva affermato: «Devo confessarvi che i bolscevichi non mi sembrano cattivi, per quanto ridicole siano le loro teorie». Era rimasto particolarmente colpito da un lavoro di Karl Radek, del 1918, che considerava un’abile figura politica che sapeva «il fatto suo». Albert Einstein a Hedwig e a Max Born, 27.01.1920, in Einstein on Politics, p. 410. Radek morì poi nelle purghe staliniane.
11 Albert Einstein, The World as I See It, in Ideas and Opinions, Crown Publishing, New York, 1954, p. 8.
12 Otto Nathan e Heinz Norden (a cura di), Einstein on Peace, Schoken Books, New York, 1960, p. 180; Rowe e Schulmann nel commento a Einstein on Politics, pp. 425-27; Albert Einstein a Victor Margueritte, 19.10.1932, in Einstein on Politics, pp. 427-28.
13 Albert Einstein, Is There Room for Individual Freedom in a Socialist State?, in Einstein on Politics, p. 437.
14 Nathan e Norden, introduzione a Einstein on Peace, p. viii.
15 Ronald D. Patkus, The Morris and Adele Bergreen Albert Einstein Collection at Vassar College, Vassar Encyclopedie, 2005, Archives and Special Collection Library, Vassar College, Poughkeepsie, New York; pubblicità, «Vassar Miscellany News», no. 40; 24.03.1943; Otto Nathan Dead at 93, «Jewish Telegraphic Agency», 03.02.1987; Otto Nathan, Résumé of Dr. Otto Nathan, ca. 1936, W. E. B. Du Bois Papers, MS 312, Serie 1A, Robert S. Cox Special Collections and University Archives, University of Massachusetts Amherst Libraries; Fred Jerome, Einstein on Israel and Zionism, St. Martin’s Press, New York, 2009, p. 262. In una lettera del 1953 di Einstein al presidente di Brandeis Abram L. Sachar, citata da Silvan S. Schweber, Einstein si riferisce al suo «amico più intimo», che nel contesto significava chiaramente Nathan. Stephen S. Schweber, Einstein and Oppenheimer, Harvard University Press, Cambridge, Massachusetts, 2008, p. 132. Vedi anche Jerome, The Einstein File, p. 311.
16 Renee Walsh, Early Documents of the Formation of Brandeis University, Robert D. Farber University Archive and Special Collections, Brandeis University Library, s.d.; Susan H. Greenberg, Intellectuals at the Gate, interview with Mark Oppenheimer, «Inside Higher Education», 21.09.2022.
17 Silvan S. Schweber, Albert Einstein and the Founding of Brandeis University, in Revising the Foundations of Relativistic Physics, a cura di A. Ashtekar et al., Kluwer Academic Publishers, Dordrecht, 2003, p. 616.
18 Schweber, Einstein and Oppenheimer, pp. 112, 117-18.
19 Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, Monthly Review Press, New York, 1942, 1972. Su Sweezy, vedi John Bellamy Foster, The Commitment of an Intellectual: Paul M. Sweezy (1910-2004), «Monthly Review» 56, n. 5, ottobre 2004, pp. 5-39.
20 Paul M. Sweezy, intervista orale di Andrew Skotnes, 1986-1987, Columbia Center for Oral History, Columbia University Libraries, 5, pp. 143-44. Anche Harry Magdoff, che fin dall’inizio fu strettamente legato alla «Monthly Review», conosceva bene Nathan, che gli faceva spesso visita (Fred Magdoff, comunicazione personale).
21 Paul M. Sweezy, A Plan for Brandeis University, gennaio 1947, pp. 2-10, 18, 44, 87, Albert Einstein Archives (40-461), Hebrew University of Jerusalem, albert-einstein.huji.ac.il; Otto Nathan, An Outline of Policy for Brandeis University, 09.11.1946, Albert Einstein Archives (40-427), Hebrew University of Jerusalem; Schweber, Einstein and Oppenheimer, p. 345; Schweber, Albert Einstein and the Founding of Brandeis University, in Ashtekar et al. (a cura di), Revising the Foundations of Relativistic Physics, p. 623; Thorstein Veblen, The Higher Learning in America, Augustus M. Kelley, New York, 1965. La traccia in cinque pagine di Nathan era strettamente colllegata al progetto in ottantasette pagine di Sweezy.
22 Schweber, Einstein and Oppenheimer, p. 119, 122; Leo Huberman e Paul M. Sweezy, Harold J. Laski, «Monthly Review» 2, n. 1, maggio 1950, pp. 5-6.
23 Harold J. Laski, Why I Am a Marxist, «Monthly Review» 2, n. 3, luglio 1950, p. 81.
24 Schweber, Einstein and Oppenheimer, 122–24.Nella sua lettera, Laski si riferiva a Nathan, che aveva conosciuto di recente, come a un «buon amico».
25 Albert Einstein ad Harold J. Laski, 16.04.1947, Harold Joseph Laski Papers, Inventory N. 26.4, International Institute of Social History, Amsterdam. Riferendosi, nella sua lettera a Laski, al fatto che «non conosce discriminazioni per o contro nessuno a causa di sesso, colore, credo, origine nazionale o opinione politica», Einstein utilizzava quasi esattamente lo stesso linguaggio utilizzato da Nathan nel suo An Outline of Policy for Brandeis University, mentre anche il progetto di Sweezy era quasi identico nella sua formulazione. Vedi Nathan, An Outline of Policy for Brandeis University, p. 1; Sweezy, A Plan for Brandeis University, p. 3.
26 Schweber, Einstein and Oppenheimer, p. 124.
27 Schweber, Einstein and Oppenheimer, p. 123, 347.
28 Left Bias Charged in University Row, «New York Times», 23.06.1947; Schweber, Einstein and Oppenheimer, pp. 125-32.
29 Group Accuses 76 Faculty Members of Red Leanings, Harvard Crimson, 10.03.1949; Ben W. Heineman Jr., The University in the McCarthy Era, «Harvard Crimson», 17.06.1965.
30 Citazione di Einstein, in Schweber, Einstein and Oppenheimer, p. 129.
31 Schweber, Einstein and Oppenheimer, pp. 128-30. Alpert e Sachar, il primo presidente di Brandeis, furono coinvolti in uno scontro di potere su chi dovesse controllare l’università e poco dopo la nomina di Sachar, Alpert fu allontanato dal consiglio di amministrazione. Schweber, Einstein and Oppenheimer, pp. 130-31.
32 Foto di Henry Wallace, Albert Einstein, Frank Kingdon e Paul Robeson, Wikimedia Commons, commons.wikimedia.org.
33 Karl M. Schmidt, Henry A Wallace: Quixotic Crusade, 1948, Syracuse University Press, Syracuse, New York, 1960, pp. 190-91. Harry Magdoff, che alla morte di Huberman sarebbe diventato codirettore di MR, scrisse, per la piattaforma del Partito Progressista, la sezione dedicata alle piccole imprese. Sweezy, in virtù del suo ruolo nella campagna elettorale di Wallace e anche a causa di una conferenza che aveva tenuto all’Università del New Hampshire, fu citato in giudizio dal procuratore generale del New Hampshire nel 1954 e fu accusato di oltraggio alla corte quando si rifiutò di fare i nomi dei membri del Partito Progressista, il Partito Comunista, o di consegnare i suoi appunti della conferenza. Egli basò la sua difesa (come Leo Huberman quando fu chiamato davanti alla commissione McCarthy) sul Primo Emendamento, seguendo una strategia avanzata da Einstein nel 1953. Il caso di Sweezy, Sweezy contro New Hampshire, fu infine deliberato dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in una storica sentenza del 1957. John J. Simon, Sweezy v. New Hampshire, «Monthly Review» 51, n. 11, april 2000, pp. 35-37.
34 Peter Kuznick, Undoing the New Deal: Truman’s Cold War Buries Wallace and the Left, «The Real News Network», 07.12.2017.
35 Albert Einstein a John Dudzic, 08.03.1948, in Einstein on Politics, p. 454. Einstein si lamentava dell’annacquamento del concetto di liberalismo, che storicamente aveva avuto un significato ben preciso nel discorso politico europeo, ma che era diventato tutto e niente con l’uso che Roosevelt ne fece come etichetta per il New Deal. Le perplessità di Einstein furono poi confermate dalle dichiarazioni di Wallace sul "capitalismo progressista" e sul "liberalismo" in due articoli pubblicati su «Monthly Review» nel 1950: Henry A. Wallace, What Is Progressive Capitalism?, «Monthly Review» 1, n. 12, aprile 1950, p. 390–94; Henry A. Wallace, Needed: Cooperation Between the U.S. and the USSR in a Strong UN, «Monthly Review» 2, n. 1, maggio 1950, pp. 7-10. Vedi anche I. F. Stone, Problems of the Progressive Party, «Monthly Review» 1, n. 12, aprile 1950, pp. 379-89.
36 Sweezy, intervista orale di Skotnes, 5, pp. 143–44; “Interview with Paul M. Sweezy,” Monthly Review 51, n. 1, maggio 1999, p. 32; John J. Simon, “Paul Sweezy,” Guardian, 04.03.2004.
37 Christopher Phelps, Introduction: A Socialist Magazine in the American Century, «Monthly Review» 51, n. 1, maggio 1999, pp. 2–3.
38 Sweezy, intervista orale di Skotnes, 5, pp. 143-44; Simon, Albert Einstein, Radical, 8. Otto Nathan e Paul A. Baran, una figura centrale nella storia di «MR», ebbero una disputa personale che influenzò anche i rapporti di Nathan con Huberman, con grande disappunto di quest’ultimo, e che portò ad un allontanamento di Nathan dalla rivista. Sweezy, intervista orale di Skotnes, 5, p. 144; Robert W. McChesney, The Monthly Review Story: 1949-1984, «MR Online», 06.05.2007.
39 Un esempio di ciò è: Scott Nearing, Why I Believe in Socialism, «Monthly Review» 1, n. 2, giugno 1949, pp. 44-50.
40 Come ha notato John J. Simon, grazie a queste relazioni, Einstein è stato visto come «parte di una «MR» [Monthly Review] family» (Simon, Sweezy v. New Hampshire, p. 36).
41 Wright Mills, introduzione a Thorstein Veblen, The Theory of the Leisure Class, Mentor, New York, 1953, p. vi.
42 Albert Einstein, Remarks on Bertrand Russell’s Theory of Knowledge, in The Philosophy of Bertrand Russell, Paul A. Schilpp (a cura di), Library of Living Philosophers, Evanston, Illinois, 1944, p. 279. L’interesse di Einstein per Thorstein Veblen fu probabilmente suscitato dalla sua conoscenza del matematico Ostwald Veblen, suo collega all’Università di Princeton e nipote di Veblen. William T. Ganley, A Note on the Intellectual Connection Between Albert Einstein and Thorstein Veblen, «Journal of Economic Issues» 31, n. 1, marzo 1997, pp. 245-51.
43 Albert Einstein, The Jewish Community, in Ideas and Opinions, p. 174. In un’altra affermazione ha fatto riferimento a Mosè, Spinoza e Marx. Vedi Einstein, Ideas and Opinions, p. 195.
44 L’affermazione di Einstein secondo cui non esistevano società al di fuori della “fase predatoria” era un’ammissione del fatto che, all’epoca, il socialismo completo non esisteva da nessuna parte. Albert Einstein, Why Socialism?, «Monthly Review» 1, n. 1, maggio 1949, pp. 9-10; trad. italiana Perché il socialismo?, in Albert Einstein, Pensieri degli anni difficili, Bollati Boringhieri editore, Torino, 1965, Edizione speciale per Periodici San Paolo, Milano, 2011, pp. 287-288.
45 Einstein, Perché il socialismo?, pp. 288-289.
46 Einstein, Perché il socialismo?, p. 289.
47 Einstein, Perché il socialismo?, pp. 289-290. Oltre a Perché il socialismo?, in On Freedom del 1940, Einstein menzionò anche il punto di vista di «chi approva, come obiettivo, l’estirpazione della razza umana dalla terra». Si tratta di qualcosa, aggiungeva, «che non si può confutare… su basi razionali», poiché elimina le basi per una discussione razionale. Albert Einstein, On Freedom, in Ideas and Opinions, pp. 31-32.
48 Einstein non ci dice cosa intende per pulsioni sociali, ma ci sono ampie ragioni per supporre che fosse incuriosito dall’argomentazione di Veblen in The Instinct of Workmanship. Veblen sottolineava che quelli che venivano spesso chiamati “istinti” erano in realtà pulsioni “tropiche”, derivanti da costituzioni puramente biologiche, che costituivano una parte della psicologia umana, ma che, dal punto di vista della psicologia sociale, erano in definitiva meno importanti delle pulsioni sociali, o “istinti” sociali. Veblen enfatizzò tre pulsioni sociali primarie, che costituivano gli elementi positivi dell’evoluzione culturale umana, e che chiamò “l’istinto del lavoro” (che sta per pulsioni produttive), “l’inclinazione parentale” (pulsioni riproduttive) e “la curiosità oziosa” (pulsioni legate alla ricerca della conoscenza e della scienza). A suo avviso, queste pulsioni sociali erano spesso “contaminate”, in contrasto l’una con l’altra, dando luogo a forme contraddittorie e in ultima analisi insopportabili, come le fasi “predatorie” e “pecuniarie” della cultura, che contrapponevano gli individui alla società accentuando lo “sfruttamento”, l’“emulazione” e l’egoismo. Thorstein Veblen, The Instinct of Workmanship, Augustus M. Kelley, New York, 1914, pp. 1-8, 42-44, 157, 175, 205; Thorstein Veblen, The Place of Science in Modern Civilization, Russell and Russell, New York, 1961, p. 395; C. E. Ayres, Veblen’s Theory of Instincts Reconsidered, in Thorstein Veblen: A Critical Reappraisal, Cornell University Press, Ithaca, New York, 1958, pp. 28-29; Einstein, Perché il socialismo?, pp. 290.
49 Einstein, Perché il socialismo?, p. 292.
50 Einstein, Perché il socialismo?, p. 294.
51 Per Marx la distinzione tra lavoro e forza lavoro, a cui Einstein fa riferimento, è uno degli elementi chiave della sua critica politico-economica. Vedi Karl Marx e Friedrich Engels, Lettere, in Marx Engels, Opere, vol. 42, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2020, pp. 352-353; Einstein, Perché il socialismo?, pp. 294.
52 Einstein, Perché il socialismo?, p. 295. Vedi anche Albert Einstein, Thoughts on the World Economic Crisis, ca. 1930, in Einstein on Politics, p. 415.
53 Vedi anche Einstein, Is There Room for Individual Freedom in a Socialist State?, in Einstein on Politics, p. 437.
54 L’esercito industriale di riserva, il ruolo delle rivoluzioni tecnologiche nel riprodurlo costantemente e la relativa concentrazione e centralizzazione del capitale – proposizioni su cui Einstein fa leva – sono tutti argomenti trattati da Marx nel capitolo 25 del primo volume del Capitale. Vedi Karl Marx, Il capitale, Libro primo, in Marx e Engels, Opere, vol. 30, Edizioni Lotta Comunista, Sesto San Giovanni, 2022, pp. 629-728.
55 Einstein, Perché il socialismo?, pp. 296-297.
56 Einstein, Perché il socialismo?, p. 297.
57 Einstein, Perché il socialismo?, pp. 297-298.
58 Tutti e tre i fondatori della «Monthly Review», Sweezy, Huberman e Nathan, furono coinvolti nell’inquisizione maccartista degli anni Cinquanta. Oltre alla battaglia di Sweezy, che lo portò fino alla Corte Suprema degli Stati Uniti, Huberman fu chiamato davanti alla commissione del Senato dallo stesso McCarthy. A Nathan fu revocato il passaporto americano per due anni e mezzo. Fu anche citato in giudizio dalla Commissione per le attività antiamericane della Camera. Insieme ad altri, come Paul Robeson e Arthur Miller, fu accusato di oltraggio alla Corte per non aver collaborato. Tutti e tre (Huberman, Sweezy e Nathan) si sono basati sul Primo Emendamento, come aveva raccomandato Einstein, e si sono rifiutati di fare i nomi. Leo Huberman, A Challenge to the Book Burners, 14.09.1953, «Monthly Review» 5, n. 4, agosto 1953, pp. 158-73; Geoffrey Ryan, Un-American Activities, «Index on Censorship» 2, n. 3, settembre 1973, pp. 90-91; Jerome, The Einstein File, p. 249.
59 Vedi la nota biografia di Ronald Clark, in cui la politica di Einstein, sionismo a parte, è poco visibile. Clark, Einstein: The Life and Times.
60 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, p. 55; Fred Jerome e Rodger Taylor, Einstein on Race and Racism, Rutgers University Press, New Brunswick, New Jersey, 2005, pp. 8-10, 135-36; Maria Popova, Albert Einstein’s Little-Known Correspondence with W.E.B. Du Bois About Equality and Radical Justice, «The Marginalian», 06.01.2015.
61 Rowe e Schulmann, commento editoriale a Einstein on Politics, p. 479.
62 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, pp. 47-48, 50.
63 Rowe e Schulmann, commento editoriale a Einstein on Politics, p. 408.
64 Einstein, Is There Room for Individual Freedom in a Socialist State?, in Einstein on Politics, p. 437. Einstein ha sempre sostenuto che il socialismo completo, nel senso da lui inteso, non si trova in nessuno Stato esistente. Einstein a John Dudzic, 08.03.1948, in Einstein on Politics, p. 454.
65 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, p. 48; Einstein, Is There Room for Individual Freedom in a Socialist State?, in Einstein on Politics.
66 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, pp. 48-49.
67 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, Le affermazioni secondo cui Einstein non avrebbe avuto contatti con la classe operaia sono facilmente smentite. Si veda la sua conferenza del 1930 alla Scuola operaia marxista di Berlino. Albert Einstein, Causality’: Lecture at the Marxist Workers School 1930 (Note personali di Karl Korsch), tradotte da Sascha Freyberg e Joost Kircz, «Marxism and the Sciences» 3, n. 1, inverno 2024, pp. 207-32.
68 Rowe e Schulmann,introduzione a Einstein on Politics, p. 50, 407.
69 Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, p. 51.
70 Riconoscimento editoriale dell’autore, Einstein, Why Socialism?, p. 9; Rowe e Schulmann, introduzione a Einstein on Politics, p. 47.
71 Rowe e Schulmann, commento editoriale a Einstein on Politics, p. 438.
72 Un esempio di ciò si trova in Arthur H. Reis Jr., The Albert Einstein Involvement, «Brandeis Review: Fiftieth Anniversary Edition», 1998, pp. 60–61.
73 Vedi Walsh, Early Documents of the Formation of Brandeis University.
74 Gran parte della visione generale di Einstein sugli Stati Uniti era senza dubbio simile a quella di Veblen nel suo The Higher Learning in America del 1918, con la sua forte critica ai “consigli di amministrazione” delle università. Veblen, The Higher Learning in America, pp. 59-84. Sweezy aveva senza dubbio incluso un riferimento all’opera di Veblen nel suo progetto Brandeis a sostegno delle proprie critiche a tali consigli di amministrazione. Vedi Sweezy, A Plan for Brandeis University, p. 18.
75 Reis, The Albert Einstein Involvement, p. 61. Einstein si era opposto fin dall’inizio alla nomina di Sachar a presidente di Brandeis, spinta all’epoca da Israel Goldstein, allora presidente sia della Albert Einstein Foundation che del Consiglio di Amministrazione. Nel corso della disputa, Goldstein si dimise da entrambe le cariche e fu sostituito da Lazrus come presidente della Fondazione e da Alpert come Presidente del Consiglio di Amministrazione.
76 Jerome e Taylor, Einstein on Race and Racism, pp. 88-94, 139-42; Simon, Albert Einstein, Radical, pp. 6-7; Fred Jerome, The Einstein File, pp. 79-85.
77 Jerome e Taylor, Einstein on Race and Racism, pp. 119-20.
78 Su Marcantonio, vedi John J. Simon, Rebel in the House: The Life and Times of Vito Marcantonio, «Monthly Review» 57, n. 11, aprile 2006, pp. 24-46; Richard Sasuly, Vito Marcantonio: The People’s Politician, in American Radicals, Harvey Goldberg (a cura di). Monthly Review Press, New York, 1957, pp. 145-59.
79 Shirley Graham Du Bois, citato da Jerome e Taylor, Einstein on Race and Racism, p. 121.
80 Jerome e Taylor, Einstein on Race and Racism, pp. 119-21; Simon, Albert Einstein, Radical, pp. 10-11. Sulle opinioni di W.E.B. Du Bois sul capitalismo statunitense degli anni ’50, vedi W.E.B. Du Bois, Negroes and the Crisis of Capitalism in the U.S., «Monthly Review» 4, n. 12, aprile 1953, pp. 478-85.
81 Albert Einstein alla Regina Madre del Belgio, 02.01.1955, in Einstein on Peace, pp. 615-16; Albert Einstein a Eugene Rabinowitch, 05.01.1951, in Einstein on Peace, p. 553. Non c’è dubbio che Einstein conoscesse le principali analisi critiche sulla guerra di Corea. «Monthly Review» pubblicò valutazioni sulla guerra fin dall’inizio. The Hidden History of the Korean War, di I. F. Stone, fu pubblicato da Monthly Review Press nel 1952. L’anno successivo Einstein si abbonò alla pubblicazione «F. Stone Weekly». Simon, Albert Einstein, Radical, p. 9.
82 Fred Jerome, Einstein on Israel and Zionism, St. Martin’s Press, New York, 2009, pp. 225-32.
83 Samuel Graydon, Einstein’s Complicated Relationship to Judaism, «Time», 19.12.2023.
84 Albert Einstein, Our Debt to Zionism, in Einstein on Politics, p. 301; Albert Einstein, Testimony at a Hearing of the Anglo-American Committee of Inquiry, 11.01.1946, in Einstein on Politics, pp. 344-45; Jerome, Einstein on Israel and Zionism, pp. 4, 29-30.
85 Yorgos Mitralis, When Einstein Called ‘Fascists’ Those Who Rule Israel for the Last 44 Years, Committee for the Abolition of Illegitimate Debt, 31.10.2023; Isidore Abramowitz, Hannah Arendt, Abraham Brick, Jessurun Cardozo, Albert Einstein et al., Lettera al «New York Times», December 04.12.1948, marxists.org.
86 Israel-Gaza War in Maps and Charts: Live Tracker, Al Jazeera, accesso 05.04.2024.
87 Jerome, The Einstein File, pp. 62-68; Dear Professor Einstein: The Emergency Committee of Atomic Scientists in Post-War America, Oregon State University archives, scarc.library.oregonstate.edu.
88 John Bellamy Foster, The Return of Nature, Monthly Review Press, New York, 2020, pp. 502-3; Einstein on Peace, p. 590, 593, 605.
89 Bertrand Russell, Albert Einstein, et al., Russell-Einstein Manifesto, in Einstein on Peace, pp. 632-35.
90 Einstein, Is There Room for Individual Freedom in a Socialist State?, in Einstein on Politics, p. 438; Einstein, Human Rights, 20.02.1954, in Einstein on Politics, p. 497.
91 Steven Schultz, Newly Discovered Diary Chronicles Einstein’s Last Years, «Princeton Weekly Bulletin» 93, n. 25, 26.04.2004; Simon, Albert Einstein, Radical, p. 12.
Inserito il 03/08/2024.
Enrico Berlinguer al XV Congresso del PCI (1979).
Autore della foto: LaPresse.
Fonte della foto: https://tg24.sky.it/politica/2021/01/21/partito-comunista-italiano-centenario#13
Dalla rivista «Dialettica&Filosofia»
di Alexander Höbel
La ricostruzione del percorso che ha attraversato il Partito comunista italiano nell'elaborare una teoria originale del socialismo che si accompagnasse alla lotta per la democratizzazione dell’Italia
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Prima parte
Il Pci, il socialismo e la democrazia
di Alexander Höbel*
Prima parte
1. Antecedenti e presupposti
Nella cultura politica del comunismo italiano il nesso democrazia-socialismo ha sempre rivestito un ruolo centrale1. Il Partito comunista d’Italia, nato con una prospettiva e obiettivi rivoluzionari immediati, si ritrova quasi subito sulla difensiva, di fronte allo squadrismo che avanza e poi alla presa del potere da parte del fascismo. Dopo una prima fase di arroccamento settario e identitario, caratterizzata da una sottovalutazione del fenomeno fascista, il partito è costretto a rimodulare strategia e tattica. Tale
ripensamento – ha scritto Umberto Cerroni – si è svolto nel vivo della lotta contro la tirannide fascista, che ha consentito di scoprire nella sottovalutazione della democrazia politica una delle cause della sconfitta […]. Così, la lotta antifascista si è bensì sviluppata come una lotta anticapitalistica, ma non vi si è identificata, prospettando invece un vasto spazio politico unitario.2
L’evoluzione nell’impostazione dei comunisti italiani è ben sintetizzata nel carteggio, poi raccolto e pubblicato da Togliatti, che prepara La formazione del gruppo dirigente del Pci nel 1923-24: quel nuovo gruppo dirigente che si aggrega attorno ad Antonio Gramsci sulla base di una critica serrata all’impostazione di Amadeo Bordiga, per la quale le altre forze e gli altri soggetti politici costituivano un’unica massa reazionaria, elaborando un approccio diverso, il cui «canone principale» – scriverà Togliatti – «era di non isolare mai il partito […] di non accontentarsi mai delle formule dogmatiche della propaganda né dell’attesa passiva degli avvenimenti, ma sforzarsi sempre di cambiare il corso di questi con un’azione» politica efficace3.
Inizia dunque una elaborazione collettiva sulle possibilità di tappe intermedie della lotta. Nel marzo 1924, scrivendo a Togliatti, Scoccimarro e Leonetti, Gramsci riflette:
Il Parlamento, già screditato ed esautorato per il meccanismo elettorale da cui è sorto, non può discutere di riforme costituzionali, ma ciò può essere fatto solo da una Costituente. È probabile che la parola d’ordine della Costituente ridiventi attuale? Se sì, quale sarà la nostra posizione nei suoi riguardi? Insomma: la situazione attuale deve avere una soluzione politica: quale forma è più probabile che tale soluzione rivesta? È possibile pensare che si passi dal fascismo alla dittatura del proletariato? Quali fasi intermedie sono possibili e probabili? Noi dobbiamo fare questo lavoro di esame politico, dobbiamo farlo per noi e […] per le masse.4
Il primo banco di prova di tale nuova elaborazione è la crisi innescata dal sequestro e dall’omicidio di Matteotti, cui il Pcd’I reagisce proponendo alle forze aventiniane lo sciopero generale e la costituzione dell’assemblea delle opposizioni come «Anti-Parlamento», ponendo così la questione democratica in tutta la sua acutezza, ma anche alludendo a quel dualismo di poteri potenzialmente rivoluzionario che evidentemente intimorì le altre forze antifasciste5.
Contemporaneamente all’evolversi della riflessione sulla strategia da seguire, muta anche – ed è un dato significativo – la concezione del partito. «Il compito essenziale del nostro Partito – scrive Gramsci nel settembre 1924 – consiste nella conquista della maggioranza della classe lavoratrice», e dunque nel «diventare un grande partito», diremmo oggi un partito di massa6. Le Tesi di Lione, opera di Gramsci e Togliatti, costituiscono un primo approdo di tale percorso.
Dopo l’arresto di Gramsci, è ancora Togliatti a esprimere le posizioni più affini alle riflessioni di Gramsci. Nel dibattito della Commissione italiana del Comintern sui modi e sul percorso con cui il fascismo potrà essere abbattuto, Togliatti insiste sulla necessità di parole d’ordine intermedie rispetto alla rivoluzione socialista e alla «dittatura del proletariato», come quella dell’«Assemblea repubblicana sulla base dei Comitati operai e contadini», funzionale alla «conquista delle masse contadine» e in generale all’allargamento dell’egemonia del proletariato ad altri settori sociali7. La risoluzione che conclude il dibattito raccoglie tali sollecitazioni. Non si può lavorare con una sola prospettiva, si osserva, e «la prospettiva più probabile» è che il fascismo sparirà solo «sotto i colpi di una rivoluzione popolare degli operai e dei contadini alleati ad alcuni strati delle classi medie [...] che il nostro partito deve sforzarsi di sviluppare in rivoluzione proletaria»8.
Nella elaborazione del comunismo italiano si fa dunque largo l’idea della rivoluzione antifascista come rivoluzione popolare. Più tardi, nel nuovo clima determinato dall’ascesa di Hitler in Germania e dalla svolta del movimento comunista internazionale in favore dei Fronti popolari antifascisti, l’elaborazione togliattiana sul rapporto tra democrazia e socialismo diventa più sistematica. Si tratta cioè di trarre dalla crisi delle democrazie liberali – di cui pure si vogliono difendere tutte le acquisizioni e conquiste – sviluppi più avanzati nel rapporto tra ampliamento della democrazia e progresso sociale.
Alla vigilia del VII Congresso del Comintern, di cui sarà protagonista assieme al bulgaro Dimitrov, Togliatti scrive:
Perché noi difendiamo le libertà democratiche borghesi? Prima di tutto le difendiamo perché, come partito della classe operaia, non abbiamo «nessun interesse che ci separi dall’assieme del proletariato», e sappiamo benissimo che, per quanto un regime democratico borghese possa essere reazionario, esso è sempre meglio per gli operai di una dittatura fascista aperta […]. Di fronte alla lotta dei gruppi più reazionari della borghesia per liquidare gli ultimi residui delle libertà democratiche borghesi noi non possiamo in nessun modo essere indifferenti. La difesa di queste libertà diventa il terreno storicamente e politicamente indispensabile per il raggruppamento e per l’organizzazione delle forze di massa che noi dobbiamo portare alla conquista del potere.9
Muovendo dunque da una prospettiva limpidamente marxiana (gli interessi della classe operaia mai separati dal resto delle classi lavoratrici, come insegna il Manifesto del Partito comunista), Togliatti cala la sua riflessione teorica nella concretezza della fase storica. Come aveva già detto aprendo a Mosca il Corso sugli avversari, di fronte al fascismo che avanza la «lotta per la difesa delle istituzioni democratiche […] si amplia e diventa lotta per il potere»10; essa, dunque, è parte integrante della lotta per il socialismo.
Ma il punto non è solo quello della lotta al fascismo. Ercoli mette in luce le trasformazioni di fondo in corso in Occidente, a partire dall’avvento di una moderna «società di massa» e alla crisi che esso produce negli ordinamenti dello Stato liberale: un elemento – ha osservato Francesco M. Biscione – che introduce un salto di qualità nella elaborazione togliattiana11. Del resto, come scrive Giuseppe Vacca, il crescente «grado di socializzazione delle forze produttive» e il formarsi della società di massa implicano un «recupero pieno della dimensione democratica della tematica di transizione in Occidente». Si delinea, cioè, «un piano di sviluppo della democrazia per impulso e sotto la direzione della classe operaia, sul quale, soltanto, avanza l’autogoverno dei produttori e prende corpo una trasformazione socialista all’altezza del capitalismo maturo». È insomma «uno sviluppo della ricerca gramsciana», che trova nell’esperienza spagnola un primo banco di prova12. Ed è proprio in Spagna che Togliatti elabora il concetto di «democrazia di nuovo tipo».
Il «fronte popolare antifascista», che costituisce «la forma originale di sviluppo della rivoluzione spagnola nella sua tappa attuale» – scrive Ercoli nel 1936 – tende a costruire una «repubblica democratica» che
non rassomiglia a una repubblica democratica borghese del tipo comune. Essa si crea nel fuoco di una guerra civile nella quale la parte dirigente spetta alla classe operaia […]. Il tratto caratteristico di questa nuova repubblica democratica consiste nel fatto che […] il fascismo […] viene schiacciato dal popolo con le armi […]. In secondo luogo, […] viene distrutta la base materiale del fascismo. Già ora, tutte le terre e le imprese di coloro che appoggiano la rivolta dei fascisti sono state confiscate e messe a disposizione del popolo […] e quanto più i ribelli si ostineranno a guerreggiare contro il governo regolare, tanto più questo dovrà progredire sulla via del disciplinamento di tutta la vita economica […]. In terzo luogo, questa democrazia di nuovo tipo non potrà […] non essere nemica di ogni forma di spirito conservatore. Essa possiede tutte le condizioni che le consentono di svilupparsi ulteriormente.13
È per certi versi un’anticipazione di quanto accadrà in Italia nel 1943-45. Se le classi dominanti reagiscono col fascismo al progresso democratico, allora è il movimento operaio a prendere nelle sue mani la bandiera della democrazia, non per restaurarne le vecchie forme, né per proporre meccanicamente la democrazia dei soviet, ma per costruire, nelle condizioni dei paesi in cui questo processo si sviluppa, una democrazia di tipo nuovo. Essa è caratterizzata da un profondo mutamento nel rapporto di forza tra le classi e dunque nei rapporti di proprietà, dal nuovo ruolo attribuito allo Stato – uno Stato in cui le forze popolari sono egemoni – nell’organizzazione dell’economia; e ancora, da una partecipazione di massa, «dal basso» si direbbe oggi, alla vita democratica, con la costruzione di luoghi e momenti di «potere popolare» alla base della società e dello Stato.
Sono queste le premesse di quella democrazia progressiva che Togliatti pone come obiettivo dei comunisti nel 1944-45, anche sulla scorta della elaborazione sviluppata da Eugenio Curiel e dallo stesso Luigi Longo nel corso della lotta partigiana14. Come «Ercoli» afferma nella relazione al V Congresso, nel dicembre del ’45, nella lotta antifascista «le classi lavoratrici hanno conquistato un alto grado di coscienza politica e di organizzazione, e quindi avanzano rivendicazioni economiche sostanziali, esigendo che un particolare contenuto economico venga dato alla organizzazione democratica dello Stato». Dunque «la nostra democrazia non può […] essere una democrazia qualsivoglia, ma deve avere un contenuto di trasformazioni economiche molto precise». In particolare, lo Stato dovrà «prendere nelle sue mani la grande industria monopolistica e rendere effettivo il suo controllo di tutto il sistema bancario». La prospettiva peraltro non è quella di un mero dirigismo dall’alto. Togliatti chiede «che sin da ora siano fatti intervenire rappresentanti operai e tecnici nella direzione della produzione […] perché soltanto attraverso una partecipazione democratica dei lavoratori a questa trasformazione economica possiamo garantire che essa abbia luogo»15.
Come ha scritto Giuseppe Vacca, la democrazia progressiva è nella sua elaborazione la «forma della transizione al socialismo in Occidente»16. È una prospettiva che il Segretario del Pci sviluppa prima nel suo contributo ai lavori dell’Assemblea costituente, poi nella riflessione sulla via italiana come via democratica al socialismo che trova un significativo punto di approdo nel 1956. In quell’anno drammatico Togliatti accenna alcune innovazioni anche di tipo teorico:
Prima Marx ed Engels e in seguito Lenin […] affermano che l’apparato dello Stato borghese non può servire a costruire una società socialista […] deve essere dalla classe operaia spezzato e distrutto […]. Questa non era la posizione originaria di Marx ed Engels: fu la posizione cui essi giunsero dopo la esperienza della Comune di Parigi e fu particolarmente sviluppata da Lenin. Questa posizione rimane pienamente valida, oggi? Ecco un tema di discussione. Quando noi, infatti, affermiamo che è possibile una via di avanzata verso il socialismo non solo sul terreno democratico, ma anche utilizzando le forme parlamentari, è evidente che correggiamo qualche cosa in questa posizione, tenendo conto delle trasformazioni che hanno avuto luogo.17
Ma quali sono tali trasformazioni? Si trattava in sostanza dell’essere venuto meno, in molti paesi, di Stati rigidamente monoclasse, per cui ora anche le istituzioni e gli apparati dello Stato diventano un terreno sul quale si apriva una dialettica, una lotta tra le classi. È un’innovazione teorica di non poco conto, che recepisce sollecitazioni provenienti da settori del partito e della sua intellettualità, e che sarà oggetto delle critiche cinesi a Togliatti. Anche sul pluripartitismo, il leader del Pci fa affermazioni impegnative: «Ammettiamo senza difficoltà che in una società dove si costruisce il socialismo possano esserci diversi partiti, di cui alcuni collaborino a questa costruzione», e che «la estinzione stessa dei partiti» potrebbe giungere solo «in conseguenza dell’affermarsi di una società socialista unitaria, come il risultato di un processo che investa ugualmente tanto il partito comunista quanto gli altri partiti che con esso collaborano». Quanto alla «via italiana», essa ha nella Costituzione un cardine fondamentale, anche perché l’attuazione del dettato costituzionale delineerebbe di per sé «una democrazia di tipo nuovo». In questo senso la linea del Pci è una linea «di conseguente sviluppo democratico […] nella direzione del socialismo attraverso l’attuazione di riforme di struttura previste dalla Costituzione». La natura radicalmente democratica della strategia del Pci viene dunque ribadita a chiare lettere. Essa – precisa Togliatti – non si identifica con la «via parlamentare», e tuttavia
l’utilizzazione del parlamento è una delle possibilità […] per ottenere delle profonde riforme di struttura. Perché questa possibilità possa realizzarsi occorrono però determinate condizioni. Occorre un parlamento che sia veramente specchio del paese […] e occorre un grande movimento popolare che faccia sorgere dal paese quelle esigenze che poi possano essere soddisfatte da un parlamento in cui le forze popolari abbiano ottenuto una rappresentanza abbastanza forte.
Occorre inoltre che
venga spezzato […] tutto quel sistema di costrizioni, di coercizioni, di intimidazioni, di terrorismo spirituale, cui si ricorre in Italia in misura sempre più larga […]. Dobbiamo tener presente quello che diceva Lenin circa il carattere illusorio della democrazia borghese. Noi possiamo oggi mettere fine, in parte e anche in gran parte, a questo carattere illusorio, possiamo cioè creare un terreno veramente democratico sul quale si possa vittoriosamente svolgere la lotta per il socialismo, così come prevedevano i classici del marxismo. Ma perché si crei questo terreno, perché esso terreno esista e sia ampio, anche per questo è necessaria una forte lotta delle masse, una larga azione nel paese.18
L’ultimo Togliatti torna su questi temi, ai quali si aggiunge quello dei nuovi margini d’azione aperti dalle tendenze alla programmazione economica fatte proprie anche dal centro-sinistra. Togliatti è consapevole che gli esiti della lotta sono incerti: si potrà andare verso una programmazione capitalistica, tecnocratica, neocorporativa e potenzialmente autoritaria, che esautori parlamenti e partecipazione democratica; oppure verso una programmazione democratica dell’economia, la quale «tende con misure di controllo e di intervento nella sfera delle decisioni economiche [...] a passare gradualmente alla collettività il potere di decisione relativo ai più grossi problemi»19.
In Europa occidentale, dunque – afferma nell’aprile 1964 – occorre dare alla democrazia
un contenuto nuovo […] di partecipazione diretta delle masse ad una attività di controllo e direzione dell’economia, di […] attribuzione di nuovi compiti alle organizzazioni dei lavoratori, di rinnovamento di tutto l’ordine civile e sociale. In questo modo leghiamo fin d’ora […] la causa del socialismo a quella della democrazia.20
Nel momento in cui avanzano tendenze programmatrici, aggiunge nel Promemoria di Jalta,
la lotta per la democrazia viene ad assumere […] un contenuto diverso […], più legato alla realtà della vita economica e sociale. La programmazione capitalistica è infatti sempre collegata a tendenze antidemocratiche e autoritarie, alle quali è necessario opporre […] un metodo democratico anche nella direzione della vita economica. […] Sorge così la questione della possibilità di conquista di posizioni di potere, da parte delle classi lavoratrici, nell’ambito di uno Stato che non ha cambiato la sua natura di Stato borghese e quindi se sia possibile la lotta per una progressiva trasformazione, dall’interno, di questa natura. In Paesi dove il movimento comunista sia diventato forte come da noi (e in Francia), questa è la questione di fondo.21
È questa, dunque, la sfida che egli lascia ai suoi eredi, che negli anni della segreteria di Luigi Longo declineranno il nesso democrazia-socialismo articolando nel dettaglio la prospettiva della programmazione democratica, concepita come l’esito di elaborazioni e proposte provenienti «dal basso» – comitati regionali per la programmazione, enti locali, organizzazioni sindacali, ecc. – poi coordinate in un quadro organico; programmazione democratica dunque per il metodo, ma anche per l’obiettivo, che consiste nel sottrarre potere ai grandi gruppi economici per condurre i processi di trasformazione sotto il controllo della collettività, nel tentativo di rendere effettivo il modello di «democrazia sociale» presente nella Costituzione. Il Pci lavora dunque per una democrazia che, pur essendo fortemente e autenticamente rappresentativa, comprenda e anzi stimoli il sorgere di luoghi e momenti di democrazia diretta, partecipata, attraverso forme di gestione e controllo da parte di cittadini, lavoratori e sindacati in gangli vitali della società: l’impresa pubblica e le Partecipazioni statali, il sistema previdenziale, il collocamento, la sanità, fino ad arrivare a scuola, Università e Rai Tv. La prospettiva è dunque quella di una democratizzazione avanzata dello Stato e della società, una rete di autonomie, di luoghi di gestione da parte dei lavoratori organizzati, che allude a un sistema sociale nuovo22. Sono questi, in un contesto diverso, gli «elementi di socialismo» di cui parlerà Berlinguer. Si tratta cioè di costruire un sistema di «casematte», secondo la concezione gramsciana, e di porre così le basi di un processo di transizione maturo in un paese a capitalismo avanzato.
(1/2. Segue)
Alexander Höbel*
* Università degli Studi di Sassari.
(Tratto da: Alexander Höbel, Socialismo e democrazia nella cultura politica del comunismo italiano: gli anni Settanta, in «Dialettica&Filosofia», Nuova Serie, XVIII, 2024).
Note
1 Ferrara (2017).
2 Cerroni (1978, 125).
3 Togliatti (1997, 54).
4 Togliatti (2021, 203).
5 Spriano (1967, 407-412).
6 Gramsci (1978, 104-105).
7 Ragionieri (1976, 278-284); Agosti (1998, 50-54).
8 Agosti (1976, 707-710).
9 Togliatti (1973, 725).
10 Togliatti (2010, 7-8).
11 Biscione (2010).
12 Vacca (1974, 244-245).
13 Togliatti (1976, 150-152).
14 Cfr. Höbel (2015).
15 Togliatti (1984a, 211-215).
16 Vacca (1974, 243).
17 Togliatti (1984a, 167-168).
18 Ivi, 168-174.
19 Ivi, 812-815.
20 Ivi, 783-811.
21 Ivi, 823-833.
22 Cfr. Höbel (2010), Gambilonghi (2017a).
Inserito il 28/07/2024.
di Alexander Höbel
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Seconda parte
Il Pci, il socialismo e la democrazia
di Alexander Höbel*
Seconda parte
2. Democrazia, socialismo, compromesso storico
Alla fine degli anni Sessanta il ruolo centrale del Pci nella società e nella politica italiana, fattore che con il centro-sinistra si era cercato di «sterilizzare», si ripropone con forza. Il tentativo di isolare i comunisti è fallito, alle elezioni del 1968 il Partito comunista – col Psiup al Senato e con vari «indipendenti di sinistra» – ha sfiorato il 27%, ottenendo molti consensi tra i giovani.
La strategia gramsciana dell’egemonia, la lunga guerra di posizione condotta per un quarto di secolo hanno dunque prodotto risultati rilevanti. Il Pci deve ora consolidare e ampliare le posizioni acquisite, costruire un nuovo blocco storico e un corrispondente sistema di alleanze, e soprattutto passare dalla lotta per l’egemonia nella società a quella che riguarda lo Stato. Sul piano parlamentare, l’accresciuta forza del gruppo comunista, assieme al nuovo regolamento approvato nel 1971 che richiede larghe maggioranze sull’agenda dei lavori, sembra andare in tale direzione23. La questione comunista sta per diventare centrale. Fra i primi a rendersene conto sono due dirigenti democristiani. Già tra la fine del 1968 e l’inizio del ’69, dunque, Aldo Moro lancia la «strategia dell’attenzione» verso il Pci. Dal canto suo, Ciriaco De Mita propone un «nuovo patto costituzionale», centrato anch’esso sul dialogo col Pci24.
Intanto la società italiana si sta trasformando. Nel 1970 entrano in vigore lo Statuto dei lavoratori, le Regioni, la legge istitutiva del referendum e quella che introduce il divorzio; ma nello stesso anno si susseguono anche la rivolta di Reggio Calabria, la strage di Gioia Tauro e il tentato golpe Borghese. Nel marzo 1971 Milano è teatro della prima manifestazione della «maggioranza silenziosa». Alla fine dell’anno, Giovanni Leone è eletto presidente della Repubblica coi voti dell’Msi.
Proprio nei giorni delle votazioni per il Presidente, però, il dialogo Moro-Berlinguer vede un primo colloquio riservato che rivela una significativa sintonia. Moro afferma che il suo ruolo «coincide con il compito che Berlinguer si è prefisso: modificare le strutture, le formule politiche, gli stessi partiti lungo una prospettiva di movimento»; tuttavia su questo terreno bisogna portare l’intera Dc. Il segretario comunista concorda, ma teme «che i tempi possano essere troppo lunghi rispetto ad una realtà grave» e pericolosa25.
Nel 1972, mentre è in corso la campagna elettorale per le prime elezioni anticipate della storia repubblicana, le Brigate rosse realizzano la loro prima azione clamorosa, il breve sequestro Macchiarini. Intanto il Pci apre a Milano il suo XIII Congresso, nelle stesse ore in cui il cadavere di Feltrinelli viene ritrovato accanto a Segrate. Dopo tre anni da vicesegretario al fianco di Luigi Longo, Enrico Berlinguer è eletto segretario generale. Nella sua relazione sottolinea le grandi potenzialità di sviluppi positivi e i rischi altrettanto forti di un esito regressivo.
Solo dei dilettanti della rivoluzione – afferma – potevano non rendersi conto che nel momento in cui il movimento delle masse cominciava a intaccare alcuni degli equilibri essenziali dell’attuale sistema sociale, e [...] si apriva la prospettiva di un crollo del pilastro su cui si regge da oltre venti anni l’attuale sistema del potere – [...] la pregiudiziale anticomunista – [...] il sistema stesso [...] avrebbe reagito con tutti i mezzi. Perciò, più che mai decisivo diveniva a questo punto il problema delle alleanze sociali [...] e del rapporto di forze sul terreno politico.
La prospettiva, per Berlinguer, è quella di «costruire una nuova tappa, più avanzata, della democrazia, e quindi del cammino verso il socialismo, e di porre quindi la classe operaia alla testa di un ampio blocco di forze sociali, politiche, ideali»26. Occorre dunque «una svolta democratica, che muti i fini e la qualità dello sviluppo [...] cambi la collocazione delle masse lavoratrici nella vita nazionale, dia una nuova direzione politica al paese»; ed essa «può essere realizzata solo con la collaborazione tra le grandi correnti popolari: comunista, socialista, cattolica». I comunisti possono partecipare a un governo per «fronteggiare un attacco reazionario» o in presenza di «condizioni che consentano di attuare un programma rinnovatore […]. La natura della crisi italiana è tale che queste due condizioni tendono oggi a coincidere»27.
La tematica del compromesso storico è dunque di fatto già enunciata. La rottura degli equilibri su cui si era retta la società italiana è percepita chiaramente da Berlinguer, e questo lo accomuna a Moro. A partire dal ’68, «socializzazione estrema della politica e domanda di accesso a un sistema bloccato hanno assunto la forma di una critica radicale del sistema dei partiti»28; ma hanno fatto anche emergere energie nuove, che vanno incanalate in un alveo politico. Non a caso Berlinguer indica «il fatto nuovo» da cui partire nei movimenti di massa e nei processi unitari in corso sul piano politico, col Psiup, i «socialisti autonomi», il Movimento politico dei lavoratori. «È la prima volta, dopo un decennio», che la Dc deve confrontarsi «con uno schieramento a sinistra, che tende a realizzare un’intesa di fondo», e da qui bisogna muovere per «fare avanzare una alternativa di governo, basata sulla collaborazione delle grandi correnti popolari, democratiche, antifasciste»29.
I mesi successivi sono però quelli del governo Andreotti-Malagodi, un tripartito Dc-Pli-Psdi che Berlinguer vede come un simbolo della «controffensiva conservatrice», denunciando alla Camera – nelle ore in cui i treni per Reggio Calabria organizzati dai sindacati sono colpiti da sabotaggi e attentati – il persistere di «un disegno criminoso di eversione antidemocratica», con «connivenze e inquinamenti anche nei corpi più delicati dello Stato»30.
Nel febbraio 1973, 300.000 metalmeccanici invadono Roma per il rinnovo del contratto; al termine della vertenza otterranno l’inquadramento unico operai/impiegati, le 150 ore, il registro dei dati ambientali e i libretti sanitario e di rischio; è il «migliore contratto del dopoguerra», e la crescita di prestigio di sindacati e Pci presso i lavoratori è confermata dai dati31. La strage della questura di Milano, dove è preso di mira un dirigente democristiano come Mariano Rumor, conferma d’altra parte, che le tendenze eversive e la strategia della tensione sono più che mai operanti. Di lì a poco, il XII Congresso della Dc, col «patto di palazzo Giustiniani» per la gestione unitaria del partito con Fanfani segretario riporta Moro in una posizione centrale. A luglio si costituisce un governo Rumor di centro-sinistra, con Moro ministro degli Esteri.
È in questo quadro che matura la proposta del compromesso storico. L’influenza dei «fatti del Cile», com’è noto, non è secondaria. All’indomani del golpe di Pinochet, in una nota per il gruppo dirigente, Giancarlo Pajetta scrive: «Il Cile è una cosa vicina», ma il contesto italiano è diverso:
Noi non poniamo degli obiettivi socialisti nella attuale situazione, noi poniamo degli obiettivi di democrazia avanzata [...] per poter andare verso il socialismo [...] Noi abbiamo posto e poniamo il problema delle alleanze [...] l’esperienza cilena dimostra [...] l’indispensabilità di una politica di alleanze, e dimostra che non c’è politica di alleanze senza un compromesso.32
È una concezione condivisa da gran parte del gruppo dirigente, nel solco della strategia togliattiana. La stessa impossibilità di governare col 51% è già stata messa in luce da Chiaromonte su Rinascita33. La linea del compromesso storico non è dunque una sortita improvvisa, né una creazione esclusiva del segretario, ma il frutto di un’elaborazione collettiva.
Non a caso, negli articoli sul Cile, Berlinguer si richiama a Gramsci e Togliatti. «Il compito nostro» – scrive – è «quello di estendere il tessuto unitario, di raccogliere attorno a un programma di lotta per il risanamento e rinnovamento democratico [...] la grande maggioranza del popolo», e un corrispondente schieramento politico34. Nell’ultimo dei tre scritti, rifacendosi stavolta a Lenin, Berlinguer sottolinea l’importanza di una «esatta valutazione dello stato dei rapporti di forza» e «del quadro complessivo», anche internazionale. «Determinante» è la politica delle alleanze, e in particolare la collocazione dei «ceti intermedi» ma anche di altre «forze sociali [...] le donne, i giovani [...] le masse popolari del Mezzogiorno, le forze della cultura, movimenti di opinione». Occorre conquistare a un programma di rinnovamento «il consenso della grande maggioranza», in modo da poter reggere gli inevitabili contraccolpi; «evitare che si giunga a una saldatura [...] tra il centro e la destra, a un largo fronte [...] clerico-fascista», spostando le forze di centro «su posizioni coerentemente democratiche».
Sarebbe del tutto illusorio pensare che, anche se [...] le forze di sinistra riuscissero a raggiungere il 51% dei voti [...] questo fatto garantirebbe [...] un governo che fosse l’espressione di questo 51%. Ecco perché noi parliamo non di una «alternativa di sinistra» ma di una «alternativa democratica», e cioè [...] di una collaborazione e di una intesa delle forze popolari di ispirazione socialista e comunista con le forze popolari di ispirazione cattolica, oltre che con formazioni di altro orientamento democratico.
Di qui, dunque, la necessità di un «nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono [...] la maggioranza del popolo italiano»35.
Nella lettura di Barca, è una prospettiva largamente coincidente con quella di Moro. «È il disegno di portare l’Italia ad una democrazia compiuta attraverso trasformazioni che tocchino la Dc e il Pci e [...] portino per un certo tempo i due partiti a stare insieme nella maggioranza», in funzione di una reciproca legittimazione che preluda a «una normale e democratica alternativa»36.
Nel 1974 la vittoria del No nel referendum sul divorzio, anche col contributo di molti cattolici, rafforza tale prospettiva. Berlinguer, tuttavia, paventa una controffensiva reazionaria: «Non mancheranno – afferma – [...] reazioni e tentativi di rovesciare questa situazione sia nel campo economico e sociale sia su quello delle provocazioni e della strategia della tensione»37. Due settimane dopo, la strage di Piazza della Loggia conferma i suoi timori. Nel rapporto al Cc di dicembre, che lancia il XIV Congresso, Berlinguer parte dalla «crisi di tipo nuovo nei paesi capitalistici», e dall’«avanzata del processo di liberazione dei popoli del Terzo mondo» che mette in discussione un modello di sviluppo basato sulla rapina delle risorse. La logica capitalistica, osserva, «tende a spingere le cose verso sbocchi catastrofici». Ne deriva «l’esigenza di trasformazioni in senso socialista» anche nell’Occidente avanzato38. Quanto all’Italia, occorre «una profonda trasformazione della direzione politica» del Paese, con la «partecipazione delle classi lavoratrici e di tutte le loro formazioni di massa e politiche più rappresentative alle decisioni fondamentali della politica nazionale». Sul piano economico, Berlinguer rivendica «una effettiva programmazione dello sviluppo, affidata a un saldo e autorevole potere democratico», in grado di «sottrarre alle concentrazioni monopolistiche […] il potere di determinare […] gli indirizzi dello sviluppo generale del paese», introducendo «alcuni elementi che sono propri del socialismo». Nella sua concezione, «la costruzione di un assetto sociale superiore […] può e deve svolgersi senza scalfire nessuna delle libertà sancite dalla nostra Costituzione, e rispettando i principi e le regole democratiche da essa stabilite». Anzi,
un processo di superamento progressivo della logica del capitalismo costituisce un consolidamento e favorisce una continua espansione della vita democratica, in quanto riduce via via il potere di tipo oligarchico dei gruppi economici e politici finora dominanti, sviluppa al massimo la partecipazione consapevole, il senso di responsabilità e l’iniziativa di tutti gli strati popolari e dei singoli cittadini e allarga il consenso e le basi sociali dello Stato.
Si tratta insomma di riprendere il cammino interrotto nel 1947, e realizzare «una nuova tappa della rivoluzione democratica antifascista che introduca nella società elementi di socialismo»39.
In linea con Togliatti – osserva Vacca –, Berlinguer intende dunque il compromesso storico «come una strategia di transizione, rivolta ad introdurre trasformazioni economiche e politiche di tipo democratico e socialista. L’elemento antagonistico (verso la Dc) e alternativo (rispetto al suo sistema di potere) è delineato con chiarezza e si può combinare con convergenze parziali», nel quadro di una «lotta per l’egemonia» tutta giocata sul terreno «della democrazia politica»40. Sulla stessa linea è anche Cerroni:
La strategia del compromesso storico è ben altro da una formula tattica imposta da uno stato di forza maggiore. Implica invece una nuova idea del socialismo e del processo di transizione […].
Questa strategia nuova del socialismo evoluto ha come suo perno il rapporto nuovo che viene ad istituirsi fra socialismo e democrazia politica.41
Nella elaborazione del comunismo italiano, «lo sviluppo della democrazia politica facilita lo sviluppo del movimento operaio e un socialismo costruito con il metodo della democrazia politica esenta da pericoli, errori, crimini tragedie che altrove non sono stati evitati». Nel contesto specifico dell’Italia di quegli anni, il «nuovo “contratto politico”» proposto da Berlinguer è «esplicito»: «il Pci conferma l’accettazione indiscutibile de metodo democratico e il rispetto del pluralismo politico […] chiedendo in cambio […] un identico rispetto del metodo democratico nei confronti del movimento operaio e il riconoscimento della legittimità di una prospettiva socialista per il paese»42.
In tale contesto, è evidente che il primo passo necessario, la conditio sine qua non, è per Berlinguer il «superamento definitivo delle pregiudiziali contro il Pci»43, ossia della famigerata conventio ad excludendum frutto avvelenato della Guerra fredda, dell’assetto bipolare e della «sovranità limitata» dell’Italia all’interno del blocco atlantico. È chiaro, dunque, che tale prospettiva può affermarsi solo in un quadro di avanzamento della distensione e di un allentamento delle rigidità interne ai due blocchi. Il tentativo convergente di Moro, esplicitato durante il viaggio con Leone negli Stati Uniti, si scontra però con la contrarietà e il pesante monito di Kissinger44.
Al XV Congresso, nel marzo ’75, Berlinguer rilancia la proposta. Nel suo rapporto enfatizza lo «sviluppo della democrazia di base» in atto, dai Consigli di fabbrica e di zona ai nuovi organi di autogoverno delle scuole, il quale può dare impulso anche alla «rigenerazione» dei partiti45. D’altra parte, poiché al rinnovamento in corso
si oppongono gruppi economici e politici ristretti ma assai potenti e aggressivi, è indispensabile isolarli, impedire che essi abbiano basi di massa: ecco perché noi sosteniamo che si deve creare una grande maggioranza che comprenda tutte le forze popolari e democratiche.
Né il Pci mira a un accordo con Dc «che tenda ad escludere i socialisti. Al contrario – precisa – noi concepiamo l’unità politica della classe operaia come asse della strategia del “compromesso storico”», dal momento che «la mèta» finale è «l’avvento del movimento operaio nel suo insieme alla direzione politica della società e dello Stato»46. È una prospettiva che accomuna il Pci agli altri due partiti coi quali Berlinguer tenta di sviluppare il percorso dell’eurocomunismo, che trova proprio nel nesso democrazia-socialismo il suo asse centrale.
Tre mesi dopo, la grande avanzata del Pci nelle elezioni amministrative del 1975, che si aggiunge all’ottimo risultato del candidato comune delle sinistre, François Mitterrand alle elezioni presidenziali francesi dell’anno precedente e all’avvio in Spagna della transizione post-franchista, rafforza tale ipotesi. La stagione delle «giunte rosse», che talvolta sono di più larga unità democratica, determina un salto di qualità nel ruolo degli enti locali nella democrazia italiana e della stessa partecipazione popolare. Negli stessi mesi, la riforma democratica della Rai, finalmente sottoposta al controllo parlamentare, costituisce un altro importante successo delle lotte condotte dal Pci negli anni precedenti47.
Il crescente peso politico, peraltro, pone al Pci problemi inediti. Come rispondere ad aspettative così grandi e diversificate? Come conservare il proprio carattere di partito di lotta avendo un ruolo di governo in molti enti locali?
Alla fine del 1975, intanto, Norberto Bobbio, dalle colonne di «Mondo operaio», avvia la discussione sulla teoria marxista dello Stato e la democrazia rappresentativa, presentata di fatto come un sistema difettoso ma privo di alternative. Quanto alla teoria marxista dello Stato, l’intellettuale liberalsocialista ne nega l’esistenza, imputando a tutta la cultura politica comunista, Pci compreso, una inadeguatezza di elaborazione su tale tema fondamentale. Replicando a Bobbio, Pietro Ingrao rivendica il percorso compiuto dal Pci e torna sulla complementarità di «democrazia di base» e democrazia rappresentativa. Il punto centrale, per il dirigente comunista, è «la costruzione di una democrazia capace di cambiare il regime sociale», nella quale «gli organismi di democrazia di base» (comitati di quartiere e di zona, consigli operai, ecc.) siano «una componente condizionante della democrazia rappresentativa», strumenti di «ricomposizione del corpo sociale» e concretizzazione della «sovranità popolare». Il tema, cioè, è quello di una «democrazia di massa» che ricomponga la frattura tra sociale e politico, anche grazie alla rete delle autonomie locali e alla centralità di un Parlamento realmente rappresentativo48.
Intanto il Centro di studi e iniziative per la riforma dello Stato promosso dal Pci approfondisce l’analisi su tali temi: dalla «democrazia dei produttori» come «intreccio di democrazia delegata con varie forme di democrazia diretta» in grado di ottenere una «riappropriazione della politica da parte delle masse», con la delega ricondotta a «mediazione tecnica della ricomposizione politica» di una società articolata e complessa49; al «governo democratico dell’economia». Nel convegno del Crs dedicato a tale tema, nell’aprile 1976, il giurista Francesco Galgano rilancia il tema del «controllo (sociale) sulle attività economiche» e dunque sulle grandi imprese, previsto dall’articolo 41 della Costituzione, e dello stesso controllo operaio, per il quale – afferma – «i tempi sono maturi». Intanto, afferma, «occorre restituire al parlamento, o a sue interne articolazioni […] la funzione di indirizzo e di controllo dell’attività economica pubblica»50. Nelle conclusioni, Ingrao rileva che «la grande crescita democratica, che si è compiuta nel paese […] sembra trovare […] il suo limite» nella «difficoltà ad orientare il processo produttivo, […] avviando davvero la fondazione di una nuova sovranità popolare». Il Pci tenta di superare tale limite valorizzando al massimo le assemblee elettive, poiché «assemblea vuol dire […] anche legittimazione dell’antagonista di classe», spostamento di una dialettica sociale sul piano istituzionale. Peraltro, anche «la rete della democrazia di base […] ha bisogno di trovare a livello della rappresentanza politica generale interlocutori che siano esposti ad una influenza e ad un controllo […] e che siano al tempo stesso capaci di sintesi unificanti sul terreno del ruolo e delle dimensioni nuove dello Stato». Ma «un regime di assemblee, che si cimenti con il tema della programmazione dello sviluppo […] domanda che siano riqualificate le connessioni tra l’uno e l’altro momento della vita delle assemblee elettive», tra le due Camere e tra queste ultime, le Regioni e le autonomie locali51.
In sostanza, il Pci torna a «prospettare il socialismo come una esplicitazione e un prolungamento ideale e politico di un filone della Costituzione», quello democratico-sociale52.
3. La strategia egemonica dalla società allo Stato. La parabola della «solidarietà democratica»
Le elezioni del 20 e 21 giugno 1976 sono quelle «dei due vincitori», con la Dc che risale al 38.7% e il Pci che giunge al 34.4%, mentre il Psi si ferma al 9.6%. Sebbene la ripresa democristiana sia andata oltre le aspettative, è il successo del partito di Berlinguer l’elemento nuovo e caratterizzante.
Ai comunisti sono affidate la presidenza della Camera, alla quale è eletto Ingrao, e le presidenze di varie commissioni; e il fatto che tali decisioni sono assunte in riunioni dei partiti dell’arco costituzionale (Dc, Pci, Psi, Psdi, Pri e Pli) rappresenta anch’esso una svolta. Tuttavia, molte sono le incognite. Le pressioni internazionali tornano a farsi sentire, con la divulgazione da parte del cancelliere tedesco Schmidt del veto posto dalle potenze occidentali all’ingresso dei comunisti al governo nel vertice G7 di Portorico53.
A ricevere l’incarico di formare il governo, intanto, è Giulio Andreotti. Dopo un colloquio con Bufalini, si giunge all’incontro con Berlinguer, che fa emergere una prima convergenza: il leader comunista ribadisce che il Pci non intende mettere in discussione l’appartenenza dell’Italia alla Nato; Andreotti, dal canto suo, afferma che l’eventuale astensione del Pci sul suo governo sarebbe «un primo passo verso l’abbandono della pregiudiziale anticomunista»54.
Nel Psi, intanto, il Comitato centrale del Midas ha visto il siluramento di De Martino e l’ascesa di Craxi alla guida del partito. Il nuovo leader socialista non è certo un amico del Pci, e lo mette subito in chiaro. Il quadro, dunque, è molto complesso. A fine luglio Andreotti vara il suo dicastero, un nuovo monocolore dc. Il Pci decide, con la sua astensione, di far nascere il governo.
Nel Sarto di Ulm, Lucio Magri rileverà il paradosso di un monocolore dc come prima soluzione successiva all’avanzata comunista55. Ma lo stesso Berlinguer, nel discorso alla Camera, sottolinea che «la storia reale e la vita politica vanno avanti anche attraverso i paradossi». Il segretario comunista, che pure dà un giudizio severo sulla compagine governativa e sul programma, sottolinea che «per la prima volta da quasi trent’anni questo è un governo che non nasce sulla base della pregiudiziale anticomunista; ma anzi, di fatto, nasce e può vivere [...] solo se e in quanto quella pregiudiziale viene del tutto abbandonata». Per Berlinguer, «il paese è entrato in una delicata fase di transizione», e occorre impegnarsi perché se ne «esca andando avanti, verso un Governo di collaborazione democratica»56.
Commenterà Chiaromonte: «Diventammo forza determinante per la vita del governo. Veniva così superata, almeno in parte, la discriminazione anticomunista che, per circa tre decenni, aveva distorto tutta la vita politica e parlamentare»57. Si apre dunque una stagione delicata e complessa, ma anche drammatica, per l’intreccio tra crisi economica, inflazione galoppante e l’escalation della violenza politica che colpisce il Paese. Il Pci ha dinanzi a sé il difficile compito di essere al contempo partito «di lotta e di governo»58.
Il 1977 porta con sé problemi e conflitti più che nuove possibilità. L’anno si apre coi discorsi di Berlinguer al convegno dell’Eliseo con gli intellettuali e nell’incontro con gli operai a Milano sull’austerità come «occasione per trasformare l’Italia» e avviare un nuovo tipo di sviluppo, fondato sula prevalenza dei servizi sociali rispetto ai consumi individuali59. Poche settimane dopo, l’aggressione al comizio di Lama all’Università di Roma costituisce uno degli episodi emblematici della distanza creatasi tra movimento operaio e parte delle nuove generazioni, ma anche di quella spirale di violenza che dura da mesi e di cui il Pci, le sue sedi, i suoi militanti, sono sempre più spesso il bersaglio. Come osserva Giuseppe Fiori, è un vero e proprio accerchiamento, a cui partecipano anche i leader di Cisl e Uil60.
Nei suoi diari Barca commenta: «Il clima che la cacciata di Lama dall’Università alimenta è quanto mai pesante e negativo. Il condizionamento della violenza sulla politica [...] è anche maggiore di quanto non appaia. [...] È tutta la scala delle priorità [...] che è sconvolta e sopraffatta dalla straordinarietà»61. Di fatto, chi sostiene di voler «elevare il livello dello scontro» contribuisce invece ad abbassarlo sul piano qualitativo, costringendo il Pci e il movimento operaio sulla difensiva, e dunque favorendo un arretramento complessivo del quadro politico.
In un convegno del Pci sullo Stato e le trasformazioni della società italiana, del maggio 1977, Achille Occhetto afferma che «lo Stato e le sue istituzioni democratiche sono chiamati a guidare […] la rivolta dei valori d’uso» rispetto al dominio capitalistico dei valori di scambio, ossia «ad orientare il processo produttivo verso il soddisfacimento […] di quella nuova domanda che cresce dal corpo della società»: una domanda di stato sociale, istruzione, cultura, trasporti pubblici efficienti, relativa cioè «a quei bisogni che non sono stati considerati economici dalla società capitalistica». In tal senso, «pianificazione economica e riforma democratica dello Stato si presentano come parti integranti dello stesso progetto di trasformazione della società»62.
Il Pci intanto preme per un «accordo programmatico» tra i sei partiti. A fine aprile, grazie alle pressioni di Moro, la Direzione dc accetta. Per i comunisti, «è il primo passo per trasformare il governo delle astensioni in una maggioranza programmatica»63. Dopo varie riunioni tra i partiti, e in un crescendo di attentati, si giunge infine a un documento condiviso, che a luglio viene approvato dal Parlamento64. Tre mesi dopo, la Camera vota un’altra mozione unitaria, stavolta sui temi di politica estera: è la prima volta dal 1947. Assieme al discorso che Berlinguer tiene a Mosca per il 60° della Rivoluzione d’Ottobre, nel quale afferma che la democrazia è il «valore storicamente universale sul quale fondare un’originale società socialista», è un atto che potrebbe far venire meno gli ultimi veti all’ingresso del Pci nel governo. Il leader repubblicano La Malfa è il primo a chiedere che tale passo sia fatto, e lo stesso Moro, durante un comizio, afferma che «sarebbe interessante sapere quale sarà la democrazia socialista che potrebbe coinvolgerci al termine di un imprevedibile processo storico»65.
I tempi sembrano quindi ormai maturi. A fine novembre Bufalini e Barca incontrano Moro «in forma ufficiosa». Il Pci non è più disposto all’appoggio esterno: o entra in maggioranza o tornerà all’opposizione. Moro ribadisce che le condizioni non sono ancora mature, ma si impegna a fare di tutto per convincere Stati Uniti e Dc66.
Si giunge così al fatidico 1978. All’inizio dell’anno c’è un nuovo incontro, a casa di Tullio Ancora, tra Moro e Berlinguer. Il leader democristiano tenta di convincere il segretario comunista ad attendere ancora, ma Berlinguer conferma l’orientamento assunto67. Pochi giorni dopo, a seguito del ritiro dell’appoggio repubblicano, Andreotti presenta le dimissioni. Per la prima volta, dalla tribuna del Comitato centrale, Berlinguer avanza l’ipotesi di un governo senza la Dc. Nell’ultimo colloquio con Moro, quest’ultimo ribadisce l’impegno a convincere il suo partito; per entrambi i leader, «governare insieme per un certo delimitato periodo è un passaggio necessario per riconoscersi reciprocamente»: sarebbe, cioè, il superamento della conventio ad excludendum e della «democrazia bloccata»68. A fine febbraio la Dc, dopo una riunione di tre giorni dei gruppi parlamentari in cui Moro dà fondo a tutta la sua capacità di persuasione, si rassegna all’idea di una nuova maggioranza che includa il Pci69.
Ricevuto l’incarico di formare il nuovo governo, Andreotti predispone una lista di ministri molto deludente. Nel gruppo dirigente comunista si apre un vivace dibattito; la tentazione di non votare a favore è forte, e Berlinguer non esclude tale esito. Si decide infine di attendere le dichiarazioni programmatiche del presidente del Consiglio70. Il mattino seguente, però, il rapimento di Moro costringe il Pci ad accettare senza discussioni il nuovo governo.
Quel 16 marzo 1978, che vede coincidere l’inizio della «solidarietà democratica» e l’ingresso dei comunisti nella maggioranza col sequestro di Moro, «quasi emblematicamente, suggella i limiti di quanto [poteva] essere ottenuto»71. Il sequestro e l’omicidio dello statista democristiano pongono un’ipoteca gravissima sugli sviluppi dell’esperimento, e dunque sugli esiti di una politica che il Pci persegue in tutto il decennio, ma che di fatto viene da ben più lontano.
La vicenda segna dunque un sostanziale scacco per i comunisti. Tuttavia, nei mesi della «solidarietà democratica» vengono varate riforme importanti rispetto al modello democratico-sociale delineato nella Costituzione, da quella sull’equo canone al Servizio sanitario nazionale, dalla legge sul trasporto pubblico locale alla legge 180 che chiude i manicomi72. È il momento in cui la centralità del Parlamento, anzi il governo parlamentare, con un ruolo rilevante delle commissioni e un coinvolgimento pieno di tutte le forze politiche democratiche, raggiunge il suo apice. Quanto al «governo democratico dell’economia», è proprio nel 1977-78 che in Italia si giunge «a sottoporre al controllo del parlamento sia l’elaborazione programmatica» di enti che gestiscono l’intervento pubblico come Iri ed Eni, sia la discussione sulle presidenze di tali enti73.
Alla fine del 1978 la decisione del governo di aderire al Sistema monetario europeo segna un primo momento di rottura col Pci, che vota contro, mentre anche i rapporti coi socialisti – ora all’attacco sul piano ideologico – si fanno più tesi. Nelle elezioni del 1979 il Pci perde quasi un milione e mezzo di voti, scendendo al 30.4%74.
Nel Cc di luglio Berlinguer ribadisce la strategia dell’«unità democratica», ma intanto annuncia il ritorno all’opposizione75. Come il segretario ha detto in Direzione, va escluso «qualsiasi sostegno a un governo che non vede la presenza del Pci»; nella fase attuale «non sono possibili accordi con la Dc, ma ciò non vuol dire abbandonare la linea di intesa con le masse popolari cattoliche»76. Saranno le «crescenti difficoltà economiche e sociali», conclude Berlinguer al Cc, a mostrare «la necessità di una politica di unità democratica»77. Le cose, però, non andranno così. Nonostante la percezione diffusa dell’opportunità di un ingresso al governo del Pci, democristiani e socialisti riusciranno a far prevalere altre soluzioni, aprendo poi il nuovo decennio all’insegna del «preambolo» anticomunista.
Scriverà Alberto Asor Rosa: il compromesso storico è stato «l’unico tentativo di dare una soluzione stabile ai molti problemi nazionali creati dalla rottura dei vecchi equilibri pre-sessantotteschi». Certo, con la contraddizione per cui «per un grande mutamento ci vuole un grande schieramento», ma quest’ultimo «obbliga a mantenere basso il profilo del programma». Tuttavia, è stato
il tentativo di una grande forza politico-sociale, che si sa e si vuole diversa, di passare [...] alle sponde felici di una «nuova società» [...]. Non stupisce che essa, invece d’essere affrontata e vinta in una grande ed onesta battaglia frontale, sia stata frastornata, decimata e poi respinta [...] dalle puntate offensive di malvagi scorridori, assai più esperti nei «giochi del sistema», che l’aggredivano a tradimento sulle ali e alle spalle.78
Più in generale, il quadro internazionale è ormai mutato: la controffensiva neoliberista contro il modello democratico-sociale è in atto. Berlinguer – come ha scritto Raffaele D’Agata – è consapevole «delle dimensioni della crisi» che si è aperta. Egli percepisce l’«esaurimento del processo di espansione della democrazia, che la rivoluzione antifascista aveva avviato a livello mondiale» e che era andato avanti per un trentennio79. Già nel 1975, nell’ambito della Commissione Trilaterale, voluta da David Rockefeller e guidata da Zbigniew Brzezinski, era uscito il volume sulla «crisi della democrazia», che i teorici neoconservatori attribuiscono all’eccesso di partecipazione e dunque di domanda sociale che a loro dire provocava il fenomeno dello «Stato sovraccarico»: crescita della partecipazione democratica e della spesa pubblica andavano di pari passo; era dunque arrivato il momento di limitarle entrambe, ponendo l’accento sulla governabilità anziché sulla rappresentanza80. In Italia tale impostazione si ritrova nel cosiddetto Piano di rinascita democratica della Loggia massonica P2, strumento di punta di una decisa «controffensiva» rispetto all’avanzata del modello democratico-sociale81.
Come scrive Mattia Gambilonghi sulla scorta di Pietro Barcellona, il capitalismo monopolistico di Stato produce «una conformazione degli apparati statali» tale da renderli «impermeabili rispetto all’influenza della sovranità popolare». D’altra parte, come osservava già nel 1977 Luigi Berlinguer, «il disegno perseguito dai gruppi conservatori è stato quello di spostare fuori dalle istituzioni rappresentative i veri centri di potere per evitare che la crescita del movimento operaio potesse condizionare le assemblee elettive e quindi lo Stato»82.
Il Pci e il suo Segretario reagiscono a tali processi involutivi lanciando l’«alternativa democratica» e l’obiettivo di una riforma complessiva della politica e dei partiti nel loro rapporto con lo Stato, oltre all’idea di un «governo mondiale» in grado di rispondere in modo democratico e cooperativo ai problemi globali della nostra epoca. Fino alla fine, dunque, nell’elaborazione del comunismo italiano, rimane centrale la consapevolezza del nesso tra involuzione sul terreno democratico e tendenze regressive del capitalismo maturo, e dunque della dialettica tra questione democratica e cambiamento sociale e politico in direzione del socialismo.
(2/2. Fine)
Alexander Höbel*
* Università degli Studi di Sassari.
(Tratto da: Alexander Höbel, Socialismo e democrazia nella cultura politica del comunismo italiano: gli anni Settanta, in «Dialettica&Filosofia», Nuova Serie, XVIII, 2024).
Note
23 Pasquino (1983, 58-59).
24 Ceci (2013, 69-81, 110-114); Craveri (1996, 419-420).
25 Barca (2005, 524-525).
26 Berlinguer (1972, 19-20).
27 Ivi, 54.
28 Franchi (1982, 50).
29 Berlinguer (1972, 56-57).
30 Barbagallo (2006, 169).
31 Bertucelli (2008, 186-189); Trentin (1999, 150-151).
32 Pajetta (1973, 314-332).
33 Chiaromonte (1973).
34 Berlinguer (1973a).
35 Berlinguer (1973b).
36 Barca (2005, 547).
37 Berlinguer (1974, 637).
38 Berlinguer (1975a, 5-30).
39 Ivi, 31-53.
40 Vacca (1987, 70).
41 Cerroni (1978, 123).
42 Ivi, 126, 119.
43 Berlinguer (1975a, 102).
44 Galloni (2008, 181-183); Guerzoni (2008, 156, 162-163).
45 Berlinguer (1975b, 69-79).
46 Ivi, 67-68, 86-87.
47 D’Albergo, Catone (2008, 122-124).
48 Ingrao (1977, 228, 232-233).
49 Vacca (1977, 51-64).
50 Mazzocchi et al. (1976, 159-162, 177).
51 Ivi, 379-388.
52 Cerroni (1977, 227). Cfr. anche Galgano (1978). Sull’insieme di tale dibattito, cfr. Gambilonghi (2017b, 162-207).
53 Barbagallo (2006, 270-272). Sul vertice di Portorico, cfr. Varsori (2008).
54 Barca (2005, 645).
55 Magri (2009, 288).
56 Berlinguer (2009, 151-156).
57 Chiaromonte (1986, 36).
58 Cervetti (1977).
59 Berlinguer (1977).
60 Fiori (1992, 301-306).
61 Barca (2005, 673).
62 Perna et al. (1978, 96-99).
63 Chiaromonte (1986, 54-55, 70-71); Barca (2005, 684-685).
64 Fiori (1992, 320-324); Chiaromonte (1986, 82-83). Cfr. Chiaromonte (1977).
65 Chiaromonte (1986, 90-91, 94); Barca (2005, 699-703).
66 Barca (2005, 703-705).
67 Ivi, 708-710.
68 Chiaromonte (1986, 95, 98); Barca (2005, 716-717).
69 Fiori (1992, 350-351).
70 Chiaromonte (1986, 99-101).
71 Pasquino (1983, 54).
72 Chiaromonte (1986, 160-162, 167-173).
73 D’Albergo, Catone (2008, 121).
74 Chiaromonte (1986, 143-147).
75 Berlinguer (1979, 7-10).
76 Barbagallo (2006, 351-352).
77 Berlinguer (1979a).
78 Asor Rosa (1982, 19, 25, 28).
79 D’Agata (2006, 107, 110). Cfr. D’Agata (2022).
80 Croizer, Huntington, Watanuki (1975).
81 D’Albergo, Catone (2008, 127-129).
82 Gambilonghi (2016, 167).
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Inserito il 28/07/2024.
di Giovambattista Vaccaro
Nell’Europa divisa in due dalla “guerra fredda” vi fu un interessante marxismo che rifletteva le speranze iniziate con la destalinizzazione.
L’umanesimo di Marx e il concetto di praxis.
Il comunismo non si ferma alla sfera della socializzazione dei mezzi di produzione.
Kołakowski, Havemann, Kalivoda, Schaff e Kosík.
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Prima parte
Il marxismo critico dell’Europa dell’Est
di Giovambattista Vaccaro
Prima parte
Una delle componenti più caratteristiche della cultura politica degli anni Sessanta è stata senz’altro il marxismo critico dell’Europa dell’Est. Si tratta di un pensiero sviluppatosi nei paesi del blocco sovietico che avevano una più solida tradizione di rapporti culturali con l’Europa occidentale, come la Repubblica democratica tedesca, la Polonia e la Cecoslovacchia, negli anni che vanno dal XX Congresso del Pcus e dagli eventi ungheresi del 1956 alla primavera di Praga e alla sua violenta repressione nel 1968, durante i quali la fine dello stalinismo aveva aperto una stagione di speranze di rinnovamento della vita civile di quei paesi, alle quali questo marxismo dava espressione attraverso uno sforzo di reinterpretazione globale del contenuto del marxismo stesso finalizzata a una ridefinizione degli scopi e delle modalità dell’edificazione del socialismo che appariva ormai ineludibile e che implicava una riassunzione di responsabilità e di iniziativa da parte degli intellettuali rispetto alla dirigenza politica e agli organi della pianificazione economica.
È un marxismo che presenta sul piano dei contenuti teorici molti punti di contatto con analoghi sforzi di reinterpretazione che avevano corso in quegli anni tra l’Europa occidentale e gli Stati Uniti, ma che, forse proprio a causa di questi contenuti, ha trovato scarsa eco negli ambienti teorici ufficiali del movimento operaio, che tendevano piuttosto a guardare ai rappresentanti di esso con un certo sospetto, collocandoli sotto le ambigue denominazioni di revisionismo o di dissenso. C’è infatti in questo marxismo una forte attenzione per il giovane Marx, alla cui luce si tende a interpretare anche il pensiero del Marx del Capitale, che suscita a sua volta una altrettanto forte attenzione per i temi dell’individuo, della sua felicità e della sua alienazione nella società contemporanea, anche socialista, attraverso i quali, come è stato notato, «la giovane filosofia marxista ritrova una propria strada verso la cultura filosofica europea […], da Hegel all’esistenzialismo e alla fenomenologia»1, con la quale apre un serrato quanto proficuo confronto, e sulla base dei quali ora tende a interrogare, e a giudicare, la costruzione del socialismo in Europa, oltre la prospettiva, in fondo ancora angusta, della destalinizzazione.
Un marxismo non istituzionale
Per quanto riguarda la concezione del marxismo, Leszek Kołakowski si rende interprete dell’esigenza generale di rifiutare un marxismo inteso, come nel periodo staliniano, quale fenomeno non intellettuale ma istituzionale, la cui misura è l’autorità e che riduce la teoria a una scienza della legittimazione dell’esercizio autoritario del potere da parte di una burocrazia. La preoccupazione da cui scaturisce questa esigenza è quella di una «rinascita ideologica della sinistra rivoluzionaria»2 che superi quelli che egli chiama «i mutamenti senili»3 dell’organizzazione politica e il suo essere divenuta un fine in sé, spezzando la falsa alternativa, tipica dello stalinismo e del suo carattere settario, “con noi o contro di noi” per riaprire lo spazio di quella critica socialista senza il quale non c’è coscienza socialista e quindi valida resistenza alla critica controrivoluzionaria. Per Kołakowski perciò «la divisione più importante […] non è quella tra marxisti ortodossi […] e tutti gli altri», ma è «la divisione in una sinistra umanistica e una destra umanistica»4, marcata da un atteggiamento intellettuale contrassegnato da uno spirito critico nel quale egli vede il vero compito degli intellettuali comunisti nell’interesse del comunismo stesso. Così inteso il marxismo è allora «un modo generale di considerazione del mondo», che permette «di considerare la vita attraverso il prisma della grande storia; di riconoscere il processo della configurazione della vita sociale nella sua dipendenza dalla lotta dell’uomo con la natura e allo stesso tempo il processo di umanizzazione della natura nel lavoro umano»5. Il marxismo è cioè un metodo che deve avere un contenuto molteplice perché i concetti delle scienze sociali sono oscillanti.
Questa interpretazione metodologica dei marxismo e la centralità che in esso occupa la storia inducono Kołakowski a criticare quel caposaldo del marxismo istituzionale rappresentato da quella forma di teologia laica che a suo parere è la sua filosofia della storia6. Kołakowski nega infatti che possa esistere una scienza della storia che la restituisca come un processo orientato finalisticamente al cui interno le azioni umane acquisiscono un senso, poiché tale scienza è in realtà un «atto di fede»7 e una «visione messianica»8, di cui tuttavia Kołakowski ammette che l’uomo ha bisogno per dare alla storia un significato che la sottragga all’oscurità e all’uomo sicurezza di fronte al caos della realtà quotidiana prospettandogli un futuro predeterminato, certo. Ma «riconoscere il futuro come pronto equivale a riconoscere che il futuro non c’è. Ma così io stesso smetto di esistere, dato che la mia esistenza si realizza solo come un contatto permanente con il limite oltre il quale non ci sono più cose prevedibili»9.
La realtà infatti appare a Kołakowski come un mondo aperto, al quale l’uomo si riferisce attraverso la situazione in cui si trova e nel quale gli eventi sono solo dei fatti bruti privi di riferimenti a un fine che li giustifichi. La storia quindi è amorale e non c’è «nessuna ragione per considerare la morale come uno strumento della grande storia e nemmeno per ricercare i criteri del bene e del male nel progresso generale della storia»10. Su questa realtà Kołakowski vede naufragare le pretese del moralismo e del suo richiamo a un codice etico come «insieme di decisioni astratte, sostitutive di qualsiasi decisione concreta»11, che Kołakowski accusa di rappresentare «il fallimento della possibilità di scegliere in politica, che si manifesta con l’abbandono dell’impegno»12, e di essere fonte di fanatismo, intolleranza e irresponsabilità, poiché non tiene conto delle «inconciliabili antinomie della vita morale»13 e della pluralità dei codici che rendono impossibile un punto di vista generale sulle decisioni da prendere in una situazione e autorizzano invece l’autonomia del punto di osservazione di ogni singolo soggetto.
L’esigenza di Kołakowski di un marxismo non istituzionale si traduce in Robert Havemann in una mossa che risulterà decisiva per tutto questo marxismo: il conferimento di una funzione centrale alla sfera della sovrastruttura e, al suo interno, alla morale, che, con tutte le sue implicazioni, segna la distanza di questo marxismo da quello sovietico ufficiale, e da tutta una tradizione del marxismo in generale. Nelle lezioni da lui tenute all’Università di Berlino che gli sono costate l’espulsione dalla Sed egli sostiene infatti che «la costruzione del socialismo è più di un processo industriale ed economico, è in larghissima misura anche un processo che si svolge nelle nostre menti, un processo di consapevolezza crescente»14, anzi, proprio guardando agli sviluppi delle società capitalistiche, precisa che «quanto più l’economia si sviluppa, tanto più profonda è la barbarie culturale», e assegnare questo fine alla società socialista significa farle indossare gli abiti da festa della vecchia società, poiché in questo modo «l’uomo si trasforma nello schiavo dei propri bisogni, mentre in una società comunista l’uomo dovrebbe forse liberarsi proprio dai suoi bisogni»15 per sviluppare liberamente la propria individualità e cercare la propria felicità. Queste tesi di Havemann trovano il loro sviluppo in quello che è l’atteggiamento più diffuso in questa reinterpretazione non istituzionale del marxismo, che vede una continuità di fondo nel pensiero di Marx oltre il suo presunto superamento della filosofia.
In questo atteggiamento il più radicale è stato probabilmente Robert Kalivoda, che parte da un giudizio sul giovane Marx come «un romantico rivoluzionario» e utopista, come dimostra il nesso di essenza umana e alienazione, che Kalivoda ritiene «una mistificazione romantica»16. Questo romanticismo viene superato da Marx nel 1848, ma «l’uomo libero e totalmente sviluppato del Marx dei Manoscritti resta il valore finale anche per il Marx “maturo”», che perciò «considera il comunismo come base dell’umanesimo» e ritiene «il libero sviluppo delle forze dell’uomo […] l’alfa e l’omega della sua antropologia»17. Da questo umanesimo di Marx, nel quale «la libertà resta […] sempre il valore umano fondamentale»18, Kalivoda fa derivare il carattere aperto del marxismo, che corrisponde all’idea di Kołakowski del contenuto molteplice di esso e porta il filosofo cecoslovacco a sostenere una integrazione in esso della psicoanalisi e soprattutto delle avanguardie artistiche del Novecento, e in modo particolare del surrealismo, che condividono il carattere romantico-rivoluzionario del giovane Marx, «arricchendo il marxismo stesso di determinati valori teorici fondamentali»19, soprattutto nel senso di cogliere nella realizzazione della libertà umana un processo ininterrotto che non si può collocare solo nel futuro, ma si compie già nel presente, e rimane un processo aperto, incompiuto, anche nel comunismo.
Il tema dell’umanesimo di Marx torna al centro della riflessione di un altro filosofo polacco che in quegli stessi anni era entrato in polemica con Kołakowski su problemi di interpretazione del marxismo: Adam Schaff20. Anche Schaff parte dal rifiuto di quella «interpretazione rozza», di quella «volgarizzazione del marxismo» costituita da quello che egli chiama «materialismo economico», che ha il torto di perdere di vista l’individuo, riducendolo a «un semplice prodotto, […] un cieco esecutore di leggi storiche»21. A suo parere invece il problema centrale del marxismo è proprio l’individuo, la sua felicità e il pieno sviluppo della sua personalità, mentre tutti gli altri problemi, compreso quello della lotta di classe, sono problemi subordinati a questo: «il problema della persona umana costituisce il fondamento di tutto il suo edificio teorico»22, ma, a differenza dell’esistenzialismo e del personalismo, il marxismo considera l’individuo come individuo sociale, come singolo insieme agli altri, e quindi considera il problema della sua felicità come un problema sociale. Questo fa del marxismo un’antropologia e un umanesimo, cioè una teoria della felicità e della liberazione dell’uomo che attraversa tutto il pensiero di Marx dagli scritti giovanili alle opere della maturità fino alla Critica del programma di Gotha23. Proprio dagli scritti del giovane Marx inoltre risulta che «il marxismo […] si basa su un determinato sistema morale» e che «la lotta del moderno proletariato era espressione […] della rivolta morale», in quanto «la lotta per la trasformazione dei rapporti sociali è appunto […] una lotta per la trasformazione delle relazioni fra gli uomini, per la trasformazione delle norme del loro comportamento nelle relazioni sociali, per la trasformazione della morale dominante»24 in vista dell’estrinsecazione della personalita umana. Il fondamento di questa morale è allora un «amore combattente e quindi odiante»25, sempre in lotta contro il male e che prende corpo nella dittatura del proletariato.
(1/2. Segue)
Giovambattista Vaccaro
(Tratto da: Giovambattista Vaccaro, Il marxismo critico dell’Europa dell’Est, in «Critica marxista», n. 3, maggio-giugno 2023).
Note
1 G.D. Neri, Aporie della realizzazione, Milano, Feltrinelli, 1980, p. 137. Ma cfr. anche P. Vranicki, Storia del marxismo, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1971, vol. II; A. Zanardo, La filosofia marxista in Cecoslovacchia negli anni 1945-1960, in Id., Filosofia e socialismo, Roma, Editori Riuniti, 1974, pp. 363-419; G. Cesarale, Filosofia e marxismo nell’Europa della guerra fredda, in S. Petrucciani (a cura di), Storia del marxismo, Roma, Carocci, 2015, pp. 127-131.
2 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, trad. it. Cosenza, Lerici, 1979, p. 47.
3 Ivi, p. 50.
4 L. Kołakowski, Aktuelle und nicht aktuelle Begriffe des Marxismus, trad. ted. in Id., Der Mensch ohne Alternative, München, Pieper, 1964, р. 21.
5 Ivi, pp. 23-24.
6 Cfr. L. Kolakowski, Der Priester und der Narr, trad. ted. in Id., Der Mensch ohne Alternative, cit., p. 259.
7 L. Kołakowski, La comprensione storica e l’intelligibilità della storia, trad. it. in Id., Elogio dell’incoerenza, Milano, Vita e pensiero, 1982, p. 153.
8 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, cit., p. 119.
9 Ivi, p. 138.
10 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, cit., p. 110.
11 L. Kołakowski, Etica senza codice, trad. it. in Id., Elogio dell’incoerenza, cit, p. 120.
12 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, cit., p. 46.
13 L. Kołakowski, Etica senza codice, cit., p. 128.
14 R. Havemann, Dialettica senza dogma, trad. it. Torino, Einaudi, 1967, 3ª, p. 166.
15 Ivi, p. 193.
16 R. Kalivoda, La realtà spirituale moderna e il marxismo, trad. it. Torino, Einaudi, 1971, pp. 159-160.
17 Ivi, p. 185.
18 Ivi, p. 197.
19 Ivi, p. 147.
20 Su questa polemica cfr. A. Schaff, Studi sul giovane Marx, trad. it. in Id., Che cosa significa essere marxista. Saggi filosofici/2, a cura di A. Ponzio, Bari, Dedalo, 1972, pp. 245-263. Sul pensiero di Schaff cfr. A. Ponzio, Persona umana, linguaggio e conoscenza in Adam Schaff, Bari, Dedalo, 1974, e sui temi qui trattati i miei Le idee degli anni Sessanta, Milano, Mimesis, 2012, pp. 73-89, e Il marxismo di Adam Schaff, in «Critica marxista», 2010, n. 6, pp. 63-71.
21 A. Schaff, Il marxismo e la filosofia dell’uomo, trad. it. in Id., La questione dell’umanesimo marxista. Saggi filosofici/3, a cura di A. Ponzio, Bari, Dedalo, 1978, p. 165.
22 Ivi, p. 212.
23 Cfr. A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1973, p. 35.
24 A. Schaff, Problemi di una morale senza mitologia, trad. it. in Id., Che cosa significa essere marxista, cit., p. 104.
25 Ivi, p. 102.
Inserito il 12/05/2024.
di Giovambattista Vaccaro
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Seconda parte
Il marxismo critico dell’Europa dell’Est
di Giovambattista Vaccaro
Seconda parte
Ritorno a Kant
La continuità del pensiero di Marx è ribadita infine anche da Karel Kosík, che, facendo leva sui Grundrisse, che egli ritiene il termine medio tra i Manoscritti e il Capitale, sottolinea che «Marx non ha mai abbandonato la problematica filosofica», e che «specialmente i concetti di “alienazione”, “reificazione”, “totalità”, rapporto di soggetto e oggetto, che alcuni inesperti marxologi proclamerebbero volentieri essere il peccato del giovane Marx, restano invece la costante attrezzatura concettuale della teoria di Marx», senza i quali «il Capitale è incomprensibile»26. Il Capitale infatti «non è un’opera economica nel senso comune della parola»27, e parlare di liquidazione della filosofia significa usare un’espressione idealistica, poiché la filosofia è la forma in cui il reale prende coscienza e si crea le forme categoriali della propria realizzazione, cioè si apre alle possibilità latenti in esso. Nel marxismo questa presa di coscienza consiste nel fatto che la realtà concreta non viene conosciuta come il mondo di fatti, di oggetti dati all’intuizione dell’uomo, tipico del pensiero comune quotidiano, ma come «un processo nel corso del quale l’umanità e l’individuo realizzano la propria verità, attuano l’umanizzazione dell’uomo»28, come totalità che ha al suo centro l’uomo come soggetto, come mondo della prassi umana, prodotto dall’uomo stesso.
Quasi in una tacita e implicita polemica contro la teoria del rispecchiamento diffusa nel Diamat sovietico infatti Kosík sottolinea che «la coscienza umana è “riflesso” e allo stesso tempo “progettazione”, registra e costruisce, prende nota e pianifica, riflette e anticipa, è allo stesso tempo recettiva e attiva»29, o, come dice ancora Kosík, «è attività del soggetto che crea la realtà umano-sociale come unità di esistente e di significati, di realtà e di senso»30. La filosofia del marxismo ci restituisce quindi l’immagine dell’uomo come prassi, e «nel concetto della prassi la realtà umano-sociale viene scoperta come opposto dell’esser dato, cioè come formatrice e allo stesso tempo come forma specifica dell’essere umano […] è determinazione specifica dell’esistenza umana come elaborazione della realtà […] è il modo specifico di essere dell’uomo»31. Essa ha anche una dimensione esistenziale, che consiste nella formazione della soggettività umana con i suoi momenti dell’angoscia, della nausea, della speranza, che fa della prassi l’apertura dell’uomo verso la realtà in generale, e senza la quale la prassi stessa decade a mera tecnica, priva dell’aspetto di realizzazione della libertà umana e di trascendimento della situazione alla luce di valori ideali.
Il nesso di prassi e valori viene ripreso anche da Kołakowski, che di tutti questi filosofi e il più interessato al rapporto tra marxismo e morale. Se per lui infatti, come si è detto, il mondo è aperto e bucherellato, nelle sue falle si inserisce il libero movimento umano per colmarle e allo stesso tempo per aprirne di nuove, poiché l’uomo «non dipende totalmente dal suo passato, proprio perché lui stesso ancora contiene diverse possibilità», e «la possibilità di sperimentare il mondo come una libera prospettiva è la nostra propria possibilità, e per ciò stesso è anche parte delle possibilità disvelate nel mondo stesso»32. Questo significa che la storia è «un susseguirsi di situazioni, nelle quali siamo senz’altro impegnati», ma «se l’impegno deve essere un atto al quale la coscienza individuale acconsente, allora è un atto morale, almeno nel senso che alcuni valori ammessi come tali vi si manifestano come fattore determinante»33. Perciò all’amoralismo della storia Kołakowski fa corrispondere la «responsabilità totale dell’individuo nei confronti dei propri atti»34, intesi a forzare la mano alla situazione per farne scaturire le sue risorse, e questo implica la «possibilità di qualificare eticamente le scelte politiche»35. Questa responsabilità consiste in quello che Kołakowski chiama «un condizionato ritorno a Kant»36, cioè nel «verificare costantemente la nostra scelta» alla luce del fatto che essa «risulta dall’azione concentrata dei valori che professiamo […] e della conoscenza della loro possibilità di realizzazione in condizioni date»37.
Questa responsabilità viene all’impegno dal fatto che l’apertura a esso delle possibilità è resa possibile dall’asimmetria tra essere e dover-essere, tra realtà e valori. In questa antinomia il riferimento più sicuro per la nostra scelta in quanto scelta morale rimangono per Kołakowski i durevoli valori morali elaborati dall’umanità nel corso della sua storia, che devono essere tenuti fermi contro la presunta ineluttabilità di ciò che è storicamente dato e contro un avvenire che è sempre incerto. La difesa di questi valori assume per Kołakowski un’importanza tanto maggiore in quanto egli è convinto che «il dover essere è una forma dell’essere» in quanto la coscienza di esso, di un mondo di valori, «è diventata un bisogno oggettivo della vita sociale», e per questo stesso fatto «è diventata una parte del processo storico e un fattore influente del suo svolgimento»38. I valori cessano quindi di essere un’essenza sovrastorica per diventare, attraverso l’impegno dell’uomo e la sua responsabilità di fronte a essi nella situazione, una forza motrice della storia stessa.
Anche per Schaff la prassi è la caratteristica di quel concetto di persona in cui egli vede, come si è detto, la nozione centrale di quell’umanesimo che egli ora chiama umanesimo socialista. Schaff definisce infatti la persona come uomo totale, «entità integrale e irripetibile [che] costituisce un determinato valore, anch’esso irripetibile»39, e che è in di venire in quanto «è un prodotto dell’autocreazione umana»40. L’uomo infatti è prassi «intesa come processo di trasformazione della realtà oggettiva», nel quale egli «trasforma se stesso»41 realizzando l’essenza umana e umanizzando il mondo, appunto secondo la lezione del giovane Marx. Ma perché questa realizzazione sia possibile è necessario rimuovere il maggior ostacolo a essa: l’alienazione. Proprio il nesso tra essa e la realizzazione della persona fa sì che l’alienazione «svolga un ruolo straordinario nel sistema teorico del marxismo»42. Schaff mostra di avere di essa una nozione ampia, che non la limita al fatto che «il sistema che si regge sulla proprietà privata e sulla conseguente divisione del lavoro mutila l’individuo, gli toglie la pienezza della personalità»43, ma la coglie nel fatto che determinati prodotti dell’uomo, dalla merce all’ideologia, allo stato e allo stesso partito, «in una situazione determinata cominciano a sottrarsi al controllo della società e a funzionare spontaneamente fino a subordinare a sé gli uomini e a compromettere la realizzazione delle loro aspirazioni sociali»44. A questa alienazione Schaff fa poi risalire quelle forme di alienazione che egli chiama autoalienazione, tipiche di aspetti della società contemporanea come la grande città e la solitudine urbana, la cultura di massa, lo specialismo scientifico, che creano un distacco dell’uomo dalla società, atomizzano la vita privata e depauperano la personalità umana.
Anche per Kosík la struttura della creazione di un mondo socio-umano costituita dalla prassi si spezza quando sorge l’alienazione, che anche per lui si manifesta «nella forma di una supremazia dei prodotti sui produttori o delle circostanze onnipotenti sull’individuo impotente»45. Kosík indaga l’alienazione nei diversi aspetti che essa assume nella vita quotidiana, il primo dei quali è la cura. La cura «è la prassi nel suo aspetto fenomenico alienato, che ormai non allude alla genesi del mondo umano […] bensì esprime la prassi delle operazioni giornaliere, in cui l’uomo è impiegato nel sistema delle “cose” già pronte, cioè delle attrezzature»46. Essa «è l’irretirsi dell’individuo nel complesso dei rapporti che gli si presentano come mondo pratico-utilitario»47, è la soggettività umana posta fuori di sé, oggettivata, e quindi «riflette in maniera mistificata il processo della feticizzazione progressivamente approfondentesi dei rapporti umani»48 nella quale l’uomo dipende da un mondo in cui la prassi si riduce a manipolazione pratica e l’uomo stesso diventa oggetto di questa manipolazione, e la sua quotidianità è una quotidianità reificata che «si manifesta come anonimità e come tirannia di un potere impersonale» e nella quale l’uomo «“non si orienta” in se stesso, perché si perde nel mondo manipolabile e si identifica con esso», per cui «il soggetto dell’individuo è in prima istanza tutto e per lo più un soggetto che non gli appartiene»49, «è sempre “gettato” nel mondo»50.
Ma, ci ricorda Kosík, la cura è il modo primordiale ed elementare dell’economia, e a questa risalgono perciò tutte le forme dell’alienazione. L’economia infatti è «la sfera che ha la tendenza a trasformare l’uomo in uomo economico, giacché lo trascina in un meccanismo oggettivo che sottomette l’uomo e se lo assimila»51, è, appunto, «una parte dell’uomo sociale feticizzata, la quale […] ha ottenuto non soltanto l’autonomia, ma anche il predominio sull’uomo impotente perché spezzettato»52. Essa trasforma la realtà oggettiva in una realtà oggettuale creando un mondo reificato che viene fatto passare per mondo umano ma nel quale «l’uomo esiste sempre all’interno del sistema, e come sua parte integrante viene ridotto ad alcuni aspetti (funzioni) o apparenze (unilaterali e reificate) della sua esistenza»53, e così «viene trasformato in oggetto, e considera se stesso come se si trovasse al medesimo livello delle cose e degli oggetti»54. L’economia è dunque l’altra faccia del sistema della manipolabilità generale, che «costringe l’uomo ad adattarsi alle sue esigenze, gli impone la sua logica e un determinato comportamento»55. Questa natura dell’economia si ritrova anche in quella che Kosík considera la specificità dell’uomo: il lavoro, cioè l’azione oggettiva suscitata da un fine esteriore, da una necessità, attraverso la quale l’uomo crea il mondo e pone i presupposti della libertà. Tale attività infatti nell’economia vede separarsi questi due momenti della libertà e della necessità e ricevere in quest’ultima una seconda natura sovrapposta alla libertà. Perciò proprio dall’interiorizzazione della struttura economica Kosík vede nascere fenomeni come «la trasformazione di tutti i valori in semplici momenti transitori di una corsa generale e assoluta verso altri valori, che ha per conseguenza uno svuotamento della vita; la degenerazione dell’idea della felicità in comfort e della ragione in manipolazione razionale delle cose e degli uomini; questa atmosfera quotidiana della vita moderna che inverte il mezzo col fine e il fine col mezzo», che fanno della vita contemporanea «una vita che si svolge al di fuori della morale, una semplice esistenza»56.
Così concepita l’alienazione è un fenomeno che sia per Kosík che per Schaff si può riscontrare anche nel socialismo. Schaff ritiene infatti che «con l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione non si elimina automaticamente l’alienazione»57, e che di conseguenza le società socialiste, nella lunga fase della transizione al comunismo e anche dopo, continuano a mantenere forme di alienazione tipiche del capitalismo e ne producono di nuove e loro specifiche. Rimane anzitutto l’alienazione dello stato, sia come apparato coercitivo che, soprattutto, come apparato amministrativo che richiede una burocrazia altamente specializzata che non sempre si differenzia dall’apparato coercitivo e che comunque schiaccia l’individuo. Rimane l’alienazione del lavoro e del suo prodotto, che conserva la sua forma di merce, rimane la divisione del lavoro, e soprattutto rimane, «ed è questa la constatazione più incresciosa [nota amaramente Schaff], l’atteggiamento degli uomini nei confronti della proprietà privata»58. L’uomo totale invece deve realizzare l’essenza umana fuori dell’alienazione, e questo presuppone la libertà come scelta «consapevole e non imposta da forze estranee all’uomo», «condizionata socialmente, non […] univocamente predeterminata, […] non […] obbligata»59.
Anche Kosík insiste sul fatto che i fenomeni di alienazione da lui descritti sono comuni alle democrazie capitalistiche e al socialismo burocratico staliniano, poiché in realtà si basano su una concezione dell’uomo «che determina in modo decisivo il volto del nostro tempo»60. L’alternativa a questa concezione e a questo sistema consiste nel recupero dell’autenticità attraverso la distruzione della pseudoconcretezza del mondo dell’economia e della manipolabilità, attraverso la rottura della quotidianità alienata. Questo risultato può essere ottenuto secondo Kosík in tre modi. Il primo è la rappresentazione alienata della realtà effettuata dall’arte moderna. C’è poi la modificazione esistenziale, nella quale l’individuo «si desta alle proprie responsabilità e le sceglie», ma che è solo «il dramma individuale del singolo nel mondo», poiché in essa l’uomo «non cambia il mondo, ma cambia la propria posizione nei confronti del mondo»61. C’è, infine, la trasformazione rivoluzionaria, che, anche per Kosík, non si affida all’ottimismo verso l’avvenire della filosofia della storia che prende il posto della religione nel garantire contro la vittoria del male, poiché anzi tale ottimismo è anche per lui come per Kołakowski «un pessimismo reticente e ipocrita» verso il presente62, o «un moralismo brutale»63.
La trasformazione rivoluzionaria invece ha luogo dentro una storia sempre aperta, mai predeterminata, una storia che è il teatro dell’umanizzazione che l’uomo compie di se stesso attraverso la prassi nella quale si realizza: «il senso della storia sta nella storia stessa: nella storia l’uomo spiega se stesso, e questa spiegazione storica – che equivale alla creazione dell’uomo e dell’umanità – è l’unico senso della storia»64, e questo senso consiste nella libertà, poiché «la libertà non è uno stato, bensì un’attività storica che crea forme corrispondenti di convivenza umana, cioè di spazio sociale»65. Questo spazio sociale, vero scopo della lotta rivoluzionaria e vera alternativa alla manipolazione generale, è il socialismo, che, dopo quanto detto, anche Kosík non esita a definire umanistico, e che, quindi, «non può essere una semplice formula politica o economica», ma deve avere soprattutto un «senso liberatorio»66. Questo senso liberatorio del socialismo viene affermato innanzitutto nei confronti dell’economia e della sua priorità nella società e porta a una liberazione dallo stesso lavoro reificato che consentirà agli uomini di dedicarsi ad attività non produttive, non economiche, nelle quali la loro prassi si potrà espletare come creazione. In questo modo anche per Kosík il socialismo diventa la condizione del libero, autentico sviluppo della personalità individuale.
Su questa missione del socialismo convergono tutti i rappresentanti di questo pensiero. Havemann, sulla base del suo rifiuto della centralità dell’economia e dell’importanza da lui attribuita alla sovrastruttura, alla coscienza, insiste sul fatto che la società comunista si deve collocare su un piano diverso da quello della concorrenza col capitalismo, cioè sul piano del «sogno di un mondo umano […] in cui tutti abbiano gli stessi diritti e le stesse possibilità, in cui l’uomo può essere buono senza doversi sacrificare», che fa di essa una «società morale»67, che non esisterà mai ma verso cui saremo sempre in cammino superando le contraddizioni della società presente. Questo cammino, che costituisce la fase di transizione chiamata socialismo, non può basarsi su un programma, ma sulla spontaneità di un vasto movimento di persone che hanno acquisito la consapevolezza di cui Havemann parlava in precedenza e che quindi hanno abbracciato la «morale socialista» come «morale della trasformazione, della rivoluzione di tutti i rapporti sociali sulla base di una solidarietà sempre più larga tra gli uomini»68.
Analogamente Kołakowski ritiene che «il comunismo […] non può essere ridotto a rapporti di produzione comunisti» o alla semplice costruzione di una società del benessere, perché questo potrebbe portare a giustificare qualunque mezzo anche rivolto contro l’uomo, ma «serve a un perfezionamento delle leggi morali che rappresentano all’interno della vita sociale un fine in sé»69, e perciò non può affidare la sua realizzazione a semplici misure politiche e neppure alle sole leggi del processo storico, ma deve costituire un fine moralmente giusto se vuole muovere le coscienze dei singoli a un impegno sociale, poiché nessuno diventa comunista solo per la convinzione che il comunismo è inevitabile. Infatti la coscienza comunista è assunzione della responsabilità di partecipazione a una razionalizzazione della storia umana nel senso della sua umanizzazione che crei le condizioni di una vita quotidiana dotata di senso, in cui l’ambiente perde la sua estraneità e diventa oggetto della prassi umana: è «coscienza della coesistenza attiva con la storia»70. La perdita di questo senso della vita può aver luogo per Kołakowski anche nel socialismo, in condizioni di monopolio della gestione sociale e di mancanza di efficacia dell’iniziativa delle masse. Il senso della vita perciò dipende dal potere politico e dalle istituzioni, è un problema politico e morale, e per questo Kołakowski può concludere che «la libertà è il bene più alto dell’uomo»71.
Individuo e libertà
Infine anche per Kalivoda la lotta per il comunismo non si ferma alla sfera della socializzazione dei mezzi di produzione, ma deve essere una lotta pluridimensionale e soprattutto una «lotta permanente per il contenuto armonico della libertà umana, di cui anche la società comunista sarà la scena permanente»72. Conformemente a quanto sostenuto da Marx nei Manoscritti, infatti, anche per Kalivoda «il comunismo costituisce soltanto il presupposto, la base per la vita e per lo sviluppo della vera umanità», e per questo il suo nucleo, il suo obiettivo e il suo valore centrale «diventa la libertà […] concepita come totalità dei contenuti di una esistenza umana sviluppata»73, diventa l’uomo totale libero dall’alienazione, libero anche di scegliere tra varie attività. Lungi dal perseguire un’eguaglianza livellatrice, il comunismo deve invece esaltare la disuguaglianza di fatto tra gli individui: «sul terreno dell’eguaglianza socialista, data dai fattori elementari della socializzazione della economia, nasce quindi fin dal principio e nascerà sempre di più la disuguaglianza socialista come espressione della libera proiezione umana, come espressione della libera scelta umana. Soltanto nelle condizioni di questa disuguaglianza liberamente formantesi si può realizzare asintoticamente l’uomo totale di Marx»74.
Ancora una volta quindi l’individuo e la sua libertà devono essere al centro della società comunista, e su questa base tutti questi intellettuali convergono sull’imprescindibilità della democrazia per il socialismo, che per Kalivoda prende corpo nella «tolleranza socialista» come unica condizione alla quale «l’uomo totalmente emancipato di Marx può trovare e rafforzare lo spazio per la propria autorealizzazione»75, per Havemann è la condizione di vita del socialismo che lo mette al sicuro dalle involuzioni burocratiche e autoritarie tipiche dello stalinismo e gli guadagna l’adesione volontaria delle masse76, e per Kosík «appartiene all’essenza intima del socialismo», in quanto è il luogo della formazione della coscienza critica che si oppone alla manipolazione: «il fondamento della democrazia socialista non sono le masse anonime manipolate e guidate da un incontrollato gruppo dominante […] ma i cittadini socialisti liberi e uguali in qualità di soggetti della vita politica»77. È una democrazia non postulata astrattamente, ma dedotta filosoficamente da una concezione del socialismo a sua volta dedotta da Marx, ma che non ha mancato di far sentire il suo peso anche nella politica reale, ad esempio nel movimento di rinnovamento cecoslovacco e nella sua rivendicazione di «un socialismo che abbia in sé, immanenti, la democrazia e l’umanesimo, una misura maggiore di liberazione economica e politica dell’uomo e della società»78, che «deve creare un nuovo umanesimo, […] che deve creare condizioni migliori per lo sviluppo dell’uomo»79 e deve contemplare la partecipazione autonoma delle masse alla gestione della società offrendo «democraticamente spazio a tutte le correnti e le idee che incidono sull’esistenza quotidiana dei lavoratori», e si spinge fino all’apprezzamento delle critiche di Rosa Luxemburg alla rivoluzione russa80.
Allo stesso modo questi intellettuali convergono nel riconoscere proprio in questa centralità dello sviluppo dell’individuo nel socialismo la sua dimensione utopica già sottolineata da Kalivoda, che Kołakowski ritiene indispensabile per la sinistra come strumento della rivoluzione in quanto negazione della realtà data81 ed espressione di quello che egli, in polemica col marxismo ortodosso, chiama il pensiero del pazzo, in cui «si fa vedere ciò che è solo una possibilità e che è reale solo in esso, senza esistere effettivamente. Poiché il nostro pensiero sulla realtà è parimenti una parte della realtà, e non peggiore delle altre parti»82. Questa utopia giunge poi in Schaff a identificare l’uomo totale del socialismo con l’ideale platonico della kalokagathia, che a lui ora sembra sceso sul terreno della realtà concreta e divenuto quella possibilità immanente a cui pensava Kołakowski grazie allo sviluppo dele scienze e delle forze produttive83.
Lo sviluppo della riflessione di questo marxismo, come è noto, verrà interrotto dalla repressione del nuovo corso cecoslovacco e dall’ondata repressiva da esso suscitata anche negli altri paesi del blocco sovietico, che ridurrà al silenzio e all’isolamento alcuni dei suoi rappresentanti rimasti nei loro paesi, come Havemann o Kosík, e ne costringerà altri a una emigrazione che talvolta, come nel caso di Kołakowski, sarà anche una fuga dallo stesso marxismo. Ma l’interesse di questo movimento non è meramente storico, ma va cercato proprio nei temi che esso tratta e che qui abbiamo visto, l’individuo umano, il senso della sua vita, la sua liberazione dall’alienazione e dalla manipolazione in una società dove possa realizzare se stesso, che vanno oltre i problemi della destalinizzazione, e nella sua riproposizione in una forma ancora attuale della domanda sul senso del socialismo. La sua eredità sarà raccolta da nuovi gruppi di intellettuali come quello di Budapest riunito intorno ad Agnes Heller o come quello della rivista «Dvadcatyj vek» di Roj Medvedev, nei quali però, come è stato notato, «prevale ormai […] un interesse decisamente più analitico che pratico-trasformativo» in cui «il socialismo reale da terreno di lotta per il suo stesso senso si trasforma in oggetto di studio»84. E anche essi in attesa di una nuova repressione.
(2/2. Fine)
Giovambattista Vaccaro
(Tratto da: Giovambattista Vaccaro, Il marxismo critico dell’Europa dell’Est, in «Critica marxista», n. 3, maggio-giugno 2023).
Note
26 K. Kosík, Dialettica del concreto, trad. it. Milano, Bompiani, 1965, p. 206.
27 Ivi, p. 173.
28 Ivi, p. 20.
29 Ivi, p. 29.
30 Ivi, p. 263.
31 Ivi, pp. 238-239.
32 L. Kołakowski, Etica senza codice, cit., pp. 137-138.
33 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, cit., pp. 119-120.
34 Ivi, p. 121.
35 Ivi, p. 132.
36 L. Kołakowski, Il persistere del dilemma essere-dover essere, trad. it. in Elogio dell’incoerenza, cit., p. 89.
37 L. Kołakowski, Il marxismo e oltre, cit., pp. 146-147.
38 Ivi, p. 126.
39 A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, cit., p. 105.
40 Ivi, p. 104.
41 Ivi, p. 77.
42 A. Schaff, Contributo alla discussione organizzata dalla redazione di «Nowe Drogi» a proposito del libro «Il marxismo e la persona umana», trad. it. in Id., La questione dell’umanesimo marxista, cit., p. 229.
43 A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, cit., p. 99.
44 A. Schaff, Contributo alla discussione organizzata dalla rivista filosofica «Studia filozoficzne», trad. it. in Id., La questione dell’umanesimo marxista, cit., p. 278.
45 K. Kosík, Gramsci e la filosofia della prassi, trad. it. in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia, a cura in G. Fusi e F. Tava, Milano, Mimesis, 2013, p. 98.
46 K. Kosík, Dialettica del concreto, cit., p. 75.
47 Ivi, p. 71.
48 Ivi, p. 74.
49 Ivi, pp. 87-88.
50 Ivi, p. 89.
51 Ivi, p. 99.
52 Ivi, p. 131.
53 Ivi, p. 105.
54 Ivi, p. 102.
55 K. Kosík, Hašek e il “grande meccanismo”, trad. it. in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia, cit., p. 89.
56 K. Kosík, La dialettica della morale e la morale della dialettica, trad. it. ivi, p. 73.
57 A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, cit., p. 133.
58 Ivi, p. 198.
59 Ivi, pp. 153-154.
60 K. Kosík, La crisi dell’uomo contemporaneo e il socialismo, trad. it. in Id., Un filosofo in tempi di farsa e di tragedia, cit., p. 107.
61 K. Kosík, Dialettica del concreto, cit., p. 93.
62 K. Kosík, La dialettica della morale e la morale della dialettica, cit., p. 78.
63 Ivi, p. 79.
64 K. Kosík, Dialettica del concreto, cit., p. 256.
65 Ivi, p. 261.
66 K. Kosík, La crisi dell’uomo contemporaneo e il socialismo, cit., pp. 111-112.
67 R. Havemann, op. cit., p. 158.
68 Ivi, p. 165.
69 L. Kołakowski, Über die Richtigkeit der Maxime «Der Zweck heiligt die Mittel», trad. ted. in ld., Der Mensch ohne Alternative, cit., p. 231.
70 L. Kołakowski, Die Weltanschuung and das tägliche Leben, trad. ted. ivi, p. 207.
71 Ivi, p. 210.
72 R. Kalivoda, op. cit., p. 178.
73 Ivi, pp. 157-158.
74 Ivi, pp. 181-182.
75 Ivi, p. 198.
76 Cfr. R. Havemann, op. cit., pp. 200-201.
77 K. Kosík, La crisi dell’uomo contemporaneo e il socialismo, cit., p. 144.
78 F. Šamalik, Agentomania, trad. it. in J. Čech (a cura di), Praga 1968. Le idee del “nuovo corso”, Bari, Laterza, 1968, p. 219.
79 A. Dubček, Il nuovo corso in Cecoslovacchia, trad. it. Roma, Editori Riuniti, 1968, p. 65.
80 J. Fibich, Tale statuto, tale democratizzazione, trad. it. in Praga 1968. cit., p. 189. Si ricordi che anche Kosík e Kalivoda hanno partecipato attivamente al nuovo corso cecoslovacco.
81 Cfr. L. Kołakowski, Der Sinn des Begriffes «Linke», trad. ted. in Id., Der Mensch ohne Alternative, cit., pp. 142-143.
82 L. Kołakowski, Der Priester und der Narr, cit., p. 280.
83 Cfr. A. Schaff, Il marxismo e la persona umana, cit., p. 249.
84 G.D. Neri, op. cit., p. 158. Come esemplificativi di questo atteggiamento cfr. Dissenso e socialismo, trad. it. Torino, Einaudi, 1977, e M. Vajda, Sistemi sociali oltre Marx, trad. it. Milano, Feltrinelli, 1980, su cui cfr. il mio Marxismo e socialismo reale, in «Dimensioni», 1981, n. 19, pp. 85-93.
Inserito il 12/05/2024.
Leszek Kołakowski (Radom, 1927 – Oxford, 2009)
Fonte della foto: https://www.treccani.it/enciclopedia/leszek-kolakowski/
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Robert Havemann (Monaco di Baviera, 1910 – Grünheide, 1982)
Fonte della foto: https://www.ardaudiothek.de/episode/kalenderblatt-deutschlandfunk/ddr-dissident-der-fall-robert-havemann/deutschlandfunk/13223755/
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Robert Havemann (Monaco di Baviera, 1910 – Grünheide, 1982), illustre scienziato, diventa comunista nella resistenza contro il nazismo. Catturato nel 1943 e condannato a morte, si salva in quanto «scienziato utile agli sforzi bellici» e viene impiegato nelle ricerche sulle armi chimiche. È detenuto nello stesso carcere in cui è rinchiuso anche il giovane Erich Honecker, che sarà più tardi segretario del Partito Socialista Unificato di Germania (SED) e uomo forte della DDR fino a poco prima della caduta del Muro.
Nel 1950 gli americani mettono un veto alla continuazione della carriera scientifica di Havemann a Berlino Ovest. Così la divisione della Germania fa di lui un personaggio di spicco tra gli scienziati della DDR. Ma in seguito alla pubblicazione del suo libro Dialettica senza dogma nel 1964 viene espulso dalla SED e licenziato dall’Accademia delle Scienze. Dopo le sue prese di posizione sul cosiddetto “caso Bormann” (1976) passerà gli ultimi anni della sua vita agli arresti domiciliari.
(Tratto da: Peter Kammerer, Rudolf Bahro: la coscienza come forza materiale, in AA.VV., L'altronovecento. Comunismo eretico e pensiero critico, vol. II, Il sistema e i movimenti. Europa 1945-1989, Milano, Jaca Book, 2011, pp. 455-456).
Robert Kalivoda (Praga, 1923 – Nová Ves pod Pleší, 1989)
Fonte della foto: https://www.phil.muni.cz/fil/scf/komplet/kalivo.html
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Robert Kalivoda (Praga, 11 dicembre 1923 – Nová Ves pod Pleší, 6 dicembre 1989) è stato un filosofo e storico ceco, rappresentante del marxismo non dogmatico e importante figura intellettuale della Primavera di Praga.
Nel 1942 si diplomò al liceo classico, nel 1943 completò un corso all’Accademia economico-commerciale. Alla fine della guerra fece parte, come teorico letterario, del gruppo surrealista Spořilovští surrealisté. Tra il 1945 e il 1949 studiò alla Facoltà di Lettere dell’Università Carolina di Praga. Dal 1948 al 1950 fu professore di scuola secondaria, dal 1950 al 1953 fu impiegato presso il Ministero della Pubblica Istruzione. Dal 1954 al 1970 ricercatore presso l’Istituto Filosofico dell’Accademia cecoslovacca delle Scienze. Negli anni ’60 fu uno dei volti di spicco della liberalizzazione del regime e, in definitiva, del processo di rinascita, nel quale fu particolarmente coinvolto in noti dialoghi tra cristiani e marxisti. Durante la Primavera di Praga Kalivoda si impegnò direttamente anche in politica e offrì alla discussione pubblica un modello di socialismo autonomo di tipo jugoslavo, ma non ebbe molto successo. In ogni caso, l’invasione delle truppe sovietiche segnò la fine della sua carriera. Nel 1970 fu fu rimosso dall’incarico di ricerca filosofica e trasferito all'Istituto pedagogico dell’Accademia delle Scienze. Nel 1974 andò in pensione prematuramente per motivi politici e non poté parlare in pubblico fino alla sua morte.
Prestò particolare attenzione agli hussiti, di cui indagò principalmente il radicalismo taborita, che vedeva come precursore della “rivoluzione borghese” e del modernismo.
Nello studio Realtà spirituale moderna e marxismo egli considerò l’avanguardia artistica ceca degli anni ’20 come il punto più alto della cultura ceca del XX secolo. Nello stesso volume avvicinò gli insegnamenti di Marx a quelli di Freud (questo sforzo di collegare il marxismo con la psicoanalisi aveva all'epoca molti riscontri anche in Occidente, ma in Cecoslovacchia tali considerazioni erano impensabili). Kalivoda classificò il marxismo come un movimento libertario e anche libertino, esaltando la sfera personale nell’azione dell’uomo, in contrasto aperto con le rigidità del marxismo ufficiale. La versione del marxismo di Kalivoda, insieme a quelle di Kosík, Machovcov e Goldstücker, costituì il nucleo ideologico e filosofico della Primavera di Praga.
(Tratto da: https://cs.wikipedia.org/wiki/Robert_Kalivoda).
Adam Schaff (Leopoli, 1913 – Varsavia, 2006)
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/2e/SCHAFF_GESTYKULUJE_upeC205.jpg?uselang=ru
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Karel Kosík (Praga, 1926 – Praga, 2003)
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Dal quotidiano «il manifesto»
di Bruno Cartosio
Torna in libreria per Alegre Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera di Cedric Robinson.
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Dentro l’anima della radicalità nera
di Bruno Cartosio
Nel corso degli anni Settanta si era affievolita negli Stati Uniti la forza d’urto di quei movimenti per i diritti civili e per la liberazione nera che erano stati l’innesco di tutte le mobilitazioni di massa nei vent’anni precedenti. E dal 1981 Reagan e la reazione neoliberista avevano fatto il resto. Ma per qualche anno ancora non si spense il fervore intellettuale che l’attivismo dei giovani – neri e bianchi, uomini e donne – aveva risvegliato. Sociologi e storici della politica, della società e della cultura, quarantenni entrati nelle università e nell’editoria, posero alla Storia alcune delle tante domande fondamentali sollevate nei lunghi anni Sessanta. La storia dell’America e del posto dell’America nel mondo cambiò faccia.
Una nuova generazione di ricercatori si era messa al lavoro, scrisse Herbert Gutman nel 1981, e «alla fine degli anni Settanta interi segmenti della storia americana erano cambiati».
Cedric Robinson, l’autore di Black Marxism, era più giovane di Gutman e dei suoi coetanei che avevano messo giù le fondamenta della nuova storia. Nato nel 1940, aveva la stessa età dei protagonisti del movimento nero – John Lewis, Stokely Carmichael, Huey Newton, H. Rap Brown, Angela Davis – e dei bianchi che, come lui, avevano tratto dalla militanza l’impulso alla ricerca: Todd Gitlin, Paul Buhle, Tom Hayden, Barbara Ehrenreich, Sara Evans, Meredith Tax…
È su questo terreno che è cresciuto Black marxism. Genealogia della tradizione radicale nera (Alegre, pp. 795, euro 35), pubblicato nel 1983 dalla londinese Zed Press, e ripubblicato nel 2000 e nel 2020 dalla University of North Carolina Press. L’edizione italiana, tarda ma benvenuta, è arricchita dalle utilissime prefazione e postfazione di Miguel Mellino.
Il libro si apre con un’impegnativa dichiarazione d’intenti dell’autore: «mappare i contorni storici e intellettuali dell’incontro tra il marxismo e il radicalismo nero, due programmi per il cambiamento rivoluzionario». Ma non si pensi a un regesto dei neri che sono stati marxisti, anche se l’ultima sua sezione è focalizzata su tre intellettuali neri marxisti del Novecento, gli storici e politici W.E.B. Du Bois e C.L.R. James e il romanziere Richard Wright. È invece un’amplissima rivisitazione – atipica ed eclettica, la definisce Mellino – di un percorso storico e storiografico plurisecolare che si snoda dall’affermarsi del capitalismo borghese in Europa alla sua espansione coloniale, alle schiavitù e alle forme di resistenza degli schiavi, all’emergere delle intellettualità nere, di cui gli autori appena citati sono rappresentativi.
Uno dei fili storici del percorso di Robinson è quello del rapporto squilibrato tra l’esistenza di una «tradizione radicale nera», imperniata sulla resistenza e sulle rivolte degli schiavi in tutte le Americhe, e un’elaborazione marxista che è cresciuta ignorandole, pur avendo i rapporti di produzione al centro dell’attenzione. Nella sua lettura della rivoluzione industriale, Marx aveva sottolineato il rapporto indissolubile tra la schiavitù velata del salario in Europa e la schiavitù senza aggettivi nelle colonie. Ma fino al Novecento i marxisti non sono andati oltre quel primo passo. Come se l’analisi dello scontro tra lavoratori e padroni si esaurisse nella fabbrica. E come se la resistenza dei lavoratori in schiavitù fosse trascurabile, essendo essi senza partito e sindacato, senza «classe».
Negli Stati Uniti ci sarebbero volute centinaia di autobiografie ottocentesche e, nel Novecento, migliaia di testimonianze di ex schiavi perché le soggettività degli schiavi, le loro culture, le loro comunità e la loro determinazione ad abbattere il sistema schiavistico (fino a trasformare la guerra civile in una guerra per distruggere la schiavitù) emergessero in tutta la loro pregnanza razziale. È stato W.E.B. Du Bois, alla cui biografia intellettuale e politica Robinson dedica un centinaio di pagine, a dare la giusta centralità al protagonismo nero. Altrettanto spazio è dedicato all’evoluzione di C.L.R. James da piccolo borghese antillano a storico e militante politico. Ed è significativo che le due opere storiche maggiori di quei due giganti uscissero quasi contemporaneamente: nel 1935, Black Reconstruction di Du Bois sul dopo-Guerra civile; nel 1938 Black Jacobins di James sulla rivolta dei neri di Haiti di fine Settecento. Se è vero, come dice Robinson che «lo schiavismo, storicamente, è stato un caposaldo del capitalismo», grazie a loro, razza e classe sono ora inscindibili nell’analisi marxista.
Il punto è decisivo. La strada per arrivarci, per arrivare a definire la «tradizione radicale nera» e a quello che viene definito «capitalismo razziale» è stata tracciata nei primi due terzi del libro. Non si può che sintetizzare. Sono le pagine insieme più ambiziose e più tentative, in cui l’autore spazia sul terreno dell’analisi e si muove con una certa libertà disciplinare e narrativa attraverso epoche e continenti. Non tutto è ugualmente convincente, quasi tutto è interessante e spesso avvincente.
Prima di Du Bois e James e prima dei movimenti di liberazione in Africa nel dopoguerra, dice Robinson, l’idea che potesse esistere «una connessione ideologica» tra i ribelli neri delle due sponde dell’Atlantico non era niente più di «un’ipotesi remota».
Dopo, diventava impossibile negare che i radicalismi neri fossero e fossero stati una risposta – «africana», sottolinea – all’oppressione intrinseca a «fattori imprescindibili per lo sviluppo dell’Europa moderna» e alle forme di «sfruttamento dell’uomo» intessute nella «vita sociale sin dalle origini della sua civiltà». Qui Robinson forza la mano. È uno schematismo eccessivo affermare che «non è in quanto schiavi, dopo tutto, ma in quanto africani, che le donne e gli uomini hanno reagito alla schiavizzazione».
Perché separare la condizione materiale dell’essere schiavo, diversa ma comune in tutte le Americhe, dai retaggi altrettanto comuni e diversi delle origini africane? Non si rischia, nel farlo, di spogliare la storia dello stesso capitalismo della sua natura sociale e di trasformare il radicalismo nero in un fatto genetico? E su un altro piano, non perderebbe di senso quel tentativo che l’autore riconosce a James di «riconciliazione teorica delle tradizioni nere e occidentali»?
Robinson ha di certo assimilato i contributi di ricerca che negli anni precedenti avevano portato i neri al centro del dibattito culturale, e forse rimane sintonizzato sul protagonismo-separatismo messo in campo dal radicalismo politico nero di quegli anni. Entrambi finalizzati a cancellare le secolari esclusioni dalla storia. Ma non solo.
Viene da qui il passo più ambizioso sul piano teorico: l’inserimento della componente razziale nel discorso centrale sulle origini e lo sviluppo del capitalismo. Nelle sue parole: «Lo sviluppo, l’organizzazione e l’espansione della società capitalistica, così come l’ideologia sociale, hanno perseguito direzioni essenzialmente razziali. In quanto forza materiale, pertanto, era nell’ordine delle cose che il razzismo finisse per permeare anche le strutture sociali emerse con il capitalismo. Per riferirmi a questo sviluppo e alla sua successiva strutturazione in quanto agire sociale, ho usato il termine ‘capitalismo razziale’».
Robinson non fu il primo né l’ultimo a usare quell’espressione ma, come scrive Mellino, fu forse l’unico a pensarlo come «il nucleo di una nuova teoria generale delle stesso modo di produzione capitalistico».
Bruno Cartosio
(Tratto da: Bruno Cartosio, Dentro l’anima della radicalità nera, in «il manifesto», Anno LIII, n. 299, 19 dicembre 2023).
Inserito il 12/04/2024.
Wolfgang Harich (1923-1995).
Fonte della foto: https://commons.wikimedia.org/wiki/File:Bundesarchiv_Bild_183-1993-0105-514,_Wolfgang_Harich_in_seiner_Wohnung.jpg
Dal blog di Maurizio Acerbo
di Alexander Amberger
Dal sito della Rosa Luxemburg Foundation un articolo di Alexander Amberger per il centenario di Wolfgang Harich (9 dicembre 1923-15 marzo 1995). Harich, che condivideva la critica dello stalinismo di Bertolt Brecht, György Lukács e Ernst Bloch, nel 1956 divenne noto a livello internazionale per la condanna che subì a 10 anni di carcere. È considerato anche un pioniere dell’ecologia e della decrescita per il suo libro degli anni ’70 Comunismo senza crescita. Rimase comunista democratico anche dopo il crollo del “socialismo reale” aderendo alla PDS (che poi aderì alla Linke).
Maurizio Acerbo
(Segretario nazionale del PRC)
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Wolfgang Harich. Intellettuale anticonformista, dissidente della DDR e primo eco-leninista
«Il dogma della crescente domanda di energia, che riflette semplicemente la compulsione del capitalismo a capitalizzare ed espandere la riproduzione, deve essere risolutamente gettato in mare. Perché […] le centrali elettriche a carbone, come tutta la combustione di risorse fossili, sovraccaricano l’atmosfera di sostanze inquinanti, in particolare di anidride carbonica». No, questa affermazione non è stata fatta recentemente da Kohei Saito o Andreas Malm. Risale al 1977. Wolfgang Harich ha detto questo all’epoca.
Il suo biografo Siegfried Prokop lo descrisse come il “primo verde della DDR”. Chi era quest’uomo che cinquant’anni fa invocava il “comunismo senza crescita”?
Wolfgang Harich nacque cento anni fa, il 9 dicembre 1923, nell’allora Königsberg. Veniva da una famiglia della classe media. La famiglia si trasferì presto a Neuruppin e poi a Berlino, dove Harich trascorse la sua giovinezza prima di essere arruolato nella Wehrmacht. Riuscì a evitare il servizio militare due volte. Dopo il secondo tentativo riuscì a nascondersi e divenne attivo nel “Gruppo di resistenza Ernst” di orientamento comunista. Dopo la fine della guerra fu inserito nella lista delle persone non incriminate scelte dal “Gruppo Ulbricht” per ristabilire l’ordine pubblico nella Berlino distrutta. Ma Harich non era attratto dalla politica, bensì dalla cultura e dalla filosofia. Inizialmente lavorò in tutta la città, presto trasferì le sue attività nella parte orientale di Berlino e qui scrisse per i giornali della zona di occupazione sovietica.
Harich era considerato un prodigio intellettuale. Divenne membro della SED, si affermò come critico culturale e teatrale, lavorò come redattore presso la neonata Aufbau Verlag e completò gli studi di filosofia.
Ben presto conseguì il dottorato, divenne docente all’Università Humboldt e redattore capo della «Rivista tedesca di filosofia». Insieme a Ernst Bloch e György Lukács sostenne un aperto conflitto di opinioni al fine di sviluppare ulteriormente il marxismo. Entrò ripetutamente in conflitto con la SED, che voleva imporre un marxismo-leninismo dogmatico. Harich cercò il dibattito e non si fece solo amici. Nel 1956, infine, commise il più grande errore della sua vita, che lo rese anche uno dei più importanti “dissidenti” della DDR. Tra febbraio e marzo si svolse il XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, al termine del quale fu pronunciato il famoso “discorso segreto” di Chruščëv. Questo discorso interno sui crimini staliniani e sugli sviluppi indesiderati divenne presto pubblico e raggiunse anche gli intellettuali della DDR attraverso il confine occidentale aperto. Dopo che il 17 giugno 1953 la maggior parte di loro era rimasta in silenzio o aveva appoggiato la linea della SED, ora, quasi tre anni dopo, chiedevano riforme e una de-stalinizzazione della DDR. Il leader dello Stato e del partito Walter Ulbricht si trovò sulla difensiva; i nuovi governanti di Mosca non lo sostenevano più fermamente. Tuttavia, seguirono nel corso dell’anno le rivolte in Ungheria e Polonia, preannunciando un cambiamento di rotta nell’Unione Sovietica e rafforzando nuovamente la posizione di Ulbricht, poiché il “Grande Fratello” a Mosca aveva perso interesse in ulteriori tentativi di riforma negli Stati del suo blocco.
Gli intellettuali critici non videro questo sviluppo e continuarono ad agire contro Ulbricht. Uno dei protagonisti fu Harich. Il corso degli eventi e le motivazioni dei protagonisti nel 1956 sono ancora oggi oggetto di dibattito. Descrivere gli eventi nel dettaglio andrebbe oltre lo scopo di questo articolo. In ogni caso, Harich scrisse diversi testi con proposte di riforma: tra le altre cose, chiese la fine della pretesa di rappresentanza esclusiva della SED, la sostituzione di Ulbricht, una maggiore democrazia e autodeterminazione nelle fabbriche e l’abolizione della STASI. Una DDR riformata sarebbe diventata più attraente per i lavoratori della Germania occidentale e, se la SPD avesse vinto le elezioni parlamentari del 1957, la strada verso l’unità sotto l’egida democratico-socialista sarebbe stata aperta. Ma era troppo tardi. Ulbricht era tornato saldamente in sella e mise a tacere l’intellighenzia ribelle. La lotta per la linea politica sulle questioni filosofiche fu vinta dalla leadership del partito. Il risultato fu un’ossificazione strisciante e un’ulteriore ideologizzazione del marxismo. La SED non era interessata a nuovi impulsi provenienti dall’esterno. Per loro la filosofia doveva essere una scienza partigiana di legittimazione. Un certo numero di intellettuali perse i propri incarichi e privilegi, alcuni lasciarono il Paese, altri furono messi politicamente ai margini e trasferiti nelle province. Uno dei più colpiti fu Harich, condannato a dieci anni di carcere in un processo-farsa. Poiché – secondo la sua stessa dichiarazione sotto la minaccia della pena di morte – aveva testimoniato contro diversi coimputati della casa editrice Aufbau, in seguito fu sempre considerato un collaboratore. In particolare, il direttore della casa editrice Walter Janka, anch’egli imprigionato, nutrirà per tutta la vita rancore nei confronti di Harich.
Quando Harich fu rilasciato anticipatamente dal carcere alla fine del 1964, il mondo era cambiato. La Germania era ormai divisa dal Muro, la DDR stava vivendo una ripresa economica e socialista, mentre in Occidente il movimento studentesco cominciava a mettere in discussione le vecchie istituzioni. Harich rifiutò l’offerta di andare in Germania Ovest. Come comunista, vedeva il suo posto a Berlino Est, anche se il partito gli rendeva la vita difficile. Gli fu negato il diritto di insegnare nuovamente in un’università. Gli fu invece affidata la filosofia classica tedesca, Ludwig Feuerbach e Jean Paul. Gli fu anche permesso di pubblicare qualcosa su questo argomento. Ma questo non gli bastava. Voleva impegnarsi, tenere il marxismo al passo con i tempi, affrontare e discutere le questioni attuali. A differenza del 1956, però, ora rendeva tutto pubblico e trasparente, inviando i suoi concetti, le sue proposte e le sue idee ai funzionari della SED come consigli politici non richiesti. Tuttavia, in questo caso non fu mostrato alcun interesse. Ad Harich fu almeno permesso di pubblicare molte delle sue idee in Occidente.
Interesse precoce per la questione ecologica
La questione ecologica divenne presto importante per lui. Harich ha ricevuto il primo Rapporto del Club di Roma del 1972 e testi simili provenienti dall’Occidente. Questo lo fece ripensare. Fu uno dei primi marxisti tedeschi a dedicarsi alla questione della crescita. Considerava impossibile il capitalismo senza crescita, mentre il comunismo senza crescita era possibile, ma richiedeva una revisione radicale del marxismo. Ciò che è necessario è un allontanamento dal vecchio ideale del comunismo della prosperità materiale e un movimento verso un’eco-dittatura comunista globale. Solo così sarà possibile risolvere i problemi dell’umanità, poiché solo le istituzioni centralizzate possono pianificare in modo che tutto sia distribuito equamente e rapidamente e che venga prodotto solo quanto è necessario. Harich venne poi denunciato come un “eco-stalinista”, il che non ha senso. Non sosteneva il terrore arbitrario, le sparatorie di massa, i Gulag o l’industrializzazione forzata senza riguardo per l’ambiente e la vita umana, che erano caratteristiche centrali dello stalinismo. Il suo obiettivo era piuttosto quello di risparmiare il massimo delle risorse e delle libertà prima che l’umanità distruggesse completamente le basi della sua esistenza. Lui stesso reagì all’accusa nel modo seguente: «Il capitalismo raziona anche i beni di consumo attraverso i prezzi, e ciò significa: li raziona ingiustamente, vale a dire in modo tale che i ricchi abbiano ancora la libertà di godere di tutti i piaceri e vizi, mentre loro si dilettano, le masse devono stringere la cinghia». Preferiva un’eco-dittatura egualitaria. Dopo la fine del socialismo reale, rivide questo modello, allontanandosi dai concetti dittatoriali verso modelli democratici consiliari.
Il suo ruolo nel dibattito su Nietzsche della fine degli anni Ottanta, in cui si oppose con veemenza alla riabilitazione di questo filosofo nella DDR, fu quantomeno fuorviante. Il tutto si svolse nel contesto di un cambiamento generale nella politica culturale del SED. Volevano appropriarsi del patrimonio nazionale da Lutero a Bismarck. Harich non era contrario di per sé, ma vedeva Nietzsche chiaramente oltrepassare il limite. Secondo lui sarebbe stato meglio onorare Feuerbach, Jean Paul e, soprattutto, Lukács invece di riabilitare la mente del fascismo. Harich si ritrovò di nuovo intrappolato tra i fronti politici. A causa del suo veemente no, espresso anche in forma abbreviata nel corso del dibattito, fu nuovamente messo da parte. Anche il suo comportamento irascibile lo screditò completamente. Poco dopo, nell’autunno del 1989, Harich sostenne una rapida riunificazione tedesca sotto l’egida socialista democratica, smilitarizzata e con la neutralità del blocco. Le sue richieste furono messe a tacere di nuovo.
I suoi rapporti con la PDS si sono incrinati dopo il 1990. Walter Janka, un “co-cospiratore” della casa editrice Aufbau nel 1956, sedeva nel suo consiglio degli anziani. Aveva etichettato Harich come traditore fin dagli anni Sessanta e lo accusò nuovamente e pubblicamente nel 1989 nel suo libro di memorie Difficoltà con la verità. Harich si difese con il libro Keine Schwierigkeiten mit der Wahrheit (Nessuna difficoltà con la verità), ma non riuscì a scrollarsi di dosso la cattiva reputazione, anche se si batté con successo per la sua visione delle cose in tribunale diverse volte nei pochi anni che precedettero la sua morte nel 1995. Lavorò anche nella “Commissione alternativa di inchiesta” per una rivalutazione riconciliatoria della storia contemporanea tedesco-tedesca e poi si unì alla PDS poco prima della sua morte. Come comunista, non voleva lasciare la vita senza una tessera di iscrizione al partito.
Dopo la morte di Harich, la vedova portò il suo patrimonio all’archivio di Amsterdam. I documenti sono stati conservati fino a quando il politologo Andreas Heyer ha iniziato a setacciarli, ordinarli e infine pubblicarli nel 2012. Il primo volume della serie è stato pubblicato nel 2013, in occasione del 90° anniversario della sua nascita. Dieci anni e venti libri dopo, è ora disponibile il volume finale dell’edizione, sostenuta dalla Rosa-Luxemburg-Stiftung. È così possibile rileggere e riscoprire il più interessante dei filosofi della DDR. Si tratta di un tesoro non solo per i ricercatori della storia della DDR o della teoria politica. Vale anche la pena di analizzare le idee di quello che probabilmente è stato il primo eco-leninista al mondo nel contesto degli attuali dibattiti sulla crescita.
Alexander Amberger
(Traduzione di Maurizio Acerbo)
(Tratto dal blog di Maurizio Acerbo, segretario nazionale del Partito della Rifondazione Comunista: https://www.maurizioacerbo.it/blogs/?p=7078&fbclid=IwAR2vegY7G-BHBj4IouLWUifprsRF5hOjUd4UCOPoKhjp0HTqMewhTAFwodA; link dell’articolo originale: https://www.rosalux.de/news/id/51284/nonkonformer-intellektueller-ddr-dissident-und-erster-oeko-leninist).
Inserito il 10/12/2023.
di Franco Fortini
Dall’amico Marco Bartalucci riceviamo la segnalazione di una definizione di comunismo scritta da Franco Fortini nel 1989 per il primo numero dell’inserto satirico del giornale del PCI «l’Unità», «Cuore», diretto da Michele Serra.
Come si vedrà, non si tratta di una definizione facile, scontata, banale, e non è detto che tutti coloro che al comunismo si ispirano o per il comunismo lottano concordino con essa, ma ciò che Fortini scrive qui è senza dubbio un contributo utile allo sviluppo e all’auspicabile rilancio di questa idea del mondo e della storia futura dell’umanità.
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Che cos’è il comunismo
di Franco Fortini
Il combattimento per il comunismo è il comunismo. È la possibilità (scelta e rischio, in nome di valori non dimostrabili) che il maggior numero possibile di esseri umani viva in una contraddizione diversa da quella odierna. Unico progresso, ma reale, è e sarà un luogo di contraddizione più alto e visibile, capace di promuovere i poteri e le qualità di ogni singola esistenza. Riconoscere e promuovere la lotta delle classi è condizione perché ogni singola vittoria tenda ad estinguere quello scontro nella sua forma presente e apra altro fronte, di altra lotta, rifiutando ogni favola di progresso lineare e senza conflitti.
Meno consapevole di sé quanto più lacerante e reale, il conflitto è fra classi di individui dotati di diseguali gradi e facoltà di gestione della propria vita. Oppressori e sfruttatori (in Occidente, quasi tutti; differenziati solo dal grado di potere che ne deriviamo) con la non-libertà di altri uomini si pagano quella, ingannevole, di scegliere e regolare la propria individuale esistenza.
Il confine di tale loro «libertà» non lo vivono essi come confine della condizione umana ma come un nero Niente divoratore. Per rimuoverlo gli sacrificano quote sempre maggiori di libertà, cioè di vita, altrui; e, indirettamente, della propria. Oppressi e sfruttati (e tutti, in qualche misura lo siamo; differenziati solo dal grado di impotenza che ne deriviamo) vivono inguaribilità e miseria di una vita incontrollabile, dissolta in insensatezza e non-libertà. Né questi sono migliori di quelli, finché si ingannano con la speranza di trasformarsi in oppressori e sfruttatori. Migliori cominciano ad esserlo invece da quando assumono la via della lotta per il comunismo; che comporta durezza e odio per tutto quel che, dentro e fuori degli individui, si oppone alla gestione sovraindividuale delle esistenze; e flessibilità e amore per tutto quel che la promuove e fa fiorire.
Il comunismo in cammino (un altro non ne esiste) è dunque un percorso che passa anche attraverso errori e violenze tanto più avvertite come intollerabili quanto più chiara sia la consapevolezza di che cosa siano gli altri, di che cosa noi si sia e di quanta parte di noi costituisca anche gli altri. Comporterà che uomini siano usati come mezzi per un fine che nulla garantisce; invece che, come oggi avviene, per un fine che non è mai la loro vita. Ma chi sia dalla lotta costretto ad usarli come mezzi mai potrà concedersi buona coscienza o scarico di responsabilità sulla necessità e la storia.
Dovrà evitare l’errore di credere in un perfezionamento illimitato; ossia di credere che l’uomo possa uscire dai propri limiti biologici e temporali. Con le manipolazioni più diverse quell’errore ha già prodotto e può produrre dei sottouomini o dei sovrauomini; questi cioè e quelli. Ereditato dall’illuminismo e dallo scientismo, depositato nella cultura faustiana della borghesia vittoriosa, quell’errore ottimistico fu presente anche in Marx e in Lenin. Oggi trionfa nella maschera tecnocratica del capitale. Un al di là dell’uomo può essere solo un al di là dell’uomo presente, non quello della specie. Comunismo è rifiutare ogni specie di mutanti per preservare la capacità di riconoscerci nei passati e nei venturi.
Il comunismo in cammino adempie l’unità tendenziale tanto di eguaglianza e fraternità, quanto di sapere scientifico e di sapienza etico-religiosa. La gestione individuale, di gruppo e internazionale dell’esistenza (con i nessi insuperabili di libertà e necessità, di certezza e rischio) implica la conoscenza dei limiti della specie umana e della sua infermità radicale (anche nel senso leopardiano). È una specie che si definisce dalla capacità di conoscere e dirigere se stessa e di avere pietà di sé. La identificazione con le miriadi scomparse e con quelle non ancora nate è rivolgimento amoroso verso i vicini e i prossimi, allegoria dei lontani.
Il comunismo è il processo materiale che vuol rendere sensibile e intellettuale la materialità delle cose dette spirituali. Fino al punto di saper leggere e interpretare nel libro del nostro medesimo corpo tutto quel che gli uomini fecero e furono sotto la sovranità del tempo, le tracce del passaggio della specie umana sopra una terra che non lascerà traccia.
Franco Fortini
(Tratto da: Franco Fortini, Che cos’è il comunismo, in «Cuore», Anno I, n. 1, inserto satirico de «l’Unità», 16 gennaio 1989).
Inserito il 21/11/2023.
Il filosofo Costanzo Preve (1943-2013).
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🔴 di Stefano Gallerini 🔴
Il prossimo 23 novembre ricorre il decimo anniversario della scomparsa di Costanzo Preve (1943-2013). Pur essendo stato uno dei maggiori filosofi italiani degli ultimi decenni, Preve è pressoché sconosciuto al grande pubblico. Non è stato soltanto il carattere, riservato e schivo, a decretare il suo isolamento, ma anche e soprattutto le sue idee e le sue prese di posizione, totalmente estranee al dibattito culturale mainstream.
Stefano Gallerini, docente di Storia e Filosofia al Liceo scientifico “A. Gramsci” di Firenze, ricostruisce il percorso intellettuale di questa importante figura del panorama filosofico contemporaneo, una voce originale nell’ambito del marxismo italiano.
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Un eretico maestro
In memoria di Costanzo Preve
Il prossimo 23 novembre ricorre il decimo anniversario della scomparsa di Costanzo Preve (1943-2013). Pur essendo stato uno dei maggiori filosofi italiani degli ultimi decenni, al pari di un altro grande intellettuale come Massimo Bontempelli (1946-2011), Preve è pressoché sconosciuto al grande pubblico. Non è stato soltanto il carattere, riservato e schivo, a decretare il suo isolamento, ma anche e soprattutto le sue idee e le sue prese di posizione, totalmente estranee al dibattito culturale mainstream.
Costanzo Preve si era laureato in scienze politiche a Torino nel 1967, ma negli anni precedenti, vincendo una serie di borse di studio, era stato più volte all’estero per coltivare la sua passione per la filosofia, prima a Parigi, dove era entrato in contatto con Louis Althusser e la sua scuola, poi alla Freie Universität di Berlino e, infine, ad Atene. Dopo la laurea, Preve aveva intrapreso la carriera di insegnante di storia e filosofia nelle scuole secondarie superiori e, come tutti i giovani della sua generazione, aveva intensamente partecipato alla stagione dei movimenti degli anni Settanta. Iscritto per qualche anno al PCI, se ne era ben presto allontanato rivolgendo la sua attenzione all’area della nuova sinistra. Nel 1982, con Augusto Illuminati, Gianfranco La Grassa e Maria Turchetto, aveva fondato a Milano il Centro Studi sul Materialismo Storico (CSMS). L’anno seguente, in occasione del centenario della morte di Marx, era stato con Emilio Agazzi il principale promotore di un convegno di studi, da cui sarebbe nata una rivista significativamente intitolata «Marx101». Nel 1984, pubblicata dalla casa editrice Franco Angeli, uscì la sua prima monografia, dal titolo La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo. Negli anni seguenti portò avanti quella che con György Lukács potremmo definire la sua personale «militanza culturale» scrivendo sulla rivista mensile di Democrazia proletaria (DP), partito al quale fu iscritto dal 1988 al 1991. Dopo la confluenza di DP nel Partito della Rifondazione Comunista (PRC), Preve abbandonò l’impegno politico diretto e avviò un proficuo rapporto di collaborazione con l’editore Vangelista, presso il quale pubblicò nella prima metà degli anni Novanta numerosi saggi. Il progetto, estremamente ambizioso, era quello di dare vita ad un nuovo paradigma marxista, che mettesse in condizione tutti coloro che, dopo il crollo di quello che Preve chiamava il «comunismo storico novecentesco», non accettavano l’idea di rassegnarsi al trionfo del capitalismo nella sua versione liberista, di affrontare le sfide del presente e continuare a tenere aperta la via di una trasformazione rivoluzionaria della società. Di questi saggi segnalo Il filo di Arianna. Quindici lezioni di filosofia marxista (1990), la trilogia uscita nel biennio 1991-1992 – Il convitato di pietra. Saggio su nichilismo e marxismo, Il pianeta rosso. Saggio su marxismo e universalismo e L’assalto al cielo. Saggio su marxismo e individualismo – e, soprattutto, quella che a mio giudizio rimane una delle sue opere più riuscite, Il tempo della ricerca. Saggio sul moderno, il post-moderno e la fine della storia (1993).
Alla fine degli anni Novanta Preve ebbe un momento di sbandamento, in quanto cominciò ad affermare che, ai fini di una prospettiva di stampo anticapitalistico, il marxismo, per quanto opportunamente aggiornato e rinnovato, non era più sufficiente, ma occorreva un non meglio precisato nuovo pensiero, nell’ambito del quale Marx avrebbe continuato a rappresentare un insostituibile punto di riferimento, insieme, però, ad altre componenti e correnti di pensiero. Tuttavia, con grande onestà intellettuale, Preve si rese conto dell’errore compiuto e riprese a lavorare al suo progetto teorico, come dimostra la monografia uscita nel 2004 per i tipi della casa editrice Bollati Boringhieri dal titolo Marx inattuale. Eredità e prospettive. Di fronte all’ostracismo decretatogli dagli ambienti intellettuali della cultura mainstream, negli ultimi quindici anni della sua vita Preve trovò un prezioso sostegno nella casa editrice CRT di Pistoia, acronimo di Comunità Recupero Tossicodipendenti, in quanto nata dalla trasformazione di un ente sorto in origine con altre finalità ed altri obiettivi. È presso questa casa editrice, che in anni più recenti assumerà la denominazione di Petite Plaisance, che Costanzo Preve, oltre a fare uscire una serie interminabile di brevi saggi, pubblicherà, proprio nell’anno della sua morte, quello che è possibile definire il suo canto del cigno, vale a dire Una storia alternativa della filosofia. Il cammino ontologico-sociale della filosofia, un vero e proprio manuale alternativo di storia della filosofia, fedele al metodo della deduzione storico-sociale delle categorie filosofiche, anche di quelle apparentemente più astratte e lontane dalla realtà.
Abbiamo più volte usato termini quali emarginazione, isolamento, ostracismo, ecc. per definire la situazione in cui si trovò ad operare Costanzo Preve a partire dal periodo a cavallo tra la fine degli anni Ottanta e l’inizio degli anni Novanta del XX secolo. Quali le ragioni di fondo di questo stato di cose?
In primo luogo, Preve, nel tentativo di elaborare quello che amava definire «un nuovo paradigma marxista», aveva messo in discussione tutta una serie di categorie e dicotomie su cui la sinistra aveva costruito nel tempo la propria identità, a partire dalle coppie concettuali borghesia/proletariato e destra/sinistra. Preve non teorizzava la scomparsa delle classi sociali, ma si diceva convinto che termini quali borghesia e proletariato fossero diventati del tutto inservibili alla luce delle trasformazioni che avevano investito le società a capitalismo avanzato e la loro struttura di classe. Borghesia e proletariato erano due classi-soggetto, che avevano animato il conflitto sociale per tutto l’Ottocento e per gran parte del Novecento, ma la cui identità era stata dissolta dalle trasformazioni prodotte in ambito culturale, economico e sociale dal capitalismo contemporaneo, che, agli occhi di Preve, si presentava come un processo senza soggetto, destinato a riprodursi in modo sempre più anonimo, impersonale e apparentemente «naturale».
Ancora più scandalosa la tesi che destra e sinistra, lungi dal rappresentare due schieramenti alternativi, erano due articolazioni di quello che Preve chiamava «il partito unico del capitalismo». Nel suo linguaggio filosoficamente elaborato, Preve amava definire destra e sinistra come due realtà legate tra loro da «un rapporto di solidarietà antitetico-polare», cioè due facce della stessa medaglia. Preve a più riprese ha dichiarato che il capitalismo, entrato nella fase della globalizzazione neoliberista, si presentava come una totalità organica economicamente di destra e culturalmente di sinistra. Quindi, a suo giudizio, quello di sinistra era un concetto da abbandonare, in quanto del tutto interno al campo capitalistico, altrettanto, se non forse addirittura di più, di quello di destra. Non a caso, in occasione della prima guerra del Golfo Persico (1991) contro l’Iraq di Saddam Hussein, Preve ebbe una polemica estremamente aspra con Norberto Bobbio, uno dei teorici della contrapposizione destra/sinistra. Una presa di posizione ancora più forte da parte di Preve la si ebbe in occasione dell’aggressione della NATO alla Jugoslavia nel 1999, cui l’Italia, a capo della quale c’era allora il governo dell’ex comunista Massimo D’Alema, partecipò indirettamente. In quella circostanza Costanzo Preve parlò esplicitamente di «nazismo umanitario» a proposito dei bombardamenti occidentali su Belgrado e sulle altre città di ciò che restava della Federazione Jugoslava. Posizioni altrettanto coraggiose sono state prese da Preve per condannare le politiche neocoloniali perseguite da Israele ai danni del popolo palestinese. Respingendo le accuse di antisemitismo, che a più riprese gli sono state rivolte, Preve sosteneva la necessità di distinguere tra antisemitismo e antisionismo. Non si dovevano mai dimenticare Auschwitz e i suoi orrori, ma, allo stesso tempo, si doveva denunciare l’uso strumentale che Israele faceva della memoria della Shoah, muovendo l’accusa di antisemitismo nei confronti di tutti coloro che non accettano il sionismo «e che non sono disposti a derubricare a semplici errori i suoi veri e propri crimini». L’accusa – del tutto infondata – di antisemitismo si lega a doppio filo a quella – altrettanto infondata – di “rossobrunismo”, derivante dal fatto che Preve ha manifestato grande attenzione e interesse per il pensiero di Alain De Benoist, uno dei maggiori teorici della cosiddetta “nuova destra”, e, soprattutto, per la filosofia di Martin Heidegger, da lui considerato il maggior pensatore del Novecento, la cui adesione al nazismo, in base agli studi più recenti, tra cui il fondamentale Heidegger e gli ebrei. I “Quaderni neri” (2014) di Donatella Di Cesare, non sembra più essere interpretabile come un mero incidente di percorso.
Inoltre, a Preve è stata anche rivolta l’accusa di aver pubblicato qualche scritto con case editrici di matrice apertamente neofascista, come «All’insegna del Veltro» e «Settimo Sigillo». In realtà, più che da un preciso disegno politico – l’alleanza spuria tra estrema destra e estrema sinistra in funzione antisistema –, il confronto e il dialogo con esponenti e riviste di estrema destra sembra essere stato dettato dall’esigenza, umanamente comprensibile, di sottrarsi alla soffocante censura decretata ai suoi danni dagli intellettuali organici al partito unico del capitalismo, che, monopolizzando l’industria culturale e il sistema dei mass media, costringono al silenzio tutte le voci dissonanti dal coro del pensiero unico e del politically correct.
Che Costanzo Preve sia stato un eretico maestro, contrario allo spirito del proprio tempo, lo conferma anche il suo approccio al pensiero di Marx. Preve è sempre stato un hegelo-marxista, nel senso che ha sempre sostenuto il rapporto di continuità tra la filosofia di Hegel e quella di Marx, sottolineando nel pensiero di quest’ultimo la centralità della dialettica hegeliana, da Preve definita a più riprese «la grammatica teorica del comunismo». Grazie a questa impostazione, Preve ha respinto le interpretazioni della teoria di Marx di tipo deterministico e meccanicistico, prevalenti, sia pure con differenti sfumature, sia nel marxismo della Seconda che in quello della Terza Internazionale. Nessuna necessità, nessuna teleologia determina l’esito dei processi storici, in quanto causalità e finalismo coesistono nell’attività umana per eccellenza, cioè il lavoro, che fornisce il modello di ogni agire dell’uomo, «e, al tempo stesso, costituisce quella prassi fondativa che innesca i processi causali che trasformano natura e società» (Carlo Formenti).
Non a caso, un filosofo estremamente caro a Costanzo Preve è stato György Lukács, ma non tanto il Lukács di Storia e coscienza di classe, quanto il Lukács autore dell’Ontologia dell’essere sociale, che Preve considerava un capolavoro della filosofia contemporanea. Fin dai suoi esordi in campo editoriale, prendendo le distanze dalle interpretazioni tradizionali del pensiero di Marx, Costanzo Preve ha dichiarato che lo statuto filosofico del marxismo non fosse un materialismo sui generis, per quanto riveduto e corretto in chiave socio-economica, ma una vera e propria ontologia dell’essere sociale. Ma questo non è stato l’unico contributo di rilievo fornito da Marx allo sviluppo della scienza filosofica. Infatti, Marx non si è limitato ad elaborare una critica dell’economia politica, che ha messo a nudo le contraddizioni implicite nelle leggi di sviluppo del modo capitalistico di produzione, ma, in modo più originale, Preve, appoggiandosi ad uno dei passi più famosi dei Grundrisse («I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio»), ha messo in evidenza come Marx avesse creato i presupposti per una teoria della libera individualità. Sviluppando creativamente la teoria marxiana della libera individualità, Preve giunge alla conclusione che si potesse considerare la stessa natura umana come una risorsa intrinsecamente e potenzialmente anticapitalistica, in quanto l’essenza dell’uomo come individuo sociale – πολιτικὸν ζῷον nella celebre definizione della Politica di Aristotele – fa della natura umana un elemento di resistenza alla dissoluzione comunitaria operata dal modo capitalistico di produzione, la cui legge fondamentale è l’illimitata valorizzazione del capitale attraverso la distruzione dell’ambiente naturale e la riduzione a merce della forza-lavoro salariata. Trovando ispirazione in uno dei passi più belli del Manifesto del partito comunista («Alla vecchia società borghese con le sue classi e i suoi antagonismi di classe subentra un’associazione in cui il libero sviluppo di ciascuno è condizione del libero sviluppo di tutti»), Preve sembra pensare al comunismo come ad una forma di società in cui trova piena realizzazione la duplice natura dell’uomo come animale razionale e come individuo sociale. Questa convinzione, consistente nel dire che il segreto della rifondazione del comunismo sia di natura prevalentemente, se non esclusivamente, antropologica, è stata al centro del progetto editoriale avviato con la pubblicazione della rivista «Comunismo e comunità», di cui Costanzo Preve è stato, fino all’ultimo, uno degli animatori.
A questa intuizione se ne può aggiungere un’altra e cioè che quello di Marx fosse una sorta di «idealismo della materialità». In due saggi – Ripensare Marx: filosofia, idealismo, materialismo (2007) e Una approssimazione al pensiero di Karl Marx: tra materialismo e idealismo (2010) – Costanzo Preve si spinge ad affermare che Marx non fosse un filosofo materialista, ma un intellettuale idealista, intuizione poi ripresa da uno dei suoi più brillanti allievi e cioè Diego Fusaro, che a questo tema ha dedicato uno specifico volume, intitolato per l’appunto Marx idealista. La tesi secondo cui Marx sarebbe un filosofo idealista, erede di Fichte e di Hegel, è fondata soprattutto sulla valorizzazione di uno dei testi filosoficamente più densi tra quelli scritti da Marx, cioè le undici Tesi su Feuerbach, in cui si pone in termini dialettici il rapporto tra oggetto e soggetto, sottolineando la centralità della prassi umana. Così facendo Preve tende a reinserire Marx nel solco dell’idealismo tedesco e più in generale in quello della tradizione filosofica, a partire dalla filosofia greca, nell’ambito della quale mette in evidenza la dipendenza di Marx dal pensiero di Aristotele ed Epicuro. Questa interpretazione rappresenta una profonda innovazione nel campo degli studi marxiani e una scelta di rottura dal forte impatto politico, in quanto, secondo Preve, le possibilità di una ripresa del progetto comunista dipendono, anche e soprattutto, dalla riscoperta della funzione veritativa della pratica filosofica. Riprendendo anche in questo caso la lezione di Hegel, Preve è stato per tutto l’arco della sua vita uno strenuo difensore della filosofia concepita come una vera e propria scienza, il cui obiettivo è l’accertamento della verità, al di là di qualsiasi fraintendimento relativistico.
Al pari di grandi figure della filosofia come Socrate, Epicuro, Giordano Bruno, Baruch Spinoza, Karl Marx, ecc., Costanzo Preve ha consapevolmente accettato di pagare un prezzo alquanto elevato in termini di emarginazione intellettuale e isolamento personale, pur di rimanere irriducibilmente fedele alla sua duplice «passione durevole» (Lukács) per il comunismo e per la filosofia. Ma, poiché, come amava dire Antonio Gramsci, «la verità è sempre rivoluzionaria», non abbiamo dubbi sul fatto che, in un tempo non lontano, anche a Costanzo Preve verrà riconosciuto il rilievo che la sua figura merita di occupare nella storia del pensiero filosofico contemporaneo.
Stefano Gallerini
Inserito il 09/09/2023.
Sociologo, storico, attivista, pubblicista e romanziere, William E.B. Du Bois fu uno dei protagonisti principali della scena pubblica statunitense della prima metà del XX secolo. La sua evoluzione intellettuale lo portò dagli Stati Uniti all’Africa, dall’URSS alla Cina, dagli studi sociologici alla fondazione della National Association for the Advancement of Colored People, dal panafricanismo all’adesione ai principi comunisti.
Oltre a due libri di e su Du Bois, riportiamo un discorso del leader del movimento per i diritti civili Martin Luther King – l’ultimo prima di essere assassinato – dedicato al sociologo e teorico afroamericano.
Per approfondire
Marco Sioli
All’ombra di Mao
W.E.B. Du Bois un afroamericano tra Urss, Cina e Africa
(Roma, Sandro Teti Editore, 2021)
Dal blog di Alessandro Portelli
Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo
(Bologna, Il Mulino, 2010)
recensione di Alessandro Portelli
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W.E.B. Du Bois
Sulla linea del colore
Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo
(Bologna, Il Mulino, 2010)
Tantissimi anni fa, sarà stato il 1969, su un banco di libri di seconda mano a New York, comprai un piccolo libro con la copertina gialla, di un autore che non avevo mai sentito nominare – W. E. B. Du Bois, chi era costui? – ma con un titolo affascinante: The Souls of Black Folk, le anime del popolo nero. Fu una lettura emozionante e sconvolgente: Du Bois intrecciava come nessuno una prosa eloquente e poetica con una critica tagliente, un’osservazione sociale e una partecipazione emotiva profonde. E mi domandavo come mai non ne avevo mai sentito parlare.
Scriveva tanti anni fa Cesare Pavese: sono finiti i tempi in cui scoprivamo l’America. Lui si riferiva a un certo senso di disillusione postbellica, al senso che l’America immaginata non avesse quella forza propulsiva democratica in cui avevano sperato gli antifascisti. Ma io credo che i tempi in cui scoprivamo l’America siano finiti nel momento in cui abbiamo smesso di essere soggetti attivi della ricerca e della scoperta e ci siamo accontentati di recepire acriticamente le immagini e i canoni che l’America egemonica ci trasmetteva. E abbiamo lasciato sterminati territori d’America ancora inesplorati. L’opera di Du Bois – ghettizzato in quanto nero, cancellato in quanto anticolonialista e infine comunista, eppure grandissimo – è uno degli esempi più significativi: che capiamo dell’America, noi che crediamo di saperne tutto, se ignoriamo uno dei suoi grandi protagonisti?
Le anime del popolo nero è uno dei grandi capolavori di tutta la letteratura e di tutto il pensiero sociale americano. È del 1903, ma ha dovuto aspettare il 2007 per essere tradotto (grazie a Paola Boi) in un’Italia che ripubblica a scatola chiusa qualunque banale novità d’importazione. Nel 1975 era uscito, isolato e ignorato, in saggio di Lauso Zagato su uno dei suoi grandi capolavori storiogafici, Black Reconstruction. Ma solo adesso a Du Bois è dedicata finalmente un’eccellente scelta di scritti politici e sociologici, curata ed esaurientemente introdotta da Sandro Mezzadra (Sulla linea del colore. Razza e democrazia negli Stati Uniti e nel mondo, Il Mulino) che permette ai lettori italiani di riconoscere in questo leader politico, sociologo, storico, poeta e romanziere afroamericano – uno dei giganti del ventesimo secolo, non solo negli Stati Uniti ma in tutta quell’area triangolare che intreccia America, Europa e Africa.
Nato nel 1863 nel New England, Du Bois fu il primo afroamericano a prendere il dottorato a Harvard (studiando con William James), si perfezionò a Berlino con Max Weber (e al ritorno fondò la sociologia moderna negli Stati Uniti), creò la National Association for the Advancement of Colored People, promosse i congressi panafricani che preparano le indipendenze africane, morì nel 1960 ad Accra, capitale di un Ghana appena diventato indipendente, dopo essersi iscritto, a novant’anni, al partito comunista.
Le anime del popolo nero si apriva con un saggio – ripreso anche in questa antologia – in cui Du Bois poneva la domanda cruciale: “un nero, un americano: posso essere entrambe le cose?”. L’elezione di Barack Obama sembrava voler dire che, finalmente, sì, si può. Ma una parte considerevole, rumorosa e influente del paese continua a insistere che no, non si può: il nero Obama non può essere americano letteralmente (secondo i “birthers” non è nato negli Stati Uniti) né culturalmente (il 40% di americani continua a credere che sia musulmano – cioè, come proclamava il pastore Terry Jones, una creatura del diavolo). Ma è una domanda che dovremmo porre anche noi: si può essere “negri italiani”, si può essere sia Rom, sia italiani.
Le risposte di Du Bois a questa domanda si evolvono nel corso della sua lunga vita. Alla fine risposta sembra essere: no. Quando in piena guerra fredda il governo degli Stati Uniti gli toglie il passaporto, lui prende la cittadinanza del Ghana. Ma lo sforzo di tenere insieme “queste due anime, due pensieri, due tensioni non conciliate, due ideali contrastanti in un solo corpo scuro, la cui tenace forza soltanto lo trattiene dall’“andare in pezzi” e di “fondere il suo doppio sé in un sé migliore e più vero” alimenta una ricerca sempre aperta e in evoluzione, molto ben documentata in questa antologia – dall’ipotesi giovanile di fondare sull’accettazione delle teorie positivistiche ottocentesche sulle razze un progetto di unità di azione politica e culturale dei neri d’America, alla rivendicazione di un diritto di cittadinanza fondato su secoli di lavoro africano nella costruzione d’America e sulla partecipazione dei neri alla prima guerra mondiale, fino all’impegno per l’unità panafricana e di qui per l’unità fra il modo africano di entrambi i lati dell’Atlantico e il movimento operaio mondiale.
Era il 1891, e il giovane William Edward Burghardt Du Bois confutava nella sua tesi di laurea il mito secondo cui il razzismo nascerebbe da un originario “senso di repulsione” fra le razze: “l’evidenza storica”, scriveva, mostra che “il pregiudizio fece la sua comparsa soltanto dopo un lungo periodo di alimentazione artificiale attraverso le leggi del paese” (quanta xenofobia italiana oggi è “spontanea” e quanta è alimentata e prodotta a leggi e governi?). Più tardi, un capitolo (anche questo incluso nel libro) della sua autobiografia decostruiva l’idea stessa di “razza” semplicemente raccontando chi erano i suoi antenati – africani, francesi, olandesi, un intreccio inestricabile che peraltro sta già in quel suo lungo e complicato nome anglosassone (William), olandese (Burghardt) e francese (Du Bois). Più avanti, rileggeva la storia dell’Africa precoloniale non solo per dimostrare infondatezza delle teoria sull’“inferiorità” innata degli africani per restituirgli un ruolo centrale nella storia di tutti.
Quando lessi per la prima volta Le anime del popolo nero rimasi folgorato dall’affermazione che dà il titolo anche all’antologia curata da Mezzadra: “il problema del ventesimo secolo è il problema della linea del colore”. La linea del colore è quella che lacera le anime del popolo nero, che attraversa il corpo dello stesso Du Bois (come Obama, sia bianco, sia nero), e che spacca il mondo orizzontalmente fra Nord e Sud e verticalmente lungo l’”Atlantico nero” fra America e Africa – e che viene attraversata e ribadita dal commercio degli schiavi (a cui Du Bois dedica uno dei suoi libri più importanti), dal colonialismo e dall’imperialismo.
In questo senso, il saggio su Il saccheggio dell’Africa dovrebbe essere lettura obbligata di chiunque voglia capire il mondo globalizzato in cui viviamo. Insieme al C. L. R. James dei Giacobini neri, il Du Bois del Saccheggio dell’Africa fa saltare le versioni eurocentriche della storia mondiale: se, come dimostra James, l’evento che cambia radicalmente la storia del mondo è la rivoluzione di Haiti, qui Du Bois riassume gli argomenti e i dati che dimostrano inequivocabilmente che la ricchezza, il progresso, la modernità del Nord del mondo si reggono sul sistematico saccheggio delle persone e delle risorse del continente africano e dell’Asia. La storia del mondo che si fa a Londra, Parigi e New York dipende dalla storia del mondo che fanno i cacciatori di schiavi e di avorio nel Benin e nel Congo. E abbiamo buoni motivi per pensare che, con qualche cambiamento e spostamento di metodi e di luoghi, sia ancora oggi così.
Allo stesso modo, in Black Reconstruction (su cui giustamente Mezzadra si sofferma nell’introduzione) Du Bois demolisce le letture etnocentriche e patriottarde della Guerra Civile: non è Lincoln a liberare gli schiavi, ma lo “sciopero generale e la fuga di massa degli schiavi che fa crollare la Confederazione sudista e decide una guerra che il Nord non riusciva a vincere”. Il discorso antirazzista e antimperialista, dunque, non si limita alla protesta e all’elenco degli orrori, ma fonda un altro protagonismo panafricano nella storia mondiale, dai grandi imperi precoloniali in Africa alla centralità afroamericana nella storia degli Stati Uniti. Ed è infine la riluttanza ad ammettere questo protagonismo e questa centralità che relega giganti come Du Bois nella nicchia artificiale e marginale degli studi “etnici” sulle “minoranze” e che fin qui ha permesso a gente istruita e progressista di non spere chi è. Per esempio, qualche anno fa, il più “colto” dei nostri quotidiani pubblicava nella pagina dei libri l’articolo di un suo corrispondente dagli Stati Uniti che irrideva alla Enciclopedia afroamericana curata da Henry Louis Gates, Jr. e Anthony Appiah: pensate, diceva scandalizzato, che questi danno più spazio a uno sconosciuto come Du Bois che a Kant (nello stesso articolo, scriveva che C.L.R. James era un giocatore di cricket!). Quando gli proposi un intervento per spiegare chi era Du Bois, dissero arrogantemente che ai loro lettori non interessava. Ma ho il sospetto che leggeremmo anche Kant diversamente, un po’ meno eurocentricamente, se avessimo un po’ di frequentazione con Du Bois.
Una sola osservazione marginale. Rendere in italiano la prosa complessa di Du Bois è un’impresa improba, e i traduttori di questo libro hanno fatto un lavoro lodevole. Inevitabilmente, qualche scoria resta. Un esempio. Quando nel capitolo iniziale Du Bois parla delle contraddizioni a causa delle quali l’artigiano nero finisce per diventare “a poor craftsman”, la traduzione non è tanto “un povero operaio” quanto “un artigiano scadente”: Du Bois non cerca qui di suscitare la nostra compassione per i lavoratori sfruttati, ma denuncia senza indulgenza anche gli effetti di degrado che la linea del colore produce sulle anime del popolo nero. Ma sono inezie, in un lavoro prezioso e ben fatto.
Alessandro Portelli
(Tratto dal blog di Alessandro Portelli:
http://alessandroportelli.blogspot.com/2010/10/web-dubois-sulla-linea-del-colore.html?m=1).
Inserito il 06/09/2023.
Dal blog di Maurizio Acerbo
di Martin Luther King
Prima di essere assassinato, l’ultimo discorso pubblico del leader del movimento per i diritti degli afroamericani fu dedicato a Du Bois, una figura da noi praticamente sconosciuta.
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In onore di W.E.B. DuBois
di Martin Luther King
Questa sera noi ci riuniamo per rendere onore a uno dei eccezionali uomini del nostro tempo.
Il dottor DuBois non era soltanto un gigante intellettuale che investigava ai limiti delle umane capacità conoscitive, egli era prima di tutto un maestro. Egli avrebbe voluto che la sua vita stessa fosse per noi un insegnamento verso nuove tappe di emancipazione.
Un’idea gli ritornava frequentemente: che il popolo negro era stato costretto in prigionia e privato d’ogni diritto sulla base di un velenoso turbinare di menzogne che lo dipingevano come un essere inferiore, nato deficiente e giustamente condannato a servire fino alla tomba.
Questo veleno è stato iniettato così sistematicamente nella testa dell’America che il morbo ha infettato non soltanto i bianchi, ma anche molti negri. Fin che si credeva a questa menzogna, era facile per la coscienza sopportare la brutalità e la criminalità del comportamento nei confronti dei negri. Ne discendeva questa mistificata conseguenza: che se il negro non fosse stato inferiore non sarebbe stato oppresso, e che quindi il suo posto nella società era adatto al suo scarso talento e alla sua mediocre intelligenza.
Il dottor DuBois identificò la chiave di volta dell’oppressione nel mito dell’inferiorità e dedicò il suo brillante talento a demolirlo. Sarebbe stato difficile trovare, per un simile monumentale compito, una persona più adeguata. In primo luogo egli stesso era insuperabile per intelligenza; ed era un negro! Ma era anche appassionatamente orgoglioso di essere un negro; e poi non erano soltanto genio e orgoglio le sue doti, ma aveva soprattutto un indomabile spirito combattivo, da valoroso.
Per portare avanti la sua missione il dottor DuBois sfruttò il considerevole vantaggio di un’elevata educazione, quale negro cresciuto nel Nord. Ma sebbene avesse ottenuto lauree ad Harvard e all’università di Berlino, sebbene egli avesse più credenziali accademiche della maggior parte degli americani, negri o bianchi, se ne andò nel Sud dove allora viveva la maggioranza dei negri. Egli scelse deliberatamente di spartire i quotidiani abusi e le umiliazioni del suo popolo. Avrebbe potuto offrirsi ai dirigenti bianchi ed esigere una grossa paga per vendere il suo genio. Ce n’erano pochi del suo livello, negri o bianchi. Avrebbe potuto ammassare ricchezze e onori e vivere nell’abbondanza materiale, applaudito dagli uomini potenti e importanti del suo tempo. Invece visse un periodo della sua vita creativa nel Sud; per la maggior parte di quegli anni, in condizioni modeste; per alcuni altri in povertà; e morì in esilio, con qualche onore ma ormai ignorato da molti.
Ma il suo era soltanto un esilio geografico; morì nella sua vera patria, in Africa, tra i suoi amati antenati. Era sconosciuto a un’America pateticamente ignorante, non alla storia.
La storia non può ignorare W.E.B.DuBois. Perché la storia deve scoprire le verità, e il dottor DuBois fu un infaticabile ricercatore e un prolifico scopritore di verità sociali. La sua singolare grandezza si fonda sulla sua continua ricerca della verità a proposito del suo stesso popolo. Ce n’erano pochi davvero, di studiosi che si dedicassero onestamente a studiare la storia dell’uomo nero; ed egli tentò di riempire questo immenso vuoto. Il livello a cui portò la sua ricerca ne rivela la dimensione elevata […].
Lo stile di vita del dottor DuBois è la più importante qualità che questa generazione di negri ha bisogno di emulare. Il negro ripulito, che non è parte di noi, e il militante rabbioso, che non riesce a organizzarci, non hanno niente in comune con il dottor DuBois. Egli diede un esempio di Black Power, nelle sue azioni, egli organizzò in concreto il Black Power. Per lui, esso non era uno slgan astratto.
Noi non possiamo parlare del dottor DuBois senza sottolineare che egli fu un radical per tutta la vita. Qualcuno preferirebbe ignorare il fatto che negli ultimi anni egli divenne comunista. Ma che vuol dire ciò, se è vero che Abramo Lincoln accolse calorosamente l’appoggio di Carlo Marx durante la guerra civile, e scambiò una serie di lettere con lui? Nel mondo d’oggi, la gente di lingua inglese non ha difficoltà ad ammettere che Sean O’Casey era un gigante della letteratura del ventesimo secolo pur essendo comunista né che Pablo Neruda è considerato generalmente il maggior poeta vivente sebbene abbia fatto parte del Senato del Cile come comunista! È tempo di smettere di tacere il fatto che il dottor DuBois era un genio e che scelse di diventare un comunista. Il nostro irrazionale, ossessivo anticomunismo ci ha portato troppi guai perché si possa credere che sia una specie di pensiero scientifico immutabile.
Infine sarebbe bene ricordare all’America il suo debito con il dottor DuBois. Quando essi mentivano sulla storia dei negri, essi mentivano sulla storia dell’America, poiché i negri sono una così gran parte della costruzione di questo paese che scriverne una storia senza affermare tale verità significa distruggere il senso stesso di questa storia. L’America bianca, intossicata dalle menzogne sui negri, ha vissuto troppo a lungo in una nuvola di ignoranza. Il dottor DuBois le ha donato una tale verità che essa rimarrà sempre in debito con lui, eternamente.
I negri oggi hanno pesanti compiti. Noi siamo parzialmente liberi e nello stesso tempo ricondotti in schiavitù. Dobbiamo combattere ancora sui vecchi campi di battaglia ma la nostra fiducia è più grande, la nostra visione è più chiara e la nostra vittoria finale più sicura per i contributi che un militante, appassionato gigante negro ci ha lasciati.
Il dottor DuBois se n’è andato ma non è morto. Lo spirito della libertà non è stato sepolto nel sacello del valoroso. Sarà con noi, quando in aprile andremo a Washington, per chiedere il nostro diritto alla vita e alla libertà e la realizzazione delle nostre speranze.
Dobbiamo andare a Washington, poiché essi hanno dichiarato una tregua nella guerra contro la povertà mentre sperperano miliardi per espandere un’insensata, crudele, ingiusta guerra nel Vietnam. Ci andremo, chiederemo di essere ascoltati, rimarremo fino a quando l’amministrazione ci avrà risposto. Se questo dovrà significare una violenta repressione contro il nostro movimento la fronteggeremo come già abbiamo fatto in precedenti occasioni. Se questo dovrà significare disprezzo e ridicolo lo condivideremo, perché è quanto i poveri d’America sono usi ricevere. Se significherà galera ci andremo docilmente, perché milioni di poveri sono legati mani e piedi dallo sfruttamento e dalla discriminazione.
Oggi il dottor DuBois sarebbe in prima fila nel movimento per la pace. Vedrebbe senza equivoci il parallelo tra l’appoggio americano al corrotto e spregevole regime Thieu-Ky e l’appoggio nordista ai padroni di schiavi nel 1896. Non esagerava granchè la CIA, anzi era sorprendentemente onesta, quando calcolava per il Congresso che la guerra nel Vietnam potrebbe durare cent’anni. Un popolo privato della sua libertà non molla: i negri stanno lottando da più di cento anni e, anche se la data della piena emancipazione è ancora indecifrabile, quel che è esplicitamente sicuro è che la lotta per conseguirla durerà.
In conclusione, lasciate che io dica che la principale virtù del dottor DuBois era la sua intima partecipazione ad ogni lotta contro l’oppressione, la sua divina insoddisfazione contro ogni forma di ingiustizia. Oggi siamo ancora costretti ad essere insoddisfatti. Restiamo insoddisfatti finché l’ultimo uomo non potrà avere cibo e gli altri generi necessari alla sua sopravvivenza fisica, finché non potrà avere cultura ed educazione per la sua mente, finché non potrà avere libertà e dignità umana per il suo spirito! Restiamo insoddisfatti fino al giorno in cui gli slums infestati di topi e pieni di insetti non saranno il ricordo di un buio passato e finché ogni famiglia non avrà una casa decente e igienica in cui vivere! Restiamo insoddisfatti fino a quando non saranno riempiti gli stomachi vuoti del Mississippi e fino a quando le deserte fabbriche degli Appalachi non riprenderanno il lavoro! Restiamo insoddisfatti fino a quando i nostri fratelli del Terzo Mondo – Asia, Africa e America latina – non cesseranno di essere ancora le vittime dello sfruttamento imperialista, fino a quando non emergeranno dalla lunga notte della povertà, dell’ignoranza, delle malattie! Restiamo insoddisfatti fino al giorno in cui questa inesaudita elegia cosmica non diverrà un creativo salmo di pace e «la giustizia proromperà come le acque di un rivo travolgente»!
Martin Luther King
(Tratto dal blog di Maurizio Acerbo: http://www.maurizioacerbo.it/blogs/?p=1731).
Inserito il 06/09/2023.
Raniero Panzieri (1921-1964).
Fonte della foto: https://www.centrogobetti.it/rubriche/885-ricordo-di-raniero-panzieri-cesare-pianciola.html
di Pino Ferraris
La recente scomparsa del filosofo Mario Tronti ha riportato sotto i riflettori delle pagine culturali dei giornali anche la figura di Raniero Panzieri, che con Tronti percorse un breve ma intenso tratto di strada.
Presentiamo qui un ampio profilo storico-politico di Raniero Panzieri e del suo impegno per un rinnovamento del socialismo italiano.
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Raniero Panzieri: per un socialismo della democrazia diretta
di Pino Ferraris
16 febbraio 2021
Prima parte
La figura di Raniero Panzieri ha avuto, nel corso degli anni e dei decenni successivi alla sua morte, un destino paradossale. Tra rimozioni e mitizzazioni, tra dispute patrimoniali e sommarie stroncature è accaduto che la sua biografia politico-culturale, che ha una robusta coerenza di fondo, sia stata spezzata, smembrata: il “meridionalista” di Palermo è stato assolutamente oscurato dall’“operaista” di Torino, il suo ruolo di dirigente politico viene scisso dalla sua attività di produttore di cultura, colui che «per tutta la vita si è dedicato al partito e che viene spinto da una sorta di disperazione a formare gruppi di altro genere»1 viene proposto come “il Battista” dei gruppi minoritari degli anni ’70.
Panzieri dedicò gran parte del suo impegno culturale a smontare “sistemi” cristallizzati di pensiero nel movimento operaio. Persino il suo approccio a Marx, punto di riferimento costante e sicuro della sua elaborazione culturale, era così libero e creativo da renderlo completamente disponibile «all’operazione chirurgica di separare il Marx vivo e ancor oggi utilizzabile da ciò che nella sua opera rappresenta gli incunaboli del riformismo e del diamat»2. La prima edizione postuma di una parte dei suoi scritti apparve inchiodata sotto l’incredibile titolo La ripresa del marxismo-leninismo in Italia3.
Il protagonista del disgelo culturale, l’anticonformista innovatore del pensiero di una sinistra che faticava a uscire dalle rigidità dogmatiche dello stalinismo e della guerra fredda, per un non breve periodo subì le deformazioni indotte da quel «recupero anacronistico di culture politiche da immediato dopoguerra»4 che coinvolse buona parte della sinistra degli anni ’70.
Il primo decennale della sua morte venne ricordato con un numero speciale della rivista «aut aut» dedicato a Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi»5. Il fascicolo si apre con un improbabile inedito vistosamente intitolato Tesi Panzieri-Tronti. Una dichiarazione programmatica: coinvolgere Panzieri nelle avventure e disavventure “metafisiche” del volontarismo di Tronti e di Negri allora ospitate dalla rivista di Rovatti.
Lo storico Stefano Merli ha dato un contributo importante di documentazione, di ricostruzione biografica, di pubblicazione degli scritti poco noti di Panzieri tra il 1944 e il 19566, delle lettere7, coprendo tutto l’arco della sua vicenda intellettuale e politica: dalla fase iniziale8, alla direzione di «Mondo operaio»9 sino ai «Quaderni rossi»10.
Nell’Introduzione del 1977 al libro di Sandro Mancini su Panzieri11 Merli anticipa quello che sarà il suo programma di lavoro: Panzieri non può essere letto nell’ottica della “nuova sinistra”. Egli giustamente vuole ricostruire il Panzieri militante e dirigente di primo piano della sinistra storica, protagonista in un Partito socialista all’interno del quale spese ben sedici anni del ventennio del suo impegno politico e culturale troncato all’età di 43 anni.
Merli dice una cosa essenziale: Panzieri non è stato un intellettuale militante ma un dirigente politico intellettualmente creativo. Nei suoi lavori, orientati a inserire l’esperienza di Panzieri all’interno del socialismo di sinistra che ha come punto di riferimento Rodolfo Morandi, lo storico socialista sembra però sottovalutare o non comprendere sino in fondo l’iniziativa politica e la produzione intellettuale dell’ultimo Panzieri. Il volume dedicato agli anni dei «Quaderni rossi»12 è decisamente il più debole di quelli da lui curati.
Esiste uno scarto, un’anomalia nel contributo di Stefano Merli alla ricostruzione della traiettoria politica e culturale di Panzieri. Nel 1987, pubblicando le Lettere di Panzieri, Merli introduce il volume con un ampio e impegnativo saggio dal titolo Teoria e impegno nel modello Panzieri13. L’ambizione è quella di proporre un’interpretazione complessiva e definitiva della figura di Raniero Panzieri. Questo intento coincide con una svolta del punto di vista di Merli sulla politica socialista del secondo dopoguerra. Lo storico socialista viene attratto da un disegno culturale di rivincita dell’autonomismo socialista stimolato in quegli anni dal protagonismo di Craxi.
Nel libro su Panzieri dell’anno precedente Merli riconosce alla linea del socialismo di sinistra, maggioritaria negli anni della guerra fredda, una sua originalità e identità, pur all’interno della stretta alleanza con il Partito comunista. Solo se si riconoscono questi spazi di iniziativa e di parziale autonomia socialista – aggiunge Merli – si può spiegare «perché una figura così ricca e inquieta come quella di Panzieri abbia scelto la milizia socialista in un ambiente duro e difficile come la Sicilia sacrificando la carriera universitaria»14. Un anno dopo Stefano Merli ribalta il suo giudizio sull’originalità dell’impegno meridionalista di Panzieri in quei primi anni ’50. Per Merli, come già per Cervigni e Galasso15, il Panzieri siciliano sarebbe stato un interprete passivo della “mistica unitaria” di Rodolfo Morandi «che faceva crescere il partito e nello stesso tempo lo asserviva al comunismo» e al dogma marxista-leninista. In questo saggio Panzieri diventa la prima vittima del “morandiano pentito”.
Una falsa testimonianza di Lucio Libertini16 serve per dare l’immagine di un Panzieri sconfitto e stanco che nel 1964 si appresterebbe a rientrare nell’alveo della politica ufficiale confluendo nel Psiup. Ipotesi questa che distorce e mistifica il senso della resistenza e dell’iniziativa solitaria dell’ultimo Panzieri. Merli chiude questo saggio ambizioso con le parole, fatte proprie, del redattore capo einaudiano Daniele Ponchiroli, secondo il quale Panzieri era «un pensatore politico che voleva modificare la politica e non un politico che volesse modificare situazioni reali»17. Il senso stesso dell’impegno di Merli volto a dare risalto al dirigente politico viene azzerato, i decenni di lotta politica e di lavoro di massa di Panzieri vengono sepolti dalla sentenza del suo capufficio che l’ha visto, con burocratico sospetto, nel lavoro di consulente editoriale. Il saggio di Merli tende ad appiattire Panzieri nel conformismo politico e culturale della sinistra storica.
Il numero di «aut aut» del 1974 voleva invece cooptarlo nella cerchia elitaria delle dissidenze intellettuali.
Forse occorre rifuggire da queste polarizzazioni se si vuole ricostruire un profilo di Panzieri il più possibile aderente alla complessità e alla singolarità del suo percorso politico e culturale.
L’itinerario di una militanza precocemente bruciata nell’intensità del fare e del pensare corre lungo profonde fratture storiche: le speranze e le attese degli anni immediatamente successivi alla Liberazione, la sconfitta e il gelo del tempo della guerra fredda, il “dopo Stalin” politico coincidente con la grande trasformazione della società italiana proiettata verso il “miracolo economico”, i nuovi fermenti operai e giovanili degli anni ’60, l’irrimediabile e crescente distacco tra le macchine politiche e le dinamiche sociali.
All’interno di queste vicende storiche l’inquieta ricerca di Panzieri era rivolta a trovare una sintonia viva e precisa tra i mutamenti sociali e i ritmi della politica. Era il suo un ininterrotto “ricominciare da capo” senza però perdere il “filo rosso” che regge il senso profondo del proprio modo di vivere l’impegno civile e sociale. Un “filo rosso” che accompagna tutta la vicenda umana di Panzieri è la ricerca continua di uno stringente rapporto tra impegno intellettuale e coinvolgimento pratico.
Si potrebbe ricordare la sua attività giovanile presso l’Istituto di studi socialisti di Morandi nel 1946, cui segue immediatamente il lavoro politico in periferia, a Bari, a fianco di Ernesto de Martino; la breve esperienza accademica a Messina che viene interrotta in nome dell’impegno diretto dentro l’aspra conflittualità e le difficoltà politiche del contesto siciliano.
Il periodo della direzione di «Mondo operaio», quando si produce una nuova situazione politica (crisi del centrismo e crisi comunista) in coincidenza con l’emergere del “neocapitalismo”, si caratterizza per lo sforzo di tradurre immediatamente l’intelligenza della realtà in proposta politica e iniziativa sociale. Gli anni torinesi sono segnati invece dalla drammatica tensione tra anticipazione teorica e perdita degli strumenti dell’azione pratica.
Il secondo motivo ricorrente nell’esperienza di Panzieri consiste nella sua concezione del socialismo come liberazione delle capacità di autogoverno delle forze sociali. Dal suo modo di concepire il Fronte popolare nel 1948 – non come «problema di schieramento politico» ma come «movimento spontaneo» innervato negli organi di lotta e di autogoverno dei lavoratori (i consigli di gestione, i comitati della terra, il comune democratico)18 – sino all’ultima sua proposta dell’inchiesta socialista, passando per le tesi sul controllo operaio, costante è la sua ostinata resistenza al principio di delega. La democrazia diretta è la stella polare del suo socialismo anti-statalista.
Panzieri in Sicilia
L’esperienza di Panzieri in Sicilia dura sei anni, dal 1949 al 1955. Arriva a Messina come giovane docente di filosofia del diritto, chiamato ad un incarico universitario da Galvano della Volpe, e dopo pochi mesi s’impegna in un’attività politica e sociale che lo conduce nel giro di due anni a lasciare l’accademia per diventare politico di professione.
Nell’esperienza siciliana si salda il rapporto umano, politico e culturale con Rodolfo Morandi. I successi del suo lavoro nell’isola e il suo ruolo di interprete originale e attivo della “politica unitaria” morandiana sono alla radice della sua rapida ascesa ai vertici nazionali del Partito socialista. Nel congresso di Bologna del gennaio 1951 Panzieri entra contemporaneamente nel comitato centrale e nella direzione del partito. L’ingresso dei due giovani “morandiani” Raniero Panzieri e Dario Valori coincide con l’esclusione di un protagonista del socialismo italiano come Lelio Basso. Elio Giovannini ha definito quel congresso il «congresso della vergogna»19 nel quale trionfa il “piccolo stalinismo socialista” con la regìa di Pietro Nenni e Rodolfo Morandi.
Quale fu l’atteggiamento di Panzieri verso l’ideologia e le pratiche staliniste che negli anni della guerra fredda erano assolutamente dominanti nella cultura e sub-cultura social-comunista? In una lettera a Libertini del dicembre 1959 parla esplicitamente degli «errori commessi» negli anni della guerra fredda «sollecitato sempre dal senso – che tenevo per certo – di un legame ininterrotto, nella lotta, tra il movimento e i partiti»20.
Forse coglie nel segno la recente testimonianza del dirigente comunista Emanuele Macaluso che frequentò e conobbe molto da vicino Raniero Panzieri in quegli anni siciliani: «Se un uomo come Panzieri sta nel Psi – afferma Macaluso – anche nella fase della maggiore comunistizzazione e stalinizzazione di questo partito è perché nel Psi aleggiava una storia nella quale la libertà (la libertà di ricerca, la libertà politica, la libertà del cittadino) aveva avuto un peso straordinario. E perché nel Psi, per quanto comunistizzato, non c’erano barriere e vincoli tali che prima o poi la questione si riaprisse. Quelli che nutrivano una maggiore inquietudine intellettuale e politica – gli uomini come Panzieri – scelsero in larga misura più il Psi del Pci»21.
Dopo la catastrofe del Fronte popolare, la crisi di Panzieri fu dovuta soprattutto al collasso strutturale del partito, alla sua incapacità di offrire uno strumento di azione di massa e di lotta di classe22. La caduta della prospettiva di ricollocare il partito socialista «all’interno della situazione generale della classe lavoratrice» coincise con il ripiegamento verso il lavoro accademico. Nel novembre 1948 va all’Università di Messina, ma già nel maggio del 1949 viene coinvolto nel progetto morandiano di ricostruzione del partito. Nell’aprile del 1950 Morandi indica Panzieri come il suo rappresentante nell’isola23.
Dalla documentazione offerta da Domenico Rizzo sull’attività di Panzieri in Sicilia emerge un’inedita figura di dirigente politico a tutto tondo: costruttore di strutture organizzative, animatore in prima persona di lotte di massa nelle miniere e nei feudi, coinvolto in una sequenza di faticosissime campagne elettorali (le regionali del 1951, le comunali del 1952, le politiche del 1953, le regionali del 1955). Un Panzieri che si spende con generosità in un impegno pratico quotidiano a tutti i livelli e in ogni direzione e che continua a esprimere una sempre rinnovata elaborazione culturale. Soprattutto emerge il profilo di un dirigente profondamente radicato nella realtà sociale e politica del Meridione, interprete della storia e delle tradizioni più vive e combattive del movimento democratico e socialista siciliano.
Il Panzieri di quegli anni indica nelle lotte per la terra il “punto archimedico” di una rivoluzione democratica.
Nel corso della campagna elettorale regionale del 1955, quando Morandi e Panzieri rompono la tradizionale unità elettorale con il Pci nel “Blocco del popolo” e i socialisti presentano liste proprie, si dispiega la peculiarità della politica socialista nell’Isola.
La piattaforma elettorale del Psi dal titolo Nell’alternativa socialista rinascita e autonomia della Sicilia, scritta da Panzieri24, ha un ampio respiro culturale: recupera le radici della lotta socialista a partire dai Fasci siciliani, fa una lucida e sferzante analisi dei governi democristiani e delle loro complicità economiche e mafiose, propone un disegno alternativo di sviluppo economico e di riscatto sociale.
Contro il separatismo reazionario e contro una linea di asservimento al centralismo dello stato unitario burocratico rivendica la lunga storia di lotta socialista per un’autonomia in chiave federalista, che ha sempre intrecciato libertà politiche e liberazione sociale.
Il movimento dei Fasci siciliani, nel quale si esprimeva un forte associazionismo partecipativo, che vedeva la convergenza tra azione economica e iniziativa politica, è indicato come l’esperienza fondamentale ed esemplare del socialismo siciliano che alimenterà generazioni di organizzatori di leghe contadine, di cooperative bracciantili e di combattivi dirigenti socialisti. Questo recupero di una tradizione socialista di lotta di classe radicale e libertaria, che dall’Ottocento si prolunga nel primo Novecento, è uno degli aspetti più originali dell’elaborazione politica e culturale del Panzieri siciliano che non sarà più ripresa negli anni successivi.
La campagna elettorale del 1955 e i risultati del voto, che segnano un successo dei socialisti, fanno della Sicilia il laboratorio della linea di “apertura a sinistra” unitariamente approvata dal congresso di Torino del Psi pochi mesi prima. Sia la documentazione offerta da Domenico Rizzo25 sia la testimonianza di Macaluso26 ci dicono che Panzieri, in stretto collegamento con Rodolfo Morandi, è protagonista in questa svolta politica.
La posta in gioco era altissima: non si trattava solo colpire il blocco agrario realizzando la distribuzione della terra. Si poneva all’ordine del giorno la gestione pubblica regionale delle risorse idriche e della produzione elettrica e soprattutto la nuova questione delle risorse petrolifere.
Era un intero assetto di potere, coagulato attorno ai governi dell’on. Restivo, che era messo in discussione. Segnale dell’altezza della sfida è l’uccisione, in piena campagna elettorale, del capolega socialista Salvatore Carnevale a opera della mafia.
Il terremoto in atto nei rapporti di potere è testimoniato dalla rottura della Sicindustria di La Cavera con la Confindustria nazionale. Il nuovo governo Alessi, che ebbe durata breve, fu il risultato dell’autonoma e combattiva iniziativa socialista perseguita da Panzieri attraverso tensioni con il Pci27 e non poche resistenze all’interno del Psi.
L’esperimento siciliano realizzato da Morandi e da Panzieri non era altro che l’anticipazione del centro-sinistra nenniano, come sembra pensare Stefano Merli? È lecito dubitarne28.
Nel 1955 Raniero Panzieri, membro della direzione del Partito socialista, segretario della Sicilia, responsabile nazionale Stampa, propaganda e cultura del partito, è uno dei più importanti giovani dirigenti socialisti morandiani.
Dentro la grande trasformazione
La campagna elettorale regionale e l’“operazione giunta Alessi” del 1955 rappresentano la conclusione dell’impegno siciliano di Panzieri, che dal settembre del 1953 ha trasferito la sua residenza a Roma, dove dirige la sezione Stampa e propaganda del Psi pur conservando la responsabilità di direzione politica in Sicilia sino al 1955.
Il 1955 è l’anno dell’improvvisa morte di Rodolfo Morandi, della sconfitta della Fiom alla Fiat, dell’irrompere del dibattito internazionale sulla nuova fase dell’automazione industriale.
Il sindacato americano dell’automobile affronta i problemi che le nuove tecnologie dell’automazione pongono al mondo del lavoro. In Gran Bretagna, le Trade Unions discutono sulle misure da prendere per fronteggiare le conseguenze sociali della “fabbrica automatica”.
Morandi era stato un “meridionalista” venuto dal Nord, era stato il dirigente socialista che più di ogni altro aveva introdotto nella sinistra la cultura del moderno industrialismo e della tecnica. La lezione del Morandi della Storia della grande industria aiuta a spiegare la pronta sensibilità con cui Panzieri ha captato i segnali di uno sviluppo capitalistico che poneva nuove sfide al movimento operaio29.
Nel 1956 viene tradotto da Einaudi il libro del francofortese Friedrich Pollock, Automazione. Conseguenze economiche e sociali30. La rivista «Politica e società» avvia un’inchiesta su L’automazione e le sue conseguenze sociali, con interventi di Franco Momigliano, Vittorio Foa, Alessandro Pizzorno, Luciano Gallino, Franco Ferrarotti e Gino Martinoli31. A fine luglio l’Istituto Gramsci organizza il convegno su Trasformazioni tecniche e lavoro.32
Quando, nel 1956, il XX Congresso del Pcus e il rapporto Krusciov, i sussulti polacchi e la repressione sovietica della rivolta popolare ungherese travolgono lo stalinismo, Panzieri non giunge impreparato a questa sfida: immediatamente vede e vive la crisi del comunismo stalinista come una grande opportunità: «l’affermazione del processo attuale come rottura costituisce il solo modo di affermare la continuità storica del movimento»33. La sinistra italiana, secondo Panzieri, per evitare di isolarsi dai grandi processi internazionali e per rompere il diaframma che la separa dalle dinamiche della società nazionale, deve trarre una immediata lezione dagli eventi del 1956: ribaltare la concezione del partito-guida, superare le forme di organizzazione autoritaria e gerarchica delle masse, uscire dal sonno dogmatico e aprirsi a un’analisi concreta dei grandi mutamenti sociali.
In direzione opposta va invece la risposta di Togliatti. Egli tende a filtrare, attenuare, governare le conseguenze degli eventi che esplodono nell’Est al fine di conservare intatto il “partito d’acciaio” di stampo stalinista sul quale innestare la ripresa del moderato riformismo della “svolta di Salerno”34.
Nenni cerca di volgere la crisi del comunismo e la “stanchezza delle masse” verso un disegno di riformismo governativo dall’alto, la cui cifra simbolica è l’incontro di Pralognan dell’agosto 1956 con Giuseppe Saragat.
Verso la fine del 1956 Panzieri aveva operato il raccordo tra la lezione della sconfitta della Fiom alla Fiat come l’emergere di una nuova questione operaia, l’analisi della nuova fase di sviluppo del capitalismo, un radicale ripensamento della politica della sinistra e dei suoi strumenti, la necessità di un’uscita a sinistra e libertaria dallo stalinismo. La capacità di tenere insieme e di far interagire tra di loro queste quattro linee di ricerca e di proposta rappresenta la ricchezza dei due anni (1957-58) della rivista «Mondo operaio» diretta da Raniero Panzieri.
Il congresso di Venezia del Psi del febbraio 1957 registra una situazione di stallo: Pietro Nenni esercita un’indubbia egemonia politica, ma la sinistra ha la maggioranza nel comitato centrale. In tale contesto, Panzieri viene escluso dalla direzione del partito ottenendo in cambio la direzione della rivista. In meno di due anni riesce a trasformare uno stanco e modesto organo di partito in un laboratorio di idee e di proposte innovative intorno al quale tesse una rete di forze intellettuali, di sindacalisti, di militanti politici. «Mondo operaio» diventa una tribuna larga e vivace di dibattito che va ben oltre la lotta tra le correnti interne al Psi35. Il numero di marzo-aprile 1958 della rivista è arricchito da un “Supplemento scientifico-letterario” diretto dal fisico Carlo Castagnoli e dal critico letterario Carlo Muscetta. Con questo nuovo strumento Panzieri cerca di proporre e affermare le sue idee sulla cultura della sinistra. Due sono i cardini. Autonomia della cultura dai partiti ma impegno sociale degli intellettuali. Alleanza tra scienze umane e sapere tecnico-scientifico. Nei due anni di gestione di «Mondo operaio» la “tendenza Panzieri” disegna netto il suo profilo di socialismo libertario innestato sulle nuove contraddizioni di un industrialismo in espansione che incorpora l’onda delle innovazioni tecnologiche.
Lo scontro interno al Partito socialista si sviluppa però lungo altre linee: da una parte una resistenza “frontista” di apparato, dall’altra un autonomismo politicante e governativo che si nutre delle aspettative e dei consensi di opinione.
“Rompere per continuare”: questo rimane l’obbiettivo di fondo di Panzieri. Il senso di questo doppio movimento è racchiuso nel più volte citato saggio di Morandi del 1937 su Otto Bauer. Questo scritto conclude sulla necessità di uscire dall’«antitesi morta» di comunismo e socialdemocrazia, ambedue malati di “statalismo”, per affermare «un socialismo schiettamente libertario (senza punto impaurirsi delle baldanza anarchica di questa qualifica)»36.
Panzieri vuole incidere dentro il movimento operaio “storico” e soprattutto dentro la crisi del partito comunista. Su «Mondo operaio» si propone di progettare il futuro riattivando idee, esperienze di una tradizione socialista e comunista rivoluzionaria e radicalmente democratica.
In Sicilia richiamava l’esperienza dei Fasci siciliani, le idee e l’azione degli organizzatori di leghe bracciantili e di associazioni cooperative a cavallo tra la fine dell’800 e i primi del ’900. Ora nei numeri monografici di «Mondo operaio» dedicati ai consigli di fabbrica torinesi e all’«Ordine nuovo» di Gramsci, ai consigli operai in Germania e al movimento spartachista di Rosa Luxemburg e di Karl Liebknecht, all’ottobre russo dei soviet e al Lenin di Stato e rivoluzione, egli pensa di poter contrapporre alla degenerazione autoritaria del comunismo senile quella che ritiene l’ispirazione di radicalismo democratico del comunismo delle origini. Panzieri vuole parlare, in una fase critica che offre opportunità di mutamento, non solo ai socialisti ma anche e forse soprattutto al partito comunista.
Il neocapitalismo è una realtà è il titolo di un saggio di Vittorio Foa che apre uno dei primi numeri di «Mondo operaio» diretto da Panzieri nel maggio 1957. La tendenza principale del capitalismo è lo sviluppo. Le contraddizioni principali del capitalismo non nascono dal suo ristagno ma dentro il dinamismo tecnico e produttivo.
Questo saggio indica l’asse di ricerca economica e sociale della rivista. L’acuta percezione dell’espansione di quello che sarà chiamato l’industrialismo fordista, la registrazione dei primi accenni di una società dei consumi, la segnalazione di un nuovo interventismo statale funzionale allo sviluppo capitalistico e al consenso sociale (fanfanismo) costituiscono le direttrici di indagine e di dibattito perseguite dalla rivista di Panzieri.
Da queste analisi «Mondo operaio» trae argomenti teorici e fattuali per la critica delle “illusioni” del neo-riformismo statuale di Nenni, per mettere in discussione la strategia del Pci di lotta contro le arretratezze e i “residui feudali” nelle campagne e contro la stagnazione economica del capitalismo monopolistico, per demistificare infine le ideologie del “capitalismo popolare” e del “benessere sotto impresa”.
A questa parte critica fanno seguito proposte costruttive. Le linee di nuova politica del movimento operaio sono riassunte e definite nelle Sette tesi sul controllo operaio di Libertini e Panzieri che appaiono sul numero di «Mondo operaio» del febbraio 195837. Seguirà un dibattito vivace sulla rivista, sull’«Avanti!» e sull’«Unità».
La centralità della classe operaia, la qualità politica dalle rivendicazioni “gestionali” emergenti dalle “lotte nuove”, la “via democratica al socialismo” centrata su nuovi istituiti di democrazia operaia che sono leva della trasformazione sociale e garanzia della sostanza libertaria della nuova società: questi sono i cardini delle Tesi.
La coincidenza della sconfitta del movimento contadino nel Sud e della sconfitta della Fiom alla Fiat pone un problema generale di ripensamento della forma stessa della politica della sinistra che sia in grado di ricollegarsi con le dinamiche di fondo della società.
Nelle tesi è ricorrente la denuncia delle inevitabili tendenze del potere a rendersi autonomo, a farsi autoreferenziale tramite la burocrazia e la parlamentarizzazione. Il contrappeso consiste nell’azione di massa e nel pluralismo degli organi di lotta e di democrazia sociale: il movimento per il controllo operaio, gli organi di una cultura autonoma, il movimento cooperativo, un sindacalismo unitario politico ma non partitico.
La politicità e le autonomie del sociale aprono una terza dimensione della politica all’interno del chiuso universo binario del sindacalismo economicistico e del partito politico parlamentare.
Si rimette in discussione quella sorta di “monarchia del partito” che è propria della concezione del “partito-guida” e del “partito-verità”, alla quale viene contrapposta la concezione morandiana del partito funzione, del partito strumento al servizio della classe.
Quando Paolo Spriano, per conto del segretario del Pci, deve troncare un dibattito che sta diventando insidioso, va al sodo: è questo terremoto della politica che bisogna mettere all’indice. In queste tesi c’è la fuga dal “leninismo” perché si nega il ruolo dirigente del partito. C’è anarco-sindacalismo nella confusione tra economia e politica. C’è trozkismo nella ripresa della linea avventurista del “dualismo dei poteri”38.
Il dibattito generale sulle tesi appare deludente: i comunisti stroncano, i socialisti “autonomisti” guardano in tutt’altra direzione, la sinistra socialista è distratta dalle contingenze tattiche e dalla lotta di potere nel partito. Le Tesi avrebbero dovuto «trovare il loro naturale sviluppo nell’azione politica, nella partecipazione alla lotta in corso nel movimento operaio per un giusto indirizzo». Esse non trovano possibilità di ancoraggio nell’evoluzione dei partiti di sinistra.
Nel congresso di Napoli del 1959 del Psi prevale una linea di «negazione della sostanza politica delle tesi sul controllo, proprio perché esalta un curioso paternalismo politico, sopravvaluta l’azione parlamentare, nega lo sbocco politico dell’azione di massa»39.
Nel Pci la risposta alla crisi del 1956 si indirizza verso un’esaltazione dello spirito di partito: «un’idea prevalentemente politica e istituzionale dell’avanzata verso il socialismo e della trasformazione della società che porta ad identificare gli spazi e il potere del partito con la libertà e il progresso della società tutta»40.
Al Congresso di Napoli Panzieri entra ancora a far parte del Comitato Centrale del Psi. Di fatto si sta allontanando dalla lotta interna di partito. La vera rottura che egli va operando in quei mesi non è soltanto nei confronti del Psi, ma esprime una critica radicale dell’istituzione partito in quanto tale: «Vi è una contraddizione sempre più evidente, oggi, tra l’importante sviluppo delle lotte di massa nel nostro paese, e ciò che accade nei partiti». Se rimane una qualche speranza, essa è affidata «alle organizzazioni operaie in quanto tali, allo stesso sindacato nella misura nella quale esso affronta i temi del suo rinnovamento, che sono i temi delle forme di espressione autonoma dei lavoratori»41.
Questa rottura non avviene con atti clamorosi e spettacolari. È insieme un tirarsi fuori e un lasciarsi mettere fuori.
(1/2. Segue)
Pino Ferraris
(Tratto da: https://www.ospiteingrato.unisi.it/raniero-panzieri-per-un-socialismo-della-democrazia-direttapino-ferraris/).
Note
1 Fortini: sempre antiamericano, intervista di A. Papuzzi, «La Stampa», 13 settembre 1991.
2 Lettera di Panzieri a Luciano Della Mea, 18 agosto 1964, in R. Panzieri, Lettere, a cura di S. Merli e L. Dotti, Venezia, Marsilio, 1987, p. 405.
3 R. Panzieri, La ripresa del marxismo leninismo in Italia, Milano, Sapere Edizioni, 1972.
4 M. Salvati, Gioventù, amore e rabbia, in 1969, «Parolechiave», 18, dicembre 1998, p. 59.
5 Raniero Panzieri e i «Quaderni rossi», in «aut aut», 149-150, settembre-dicembre 1975.
6 R. Panzieri, L’alternativa socialista. Scritti scelti 1944-1956, Torino, Einaudi, 1982.
7 R. Panzieri, Lettere cit.
8 S. Merli, La tesi di laurea di R. Panzieri su «L’utopia rivoluzionaria nel Settecento», in «Metropolis», 3, maggio 1979.
9 R. Panzieri, Dopo Stalin, a cura di S. Merli, Venezia, Marsilio, 1986.
10 R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione. Gli anni dei «Quaderni rossi» 1959-1964, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1994.
11 S. Merli, Introduzione, in S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta. Introduzione a Raniero Panzieri, Bari, Dedalo, 1977.
12 R. Panzieri, Spontaneità e organizzazione cit.
13 S. Merli, Teoria e impegno nel modello Panzieri, in R. Panzieri, Lettere cit.
14 S. Merli, Prefazione, in R. Panzieri, Dopo Stalin, p. X.
15 G. Cervigni, G. Galasso, Inchiesta sul Partito socialista italiano nelle Province Meridionali, in «Nord e Sud», 16, marzo 1956.
16 Testimonianza di Pino Ferraris, in Raniero Panzieri. Un uomo di frontiera, a cura di P. Ferrero, Milano, Edizioni Punto Rosso, 2005, p. 119.
17 S. Merli, Teoria e impegno nel modello Panzieri cit., p. XLIX.
18 R. Panzieri, L’alternativa socialista cit., p. 82.
19 E. Giovannini, Una brutta storia socialista dei tempi di Nenni: la “liquidazione” di Lelio Basso, in «Annali 2004», Fondazione Lelio e Lisli Basso Issoco, Roma, Carocci, 2005.
20 R. Panzieri, Lettere cit., p. 243.
21 P. Franchi, E. Macaluso, Da cosa non nasce cosa, Milano, Rizzoli, 1997, pp. 80-81.
22 R. Panzieri, L’alternativa socialista cit., p. 84.
23 D. Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia (1949-1955), Soveria Mannelli, Rubbettino, 2001, p. 62. Il libro di Rizzo rappresenta la più documentata e affidabile ricostruzione del lavoro politico di Panzieri in Sicilia. Esso confuta alcune delle “testimonianze” accettate acriticamente da Stefano Merli.
24 R. Panzieri, Nell’alternativa socialista rinascita e autonomia per la Sicilia, in D. Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia cit., pp. 187-221.
25 D. Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia cit., pp. 128-129.
26 P. Franchi, E. Macaluso, Da cosa non nasce cosa cit., p. 80.
27 Domenico Rizzo riporta il testo della lettera di Giuseppe Montalbano, presidente comunista del gruppo regionale del Blocco del Popolo, a Li Causi in occasione della decisione del Psi di presentarsi da solo alle elezioni regionali del 1955. In essa troviamo scritto: «…insistendo Panzieri e Taormina nella separazione da noi, secondo le direttive di Nenni, nonostante le proteste di base che cominciano a farsi preoccupanti. Si ha l’impressione che in Sicilia il Psi sia diretto da socialdemocratici anticomunisti e non da marxisti» (D. Rizzo, Il Partito socialista e Raniero Panzieri in Sicilia cit., pp. 105-106).
28 «Il fatto è che Gonella e Morandi vedevano un incontro fra l’anima popolare della Dc, della sinistra cattolica… e l’ala più disponibile del movimento operaio. Invece il centro-sinistra che nacque nel 1964 venne su, diciamolo, su basi del tutto diverse. Fu il frutto dell’incontro fra gli autonomisti nenniani del Psi, quelli della politique d’abord per intenderci, e la componente Dorotea della Dc che Moro… finì per privilegiare» (intervista di Giovanni Galloni all’«Unità», 24 agosto 1986).
29 C. Gubbini, Sviluppò nella sinistra una cultura economica e industriale, in “Rodolfo Morandi”, Senato della Repubblica 1995.
30 F. Pollock, Automazione. Conseguenze economiche e sociali, Torino, Einaudi, 1956.
31 L’automazione e le sue conseguenze sociali, a cura di V. Foti, in «Politica e società», 1956-57.
32 I lavoratori e il progresso tecnico. Atti del Convegno tenuto all’Istituto “Antonio Gramsci”, Roma 29-30 giugno e 1 luglio 1956, Roma, Editori Riuniti, 1957.
33 R. Panzieri, L’alternativa socialista cit., p. 183.
34 M. Flores, N. Gallerano, La politica, in Il ’56 e la sinistra italiana, «Problemi del socialismo», 10, gennaio-aprile 1987.
35 S. Carpinelli, Una nuova partenza. «Mondo Operaio» di Panzieri (1957-1958), in «Classe», 17, giugno 1980.
36 R. Morandi, Il socialismo integrale di Otto Bauer. «Aprile 1937», in La democrazia del socialismo 1923-1937, Torino, Einaudi, 1962.
37 L. Libertini, R. Panzieri, Sette tesi sulla questione del controllo operaio, in R. Panzieri, La crisi del movimento operaio (1956-1960), Milano, Lampugnani Nigri, 1973.
38 P. Spriano, «l’Unità», 12 agosto 1958.
39 R. Panzieri, Dopo Stalin cit., p. 121.
40 M. Flores, N. Gallerano, La politica cit.
41 R. Panzieri, Dopo Stalin cit., p. 121.
Inserito il 18/08/2023.
di Pino Ferraris
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Raniero Panzieri: per un socialismo della democrazia diretta
di Pino Ferraris
16 febbraio 2021
Seconda parte
Gli anni del silenzio
Dal gennaio 1959, data del Congresso del Psi vinto da Nenni, all’ottobre del 1961, quando esce il primo numero dei «Quaderni rossi», trascorrono poco meno di tre anni. Sono tre anni di “quasi silenzio” di Raniero Panzieri. Sono però anche anni di scelte politiche significative, di riflessione e di studio, di organizzazione culturale e di tessitura di relazioni, di elaborazione di progetti.
L’esito del congresso socialista di Napoli lo porta a mettere in primo piano la sua libertà politica. Tronca la lunga esperienza di politico di professione, trova “una posizione di indipendenza personale”. Un mese dopo il congresso decide di cercare un lavoro presso la casa editrice Einaudi. A marzo è già a Torino.
Il prezzo politico della sua indipendenza è altissimo: lontano dai giochi romani di potere e fuori dall’apparato viene totalmente emarginato dai “morandiani” della sinistra burocratica. Sono proprio gli uomini della sua generazione, con lui cresciuti alla scuola di Rodolfo Morandi, che più si sentono insidiati dalla presenza e dall’iniziativa di Panzieri. Egli è portatore di un ripensamento strategico di uscita a sinistra dall’“antitesi morta” di socialdemocrazia e comunismo, propone una posizione di verità critica nei confronti del “socialismo reale”, intende rimettere in discussione il “partito guida” burocratico di massa. E pretende di estrarre questi obbiettivi da una coerente interpretazione della lezione morandiana.
Questa sfida è avvertita con insofferenza dagli uomini d’apparato della sinistra socialista che non vogliono andare oltre la gestione tattica di una critica “massimalistica” del riformismo governativo di Nenni in un articolato rapporto di dipendenza dal Pci e all’ombra dei “fratelli” d’Oriente.
Proprio perché era stato “uno di loro”, Panzieri può avere una pericolosa autorevolezza e quindi deve essere neutralizzato. Il suo curriculum di importante dirigente socialista, il suo ruolo di prestigioso direttore della rivista teorica del Psi vengono azzerati.
Subito dopo il Congresso di Napoli sembrava scontato che sarebbe stata affidata a Panzieri la direzione di una rivista teorica e culturale della sinistra socialista. Invece «da Roma nessuno si fa vivo». Lucio Libertini, accettando la direzione di «Mondo nuovo», il settimanale della sinistra, rompe il sodalizio che aveva retto e animato i due anni di «Mondo operaio», si fa cooptare dal gruppo che guida la corrente di sinistra e avalla l’isolamento e l’emarginazione di Panzieri. «Vedo tutte le strade bloccate, il “ritorno al privato” mi mette freddo addosso, la possibile sorte della piccola setta mi terrorizza»42.
La lettera del 27 marzo 1961 a Lucio Libertini non solo esprime il suo «dissenso non eliminabile» dal direttore di «Mondo nuovo», ma profila una linea di uscita dal dilemma inaccettabile tra il “privato” e la “setta”. Si tratta di elaborare un “discorso unico” critico e propositivo, teorico e concreto, una politica unitaria di dissenso che operi fuori e dentro le organizzazioni del movimento operaio.
Si cammina su un filo sottile, ma «per questa via si può sperare di ricostruire un nesso tra realtà di classe e organizzazioni, fuori dal settarismo ridicolo e anacronistico dei piccoli gruppi e fuori insieme dalle compromissioni che rendono gli organismi impermeabili alle forze nuove».
A Libertini, che gli annuncia la sua esclusione dal Comitato Centrale eletto al Congresso di Milano del Psi del 1961, risponde: «Questo discorso te l’ho fatto perché ti sia chiaro in quale “spirito” ho accolto con profonda soddisfazione la mia uscita dal Comitato Centrale e nello stesso tempo mi propongo di ristabilire una collaborazione più intensa con la sinistra»: non un mio “reinserimento”, aggiunge, per togliere di mezzo ogni equivoco. Le relazioni che Panzieri intrattiene con la sinistra socialista riguardano realtà periferiche impegnate e attive nel lavoro di massa.
Mentre registra che i partiti si dimostrano sempre più chiusi ed estranei alla ripresa del fermento operaio e giovanile, egli rivolge la sua attenzione soprattutto alle positive dinamiche sindacali.
Scrivendo delle lotte del 1960 rileva che «gli aspetti essenziali di rinnovamento sindacale della Cgil hanno sostenuto, nella formazione del movimento odierno, un positivo ruolo di importanza fondamentale»43. I rapporti con Sergio Garavini e la Camera del lavoro di Torino per l’inchiesta sulla Fiat si sviluppano precocemente; quelli con Vittorio Foa e la corrente sindacale socialista si intensificano.
Vittorio Foa, col suo saggio Il neocapitalismo è una realtà del maggio 1957, aveva suggellato l’avallo politico all’avvio della direzione di Panzieri di «Mondo operaio». Nell’ottobre del 1961 sarà ancora un saggio di Foa su Lotte operaie nello sviluppo capitalistico ad aprire il primo numero dei «Quaderni rossi».
È poco probabile l’ipotesi avanzata da Merli secondo la quale Panzieri tenterebbe «una sutura tra l’elaborazione di Morandi e di Foa»44. I due percorsi culturali e politici sono troppo distanti. Foa in quegli anni dava una priorità assoluta al rinnovamento politico e culturale del sindacato, alla ripresa di una radicalità conflittuale e contrattuale sui nuovi terreni della fabbrica e dell’organizzazione del lavoro. Egli vedeva il partito come la “sponda” per l’iniziativa politica del sindacato. Panzieri convergeva con l’analisi di Foa sui nuovi terreni e la nuova qualità del conflitto di classe, ma considerava un sindacato rinnovato e combattivo come la “sponda” per andare avanti verso un progetto politico, per la riapertura di una prospettiva rivoluzionaria.
In quest’ottica si possono spiegare sia le convergenze sia le divergenze tra questi due protagonisti.
Nel tempo dei «Quaderni rossi»
La breve vicenda della rivista «Quaderni rossi» può essere considerata come importante documento delle potenzialità di rinnovamento della cultura politica della sinistra che premevano dentro quei primi anni ’60: gli anni della “grande trasformazione” dell’economia e della società italiana, gli anni delle speranze, delle aperture di nuovi orizzonti. Essa è il sismografo che registra le vibrazioni prodotte dalle “forze giovani” (operai e intellettuali) che fermentavano sotto la superficie immobile e piatta della glaciazione delle idee, dei costumi e delle istituzioni prodotta dai lunghi “inverni” della guerra fredda.
Non parlerò qui della rivista in quanto tale, del ruolo politico che essa ha avuto, del ventaglio delle sue iniziative e delle tematiche affrontate. Cercherò di isolare, per quanto è possibile, i principali contributi politici e teorici dei saggi di Panzieri scritti nel tempo dei «Quaderni rossi», dal 1961 al settembre del 1964.
Il primo numero della rivista fu l’espressione più efficace e ultima di quella che abbiamo chiamato la tattica fuori-dentro: produrre un’autonoma e indipendente elaborazione di proposta politica e culturale capace però d’interagire con forze interne al movimento operaio “storico”.
Panzieri voleva destabilizzare l’esistente, «portare tutte le forze possibili del movimento operaio sul terreno di questa elaborazione», attivare un processo di ricomposizione unitaria della classe in una prospettiva rivoluzionaria «che deve passare attraverso la ripresa e via via la trasformazione delle organizzazioni storiche del movimento operaio». Questa impostazione è continuamente ribadita nel suo lungo e impegnativo intervento di presentazione del primo numero dei «Quaderni rossi» a Siena nel marzo del 196245.
Oltre al saggio d’apertura di Vittorio Foa questo primo numero contiene interventi di importanti sindacalisti comunisti come Sergio Garavini ed Emilio Pugno e di sindacalisti socialisti (Muraro, Alasia, Gasparini).
Un mese dopo l’uscita del primo numero i sindacalisti comunisti Garavini e Pugno esprimono “dissensi fondamentali” nei confronti della rivista. Su pressione del partito essi si tirano fuori.
Il saggio di Panzieri Sull’uso capitalistico delle macchine nel neocapitalismo,46 che appare sul primo numero dei «Quaderni rossi», rappresenta l’approdo della sua riflessione negli “anni del silenzio”, una svolta rispetto al periodo di «Mondo operaio», il punto più alto e più duraturo del suo lascito teorico e politico.
Coglie nel segno Maria Turchetto quando sottolinea l’«enorme importanza teorica» della svolta operata da Panzieri che mette «seriamente in discussione la visione apologetica del progresso tecnico-scientifico caratteristica della tradizione marxista»47.
«Di fronte all’intreccio capitalistico di tecnica e potere – scrive Panzieri – la prospettiva di un uso alternativo (operaio) delle macchine non può evidentemente fondarsi sul rovesciamento puro e semplice dei rapporti di produzione (proprietà), concepiti come involucro che ad un certo grado di espansione delle forze produttive sarebbe destinato a cadere perché divenuto troppo ristretto: i rapporti di produzione sono dentro le forze produttive, queste sono “plasmate” dal capitale»48.
In queste poche righe si concentra una critica dirompente delle ortodossie che hanno prevalso sia nella Seconda sia nella Terza Internazionale. Si mette in discussione alla radice l’oggettivismo dello sviluppo delle forze produttive che sta alla base sia dell’evoluzionismo riformista sia del catastrofismo rivoluzionario.
Ambedue le posizioni spostano il fuoco dell’azione politica dal processo di produzione alla competizione intorno al potere nello Stato. Nessuna delle due coglie la sostanza libertaria della lotta operaia come insubordinazione del lavoro vivo contro la razionalità dispotica del capitale.
Maria Turchetto sottolinea il nesso tra rilevanza teorica ed efficacia pratica dell’apporto di Panzieri poiché la “rivoluzione copernicana” nella teoria coincideva con le modalità di svolgimento pratico delle nuove lotte operaie degli anni ’60. Turchetto giustamente indica l’elaborazione di Panzieri come una doppia “occasione mancata” per la sinistra. “Occasione mancata” per interpretare e indirizzare l’onda anti-autoritaria, “gestionale” e di contestazione della neutralità della tecnica che caratterizza la conflittualità del biennio ’68-6949. Infine “occasione mancata” perché il rifiuto della neutralità della tecnica e della scienza teorizzato da Panzieri conserva una valenza critica attuale che oggi è andata persa. La nuova “grande trasformazione”, cosiddetta post-fordista, che ha il proprio motore nelle tecnologie informatiche di controllo e di guida (intrise di potere), ha coinciso con una visione acritica o addirittura apologetica del progresso tecnologico.
L’avvio del saggio sulle macchine, in presa diretta sulla IV sezione del Libro I del Capitale, è un esempio straordinario della capacità di far vivere e parlare Marx dentro i problemi del presente, senza richiami al principio di autorità ma in forza dello stimolo che urge nell’attualità. È una grande lezione di metodo la liberazione di Marx dalla gabbia dogmatica delle dottrine di partito, la sua sottrazione alle bizantine dispute dei filosofi; un Marx riportato invece tra le macchine, dentro le fabbriche dove salario e profitto, alienazione e conflitto vivono nell’esperienza quotidiana del lavoro. Questo saggio lucido, tagliente ed essenziale trova un suo più ampio e articolato commento nella Relazione sul neocapitalismo dell’agosto 196150. Lo scritto sull’uso delle macchine non parla del macchinismo capitalistico in astratto ma lo colloca nella contemporaneità del capitalismo maturo, del neocapitalismo.
Franco Momigliano in uno scritto del 195751 descrive con sintetica chiarezza l’ideologia del neocapitalismo come primato dell’impresa “cosciente” che realizza le “armonie dell’integrazione”: integrazione tra produzione e mercato che genera bisogni di consumo, integrazione tra lavoro e impresa attraverso le “relazioni umane”, integrazione tra impresa e società con giuste dosi di keynesismo e di welfare. Il tutto assorbendo il concetto di programmazione dalle concezioni socialiste.
Di fronte a queste prospettive il Pci resta in parte paralizzato (lo blocca la visione dei “residui feudali” e dello stagnazionismo dei monopoli) e in parte affascinato (il progresso tecnico neutrale da trasformare in progresso sociale). Quest’ultima posizione è quella espressa da Silvio Leonardi nel convegno dell’Istituto Gramsci del 195652. Contro di lui si appunta in modo particolare la polemica di Panzieri.
Si può parlare di un’ideologia del neocapitalismo perché viene dichiarata realizzata una razionalità che invece con riesce mai a compiersi, perché si afferma un’integrazione conclusa là dove invece essa incontra il limite dell’insubordinazione operaia.
Ideologia non significa pura mistificazione. Sotto l’involucro ideologico c’è un nucleo di verità: operano pratiche reali e insidiose di regolazione sociale, di manipolazione dei comportamenti. Congiungere rendimento massimo con rendimento ottimo significa fronteggiare i potenziali conflitti, operare al fine di mobilitare un lavoro svuotato e senza attrattiva. L’integrazione tra produzione e mercato si manifesta come la programmata manipolazione del comportamento del consumatore. Quando il controllo e la manipolazione sociali diventano fattori della produzione si impone la convergenza della critica dell’economia politica con la critica sociologica. Qui, nella relazione sul neocapitalismo, già si anticipa un tema che troverà pieno sviluppo nell’“Inchiesta socialista”.
Nel delineare un piano totalitario neocapitalistico è presente l’influenza francofortese (Adorno e Pollock). Ma Panzieri contesta esplicitamente il pessimismo dell’alienazione tecnica e consumistica di Adorno: il sociologo francofortese – scrive Panzieri – «non vede il proletariato, non vede le forze che nella sfera della produzione, nella radice possono rovesciare quei processi»53.
Giustamente Sandro Mancini54 mette in evidenza come la ripresa della tematica del controllo operaio nel 1961, a conclusione del saggio sulle macchine, rappresenti una discontinuità rispetto alle tesi sul controllo operaio del 1958. Nel saggio del 1961 Panzieri prende nettamente le distanze da ogni versione del controllo operaio che si faccia carico di un neutrale sviluppo tecnico ed economico. Compie un affondo radicale, che mette in secondo piano l’azione esterna nella sfera dei consumi (salario) e del tempo libero (orario), puntando dritto al controllo che «investe il rapporto concreto razionalizzazione-gerarchia-potere» nel processo produttivo e che si rivolge contro il «dispotismo che il capitale proietta e esercita sull’intera società». Il tempo e il luogo dai quali dovrebbe partire l’armoniosa integrazione sociale diventano tempo e luogo in cui si condensa il potenziale dell’insubordinazione operaia, dalla quale può emergere quel dualismo di potere che riapre la prospettiva rivoluzionaria.
Nel luglio del 1962, nel corso della lotta per il contratto dei metalmeccanici, dopo anni e anni di silenzio e di passività operaia, la Fiat esplode. In una difficile situazione di nuova combattività operaia e di manovre volte a dividere il fronte dei lavoratori con accordi separati, i Quaderni rossi il 6 luglio distribuiscono di fronte agli stabilimenti della Fiat un lungo volantino che inizia con queste parole: «Operai della Fiat, alle vostre spalle, senza consultare nessuno, le organizzazioni sindacali al servizio del padrone hanno concluso un accordo separato che tenta di liquidare la lotta…»55. La lunga e fitta prosa del volantino dimentica un “dettaglio”: la Fiom si batte contro l’accordo separato e ha proclamato la continuazione della lotta degli operai della Fiat.
È incomprensibile che un politico avvertito come Panzieri abbia potuto consentire un gesto assolutamente errato. La generica denunzia delle «organizzazioni sindacali al servizio del padrone», senza riferire la scelta di continuazione della lotta unitaria fatta dalla Fiom, venne percepito dai sindacalisti della Cgil come una provocazione e quindi come un atto di rottura definitivo che coinvolge anche i sindacalisti della sinistra socialista di Torino e nazionali56. I «Quaderni rossi» e Panzieri non hanno più alcuna copertura nell’ambito della sinistra politica e sindacale.
In quegli stessi giorni la rivolta operaia si indirizzava contro la sede della Uil, responsabile dell’accordo separato, alimentando la lunga guerriglia urbana di Piazza Statuto. Un’insidiosa e volgare operazione mediatica accosta i “gruppi Panzieri” e la destra neofascista come animatori della “provocazione” antisindacale di Piazza Statuto. L’aggressione mediatica che coinvolge anche i giornali della sinistra, l’«Avanti!» e «l’Unità», non ha come obbiettivo principale la poco nota sigla dei Quaderni rossi, ma punta a demolire e a liquidare il dirigente politico “storico” del socialismo italiano, Raniero Panzieri.
Fu gravissima la mancata espressione di solidarietà da parte dei dirigenti socialisti, circa i fatti di piazza Statuto, nei confronti di quella persona con la quale avevano condiviso una lunga militanza e di cui conoscevano il rigore morale e la limpidezza politica. Fu la più grave sconfitta politica per Panzieri e insieme motivo di crudele sofferenza. L’ostracismo è realizzato, i comunisti sono riusciti ad alzare la barriera della scomunica contro le critiche e le proposte di quello scomodo “compagno”.
Le diverse interpretazioni delle lotte dei metalmeccanici del 1962 fanno precipitare la rottura del “gruppo romano” di Tronti che poco dopo abbandona la redazione dei «Quaderni rossi». La toccata e fuga di Mario Tronti con i «Quaderni rossi» non lascia tracce nell’indirizzo della rivista. Lascia amarezza e accentua il senso di solitudine in un Panzieri che continua ad andare lungo la propria strada «anche se questa può apparire la via dell’isolamento»57.
Il confronto-scontro con il cosiddetto “gruppo romano” stimola Panzieri a ribadire il suo punto fermo sulla questione del partito e a fare un passo avanti teorico-politico sul rapporto tra marxismo e sociologia. Lo incita a procedere in questa direzione la presa d’atto della ricaduta dei “filosofi” nello hegelismo puro, ormai catturati dall’«incantesimo dell’idea che lo stesso capitalismo genera mediante la classe operaia da esso socializzata, la società contrapposta, il socialismo»58.
Trascorso poco meno di mezzo secolo da quelle esperienze, pare giunto il momento, in sede storiografica, di far chiarezza e di collocare Panzieri in un capitolo tutto suo, separato dal cosiddetto “operaismo” degli anni successivi.
Si suole affermare che Panzieri abbia trascurato il discorso sul partito politico. A partire dal 1962, dopo la lotta dei metalmeccanici, egli ritorna spesso sul tema del partito operaio soprattutto per bloccare le tendenze alla fuga in avanti verso la costruzione di uno strumento di agitazione diretta con ambizioni di proposta politica globale.
Nel novembre del 1962, ragionando sulla lotta dei metalmeccanici, afferma: «Credo che non si debba rappresentare la possibilità di una nuova strategia come crescita organica di una nuova organizzazione… Non credo si ponga il problema di un partito nuovo della classe come esistenza di un embrione di partito preso a sé»59. Sempre nello stesso periodo ripete: «I Quaderni rossi sono un risultato fluido di questa lotta, di questa situazione fluida, e non l’embrione di un nuovo partito».
Queste ripetute risposte negative a quanti insistevano nel proporre l’organizzazione di un’avanguardia politica venivano da riflessioni critiche di lunga data sulle esperienze dei partiti burocratici di massa che già in quegli anni mostravano di entrare in crisi. Esse venivano anche da convinzioni maturate da tempo alla scuola di Morandi sul partito-strumento della classe. La visione del partito-strumento è inconciliabile con una forza politica che si ponga come un a priori ideologico (partito-verità) o come un’anticipazione organizzativa (partito-guida) rispetto alle concrete esperienze delle lotte di massa. Panzieri rifiuta sia di riproporre vecchi modelli di partito, come quello leninista, perché «il partito diventerà una cosa tutta nuova, e diviene persino difficile usare questa parola», sia di anticipare lo sviluppo di un nuovo «partito operaio… [che] non può formarsi se non come sviluppo delle lotte, risultato delle lotte»60.
Ogni fuga in avanti rispetto alla maturità del movimento di massa porta inesorabilmente alla “deriva settaria”. Questa soglia Panzieri è fermamente deciso a non varcarla.
Del resto abbiamo notato come le Tesi sul controllo operaio prevedessero una totale ridefinizione della politica del movimento operaio nella quale prevalesse il pluralismo dei movimenti politici di massa e dell’autonomo associazionismo su quella che abbiamo definito la “monarchia del partito” sulla classe e sulla società civile.
Nelle Tredici tesi sulla questione del partito di classe scritte con Lucio Libertini e pubblicate su «Mondo operaio» alla fine del 195861 si possono individuare alcune considerazioni che sicuramente provengono da Panzieri.
In questo documento si tracciano le parabole storiche dei due modelli di partito dominanti. La socialdemocrazia tedesca che rappresentò il «primo modello partitico corrispondente in notevole misura alla concezione originaria espressa dal Manifesto dei comunisti» ma che divenne anche il «primo esempio di degenerazione opportunistica». Infatti «il partito da strumento della classe diveniva fine a se stesso: uno strumento per eleggere i deputati, per affermare il potere della burocrazia, un elemento di conservazione».
«Il leninismo sorse come momento di rottura della degenerazione socialdemocratica». Il partito per Lenin incarnava l’ideologia rivoluzionaria che viene elaborata all’esterno delle masse. Nel pensiero leninista c’è una contrapposizione schematica tra l’elemento cosciente (ideologia-partito) e l’elemento spontaneità (lotte immediate di massa) e ciò apre la strada «alla concezione del partito-guida, del partito che sia l’unico depositario della verità rivoluzionaria, del partito-Stato».
In tutti e due i casi il partito da strumento si trasforma in fine a se stesso in quanto viene permeato da uno spirito statalista.
Il “partito delle lotte di massa” richiama la definizione di Marx dell’educatore che deve essere educato: «Il movimento di classe, nella sua vasta articolazione non può delegare al partito la soluzione “miracolosa”, dall’alto, dei suoi problemi, ma d’altro canto il partito non può delegare i propri compiti politici generali né al sindacato, né alle cooperative, né al movimento per il controllo operaio, né a qualche altro organismo. Il rapporto tra il partito e la classe è un rapporto dialettico. Il partito né sostituisce la creatività della classe né si abbandona ad essa. Il partito non è la guida, non è per definizione depositario della giusta politica; esso è funzione della classe».
Escludendo in modo assoluto di voler costruire «una setta in possesso della verità», giudicando sterile ogni ipotesi di “entrismo” nel Pci o nel Psiup62, Panzieri individua una linea che assicuri uno stretto raccordo tra l’impegno di ricerca teorica e il lavoro politico-sociale di classe, considerando «che le condizioni oggettive per un partito rivoluzionario della classe operaia non ci sono e si può quindi solo fare un lavoro preparatorio».
L’ultimo contributo dato da Panzieri poco prima della sua morte con la relazione su Uso socialista dell’inchiesta operaia63 ha anche lo scopo di dare una forte legittimazione teorica e una solida motivazione politica a un modo non partitico di realizzare il nesso indispensabile tra elaborazione teorica e verifica pratica.
L’utilizzazione dell’inchiesta percorre sin dall’inizio il lavoro dei «Quaderni rossi». Panzieri aveva già accennato alla necessaria convergenza tra critica dell’economia politica e critica sociologica nel capitalismo maturo, quando la regolazione-manipolazione dei comportamenti sociali diventa fattore intrinseco ad una valorizzazione “ottimale” del capitale.
In questo suo ultimo intervento denso e sintetico Panzieri va ben oltre il rilancio dell’inchiesta socialista come metodo di ricerca e di lavoro politico in una contingenza difficile tra crisi delle organizzazioni storiche e immaturità del movimento di lotta. Egli cerca di individuare il percorso che ha condotto quel grande “abbozzo di sociologia” di Marx che è Il Capitale a cristallizzarsi in una sorta di “metafisica” del movimento operaio.
Un impasto di evoluzionismo naturalistico e di filosofia della storia idealista ha fondato una concezione mistica della classe operaia e della sua missione storica che non solo prescinde, ma combatte la scienza dei “fatti”. L’alternativa pare porsi ormai soltanto tra il soggettivismo burocratico conservatore e il gratuito volontarismo attivistico e visionario.
Quando Panzieri programma di sviluppare e attualizzare nella modernità del tardo-capitalismo il nucleo importante di critica sociologica contenuto nel Capitale di Marx, facendo i conti con il pensiero della sociologia classica borghese, non si limita a indicare una tecnica di ricerca sociale (l’inchiesta), ma progetta la rivoluzione culturale di una tradizione del movimento operaio nella quale l’involuzione del pensiero corrisponde alla paralisi dell’azione e alla separazione dalla realtà. Il suo monito «Bisogna avere molta diffidenza nei confronti della diffidenza della sociologia borghese» è incitamento a osare un nuovo progetto culturale.
Luca Baranelli64 documenta in modo rigoroso «l’impulso forte e duraturo alla ripresa di una programmazione editoriale dell’Einaudi nel settore delle scienze sociali» dato da Panzieri. Contributo importante di lavoro e di creatività taciuto e denigrato da una “cattiva stampa” alimentata dall’Einaudi prima e dopo il suo licenziamento. In questo lavoro Panzieri aggiornava e arricchiva la sua cultura sociologica che riversava poi nella elaborazione politica e teorica.
Nei suoi scritti possiamo già trovare le linee di una sociologia politica del neo-capitalismo e delle sue pratiche di costruzione del consenso omologante, così come possiamo trovare le tracce di una sociologia politica della rivoluzione che indica i luoghi e i modi in cui si manifesta l’irriducibile libertà del lavoro vivo.
Panzieri si trova ora in una condizione di grave difficoltà esistenziale: il licenziamento da parte di Giulio Einaudi nell’ottobre del 1963 ha portato a compimento la “liquidazione” stalinista di Panzieri. Egli subisce un pesante isolamento politico.
Attraverso l’Uso socialista dell’inchiesta operaia, Panzieri rilancia un’audace e originale sfida culturale e politica con una vitalità di pensiero e di temperamento che solo la morte, un mese dopo, riuscirà a troncare.
«La perdita del lavoro e di ogni aiuto, l’essersi ridotto quasi a non sapere come dar da mangiare ai figli e come pagare l’affitto, gli dettero la certezza di contare amici veri, di preparare compagni nuovi. La morte, per le circostanze e per l’interpretazione che ne dettero quelli che potevano capirla, ebbe a significare finalmente una separazione dal “mondo” che per alcuni di noi suonava solo una conferma ma che per molti e più giovani fu la firma di un impegno». Così Franco Fortini65.
(2/2. Fine)
Pino Ferraris
(Tratto da: https://www.ospiteingrato.unisi.it/raniero-panzieri-per-un-socialismo-della-democrazia-direttapino-ferraris/).
Note
42 R. Panzieri, Lettere cit., p. 266.
43 R. Panzieri, Spontaneità ed organizzazione cit., p. 20.
44 S. Merli, Introduzione cit., p. 21.
45 R. Panzieri, Spontaneità ed organizzazione cit., p. 73.
46 R. Panzieri, La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit.
47 M. Turchetto, Ripensamento della nozione “rapporti di produzione” in Panzieri, in Ripensando Panzieri trent’anni dopo, Pisa, Biblioteca Franco Serantini, 1995.
48 R. Panzieri, Plusvalore e pianificazione, in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit.
49 M. Miegge, Raniero Panzieri e la questione del controllo operaio, in Raniero Panzieri un uomo di frontiera cit. Mario Miegge nel capitolo del suo intervento intitolato A proposito delle conseguenze mette giustamente in evidenza come nel biennio 1968-69 si siano espressi nelle fabbriche e nella società movimenti politici di massa “antagonistici” (avrebbe detto Panzieri). La totale assenza di quelle prospettive politiche (non necessariamente rivoluzionarie) sulle quali lavorava Panzieri (“gestionali” e “anti-autoritarie”), ha ricondotto le tensioni politiche all’interno dell’orizzonte sindacale del conflitto-contratto. Questo è particolarmente evidente per i consigli dei delegati la cui valenza politica, non raccolta, ha fatto di essi gli strumenti di riforma del sindacato e di potenziamento della vertenzialità aziendale.
50 R. Panzieri, Relazione sul neocapitalismo, in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit.
51 F. Momigliano, Ideologie dell’automazione, in L’automazione e le sue conseguenze sociali cit.
52 I lavoratori e il progresso tecnico cit.
53 R. Panzieri, Relazione sul neocapitalismo cit., p. 213.
54 S. Mancini, Socialismo e democrazia diretta cit.
55 Agli operai della Fiat, in «Cronache dei Quaderni rossi», 1, settembre 1962.
56 M. Miegge, Raniero Panzieri e la questione del controllo operaio cit.
57 R. Panzieri, Intervento alla riunione della redazione «Quaderni rossi – cronache operaie», in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit., p. 304.
58 Lettera di Raniero Panzieri a Luciano Della Mea, in Id., Lettere cit., p. 405.
59 R. Panzieri, Che cosa ci insegna la lotta dei metalmeccanici, in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit., p. 277.
60 R. Panzieri, Intervento sul congresso del Psi, ivi, p. 306.
61 L. Libertini, R. Panzieri, Tredici tesi sulla questione del partito di classe, in «Mondo operaio», 11-12, novembre-dicembre 1958.
62 R. Panzieri, Sul problema del partito, in Id., La ripresa del marxismo leninismo in Italia cit., p. 310.
63 R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, ivi.
64 L. Baranelli, Panzieri all’Einaudi, in «L’ospite ingrato», I, 2006.
65 F. Fortini, Per le origini di «Quaderni rossi» e «Quaderni piacentini», in «aut aut», 142-143, luglio-ottobre 1974.
Inserito il 18/08/2023.
Mario Tronti (1931-2023).
Foto di Livio Senigalliesi.
Fonte della foto: https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=1200,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2023/08/8clt1022.jpg
La scomparsa del filosofo Mario Tronti ha riportato sotto la luce dei riflettori le sue teorie e opere legate alla concezione operaista, da lui lanciata insieme a Raniero Panzieri negli anni Sessanta, poi in qualche modo superata dagli eventi e dalla storia. Qui presentiamo alcuni materiali sul filosofo che partì da Marx e Lenin ma andò oltre, come fecero molti altri intellettuali un tempo considerati “organici”.
Se è innegabile il suo valore come pensatore e innovatore del marxismo, dal punto di vista politico, soprattutto dopo la fine del PCI, le sue scelte lasciarono perplessi molti di noi che a quella deriva si opposero strenuamente. Infatti Mario Tronti, allergico a qualsiasi idea di minoritarismo, proseguì il proprio cammino politico e parlamentare seguendo il filone PDS-DS-PD, rischiando di rappresentare la foglia di fico della rappresentanza “marxista” all’interno di un partito che si è definitivamente allontanato dal marxismo e dalle istanze politiche della parte più avanzata della classe operaia sia nella forma che nella sostanza, sia dal punto di vista materiale che da quello ideale. Ci sono alcune sue interviste degli ultimi anni in cui si richiama alle opere e all’esperienza di Lenin, dichiarando l’esigenza di un loro rilancio: ma lo faceva con la tessera del PD in tasca, cioè dalla posizione politica la più distante possibile da quella tradizione ideale.
Cominciamo una rassegna dei materiali su e di Mario Tronti partendo dal profilo intellettuale che ne ha tracciato Stefano Petrucciani sul «manifesto» del 6 agosto 2023.
Dal quotidiano «il manifesto»
di Stefano Petrucciani
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Mario Tronti, il tempo della politica da una prospettiva radicale
Il percorso politico e intellettuale di Mario Tronti è stato lungo e, per certi aspetti, anche tortuoso; ma in esso il libro del 1966 Operai e capitale, che proprio negli ultimi lustri è stato tradotto e discusso ai quattro angoli del mondo, resta un passaggio decisivo, dal quale non si può non partire nel riflettere sul contributo del filosofo romano. Non perché il resto non sia importante. Ma il fatto è che Operai e capitale assunse (e assume ancora oggi) un rilievo eccezionale per una serie di motivi che vanno ricordati.
Prima che i contenuti, il libro di Tronti (che raccoglieva saggi apparsi perlopiù sulle riviste «Quaderni rossi» e «Classe operaia») rivoluzionava nientemeno che il linguaggio della teoría marxista. Certo, lo si poteva criticare per una certa enfasi espressiva. Ma sta di fatto che, con Tronti, la teoria marxista veniva linguisticamente svecchiata in modo radicale. Non parlava più un gergo ottocentesco, idealistico, storicistico. Cercava espressioni secche, sintetiche e folgoranti. Usava la lingua della grande cultura antistoricista, di Nietzsche, di Weber, di Musil.
Ovviamente la rivoluzione linguistica (oltre che politica, ma ci arriveremo) era innanzi tutto una rivoluzione culturale. Per primo dopo i francofortesi, che lo avevano fatto negli Quaranta, Tronti contaminava Marx con Nietzsche. E, attingendo al nichilismo e al pensiero negativo (nelle cui pieghe si sarebbe immerso poco dopo Massimo Cacciari), demoliva tutto il bagaglio della cultura storicista e progressista, scrivendo pagine che oggi sicuramente possono sembrare anche ingenue, ma che avevano il pregio di mostrare con chiarezza dove si voleva andare a parare. Sbarazzarsi della leggenda di una cultura borghese progressiva che il movimento operaio avrebbe dovuto ereditare. Congedarsi da ogni critica sociale di tipo moralistico e umanistico per attestarsi su una posizione rigorosamente di parte, su quello che Tronti chiamava il «punto di vista operaio». Un’operazione molto in sintonia con quella che, negli stessi anni, proponeva Alberto Asor Rosa, che demoliva il progressismo letterario nel suo libro del 1965 Scrittori e popolo.
In quegli straordinari anni Sessanta, che si sarebbero conclusi con l’esplosione dei grandi movimenti studenteschi, giovanili e operai, gli «operaisti» (appunto) proponevano una loro ipotesi radicale di marxismo rinnovato, che si affiancava a quelle, forse meno iconoclaste, del francofortismo e dell’althusserismo.
Ma la peculiarità dell’operaismo era che in esso teoria e politica marciavano strettamente a braccetto, cosa che per gli altri neomarxismi era molto meno vera. Si sviluppano così le grandi esperienze politico-culturali di cui Tronti è tra i protagonisti. Prima la rivista e il gruppo di «Quaderni rossi», che fa capo a Torino e a Raniero Panzieri. Poi la separazione da Panzieri in nome di un recupero del leninismo, e la nuova esperienza politica che si raccoglie attorno alla rivista «Classe operaia», che cessa le pubblicazioni nel 1967. Seguì la partecipazione alla rivista «Contropiano», fondata nel 1968 da Asor Rosa, Cacciari e Negri. È in questo contesto culturalmente e socialmente vivacissimo che nascono le grandi innovazioni teoriche trontiane, come la decisa politicizzazione della teoria (non c’è scienza neutrale, ma punti di vista di classe contrapposti – una tesi, a mio parere, molto discutibile e dubbia) e soprattutto l’idea che nel confronto/scontro tra classe operaia e capitale la classe non è l’elemento passivo, ma attivo; è la classe che ha l’iniziativa, è la sua lotta che costringe il capitale a rinnovarsi e a trasformarsi; è a partire da essa che vanno comprese le dinamiche di sviluppo della società.
Anche quando la stagione dei conflitti e dei movimenti sarà ormai trapassata, Tronti continuerà senza deflettere la ricerca di una prospettiva altra e radicale dalla quale mettere in discussione le certezze della tarda modernità democratico-capitalistica. Verso la fine degli anni Settanta si sviluppa la sua riflessione sull’Autonomia del politico (titolo di un fortunato volumetto che uscì nel 1977 per i «materiali marxisti» di Feltrinelli) e si snoda la riflessione teorica sui grandi autori della politica moderna; o meglio sui classici che a lui piacevano, cioè quelli che ne avevano dato una lettura duramente realistica: Machiavelli, Hobbes, Hegel, e per finire Carl Schmitt, colui che aveva ridotto la politica alla scelta senza mezzi termini tra amico e nemico.
C’è da dire però che, paradossalmente, questa ricerca sulla politica viene sempre più segnata dalla consapevolezza che, finito il Novecento, la grande politica se n’è andata con esso e, anzi, la politica appare sempre più consegnata all’insignificanza e alla incapacità di incidere sulla totalità onnipervasiva del liberal-capitalismo. Nella sua critica della omologazione democratico-capitalistica, del totalitarismo morbido che la caratterizza, della servitù volontaria che l’accompagna, Tronti sembra seguire le orme del Tocqueville critico della democrazia in America. Mentre la sua ricerca di un’alterità radicale lo rende sempre più attento alle tematiche della religione e della teologia politica.
La sua vicenda intellettuale è in qualche modo anche la registrazione di uno scacco: la nostalgia per la «grande politica», l’esigenza sacrosanta che la politica ritrovi un suo ruolo e un suo significato, devono prendere atto del suo depotenziamento in un mondo dove altre sono le forze e i poteri più influenti.
Stefano Petrucciani
SCHEDA
Un rivoluzionario in esilio
Nato a Roma 92 anni fa in una famiglia di proletari, scomparso nell’amata Ferentillo in Umbria, Mario Tronti ha insegnato per trent’anni all’università di Siena, è stato deputato del Pds e senatore del Pd. Una volta si è definito un «rivoluzionario in esilio». Questo è anche il titolo di una bella raccolta di interventi pubblicata in occasione dei suoi novant’anni, a cura di Andrea Cerutti e Giulia Dettori per Quodlibet (2021).
Molte delle sue opere principali sono state tradotte in diverse lingue, a testimonianza del grande interesse suscitato da un pensiero che, pur avendo accettato la sconfitta della «sua» parte, il comunismo, non ha smesso di cercare le strade della resistenza e del contro-potere. Operai e capitale (DeriveApprodi), testo fondatore con i «Quaderni Rossi» dell’operaismo, capolavoro di una gioventù militante e geniale, che poi è stato tradotto in inglese da Verso Books e in francese per Éditions Entremonde.
Più di recente, in Noi operaisti (DeriveApprodi) Tronti fece un bilancio della sua esperienza. Sull’autonomia del politico, testo che inizia una nuova fase diversa del suo pensiero oggi è contenuto nella straordinaria antologia degli scritti dal 1958 al 2015: Il demone della politica. Uscito per Mulino è stato curato da Matteo Cavalleri, Michele Filippini e Jamila Mascat. Insieme a molti altri scritti è stato tradotto in inglese in The Weapon of Organization: Mario Tronti’s Political Revolution in Marxism (Common Notions).
Un’altra fase del pensiero trontiano inizia con La politica al tramonto (Einaudi). Filosofo prolifico del «pensare estremo, agire accorto», Tronti ha pubblicato Dello spirito libero (Il Saggiatore). Andranno riletti, anche in una prospettiva di storia della politica, libri come Con le spalle al futuro (Editori Riuniti).
Di sé Tronti ha detto: «Chi è contro oggi sarà considerato contro anche domani. In fondo, il mio può declinarsi come un caso di innere Emigration, di presenza e di isolamento sia dentro la società nemica che dentro la politica amica: presenza scaricata nel libero spirito della lotta, isolamento sublimato nella libera scelta della solitudine. Ecco la mia libertà comunista».
Roberto Ciccareli
(Tratti da: Stefano Petrucciani, Mario Tronti. Il demone della politica da una prospettiva radicale e anticapitalista, in «il manifesto», Anno LIII, n. 186, 6 agosto 2023; sul sito del giornale il titolo è stato modificato ne Il tempo della politica da una prospettiva radicale: https://ilmanifesto.it/mario-tronti-il-tempo-della-politica-da-una-prospettiva-radicale; Roberto Ciccareli, Un rivoluzionario in esilio, in «il manifesto», Anno LIII, n. 186, 6 agosto 2023).
Inserito il 10/08/2023.
Baruch Spinoza (1632-1677), Karl Marx (1818-1883), Lev Vygotskij (1896-1934).
Fonti delle foto:
Marx, https://gospress.ru/karl-genrih-marks.html;
Vigotskij, https://i.ytimg.com/vi/tNbCYsflX6Y/maxresdefault.jpg.
Appunti su Spinoza attraverso Marx e Vygotsky
Le riflessioni che qui presenta lo studioso di Spinoza Alessandro Pallassini, e che rappresentano un primo approccio a uno studio di più ampio respiro, si muovono estrapolando suggestioni da tre autori (Spinoza, Marx e Vygotsky) tra di loro imparentati e cercano di abbozzare una proposta materialista rispetto al rapporto tra individuo e società in cui nessuno dei due poli sia prevalente rispetto all’altro.
Interessante in particolare l’analisi delle teorie del filosofo e psicologo sovietico Lev Vygotsky, per il quale «l’individuo si forma nell’incontro di potenzialità naturali e forme storico-sociali con le quali gli occorre di interagire durante il suo sviluppo. […] La dinamica tra individuo e società è il terreno in cui agisce la transindividualità e nella quale si formano sia l’individuo sia la società; entrambi sono sempre attraversati da tensioni e caratterizzati da un equilibrio metastabile e pertanto sempre in tensione. Questo processo è un processo continuo che investe tutta la vita dell’individuo e inevitabilmente anche della società, in un rapporto di reciproca formazione e tensionalità».
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Individualità, transindividualità e comunità
Appunti su Spinoza attraverso Marx e Vygotsky
di Alessandro Pallassini
Prima parte
1. Introduzione
In queste brevi note che, di fatto sono propedeutiche a un lavoro più ampio, cercheremo, in forma molto schematica, di percorrere un sentiero che, per quanto stretto, ci condurrà attraverso alcune suggestioni relative ai concetti di transindividualità, individualità e comunità.
Il concetto di transindividuale rimanda direttamente alla figura di Gilbert Simondon e alla sua opera principale L’Individuation à la lumière des notios de forme et d’information (2017). Secondo la prospettiva del filosofo francese non si tratta di vedere l’individuo come un dato, ma di concepirlo attraverso un processo di individuazione. Se per quanto riguarda l’individuo fisico questo processo di individuazione ha un inizio e una fine definibili, per quanto riguarda l’individuo organico e psichico tale processo è molto più sfumato e in continua evoluzione. In questa prospettiva, un individuo (sia singolare che collettivo) è sempre frutto di un equilibrio metastabile, ovvero di un equilibrio che è percorso da continue tensioni. Secondo Simondon l’individuo non è un qualcosa di già dato che precede la società e nemmeno la società è data dalla somma degli individui, ma assume senso solo nel processo di individuazione che si svolge non solo in lui, ma attorno e anche sopra di lui. Con la categoria di transindividuale si intende una struttura, dei tratti e delle funzioni esistenti nell’individuo e attraverso gli individui (Simondon 2017: 216-218). Riprendendo le parole di Balibar e Morfino possiamo definire la transindividualità una «nuova logica non più fondata sulla sostanza, ma sulla relazione [che] permette di pensare il rapporto individuo-società non in termini di primato di un elemento o dell’altro. Il transidividuale non è altro che la categoria ontologica imposta da questa logica relazionale, è il nome del sistema metastabile che dà luogo all’individuazione psichica e collettiva, trama di relazioni che attraversa e costituisce gli individui e la società, interdicendo metodologicamente la sostanzializzazione degli uni o dell’altra» (Balibar, Morfino 2014: 14). Accettando questa logica pertanto è possibile rigettare le prospettive individualistico-liberali, che fondano la società e la comunità sull’unione di singole entità già formate e che liberamente decidono con un patto di unirsi cedendo parte (Locke 1992) o tutti i propri diritti (Hobbes 1994; 1998) in cambio della sicurezza, sia quelle organiciste che vedono la realizzazione dell’individualità sottoposta a quella della società. Come si può già capire la prospettiva adottata rimanda al concetto di moltitudine e alla sua contrapposizione a quella di popolo inteso come un uno indistinto. In un breve ma denso testo Paolo Virno contrappone l’idea hobbesiana di popolo a quella di moltitudine spinoziana (Virno 2002: 9-12). Se per il primo la moltitudine rimanda allo stato di natura, sia precedente lo stato civile sia nel momento in cui questo si dissolve e non può in nessun modo agire, perché nella prospettiva di Hobbes la moltitudine, di fatto, non esiste e pertanto non può agire collettivamente (Montag 1999: 94-95), per il filosofo olandese la moltitudine è «l’architrave delle libertà civili» (Virno 2002: 10). D’altra parte, la comunità non può non essere che intesa, nella nostra prospettiva, come un campo di forze e di tendenze volte a creare un comune sempre aperto e percorso da forze differenti (Bourdieu 2002) e pertanto tale da rifuggire sia la visione individualistica del liberalismo, sia quella organicistica che vede la comunità come un tutto monolitico.
Nelle prossime pagine, per cercare di dare sostanza a queste prime indicazioni, proveremo ad abbozzare alcuni percorsi, assolutamente precari e suscettibili di revisioni, finalizzati a mostrare come il concetto di transindividualità abbia un fondamento ontologico che si riflette prepotentemente anche sulla sfera politica, definendola come rete di relazioni. In particolare, partendo dall’ontologia spinoziana cercheremo di passare attraverso alcune brevi note su Marx, provando ad enucleare alcuni elementi nel pensatore di Treviri che possono essere compatibili con la nostra impostazione, per poi transitare attraverso Vygosky, mostrando come i processi di interiorizzazione debbano necessariamente svolgersi in una sfera sociale che – per usare il lessico simondiano – è necessariamente metastabile. Infine, ritorneremo a vedere come questo percorso ci porti di nuovo a Spinoza che non sarà utilizzato più solamente per il fondamento ontologico, bensì anche per quello politico. D’altra parte, la tesi che l’Etica sia la linfa vitale che scorre nei trattati politici non è affatto nuova e rimanda a quel rinascimento nello studio del pensatore olandese che lo ha reso uno degli strumenti di interpretazione dei nostri tempi (Tosel 1994).
Le riflessioni che presentiamo, e che rappresentano un primo approccio a uno studio di più ampio respiro, si muovono estrapolando suggestioni da tre autori tra di loro imparentati e cercano di abbozzare una proposta materialista rispetto al rapporto tra individuo e società in cui nessuno dei due poli sia prevalente rispetto all’altro.
2. La formazione dell’individualità in Spinoza
Per poter cercare di fornire alcuni elementi utili a una definizione dell’individualità in Spinoza occorre partire dal rapporto tra Sostanza e modo e vedere come, in realtà, il concetto di Sostanza spinoziano non solo non implica alcun tipo di staticità, ma al contrario prevede una perenne processualità e una infinita rete di relazioni.
Nella terza definizione della prima parte dell’Etica Spinoza definisce in questi termini la Sostanza. «Per substantiam intelligo id, quod in se est, et per se concipitur: hoc est in cuius conceptus non indiget conceptus alterius rei, quod formari debeat» (Eth, I, Def III)1. Poco dopo, nella definizione tre, il modo è definito nei seguenti termini: «Per modum intelligo substantiae affectiones, sive id, quod in alio est, per quod etiam concipitur» (Eth, I, Deff V)2. Quello che salta immediatamente agli occhi è il rapporto tra in se e in alio: se la Sostanza si concepisce per sé ed è in sé, ovvero non necessita niente di altro per essere se stessa; il modo, la finitezza, invece per definire se stesso ha bisogno di altro ed è concepito attraverso questo altro. Queste poche notazioni già sarebbero sufficienti a eliminare una visione sostanzialista del soggetto: la concezione di matrice cartesiana di un soggetto impermeabile e già formato è spazzata via in un colpo. Tuttavia, e torneremo dopo in maniera più approfondita su questo aspetto, se la prima parte dell’Etica fornisce una serie di elementi funzionali a definire un’ontologia l’individualizzazione fisica che si presenta come una serie di relazioni causali; la terza parte è quella che fornisce invece elementi per un’ontologia sociale o, se si vuole usare i termini di Balibar, per un’antropologia filosofica (Balibar 2002 & 2014). Infatti, la prima parte dell’Etica si concentra sulla costruzione dell’essenza di Dio, mentre la terza parte invece è specificamente dedicata all’essenza dell’uomo3. Mettendo a sistema queste due sezioni è possibile mostrare come Spinoza sia irriducibile all’individualismo e all’olismo societario.
Ritornando ad affrontare la prima parte dell’Etica, e cercando di mostrare come la transidividualità si conformi in questa parte come causalità, è bene soffermarci sulla proposizione 16 dell’Etica. L’infinità produttività di Dio deve necessariamente produrre infinite cose in infiniti modi differenti4. Pertanto, deve produrre infinite individualità in infinite maniere diverse. La proposizione 16 definisce l’infinita produttività di Dio, ma, al contempo, l’infinita differenziazione del finito. Finito che, però, non si concepisce per sé ma necessariamente deve essere concepito in altro e per altro. La proposizione 28 della prima parte, in questo senso, è esplicita e fonda un primo livello di transidividualità, basato sul rapporto causale.
«Quodcunque singulare, sive quaevis res, quae finita est, et determinatam habet exsistentiam, non potest existere, nec ad operandum determinari, nisi ad existendum, et operandum determinetur ab alia causa, quae etiam finita est, et determinatam habet exsistentiam: et rursus haec causa non potest etiam existere, neque ad operandum determinari, nisi ab alia, quae finita est, et determinata habet exsistentiam, determinetur ad existendum, et operandum, et sic in infinitum»5.
La proposizione 28 esplicita come le entità modali non esitano in virtù della propria natura, perché in quanto esseri prodotti non possono essere causa di sé e pertanto non possono che esistere in una rete di relazioni (Gainza 2014: 89; Macherey 1998: 174). Al contempo, però, la proposizione 36 propone un’altra prospettiva assolutamente complementare alla precedente. Infatti, se la proposizione 28 mostra come ogni cosa finita debba essere definita in una relazione di rapporti causali con potenzialmente infinite altre cose finite, la proposizione 36 ribalta questa ottica e si pone da punto di vista dell’attività della cosa finita.
Se «Nihil existit, ex cuius natura aliquis effectus non sequatur»6, ovvero se ogni cosa finita si muove in un rapporto di passività e di attività e pertanto in una rete di relazioni che ne determinano la possibilità di essere, ma anche la capacità di agire, il finito (il modo) deve essere inteso come una parte attiva dell’infinito e la totalità della finitezza, non intesa in maniera sommativa bensì intensiva, deve rimandare necessariamente alla Sostanza, non intesa come qualcosa di immutabile, bensì come una rete di relazioni materiali. I concetti in questione rimandano perciò al rapporto tra il finito e l’infinito. D’altra parte, se il De Deo può essere considerato, come ha affermato Pierre Macherey (1998), un de natura omnium rerum, la prima parte dell’Etica rimanda a un’ontologia generale di tutto ciò che esiste e al rapporto tra finitezza e infinitezza in cui il finito si connota come parte assolutamente attiva dell’infinito (Rousset 2000: 32). Questo rapporto di reciproca fondazione rimanda a una natura relazionale del finito e a una natura assolutamente processuale dell’infinito. Nella prima parte dell’Etica Spinoza, tra le molte altre cose, definisce un rapporto tra finito e infinito di tipo relazionale, un’ontologia generale basata sulla relazionalità. Come sottolinea André Tosel, l’ontologia spinoziana si determina quindi in una ontologia relazionale e transoggettiva dell’agire, sostenuta da una politica collettiva dell’agire (Tosel 2008: 11). Questo significa che l’ontologia generale deve essere declinata anche come ontologia sociale e politica.
Se la prima parte dell’Etica fornisce gli elementi per un’ontologia generale di tipo relazionale, la terza e la quarta parte sono quelle in cui il filosofo olandese sviluppa invece un’ontologia sociale, di carattere relazionale, fondata sulla costituzione transidividuale del soggetto e della comunità. È ormai chiaro come, sia a livello ontologico generale così come a livello ontologico sociale, un individuo isolato sia un’astrazione. Il postulato 4 della seconda parte dell’Etica è chiaro circa questo aspetto: «Corpus humanum indiget, ut conservetur, plurimis aliis corporibus, a quibus continuo quasi regeneratur»7. Questa proposizione che ancora fa da cerniera tra l’ontologia generale della prima parte e l’ontologia sociale della terza e quarta parte, tuttavia già echeggia quanto Spinoza scriverà nell’introduzione alla terza parte dell’Etica e nella dimostrazione della proposizione 39 della quarta parte. Quest’ultima rimanda direttamente al postulato 4 della seconda parte, mentre nell’introduzione alla terza parte ritroviamo la celebre definizione dell’uomo come parte della Natura e non come un impero all’interno di un impero. Polemizzando indirettamente con Cartesio e con tutti quei pensatori che pensano che la natura umana non si fondi all’interno delle leggi della natura, bensì le trascenda Spinoza afferma che:
«Plerique, qui de Affectibus, et hominum vivendi ratione scripserunt, videntur, non de rebus naturalis, quae communes naturae leges sequuntur; sed de rebus, quae extra naturam sunt, agere. Imo hominem in natura, veluti imperium in imperio, concipere videntur. Nam hominem naturae ordinem magis perturbare, quam sequi, ipsumque in suas actiones absolutam habere potentiam, nec aliunde, quam a se ipso determinari credunt»8.
L’introduzione alla terza parte fornisce due elementi di transindividualità che, in forme differenti, erano già presenti nelle proposizioni oggetto di esame in precedenza. In primo luogo, Spinoza ribadisce che l’uomo è una parte della natura e ne deve pertanto seguire le leggi; questo significa che l’uomo si trova immerso in una rete di relazioni che, come abbiamo detto in precedenza, in prima battuta si presenta come una rete di relazioni causali. Tuttavia, in seconda battuta, ribadendo che l’uomo non può turbare l’ordine della natura se, da un lato, conferma l’appartenenza dell’uomo alle leggi della natura, dall’altro, apre la prospettiva per la costituzione di un’ontologia sociale relazionale propria dell’essere umano. Leggendo l’Etica secondo questa prospettiva, possiamo cercare il fondamento di un’ontologia sociale relazionale nelle prime proposizioni della terza parte che sono, nella nostra lettura, in diretto contatto con le definizioni iniziali della prima parte. Se le prime definizioni del De Deo specificavano ciò che è in sé e ciò che necessariamente deve essere concepito attraverso altro e ponevano i pilastri per una ontologia generale di tipo relazionale, le prime definizioni della terza parte, specularmente, forniscono i fondamenti per un’ontologia sociale di tipo relazionale. Spinoza nelle due iniziali definizioni comincia un’opera di traduzione dell’ontologia relazionale generale in una ontologia relazionale sociale, distinguendo tra causa adeguate e inadeguata e tra attività e passività.
«I. Causam adaequatam appello eam, cuius effectus potest clare, et distincte per eandem percipi. Inadaequatam autem, seu partialem illam voco, cuius effectus per ipsam solam intelligi nequi. II Nos tum agere dico, cum aliquid in nobis, aut extra nos fit, cuius adaequata sumus causa, hoc est (per Defin. Preced.) cum ex nostra natura aliquid in nobis, aut extra nos sequitur, quod per eandem solam potest clare, et distincte intelligi. At contra nos pati dico, cum in nobis aliquid fit, vel ex nostra natura aliquid sequitur, cuius nos non, nisi partiali, sumus causa»9.
Se con il dispositivo del seu o del sive Spinoza traduce, pur utilizzando il medesimo lessico, l’impianto teologico, trasformandolo in un impianto assolutamente immanente in cui non c’è posto per alcuna trascendenza, con il passaggio da esse in se e esse in alio a essere causa adeguata o inadeguata si inizia un processo che mira a definire un’ontologia sociale di tipo relazionale. D’altra parte, il postulato I parla esplicitamente di corpo umano e non più di corpo in generale e segnala che il corpo umano può essere colpito in molti modi per cui la sua potenza di agire può aumentare o diminuire a seconda di come viene affettato (Eth. III, Post I). Sulla medesima linea il postulato seguente conferma la relazionalità del corpo umano che può subire molti mutamenti e conservare le tracce del passato. Tuttavia, a questo livello saremmo ancora in una fase in cui si tratta sì di un corpo, ma che non ha ancora coscienza di sé.
Le proposizioni da XV a XVII forniscono un primo approccio e cominciano a delineare una sorta di storia del sé, per riprendere le parole di Balibar. In questo trittico di proposizioni Spinoza introduce la nozione di interiorità, fondata sull’immaginazione. Tuttavia, è con la proposizione XXVII che si ha un ulteriore evoluzione per quanto riguarda l’interindividualità. Infatti, questa proposizione introduce un dispositivo fondamentale per la creazione della socialità, ovvero l’Affectum Imitatio attraverso il quale costruiamo il nostro io nel rapporto con l’altro da noi. Ma perché questo rapporto sia possibile è necessario introdurre un ulteriore dispositivo che è fondamentale per la relazionalità. L’altro concetto cardine, che in questa fase costituisce un vero e proprio dispositivo teorico, è rappresentato dall’espressione Aliquid simile, ovvero un qualcosa di simile, un qualche fattore di somiglianza con ciò che imitiamo.
Alla luce della proposizione XXVII questi due concetti sono fondamentali. Infatti, come scrive Balibar:
«La relazione all’Altro emerge allora come un duplice processo di identificazione: noi ci identifichiamo agli altri perché percepiamo una parte di somiglianza (cioè una somiglianza di parti del corpo o della mente, che diventano oggetti positivi o negativi di desiderio e proiettiamo oggetti positivi o negativi di desiderio) e proiettiamo le nostre affezioni su di loro (o viceversa). Donde la continua comunicazione o circolarità di affetti tra individui, che rafforza ogni affezione individuale. Si tratta di un processo ambivalente che crea tanto le “identità” collettive che quelle personali e nel quale pertanto riscontriamo entrambe. Dopotutto noi cerchiamo di imitare gli altri e di agire conformemente a una loro immagine che abbiamo costruito» (Balibar 2002: 133-134).
L’immaginazione pertanto è la facoltà mimetica che permette l’identificazione con l’altro e la costruzione delle identità personali in relazione processuale con le identità collettive. Anticipiamo solo di passata, perché sarà oggetto di trattazione più analitica nel paragrafo 4, che, così facendo, quanto detto in precedenza ha immediate ricadute politiche. Infatti, Spinoza elimina la possibilità di una individualità isolata, che per lui sarebbe inadeguata e per Marx semplicemente da classificare come una Robinsonata, e, nel medesimo istante in cui compie questa operazione, al contempo elimina l’idea di una collettività autosufficiente a se stessa e completamente autarchica (Balibar 2020: 50-51; Read 2014: 219 e 223). Come ha chiaramente mostrato André Tosel, Spinoza non parte dall’idea di una serie di individui isolati che in qualche maniera si uniscono tra di loro, bensì da una pluralità di forme di associazione a equilibrio variabile.
«Il part de la pluralité de formes d’associations mobiles e structurées agonistiquement par des matrices d’affects positifs (cycles d’identification mimétique assurant la coopération) et/ou par des matrices d’affects négatifs (renversement des cycles d’identification mimétique en cycles de concurrence agressive); ni primat de l’individu; ni non plus primat du tout, ni individualisme ni holisme méthodologiques et ontologiques (–). La dissolution d’une société, en effet, n’est pas une dissociation atomistique; elle se décline en un complexe de formes. La science politique s’inscrit comme moment d’une ontologie relationnelle. Ni l’individu humain, ni un tout social ne sont un empire dans un empire» (Tosel 2008: 114)10.
Ogni società non può che essere caratterizzata da una rete di relazioni e di tensioni e in qualche modo essere sempre in un equilibrio metastabile. Tosel sottolinea pregnantemente quanto abbiamo cercato di argomentare fino a questo momento. Per i nostri scopi immediati la sua analisi ci è utile per almeno due aspetti: da un lato ribadisce che le forme di associazione in Spinoza nascono a partire da processi mimetico\immaginativi; dall’altro invece sottolinea come questi cicli passionali su cui si fonda la costituzione di una rete di relazioni possano essere sia positivi che negativi. La possibilità di cicli passionali – sia positivi, sia negativi e che si intrecciano tra di loro – rimanda, da un lato, allo statuto ontologico della finitezza umana intesa non come un impero all’interno di un impero e, dall’altro, anche al ruolo che deve svolgere la ragione in rapporto ai cicli passionali. Spinoza ne parla per la prima volta sia nel primo che nel secondo scolio della proposizione 40 della seconda parte. Nel primo scolio si può leggere: «His causam notionum, quae Communes vocantur, quaeque ratiocinii nostri fundamenta sunt, explicui»11. Nello scolio successivo la distinzione tra conoscenza di primo genere e secondo genere è mostrata esplicitamente: «denique ex eo, quod notiones communes, rerum proprietatum ideas adaequatas habemus [...]; atque hunc rationem et secundi generis cogitationem vocabo»12. Tuttavia, occorre aspettare fino allo scolio della proposizione 18 della quarta parte perché il concetto di ragione venga di nuovo affrontato esplicitamente.
«Superest iam, ut ostendam, quid id sit, quod ratio nobis praescribit, et quinam affectus cum rationis humanae regulis conveniant; quinam contra iisdem contrarii sint. Sed antequam haec prolixo nostro Geometrico ordine demonstrare incipiam, lubet ipsa rationis dictamina hic prius breviter ostendere, ut ea, quae sentio, facilius ab unoquoque percipiantur. Cum ratio nihil contra natura postulet, postulat ergo ipsa, ut unusquisque seipsum amet, suum utile, quod revera utile est, quaerat, et id omne, quod hominem ad maiorem perfectionem revera ducit, appetat, et absolute, ut unusquisque suum esse, quantum in se est, conservare conetur»13.
Tra la prima definizione di ragione e la seconda, come giustamente sottolinea Balibar, occorre uno scarto. Se la prima definizione insiste sulle nozioni comuni, vale a dire applicate in forma universale a qualsiasi oggetto in virtù di proprietà comuni, la seconda definizione di ragione che incontriamo insiste invece su un aspetto differente. Infatti, la ragione non viene presentata come una facoltà, bensì come una relazione o, per riprendere le parole di Balibar, «una struttura o un sistema di reciproche implicazioni nella quale per ogni individuo, il conatus a preservare la propria esistenza comporta la conoscenza del proprio e l’istituzione necessaria di un commercium con altri uomini» (Balibar 2002: 135). In questo senso, la ragione spinoziana è di tipo utilitarista, ovvero che ricerca l’utile e lo rintraccia nell’altro uomo come afferma esplicitamente nello scolio della proposizione XVIII.
«Si enim duo ex. gr. Eiusdem prorsus naturae individua invicem iunguntur, individuum componunt singulo duplo potentius. Homini igitur nihil homine utilius; nihil, inquam, homines praestantius ad suum esse conservandum, optare possunt, quam quod omnes in omnibus ita conveniant, ut omnium Mentes et Corpora unam quasi Mentem, unumque Corpus componant, et omnes simul, quantum possunt, suum esse conservare conentur, omnesque simul omnium commune utile sibi quaerant»14.
L’utile individuale scaturisce da una relazione con gli altri; attraverso la ragione comprendo che gli altri sono individui e pertanto sono cause parzialmente adeguate, così come lo sono io. L’utile perciò non deriva da ciò che gli altri possono fare per me, ma direttamente da un fattore ontologico, ovvero da ciò che noi siamo. È in virtù di una comunanza di tratti ontologici che la mia utilità per gli altri coincide con la percezione della loro utilità per me. La proposizione XXXV della medesima parte specifica alcune cose. In primo luogo, viene ribadito il fatto che in natura non si dia nessuna cosa più utile all’uomo che l’uomo stesso che vive secondo la guida della ragione, in secondo luogo Spinoza, però, ci dice che la ragione non prescrive un astratto modello di socialità, bensì ne produce tendenzialmente uno concreto. Tuttavia, Spinoza ribadisce il proprio materialismo affermando che la natura umana è comunque soggetta a passioni e, d’altra parte, riafferma l’utilità del vivere in comune.
«Fit tamen raro, ut homines ex ductu rationis vivant; sed cum iis ita comparatum est, ut plerumque invidi, atque invicem molesti sint. At nihilominus vitam solitariam vix transigere queunt, ita ut plerisque illa definitio, quod homo sit animal sociale, valde arriserit; et revera res ita se habet, ut ex hominum communi societate multo plura commoda oriantur, quam damna»15.
Come nota Tosel, Spinoza riprende il paradigma aristotelico dell’uomo come animale sociale, ma lo definisce secondo una prospettiva a geometria variabile; contro Hobbes (1994; 1998) e Locke (1992) accetta la definizione aristotelica dell’uomo come animale sociale, ma la declina secondo una pluralità di forme immanenti a equilibrio variabile (Tosel 2008: 114). D’altra parte, anche la dissoluzione di una società non è pensata in maniera atomistica, come un ritorno a un fantomatico stato di natura, bensì si modella in una pluralità di forme sociali: «il n’y a pas d’essence de la nature humaine au sens d’un genre abstrait qui contiendrait en les subsumant la totalité des formes singulières d’association. L’univers sociopolitique est un univers relationnel d’essences singulières constituées dans un processus perpétuel de variations des individus composants» (Tosel 2008: 115). Quindi anche le formazioni sociali non si presentano come entità astratte nate da un qualche evento costituente di natura trascendente, ma sono costituite da una rete di relazioni in continua interazione; relazioni che si manifestano attraverso una storia, una lingua, un territorio, la popolazione che lo abita con i propri costumi e il proprio Habitus16.
Ora, per cercare di chiudere il cerchio, torniamo a quanto dicevamo rispetto al concetto di transindividualità, che deve essere inteso non come uno stato, bensì come un processo sia per quanto riguarda il piano ontologico che quello politico. D’altra parte, la distinzione tra il popolo di Hobbes e la moltitudine di Spinoza rimanda proprio a questo. Se per Hobbes la moltitudine non può agire e rappresenta, di fatto, lo stato di natura e\o il ritorno a tale stato, da cui si esce solo con un patto trascendente che istituisce la società e lo Stato stesso (Montag 1999: 94-95); per Spinoza è la moltitudine che agisce all’interno di una serie di relazioni e in forme ed equilibri variali.
I corpi politici pertanto, come nota Balibar (2020: 56-57), sono individualità complesse in cui la ricerca della stabilità non passa attraverso un atto fondativo, bensì attraverso la ricerca perenne del superamento della precarietà. Sono quindi caratterizzati da meccanismi passionali e razionali che al contempo fungono da forze centripete e centrifughe. Se i movimenti passionali oscillano tra l’amore e l’odio, entrambe passioni sociali e in grado di aggregare sebbene in forme estremamente differenti, la ragione funziona come meccanismo di stabilizzazione dei cicli passionali neutralizzando la Fluctuatio Animi (Tosel 2008: 194). Ogni sistema politico si presenta come un campo di tensioni ineliminabili e in cui sempre una pluralità di generi di conoscenza, e pertanto di modalità politiche, darà vita a una rete di relazioni in continuo mutamento17.
(1/2. Segue)
Alessandro Pallassini
(Tratto da: Alessandro Pallassini, Riflessioni provvisorie su individualità, transindividualità e comunità. Appunti su Spinoza attraverso Marx e Vygotsky, in «Koiné», Anno XXVIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2021, pp. 115-136).
Note
1 «Per sostanza intendo ciò che è in sé e che per sé si concepisce. Ossia ciò il cui concetto non ha bisogno del concetto di un’altra cosa da cui si debba formare» (Eth. I, Def III: 6). Da ora in avanti indicheremo con la sigla Eth. l’Etica, con la sigla TP il Trattato Politico. Le edizioni di riferimento sono quelle curate da Paolo Cristofolini sia per l’Etica (2010) e che per il Trattato Politico (2011).
2 «Per modo intendo le affezioni della sostanza, ossia ciò che è in altro, tramite il quale si concepisce» (Eth, I, Def. V: 6).
3 André Tosel ha mostrato in maniera magistrale come Spinoza, utilizzando il dispositivo del seu o del sive, elimini dall’idea di Dio qualsiasi forma di trascendenza (Tosel 1994; 2008).
4 «Ex necessitate divinae natuarae, infinita infinitisi modis (…) sequi debent» (Eth. I, Prop. 16: 42).
5 «Qualunque cosa singola, ovvero qualsiasi cosa che è finita e ha un’esistenza determinata, non può esistere né essere determinata a operare, se non sia determinata a esistere e a operare da un’altra causa anch’essa finita e avente un’esistenza determinata: e anche questa causa non può a sua volta esistere, né essere determinata a operare, se non sia determinata a esistere e a operare da un’altra, anch’essa finita e avente un’esistenza determinata, e così all’infinito» (Eth I, Pro. XXVII: 55-56).
6 «Niente esiste dalla cui natura non derivi un qualche affetto» (Eth I, prop XXXVI: 64-65).
7 «Il corpo umano ha bisogno, per conservarsi, di moltissimi altri corpi, dai quali viene di continuo rigenerato» (Eth. II, Post. IV: 98-99).
8 «I più, tra quanti hanno scritto sui moti dell’animo e sulle regole degli uomini, sembrano trattare non di cose naturali che seguono le comuni leggi della natura, ma di cose alla natura estranee. Anzi, sembra che concepiscano l’uomo nella natura come uno stato entro lo stato. Credono infatti che l’uomo turbi l’ordine della natura piuttosto che seguirlo, che abbia assoluto potere sulle proprie azioni, e che non sia determinato altro che da se stesso» (Eth. III, Intr.: 146-147).
9 «I. Chiamo causa adeguata quella il cui effetto può essere percepito chiaramente e distintamente mediante essa. Chiamo invece inadeguata o parziale quella il cui effetto non è intellegibile per mezzo di essa sola. II. Dico che siamo attivi quando in noi o fuori di noi accade qualcosa di cui siamo causa adeguata, cioè (per la definizione precedente) quando dalla nostra natura deriva qualcosa in noi, o fuori di noi, che è chiaramente e distintamente intellegibile per mezzo di essa sola. Dico invece che siamo passivi quando accade qualcosa in noi, o qualcosa deriva dalla nostra natura, di cui noi non siamo se non causa parziale» (Eth. III, def 1.2: 148-149).
10 Notiamo solo di passata come il rapporto tra finitezza e infinito e l’essere la politica una delle forme in cui si manifesta l’ontologia relazionale sono a fondamento di quello che Tosel chiama Communisme de la Finitude (Tosel 1996).
11 «Con questo ho spiegato la causa delle nozioni che sono chiamate comuni, e che sono le basi del nostro raziocinio» (Eth. II, Prop 40, Scholium I: 122-123).
12 «Infine dal fatto che abbiamo nozioni comuni e idee adeguate delle proprietà delle cose (–), e questa la chiamerò ragione e conoscenza di secondo genere» (Eth. II, Prop 40, Scholium: 124-125).
13 «Mi rimane ora da spiegare che cosa sia ciò che la ragione ci prescrive, quali moti dell’animo si accordino con le regole della ragione umana, e quali invece siano ad esse contrari. Ma prima di cominciare a dimostrare queste cose secondo il nostro dettagliato (preciso) ordine geometrico, preferisco illustrare qui brevemente i dettami stessi della ragione, affinché le mie vedute siano più facilmente percepite da chiunque. Siccome la ragione non richiede nulla contro la natura, essa richiede che ciascuno ami se stesso, che cerchi il proprio utile, ossia ciò che è davvero utile, che voglia veramente tutto ciò che veramente conduce l’uomo a maggior perfezione e, in senso assoluto, che ciascuno tenda a conservare il proprio essere per quanto da lui dipende» (Eth IV, Prop XVIII, Scholium: 254-257). Il corsivo è nostro.
14 «Se infatti, per esempio, due individui della stessa natura si uniscono, compongono un individuo due volte più potente del singolo. Nulla dunque è per l’uomo più utile dell’uomo; nulla, dico, possono gli uomini scegliere di più valido per la conservazione del loro essere, del fatto di mettersi tutti d’accordo in tutte le cose, che le menti e i corpi di tutti compongano quasi una sola mente e un solo corpo, e tutti insieme, per quanto possono, tendano a conservare il proprio essere, e tutti assieme cerchino l’utile comune per sé e per tutti» (Eth IV; prop XVIII, Scolio: 256-257).
15 «Di rado accade, tuttavia, che gli uomini vivano guidati dalla ragione; ma la loro condizione è tale per cui sono nella maggior parte dei casi invidiosi e reciprocamente ostili. Ciononostante possono a mala pena sopportare una vita solitaria, tanto che ai più piace molto la definizione dell’uomo come animale sociale. E difatti così stanno le cose: dalla comune società umana vengono molti più vantaggi che danni» (Eth IV, Prop. XXXV, Scolio: 270-271).
16 Utilizziamo il termine Habitus riprendendolo da Pierre Bourdieu (2002). Per una silloge di tale concetto si rimanda a Sapiro (2020).
17 Il concetto di campo è ripreso da Bourdieu (2002); per una panoramica esaustiva su tale concetto si rimanda alla medesima voce nel Dictionnaire International Bourdieu curato da Gisèle Sapiro (2020).
Inserito il 10/07/2023.
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di Alessandro Pallassini
Seconda parte
3. Individualità e socialità: alcune notazioni su Marx
Esula dai nostri scopi quello di fornire una riflessione analitica sulla possibilità di applicare organicamente il concetto di transindividualità all’opera di Marx. Un tale proposito richiederebbe uno studio sistematico e una trattazione ben più dettagliata. D’altra parte, non ci proponiamo nemmeno di fornire una linea di lettura di un Marx, per così dire, spinoziano18. Quello che invece ci proponiamo nelle righe seguenti rinvia ad alcune suggestioni a partire da alcuni passaggi specifici de Il Capitale, con sullo sfondo – le Tesi su Feuerbach – circa la costituzione dell’individualità e della collettività in Marx. Ovviamente, non ci proponiamo uno studio esaustivo, ma semplicemente miriamo fornire alcuni elementi di una possibile lettura di questa coppia di categorie anche alla luce delle riflessioni su Spinoza del paragrafo precedente. In particolare, seguendo alcune suggestioni proposte da Balibar (2020), transiteremo attraverso il paragrafo sul Feticismo delle Merci e altri luoghi del primo libro de Il Capitale dedicati al concetto di merce.
Prima, però, di passare, seppur brevemente e a salti, nei luoghi già citati è utile fare, per così dire un passo in avanti. Nel terzo paragrafo del quarto capitolo della seconda sezione del primo libro de Il Capitale Marx ci fornisce la celebre definizione di forza-lavoro. Sebbene il passo sia molto articolato, è forse utile ripercorrerne almeno la prima parte.
«Per forza-lavoro (Arbeitskraft) o capacità di lavoro (Arbeitsvermögen) intendiamo l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali (der physichen und geistigen Fähigkeiten) che esistono nella corporeità (Leiblichkeit), ossia nella personalità vivente d’un uomo (der lebendingen Persönlichkeit eines Menschen), e che egli mette in movimento ogni volta che produce valori d’uso di qualsiasi genere» (Marx 1980: 200).
La definizione di Forza lavoro, così come la ricaviamo da queste prime righe righe ci fornisce alcuni elementi. Per prima cosa, Marx parla della forza lavoro come la totalità delle capacità fisiche e intellettuali che esistono sia nella corporeità che nella personalità. Se, pur con un grande sforzo di astrazione, possiamo pensare alla corporeità come indipendente dai rapporti sociali, ben più difficile sembra poter parlare della personalità vivente dell’uomo al di là di una rete di relazioni. Marx comunque sembra indicare una serie di attitudini comuni al genere umano che sono quelle che riunisce sotto il nome di forza-lavoro o capacità di lavoro. In ogni caso, già questa prima definizione porta con sé un elemento di socialità insopprimibile. D’altro canto, però, queste facoltà debbono essere declinate a seconda della formazione economico sociale nella quale agiscono. Marx prosegue la sua analisi, nelle righe successive al passo direttamente citato, mostrando come nel modo di produzione capitalistico perché il possessore della forza-lavoro e il possessore dei mezzi di produzione possano riconoscersi debbano sussistere alcune condizioni. In primo luogo, il possessore della forza-lavoro non deve possedere altra merce da vendere che quella e, dall’altra parte, che nella sfera del mercato si incontri con il possessore dei mezzi di produzione che sia disposto a comprarla. Si tratta, formalmente, di un libero contratto che prevede un riconoscimento reciproco tra due individualità.
Tuttavia, in secondo luogo, Marx specifica che questo rapporto non ha niente di naturale e nemmeno è una costruzione sociale trans storica.
«Questo rapporto non è un rapporto risultante dalla storia naturale e neppure un rapporto sociale che sia comune a tutti i periodi della storia. Esso stesso è evidentemente il risultato d’uno svolgimento storico precedente (vorhergegangenen historischen Entwickulung), il prodotto di molti rivolgimenti economici, del tramonto di tutta una serie di formazioni più antiche della produzione sociale (älterer Formationen der gesellschaftlichen Produktion)» (Marx 1980: 200-202).
Quindi questo rapporto che si basa su dei tratti comuni del genere umano è stato modellato dalla storia sociale e, soprattutto, dal susseguirsi delle differenti formazioni e dal tramonto delle precedenti formazioni della produzione sociale di cui, però, eredita in parte i tratti acquisiti. D’altro canto, però, i rapporti sociali non si definiscono in forma immediata, bensì necessitano di camere di compensazione che fungano da mediazioni e la merce è una di queste mediazioni in cui i rapporti sociali si esprimono in un duplice senso.
Seguendo questa traccia, in questo percorso fatto di suggestioni e finalizzato a mostrare alcuni aspetti della transidividualità in Marx, è utile fare un passo indietro e tornare al paragrafo dedicato ne Il Capitale al feticismo delle merci. Riprendendo quanto dice Balibar: «la “logica del capitale” si dispiega in realtà su due livelli che sono complementari l’uno all’altro. Non si tratta della negazione della negazione, ma di una sorta di alienazione raddoppiata o alienazione nell’alienazione: il “feticismo delle cose” (merci) e “il feticismo delle persone” (soggetti di diritto)» (Balibar 2020: 33); pertanto la relazione transindividuale non si connota come una relazione semplice, ma come una relazione doppia, a due facce: una economica e l’altra, per così dire, giuridica.
Parlando della merce Marx afferma che può sembrare una cosa triviale a prima vista, ma che poi si converte in qualcosa di differente; di sensibilmente sovrasensibile.
«A prima vista, una merce sembra una cosa triviale, ovvia. Dalla sua analisi risulta una cosa imbrogliatissima, piena di sottigliezza metafisica e capricci teologici (theologischer Mucken). Finché è valore d’uso, non c’è nulla di misterioso in essa (–). Ma appena si presenta come merce, il tavolo si trasforma in una cosa sensibilmente sovrasensibile (sinnlich übersinnliches Ding)» (Marx 1980: 103).
Questo arcano è appunto tale solo e solamente per quanto riguarda il valore di scambio nel quale le cose sensibili si presentano in forma sensibilmente sovrasensibile. In un altro passo estremamente noto del medesimo paragrafo Marx specifica come i rapporti sociali si manifestino dal punto di vista economico:
«Gli uomini dunque riferiscono l’uno all’altro i prodotti del loro lavoro come valori, non certo per il fatto che questi contino per loro soltanto come puri involucri materiali di lavoro omogeneo. Viceversa. Gli uomini equiparano l’un con l’altro i loro differenti lavori come lavoro umano, equiparando l’uno con l’altro, come valori, nello scambio i loro prodotti eterogenei. Non sanno di far ciò, ma lo fanno» (Marx 1980: 106).
Tirando le fila di quanto abbiamo cercato di argomentare fino a questo momento, possiamo riassumere in questa maniera le suggestioni che abbiamo tratto dai brani di Marx dicendo di aver ritrovato elementi di transindividualità in questa duplice alienazione, ovvero nel fatto che i rapporti tra le persone non possano apparire immediatamente ma debbano essere mediate dalla merce e, come altra faccia della medaglia, che il rapporto tra cose (merci) non può esistere senza un rapporto giuridico tra persone attraverso il quale individui distinti vengono spogliati della loro individualità e si presentano giuridicamente uguali sulla sfera del mercato. D’altra parte, come dice Marx all’inizio del secondo capitolo del primo libro de Il Capitale: «le merci non possono andarsene da sole al mercato e non possono scambiarsi da sole. Dobbiamo dunque cercare i loro tutori, i possessori di merci» (Marx 1980: 106).
Per chiudere, e seguendo sempre quanto propone Balibar, rispetto alla sesta tesi su Feuerbach in cui Marx definiva l’essenza umana come la totalità dei rapporti sociali, Marx mantiene il rifiuto sia di una concezione societaria di tipo olistico, sia di quella di carattere individualistico19. Tuttavia, se nelle tesi si paventa un’originaria autenticità della relazione che si perde nelle forme societarie alienate, nel Capitale pare di poter dire che l’alienazione è necessaria per poter, riprendendo l’espressione di Balibar che a sua volta cita Althusser, produrre «l’effetto di società per gli individui stessi» (Balibar 2020: 41).
Questo rapido e assolutamente sommario percorso attraverso alcuni dei passi più celebri della filosofia di Marx ci ha permesso di transitare attraverso alcune suggestioni che hanno lo scopo di mostrare come strutturalmente il pensiero di Marx sia compatibile con l’ossatura di quello di Spinoza. Inoltre, nel Marx maturo, l’alienazione, che probabilmente è ineliminabile completamente in qualsiasi assetto societario, permette in qualche forma la costruzione della transidividualità ovvero il sentirci società.
Ora in questa serie di détournements forniremo alcuni spunti di riflessione attraverso alcune citazioni e commenti tratti da un pensatore che può essere, senza tema di smentita, considerato in linea di filiazione con i primi due, ovvero Lev Vygotsky.
4. Socializzazione e interiorizzazione alcune riflessioni sul paradigma di Vygotsky
Per cercare di strutturare questo brevissimo percorso seguiremo, almeno in parte, le riflessioni di Felice Cimatti in un breve ma denso saggio su Vygotsky (Cimatti 2014). Per fare questo, però, dobbiamo partire da una citazione – ma avremmo potuto farne molte di più – tratta dai Manoscritti Economico-Filosofici di Marx.
«La pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica è la conferma dell’uomo come consapevole ente generico (Gattungswesen), cioè come ente che si rapporta al genere come al suo proprio essere ossia si rapporta a sé come ente generico. Invero anche l’animale produce: esso si costruisce un nido, delle abitazioni, come le api, i castori, le formiche, etc. Ma esso produce soltanto ciò di cui abbisogna immediatamente per sé o per i suoi nati; produce parzialmente, mentre l’uomo produce universalmente; produce sotto il dominio del bisogno fisico immediato, mentre l’uomo produce anche libero dal bisogno fisico e produce veramente soltanto nella libertà dal medesimo. L’animale produce solo se stesso, mentre l’uomo riproduce l’intera natura; il prodotto dell’animale appartiene immediatamente al suo corpo fisico, mentre l’uomo confronta libero il suo prodotto» (Marx 1981: 199-200).
Mentre l’animale produce perché naturalmente deve fare così, per l’uomo le cose sono un po’ differenti. Non è mai esistito un politecnico per castori in cui i castori più esperti e più formati spiegassero ai castori più giovani come costruire le dighe, mentre esistono scuole e università in cui vengono formati periti e ingegneri su come costruire delle dighe ed esistono scuole e università deputate ad altri scopi. Il castoro per costruire una diga deve seguire un programma innato, per così dire preinstallato; per costruire qualsiasi cosa – materiale o immateriale – un umano deve acquisire una lingua, delle cognizioni generali, delle cognizioni specifiche e delle cognizioni relazionali, deve formarsi, ovvero prendere una forma che non è prestabilita – se non nei suoi tratti generali – dalla natura. «Questo significa che l’essenza umana si trova al di fuori del singolo individuo umano, nell’insieme delle relazioni umane» (Cimatti 2014: 254). Ora, una delle grandi intuizioni di Vygotsky è proprio quella di mettere fin da subito in relazione l’individuo e la società e ricostruire il percorso ontogenetico attraverso il quale si forma l’individuo (Cimatti 2014: 259); non si tratta pertanto, secondo il pensatore sovietico, di ampliare la mente individuale, bensì di uscire dal modello dell’individualismo cognitivo.
In Vygotsky dunque lo sviluppo organico è intrecciato in maniera indissolubile con quello socio-culturale: le relazioni sociali contribuiscono a formare e ristrutturare il corpo stesso dell’animale umano. «Così il corpo impara una particolare andatura bipede, ciò che comporta ristrutturazioni radicali nel suo sistema scheletrico e muscolare, impara a parlare, e quindi a controllare, sviluppare e modificare le parti del corpo implicate nella produzione materiale dei suoni linguistici» (Cimatti 2014: 260)20. La mossa innovativa è quella di legare la relazione corpo/mente e società. In questo processo il bambino inizia ad applicare su se stesso quelle forme di comportamento che, in precedenza, altri hanno adottato nei suoi confronti: «il bambino si appropria delle forme sociali del comportamento e le trasferisce su se stesso» (Vygotsky 2007: 204). Interiorizza ciò che prima ha vissuto dall’esterno, partendo da una relazione sociale a cui non sa di prendere parte. Da questo processo emerge l’individuo umano; il cucciolo di animale uomo diviene umano nel momento in cui viene accolto in una comunità umana, introietta le relazioni di quel determinato ambiente sociale, acquisendo una certa lingua, alcune prassi collettive, modi di fare e di essere; sviluppa insomma quelle che Vigotsky chiama le funzioni psichiche superiori (Vygotsky 2007: 128)21. Questo processo, come mostrano Del Río e Álvarez (2007), si svolge in quella che il pensatore sovietico definisce la zona di sviluppo prossimale.
«The zone of proximal development is the distance between the actual developmental level as determined by independent problem solving and the level of potential development as determined through problem solving under adult guidance or in collaboration with more capable peers» (Vygotsky 1980: 86).
In questo processo, l’individuo si forma nell’incontro di potenzialità naturali e forme storico-sociali con le quali gli occorre di interagire durante il suo sviluppo. D’altra parte, l’individuo se, da un lato, non è un dato già preformato, dall’altro, non ha nemmeno un termine, ma vive sempre in un equilibrio che, per riprendere il lessico di Simondon, chiamiamo metastabile. La dinamica tra individuo e società è appunto il terreno in cui agisce la transindividualità e nella quale si formano sia l’individuo sia la società; entrambi sono sempre attraversati da tensioni e caratterizzati da un equilibrio metastabile e pertanto sempre in tensione. Questo processo è un processo continuo che investe tutta la vita dell’individuo e inevitabilmente anche della società, in un rapporto di reciproca formazione e tensionalità.
Sebbene non sia lo scopo di questo scritto trattare le svariate potenzialità applicative del pensiero di Vygotsky, tuttavia ci preme solamente ricordare come questo possa essere utilizzato nei più svariati campi e tra questi quello lavorativo. Pertanto, forse non è inutile un piccolo inciso. Tra i pensatori contemporanei che hanno cercato di utilizzare i concetti vygoskyani applicandoli alla sfera lavorativa, solo per fare degli esempi, ci preme ricordare Engeström (1987) e Zucchermaglio (1996). Se nel primo caso lo scopo è quello di fornire un modello di apprendimento espansivo articolato secondo una pluralità di variabili, nel secondo caso, invece, l’impianto del pensiero del pensatore sovietico viene utilizzato per fornire modelli di formazione della forza-lavoro. Questo breve inciso ci rimanda al concetto di forza-lavoro, definita da Marx come «l’insieme delle attitudini fisiche e intellettuali che esistono nella corporeità, ossia nella personalità» (Marx 1980: 200) e intesa come un momento della transindividualità. Infatti, se applichiamo la categoria vygotskyana di zona di sviluppo prossimale al concetto di forza lavoro possiamo pensare che questa possa essere formata a seconda del contesto societario in cui si trova a interagire, venendo plasmata in differenti maniere. Anche in questo caso specifico individualità e società si trovano a interagire all’interno di un equilibrio metastabile e percorso da tensioni e all’interno del quale tuttavia occorre ricercare delle caratteristiche predominanti. La formazione della capacità di lavoro non è un dato astorico, bensì una facoltà umana che può essere piegata secondo differenti maniere a seconda del contesto societario. Essa può essere plasmata secondo una pluralità di fattori che concorrono alla sua individuazione e, d’altra parte, resa quanto più coeva possibile alle esigenze della società in cui si trova a individualizzarsi. Si tratta in fin dei conti, per certi aspetti soprattutto legati alla forza lavoro e al mondo del mercato, di un’operazione di carattere pedagogico all’interno della quale la forza-lavoro viene formata secondo le esigenze dello sviluppo della società in cui si trova: nel nostro caso quelle del modo di produzione capitalistico (Rikowki 2007). È bene, però, non cadere nell’astrazione di rifiutare in toto lo sviluppo transindividuale della forza-lavoro nel presente modo di produzione. Occorrerebbe invece analizzare concretamente, magari un uno studio specifico, come la forza-lavoro venga plasmata e che cosa, in questa operazione, possa rappresentare un possibile tratto positivo o negativo presente o per la progettazione del futuro.
Ora, questa breve riflessione che, nei fatti, ha cercato, sebbene sommariamente, di mostrare come l’impianto teorico generale che abbiamo descritto fino a questo memento possa essere del tutto compatibile con casi specifici, ci mostra che per quanto riguarda la forza-lavoro occorre ragionare in termini di interazione transindividuale tra delle facoltà proprie dell’individuo e il contesto societario che le declina, sebbene non esclusivamente, secondo i propri interessi. Non si può parlare, quindi, né di una natura umana buona che, non si sa bene come, sia stata traviata dalla società di cui anche lei fa parte, né, dall’altro lato, di assenza di una natura umana, se con il concetto di natura umana intendiamo una serie di facoltà fisiche e intellettuali – che si sono plasmate nel corso della storia – proprie di questo particolare animale che è l’animale umano. D’altra parte, se la ricchezza sociale propria delle società e del corso della storia umano è proprietà solo di una parte della società, lo sviluppo di queste società non può che essere uno sviluppo non corrispondente alla ricchezza medesima delle conoscenze, dei saperi, e dei saper fare di quella società. In altre parole, se la forza-lavoro viene plasmata solo secondo una delle possibili direttrici della società – nello specifico quello più consono alle società capitaliste – viene, al contempo, deprivata di una molteplicità di potenzialità secondo le quali potrebbe svilupparsi. Come dice Felice Cimatti: «proprio perché è transindividuale la ricchezza sociale non può essere proprietà privata di qualcuno, non può cioè essere sottratta a quell’ʻessere socialeʼ che è l’essenza umana» (Cimatti 2014: 271).
Arrivati a questo punto occorre tornare da dove eravamo partiti, ovvero dalla teoria spinoziana della transidividualità declinata sul piano sociale.
5. Riportando tutto a casa. Da Vygotsky a Spinoza: a mo’ di una possibile conclusione
Tirando le fila di questo percorso cercheremo, attraverso la (ri-)lettura di alcuni passaggi ben conosciuti del Trattato Politico di Spinoza, di mostrare come – in coerenza con quanto detto in precedenza – la comunità non nasca né dall’aggregazione atomistica di singole individualità e nemmeno da una visione indistinta che fa dello Stato, della società o della comunità un qualcosa di precostituito, di già dato in natura che, in qualche forma, si costituisca a partire da un concetto di natura umana astratta che contenga in sé già le forme specifiche di associazione umana. Se, contro Hobbes – rispetto alla quale riconosce un qualche debito nella lettera a Jelle – e Locke, Spinoza accetta di mantenere l’idea di una natura umana di fondo, tuttavia lascia aperta la possibilità a una pluralità di forme associative distinte. Si potrebbe dire, con una certa approssimazione, che la natura umana di cui parla Spinoza è a equilibrio variabile e si appoggia su tratti invarianti. Pertanto, il pensatore olandese può rifuggire da ogni visione astratta di una comunità perfetta e ragionare concretamente sulle comunità esistenti. D’altra parte, una delle pochissime citazioni esplicite che Spinoza fa riguarda proprio Machiavelli. Ed è proprio per questo che il famoso passo del Trattato Politico in cui Spinoza parla della moltitudine una veluti mente dicitur deve essere preso in forma articolata e non in senso unilaterale. Spinoza invita, implicitamente, a non pensare che la mente che deve guidare la moltitudine sia una mente soggetto, che renda possibile un qualche evento fondativo, bensì un qualcosa di estremamente articolato e irriducibile a una unità indistinta.
«Imperii, seu summarum potestatum Jus nihil esse praeter ipsum naturae Jus, quod Potentia, non quidem uniuscujusque, sed multitudinis, quae una veluti mente ducitur, determinatur, hoc est, quod sicuti unusquisque in statu naturali, sic etiam totius imperii corpus, et mens tantum juris habet, quantum potentia valet»22.
La moltitudine non si fa mai potere costituente trascendente, ma essa può farsi potere costituente sole se si istituzionalizza in una pluralità di forme istituzionali guidate da una pluralità interconnessa di generi di conoscenza. In questo senso allora, se per Hobbes la moltitudine non può agire e rappresenta lo stato di natura, sia nel momento antecedente la costituzione dello stato civile sia al momento in cui uno stato si dissolve; per Spinoza non è affatto così. Non solo non c’è uno stato di natura da cui uscire, ma lo stato civile non può mai dissolversi completamente, bensì declinarsi in una pluralità di forme sociali differenti, ma mai dissolversi totalmente:
«Cum autem solitudinis metus omnibus hominibus insit, quia nemo in solitudine vires habet, ut sese defendere, et quae ad vitam necessaria sunt, comparare possit, sequitur statum civilem homines natura appetere, nec fieri posse, ut homines eundem unquam penitus dissolvant»23.
Se, come più volte abbiamo detto, per Spinoza è impossibile parlare di uno stato di natura da cui uscire con un atto fondativo trascendente, è altresì vero che è impossibile parlare di ogni forma societaria o comunitaria in astratto. Per quanto sia vero che il suo repubblicanesimo lo spinge verso il sistema democratico che è l’unico che si può definire assoluto, ovvero, pur nella sua finitezza, fondato su se stesso; tuttavia il pensatore olandese fa propria la lezione di Machiavelli che invita a non immaginarsi repubbliche e principati che non si sono mai visti nella realtà (Machiavelli 2006: 270˗271). Ogni comunità per Spinoza, non può non essere che un individuo di individui in continua relazione tra di loro e non sommati atomisticamente attraverso un atto fondativo trascendente. Proprio per questo motivo non possono esistere comunità perfette a cui anelare messianicamente. Se così fosse, se trovassimo anche solo tra righe di ciò che scrive il pensatore olandese, il riferimento a uno Stato perfetto, il suo materialismo si squaglierebbe come neve al sole. Al contrario, l’analisi del pensatore olandese è ben fondata nella realtà delle cose e pertanto ci invita sulla scorta del Acutissimus Machiavellus a ragionare sulle società che esistono facendone l’analisi concreta nella situazione concreta.
Per quanto sia evidente la preferenza spinoziana per la democrazia che è l’unico stato del tutto assoluto – nel senso completamente dipendente da se stesso, per quanto questo possa essere possibile per qualsiasi cosa finita essere dipendente solamente da se stessa – tuttavia anche la democrazia non può che essere attraversata da tensioni e connotarsi come una rete di relazioni processuali. La preferenza spinoziana per la democrazia quindi non si fonda su un astratto modello a cui uniformare la realtà, bensì sul fatto che solamente nella democrazia è possibile riassorbire e tendenzialmente annullare la discrasia tra dominanti e dominati. È questa separazione che genera la paura delle masse; espressione, quest’ultima, da intendersi nel duplice senso del genitivo, ovvero secondo la paura che le masse provano e quella che incutono. Come abbiamo già detto, il ruolo della ragione è quello di cercare di neutralizzare i cicli passionali negativi e convertirli in cicli positivi, operazione quest’ultima molto più facile in un sistema democratico che negli altri. Comunque, la ricaduta nella fluctuactio animi è sempre possibile e anche una politica di terzo genere che vada di pari passo a una conoscenza di terzo genere (Tosel 2008) non può essere scissa da una politica di primo e di secondo genere, quindi da una politica passionale e una guidata tendenzialmente da ragione. La totalità complessa di cui ci parla Spinoza è una totalità che vive in un equilibrio metastabile che non può mai essere ricondotta a un atto fondativo e nemmeno sciogliersi completamente, ma si denota come una rete complessa di relazioni.
In conclusione, le note attraverso Spinoza e le incursioni attraverso Marx e Vygotsky ci hanno permesso di mostrare come in questi pensatori la natura umana sia concepita come una natura storico-sociale che, a partire da alcune invarianze, si declina secondo un paradigma socio-culturale in cui una pluralità di variabili che interagiscono tra di loro. La socialità umana non è quindi una socialità astratta, un dato immodificabile di natura – come per natura il castoro costruisce le dighe – bensì una socialità che si costruisce in una rete di relazioni e pertanto non potrà mai farsi soggetto costituente di uno Stato astratto. Declinato sul piano sociale e politico quello che ci invita a pensare Spinoza, in tutti i sistemi di relazioni e al di là di ogni aporia presente nel suo pensiero, è una democrazia radicale che si costruisce costantemente nelle relazioni e nella storia, attraverso il tentativo di neutralizzare i cicli negativi di passioni a favore di quelli positivi, attraverso anche la ragione e la scienza intuitiva. Si tratta di un processo continuo, come continua è l’assoluta produttività della Sostanza, ma proprio per questo motivo è un processo assolutamente concreto.
(2/2. Fine)
Alessandro Pallassini
(Tratto da: Alessandro Pallassini, Riflessioni provvisorie su individualità, transindividualità e comunità. Appunti su Spinoza attraverso Marx e Vygotsky, in «Koiné», Anno XXVIII, NN° 1-4, Gennaio-Dicembre 2021, pp. 115-136).
Note
18 Studi sull’influenza spinoziana su Marx o letture spinoziane di Marx non mancano; solo per citare gli studi utilizzati per questo saggio rimandiamo a: Rubel (1978); Yovel (1989); Tosel (1996); Fischbach (2005); Lordon (2010). Gli studi citati adottano prospettive tra di loro estremamente diversificate; in alcuni casi di ricostruzione storica dei rapporti concettuali tra i due pensatori, mentre in altri di interpretazione di Marx all’interno di un impianto spinoziano. Ci sembra di poter dire che l’intera opera di André Tosel miri a una lettura spinoziana di Marx nella direzione di un comunismo della finitezza.
19 Non è questo il luogo di ripercorrere le Tesi su Feuerbach; rimandiamo, però, a due ottimi commentari delle medesime, scritti da Labica (2011) e Macherey (2014), che, sebbene presentino un’impostazione differente, rappresentano due utili strumenti per la lettura di questo testo giovanile di Marx.
20 Si rimanda anche a Condemi, Savatier (2019).
21 La questione del linguaggio che rappresenta, nelle sue molteplici sfaccettature, per Vygotsky la funzione psichica superiore per eccellenza, non può essere trattata in questo breve scritto. Tuttavia, Vygotsky ne parla, oltre che nella Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, nel suo capolavoro, ovvero in Pensiero e Linguaggio (Vygotsky 2007; 2009). È interessante l’ipotesi, sostenuta da Silvana Codemi e François Savatier, secondo la quale il linguaggio umano nasce in diretta correlazione con il bipedalismo e si evolve, materialisticamente, attraverso la toelettatura che, nel momento in cui diviene l’espressione di un’emozione, fa nascere la prima forma di linguaggio che poi si evolverà nel linguaggio vocalizzato (Cfr. Codemi, Savatier, 2018: 57-58).
22 «Il diritto dello stato, ossia del potere sovrano, non è altro se non il diritto stesso di natura, determinato dalla potenza non di un singolo, ma della moltitudine, come guidata da una sola mente; vale a dire che, come un singolo allo stato di natura, così pure il corpo e la mente dell’intero stato hanno tanto diritto quanta è la potenza che possono far valer» (TP, III, 2: 52-53). A differenza di quanto fa Paolo Cristofolini, abbiamo deciso di tradurre il termine Multitudo con l’equivalente italiano di moltitudine e non con popolo come invece, argomentando, fa Cristofolini. D’altra parte, questo scritto si basa sulla distinzione tra popolo e moltitudine, intendendo con quest’ultimo categorie una irriducibilità a un uno indistinto. La moltitudine, anche se guidata da una sola mente, è sempre plurale.
23 «D’altra parte è in tutti gli uomini la paura della solitudine, poiché in solitudine nessuno ha la forza di difendersi e di procurarsi il necessario per vivere; ne consegue che per natura gli uomini desiderano lo stato di civiltà, e non può mai accadere che lo sciolgano del tutto» (TP. VI, 1: 84-85).
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Inserito il 10/07/2023.
di Roberto Fineschi
«Riprendendo punti essenziali della migliore tradizione marxista, Mazzone ne ha operato una articolata e originale sintesi. I contributi raccolti in questo libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di questo sforzo. Esso si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda è dedicata alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una ipotetica società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo».
(Dall’Introduzione di Roberto Fineschi al volume: Alessandro Mazzone, Per una teoria del conflitto, Napoli, La Città del Sole, 2022).
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Concetti hegeliani e materialismo storico. Il contributo di Alessandro Mazzone
In occasione del decennale della morte di Alessandro Mazzone, tra alcuni ex-studenti (i “mazzoniani” di un tempo) è nata l’idea di ricordarne la figura e l’importante contributo teorico. Con l’adesione delle figlie è stata fondata un’associazione culturale dal nome “Laboratorio critico” con sede a Siena, città in cui Mazzone ha insegnato per molti anni concludendovi la propria carriera accademica; essa ha tra i suoi obiettivi la valorizzazione del suo lascito teorico e librario.
L’associazione, come suo primo atto concreto, ha deciso di promuovere la pubblicazione di una raccolta di scritti che abbracciano l’ultimo periodo del suo impegno teorico (1999-2012). È stata questa sicuramente una fase delicata della sua vita, segnata da problemi di salute, dalla fine dell’attività universitaria, quindi potenzialmente complessa anche intellettualmente.
Pur tra varie difficoltà egli è riuscito a delineare una serie di nodi problematici che, in qualche modo, davano una dimensione teorico-politica più accessibile alla sua sofisticata teoresi degli anni precedenti. Questa dimensione più “popolare” – nel senso più nobile del termine – rimane ancora di grande attualità e offre importanti strumenti per comprendere la realtà contemporanea.
Un contatto importante di questa fase fu quello instaurato con la Rete dei Comunisti, alla quale Mazzone non ha mai aderito formalmente ma con la quale ha a lungo dialogato partecipando a conferenze e pubblicazioni da essa promosse; è dunque sembrato giusto coinvolgere questa organizzazione nel progetto editoriale. L’auspicio è che questi scritti possano contribuire alla ripresa di un dibattito teorico-politico di più alto livello, con possibili ricadute pratiche.
Riprendendo punti essenziali della migliore tradizione marxista, Mazzone ne ha operato una articolata e originale sintesi. I contributi raccolti in questo libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di questo sforzo. Esso si articola in tre parti: la prima è dedicata al concetto di classe, alla sua storia, alla sua articolazione nella configurazione contemporanea del modo di produzione capitalistico; la seconda è dedicata alla teoria della storia, con particolare attenzione al concetto di formazione economico-sociale, alle forme del dispotismo del capitalismo attuale e alle possibile strutture di transizione a una ipotetica società futura; la terza parte, infine, affronta questioni più concrete nel quadro delineato nelle parti precedenti, come gli effetti sulla comunicazione, sull’università, sui concetti di democrazia e imperialismo. A conclusione troviamo un importante contributo che getta un ponte tra la riflessione teorico-politica più diretta e la possibilità di un approfondimento di tipo più formale legato alla dimensione filologica della nuova edizione storico-critica delle opera di Marx ed Engels (la Marx-Engels-Gesamtausgabe – MEGA2), dove Mazzone stesso cerca di mostrare la rilevanza non solo accademica, ma storico-culturale – e quindi a fortiori politica – di questo tipo di operazione.
Prima di procedere a una ricostruzione a grandi linee dei principali nodi tematici affrontati da Mazzone, vorrei offrire un breve spaccato dell’esperienza intellettuale vissuta con lui negli anni della nostra frequentazione.
1. La mia frequentazione diretta con Alessandro Mazzone è durata quasi venti anni. Con lui ebbi la mia prima lezione universitaria nell’ottobre del 1992; si trattava di un corso di Filosofia della storia in cui si leggeva la Filosofia del diritto di Hegel. Inutile negare che tutti noi studenti, per lo più al primo o al secondo anno, subimmo il fascino di un professore molto diverso dagli altri che avevamo o avremmo conosciuto. Eravamo giovani e ingenui, ma avevamo la chiara sensazione che, grazie a quelle lezioni, venivamo introdotti nel mondo rarefatto e sofisticato della vera filosofia, vale a dire del pensiero capace di pensare le cose. Non era come negli altri corsi, dove si faceva il conto dei libri per l’esame, tot pagine dal manuale, tot dal seminario, ecc., delle fotocopie fatte in copisteria senza la bibliografia per risparmiare i soldi. Era una cosa molto diversa. La consapevolezza che stavamo vivendo un’esperienza per molti aspetti unica ci spinse a tenere duro quando ci spaccavamo la testa sulle sottigliezze concettuali hegeliane; capivamo la differenza fra ripetere a pappagallo le formule trinitarie e comprendere la dialettica intrinseca della cosa nel suo svolgimento. Accettammo di studiare per un solo esame quanto altri non studiavano nemmeno per la tesi. Si creò in questo modo la comunità dei “mazzoniani”, un gruppo di strani personaggi innamorati della filosofia marx-hegeliana (ma anche aristotelica, spinoziana, lukacsiana, gramsciana e via dicendo), guidati da quella singolarissima figura che era Alessandro Mazzone. Difficile spiegare l’effetto delle sue lezioni a chi non vi abbia assistito. Era forse la percezione della incredibile profondità del suo sapere a impressionarci; come la sua capacità di leggere, parlare e scrivere in cinque o sei lingue (per noi che a stento parlavamo italiano). Ci sembrava, in poche parole, che il sapere stesse personificato di fronte a noi e che noi avessimo la grande occasione di parlare con lui guardandolo negli occhi.
Con Mazzone abbiamo, tutti noi, imparato a studiare; abbiamo capito che senza una solida base teorica non si ha la strumentazione per capire un granché; che educazione popolare non significa banalizzare le cose difficili, ma fornire i mezzi per capirle. Così siamo cresciuti; abbiamo cercato di imparare le lingue, di leggere i classici, di pensare – pur con tutti i limiti personali – in grande. Questo è l’insegnamento umano e di metodo che Alessandro Mazzone ci ha dato.
Nei primi anni novanta, i momenti tragici del “crollo”, continuare a studiare Marx “nonostante tutto” non fu uno sterile esercizio nostalgico, bensì un atto di coerenza e onestà intellettuale; non di acritica e irrazionale fedeltà alla bandiera, ma di utilizzo di un metodo investigativo e scientifico, per il quale era chiaro che solo con la strumentazione marx-hegeliana si poteva dare conto di ciò che era successo, comprenderlo, digerirlo e impararne, nel bene e nel male, la grande lezione storica. Si trattava di un terreno scivoloso che, per essere affrontato, aveva bisogno non di slogan ma, di nuovo, di strumentazione scientifica. La cultura e l’attività politica non erano quindi una cosa “pratica” nel senso più banale del termine. Ci appariva molto chiaro come il fare senza il sapere – la cultura dell’immediato si diceva – era il modo migliore per fare altro rispetto a quelle che erano le nostre pur sincere e disinteressate intenzioni; farsi strumentalizzare, fare il gioco del “nemico”. La pratica del sapere, degli educatori che devono essere educati, della prassi che deve essere pensata per non essere mero spontaneismo inconcludente (o “concludente” per altri) erano per noi acquisizioni importanti, che ponevano una distanza tanto dall’attivismo anarcoide, condito in diverse salse, quanto dal disfattismo della sconfitta assoluta, per cui si butta via tutto cadendo nella disperazione di chi scopre che la propria fede non è quella vera. No, Mazzone ci ha insegnato che se si è sbagliato, si cerca di capirne il perché con gli strumenti della ragione.
Altro caposaldo del suo insegnamento, anch’esso decisamente marxiano, è il senso del limite e un’autocritica spietata. Questo perfezionismo esasperato era dettato da una rigorosa serietà scientifica e dal rispetto per la disciplina filosofica. Ciò suona particolarmente strano oggi, dove il sistema universitario incoraggia la pubblicazione a ogni costo.
Mazzone ha pubblicato relativamente poco; i suoi testi però, per chi li abbia letti, sono di una densità sorprendente. Non sono stati scritti per avere una pubblicazione da aggiungere in coda ad altre, ma per tentare di mettere un mattoncino nel grande muro del sapere. In questo ambito sono da ricordare i suoi studi sulla teoria dell’ideologia e sul feticismo del capitale. Particolarmente acuta la sua riflessione sulla teoria del modo di produzione su cui dirò qualcosa più in dettaglio in seguito.
In questa densa elaborazione teorica, uno dei grandi meriti, direi quasi “storici”, di Alessandro Mazzone resta senz’altro l’introduzione in Italia degli studi filologici su Marx ed Engels sulla base della nuova edizione storico-critica delle loro opere, la Marx-Engels-Gesamtausgabe.
Questa grande opera mette per la prima volta a disposizione degli studiosi un’ingente massa di scritti inediti dei due autori, in particolare concernenti Il capitale ma non solo, che cambiano non semplicemente l’interpretazione, ma la stessa base testuale sulla quale essa viene ricostruita.
Non mi dilungo qui sulle novità apportate dal grande progetto e rimando a un’importante raccolta curata proprio da Mazzone; mi preme solo ribadire, a chi non lo ricordasse o non lo sapesse, che a lui va attribuito questo merito, insieme a pochi altri, e che esiste ed è esistita in Italia una tradizione di studi sulla MEGA che affonda le sue radici addirittura negli anni settanta.
2. La riflessione teorica di Alessandro Mazzone negli ultimi venti anni si era sviluppata intorno a temi di grande attualità e di vitale importanza per la teoria del Materialismo storico. I contributi raccolti nel libro riflettono alcuni dei nodi tematici più importanti di cui si è occupato e li articolano cercando di inquadrarli in una dimensione di teoria politica che, alla fine, prospetta delle ricadute pratiche più precise.
a. Processo storico. La nozione chiave intorno alla quale ruota la ricerca di Mazzone, dalla quale poi si dipanano come conseguenza necessaria tutta una serie di complesse categorie secondarie, è quella di processo storico. È fin troppo popolare l’ingenua idea che tutto è storico, ovvero che tutto passa; quello che c’era ieri non c’è più oggi, quello che c’è oggi non ci sarà domani, ecc. Questo è quello che già Luporini chiamava “storicismo invertebrato”, ovvero il susseguirsi di momenti diversi, ma sostanzialmente indefiniti. Il cambiare degli individui non implica necessariamente storia vera e propria; singole diversità non implicano necessariamente differenza. Se in Toscana per es. per settecento anni circa l’agricoltura è stata organizzata in base al sistema della mezzadria, migliaia di contadini si sono avvicendati a zappare la terra, ma la storia complessiva è sempre stata la stessa: settecento anni di mezzadria. Diverse storie individuali della stessa Storia. Processo storico significa invece elaborare una teoria che cerchi di spiegare come funziona la logica di un determinato periodo nel suo complesso. Allo stesso modo è diverso studiare la mezzadria in Toscana e le modalità di funzionamento del sistema mezzadrile (che poi in Toscana avranno avuto una loro particolare attuazione), similmente è diverso studiare il capitalismo inglese dell’Ottocento, oppure italiano, oppure contemporaneo, e cercare invece di sviluppare una teoria che cerchi di spiegare quali sono in generale le regole di funzionamento del capitalismo (che poi sarà più specificamente coniugato in realtà storiche e geografiche particolari). Quindi, pensare il processo storico non significa semplicemente tener conto del cambiamento dei singoli momenti; significa piuttosto trovare le leggi per cui possiamo dire che un determinato periodo è identificabile come qualcosa di unitario e ricostruire la logica per cui questo qualcosa di unitario non è immobile e stazionario, ma ha delle tendenze per cui si modifica internamente e determina uno sviluppo che, a un certo punto, può culminare in un cambiamento qualitativo. Qui cambiamento significa che quello che verrà dopo non sarà riconducibile alle leggi di ciò che c’era prima; esso funziona e si sviluppa in base a nuove leggi complessivamente diverse. Non è quindi semplicemente un istante successivo al precedente, ma una nuova fase storica, perché quell’istante successivo ubbidisce a logiche diverse.
b. Natura e fasi storiche. Per sviluppare una simile teoria Mazzone, sulla scia di Marx e Hegel, cerca di tenere insieme due fili, continuità e discontinuità, a più livelli: fra natura e storia, fra diverse fasi storiche. L’essere umano fa parte della natura, è un animale. La storia umana è elemento integrante della storia naturale. Tuttavia ha delle sue particolarità specifiche che ne fanno qualcosa di qualitativamente diverso rispetto agli altri animali: l’essere umano è un momento del processo lavorativo. Su questa sua specificità si costruisce la sua peculiare vicenda, che tuttavia non è altro che uno dei tanti modi della natura. Questa è la base “materialista” del pensiero marxiano. È questa, fra l’altro, terra di confine con lo studio dell’evoluzione della specie, della preistoria, ecc.
Stabilita la continuità/discontinuità fra essere umano e natura, si tratta adesso di capire che l’essere umano in generale non esiste. L’astrazione dell’essere umano in generale è un prodotto stesso della vicenda umana che ha generato questa nozione astratta solo di recente, mentre in precedenza si avevano, per stare agli esempi classici, greci e barbari, liberi e schiavi, ecc. A non esistere era proprio l’idea che greci, barbari, schiavi e cittadini fossero tutti uguali in quanto esseri umani. La cosiddetta natura umana, tanto cara a molte versioni antropologiche del marxismo, è un terreno molto delicato dove si rischia spesso di cadere in braccio alle ideologie più reazionarie. Infatti, il problema è stabilire quali siano le caratteristiche astratte da attribuire a questo uomano transtorico. Marx in realtà indica poche e precise cose, ovvero la capacità di lavorare e gli elementi che interagiscono con l’uomo nel processo lavorativo (mezzo e oggetto di lavoro; il processo, guidato dalla posizione di scopo, ha esito in un prodotto esterno, altro rispetto alla fisicità stessa dell’uomo che lo realizza). Si ha invece spesso la tentazione di aggiungere a questo rarefatto mondo dell’astratto ulteriori caratteristiche, solitamente di carattere esistenziale, di solito legate alla temperie culturale del momento. Facili le ironie di Marx su tutto ciò. Leggere l’alienazione in termini prettamente esistenziali è la versione teoretica più nobile di questo errore basilare che è in realtà l’opposto di quello che Marx si prefigge, vale a dire sviluppare una teoria del farsi dell’umanità, del processo attraverso il quale l’effettiva esistenza di un soggetto umano collettivo, umano in astratto, diventa possibile nella storia (non è certo un punto di partenza bell’e fatto a cui regredire).
c. Modo di produzione e teoria delle classi. Da questi assunti deriva una interessante teoria delle classi. Esse non si definiscono in base ad una descrizione empirica o sociologica di gruppi di persone che agiscono in un atelier, in una fabbrica e via dicendo; e tanto meno dal modo in cui le persone interessate si autodefiniscono o si percepiscono. Si tratta piuttosto di una definizione funzionale. Dato il modo di produzione capitalistico, è altrettanto data una modalità specifica in cui gli elementi del processo lavorativo si uniscono; questi elementi non sono astratte essenze, ma sono “interpretati” da persone in carne ed ossa. Il lavoro vivo è potenziale nella corporeità del lavoratore libero dai mezzi di produzione.
Questa condizione non è un mero dato di fatto, ma ciò che lo definisce come forza-lavoro nel mondo capitalistico: non avere la disponibilità dei mezzi di produzione e quindi essere nella condizione di doversi vendere per poter dar vita al processo lavorativo. Le altre condizioni materiali del processo (mezzo ed oggetto di lavoro) compaiono di fronte a lui personificate in un individuo, il capitalista. Non si tratta quindi di caratteristiche della personalità o dell’indole di questo o quell’individuo, ma della funzione oggettiva che essi hanno nel processo. Questa funzione si determina dal ruolo che i singoli si trovano ad avere al suo interno. Per queste ragioni, la riproduzione sociale complessiva, l’estrinsecazione stessa delle potenzialità vitali dell’individuo, si realizza come momento della riproduzione del capitale. La direzione stessa e le finalità complessive, sociali di questo processo si manifestano come volontà e pratica del capitale.
I modelli di processo storico dialettici come quello del modo di produzione capitalistico non implicano il semplice ripetersi meccanico degli stessi fenomeni. Il processo ha una tendenzialità interna che progressivamente porta a delle fasi in cui si danno nuovi equilibri e nuovi assetti che, ad un certo punto, implicano delle modifiche essenziali degli stessi punti di partenza del sistema. Questa dinamica comporta che il modo di produzione capitalistico generi, produca, esso stesso dei risultati epocali senza i quali non sarebbe possibile pensare non solo il nostro mondo contemporaneo, ma una possibile società futura. Sulla scia di Marx, secondo Mazzone il primo risultato storico del modo di produzione capitalistico è la creazione di una produttività “incondizionata”; ciò significa che essa è, da una parte, molto elevata, potenzialmente superiore ai bisogni umani. In secondo luogo essa è libera per quanto riguarda l’obiettivo del produrre; il modo di produzione capitalistico svincola, infatti, la produzione dalla soddisfazione del bisogno (ovvero dalla sua “naturale” funzione), in quanto mira al plusvalore; questa apparente distorsione è in realtà la via verso la libertà: lavorare per soddisfare il bisogno è un’azione eterodiretta, l’appropriazione di plusvalore cancella questa necessità. La società futura dovrà far tesoro di questa possibilità creata nel capitalismo, ovviamente non per produrre plusvalore, ma per decidere liberamente quali scopi porre alla produzione (dato appunto il “superamento” del bisogno).
Si direbbe che si tratta della hegeliana negazione della negazione. Si deve negare la prima negazione, ma conservandone il contenuto: va conservata la negazione dell’eterodirezione dello scopo operata dal modo di produzione capitalistico, vale a dire che non si lavora più solo perché bisogna mangiare; ma bisogna negare la natura capitalistica di questa “liberazione”, vale a dire la produzione di plusvalore. La libera società deve porre lo scopo, ormai libero, della produzione. Il concetto di essere umano in generale in astratto (le nozioni giuridiche di libertà ed eguaglianza connesse al concetto di libero scambio, per cui i contraenti debbono essere liberi e uguali) è uno dei tanti portati del modo di produzione capitalistico, quanto la realtà dell’umanità come soggetto contraddittoriamente unitario. Questo è quanto nella vulgata passa sotto il nome di globalizzazione, distorsione ideologica e strumentale di un processo in atto per cui la riproduzione del singolo individuo in ogni canto del mondo è interconnessa con quella di ogni altro individuo in un’altra parte. Questo implica decisioni mondiali per quanto riguarda la vita di ogni individuo: l’umanità non è più una mera astrazione (astrazione prodotta essa stessa dal modo di produzione capitalistico), ma un fatto pratico ed organizzativo. Pone problemi globali e richiede risoluzioni globali.
Queste sono acquisizioni epocali senza le quali non è possibile il passaggio ad una fase superiore, più sviluppata, della riproduzione umana. Questo implica che per Marx è utopistico ed inconsistente un ritorno alle origini, siano esse intese come essenza antropologica sia come storica produzione precapitalistica. L’umanità associata è un prodotto potenziale del modo di produzione capitalistico [mpc]. Esso stesso, ad un certo punto del suo proprio decorso storico, crea una situazione per cui uno sviluppo ulteriore non è più possibile all’interno del sistema (ed è lo stesso sistema che ha posto quelle condizioni): il mpc crea il concetto astratto di essere umano e lo nega di fatto con lo sfruttamento del lavoro salariato; crea le condizioni di una produttività incondizionata, ma permette di produrre solo ciò che valorizza il capitale; pone la possibilità di svincolare la produzione dal bisogno, ma permette di produrre solo ciò che crea plusvalore; crea un mondo unico, ma concepisce l’interazione solo come sfruttamento imperiale e colonialistico. Alla fine, il capitale è, coerentemente con la sua natura più intrinseca, il limite di se stesso. Negati e superati i propri punti di partenza, non riesce a dare pieno sviluppo a quelle potenzialità epocali cui esso stesso dà vita, anzi, le blocca. È il momento del conflitto obiettivo, che prima che politico è logico. Gli elementi funzionali che fino ad un certo punto, sempre in maniera contraddittoria e certamente non armonica, hanno determinato un avanzamento obiettivo del sistema entrano in conflitto tra di sé; il loro rapporto è adesso non più solo individualmente, ma oggettivamente conflittuale, vale a dire che non produce più un avanzamento nel sistema stesso, ne blocca anzi ogni ulteriore potenziale sviluppo. Ciò non implica, come si è erroneamente ritenuto in passato, né un passaggio automatico a una società futura in virtù dei meri meccanismi della storia, né un necessario collasso del capitalismo. La finitezza logica di un modello definisce una struttura teorica che nella realtà non esiste mai perfettamente; essa si complica e articola con ulteriori variabili e circostanze che certo non ne permettono una teorizzazione totale. Entra qui in gioco l’elemento preponderante dell’azione dei soggetti politici organizzati che, dato quel quadro strutturale, giocano la loro partita.
Il passaggio a una nuova società più giusta e razionale richiede dunque un’ulteriore elaborazione del concetto di classe che permetta di precisare alcuni passaggi in precedenza solo accennati. Classe, lo si è visto, ha una sua fondazione obiettiva, ovvero non dipende dall’autodefinizione soggettiva degli attori, ma dalla loro funzione obiettiva nel processo stesso.
Le modalità con cui oggettivamente la produzione va organizzandosi determinano un’egemonia di classe nella conduzione del processo stesso. Qui egemonia, categoria di evidente ispirazione gramsciana, non va intesa nel senso limitatissimo di influenza delle idee di Tizio su quelle di Caio; tale riduzionismo tutt’ora in voga è ben altra cosa. Qui egemonia significa che l’organizzazione fattuale della riproduzione sociale complessiva, pur sempre all’interno delle dimensione capitalistica, include molti elementi di autoregolazione razionale, come ad es. la co-gestione dei lavoratori, le cooperative (di una volta), il relativo controllo/pianificazione da parte dello stato di vasti settori fondamentali dell’economia. Questi elementi di socialismo nel capitalismo, man mano che si sviluppano e generalizzano, ne trasformano la natura e determinano una progressiva socializzazione della produzione, un’egemonia di classe. Esiste naturalmente un risvolto autocoscienziale di questo processo obiettivo, per cui la dimensione soggettiva praticata può più o meno corrispondere alla dimensione oggettiva. Questo compito di trasformazione delle coscienze non è marginale ed è esso stesso momento del processo obiettivo e può essere od entrare in contraddizione con la pratica.
3. Pubblicare i testi di Alessandro Mazzone non è una mera operazione commemorativa. La difficile situazione politica e culturale, la crisi profonda che sta attraversando la società borghese occidentale a causa della fase crepuscolare del capitalismo pone domande ed interrogativi ai quali le scienze sociali faticano a trovare risposta. Dopo un periodo di rimozione, il pensiero dialettico – che ha avuto in Marx e Hegel due dei suoi rappresentanti di spicco – è tornato in auge, proprio per la sua capacità di fornire una strumentazione non solo utile ma insostituibile.
Questa nobile tradizione ha visto in Mazzone non solo un erede, ma un degno continuatore. L’associazione “Laboratorio critico”, i saggi qui raccolti, un più ampio dialogo tra forze in grado di promuovere approcci critici e alternativi costituiscono non solo un segno della vitalità di questa tradizione, ma un contributo concreto per comprendere il mondo e, auspicabilmente, per trasformarlo.
Roberto Fineschi
(Tratto da: Roberto Fineschi, Concetti hegeliani e materialismo storico. Il contributo di Alessandro Mazzone, che rappresenta l’Introduzione al volume: Alessandro Mazzone, Per una teoria del conflitto. Scritti 1999-2012 (a cura di R. Fineschi), Napoli, La Città del Sole, 2022; il volume può essere ordinato anche sul seguente sito: https://marxdialecticalstudies.jimdofree.com/alessandro-mazzone/per-una-teoria-del-conflitto/).
Inserito il 05/05/2023.
Cesare Luporini.
Fonte della foto: https://immaginidelnovecento.fondazionegramsci.org/photo/detail/IT-GRAMSCI-FT0001-0036487/cesare-luporini-interviene-al-xv-congresso-nazionale-del-pci
Il filosofo marxista ripercorre le tappe della propria formazione intellettuale in questa lezione d’addio all’insegnamento alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze.
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L’ultima lezione di Cesare Luporini
Una grande avventura intellettuale attraverso il Novecento
Si tratta del testo — recuperato da una registrazione fortunosa — dell’ultima lezione, tenuta dall’autore, nella Facoltà di Lettere di Firenze, al momento dell’andata fuori ruolo.
Vi ringrazio d’essere venuti. Vorrei parlarvi di alcune cose un po’ remote che mi sono occorse, e anche, anzi soprattutto, di un tempo remoto: gli anni Trenta. La mia generazione intellettuale ha testimoniato poco, tranne i politici. Forse proprio perché hanno testimoniato molto i politici, noi ne siamo rimasti un po’ intimiditi. Un amico mi diceva l’altro giorno che la generazione immediatamente successiva alla mia, invece, ha testimoniato anche troppo (non so se sia vero). Comunque, io ho avuto allora, negli anni Trenta, rapporto diretto, per me non irrilevante, con alcuni uomini non irrilevanti nel campo della filosofia. Faccio quattro nomi: Gentile, Croce, Heidegger, Nicolai Hartmann. Però ho la sensazione che falserei tutto, se mi limitassi al campo della filosofia.
Naturalmente, non ho intenzione d’intrattenervi sulla mia infanzia. Dirò solo che ho avuto un’educazione cattolica, anche se molto libera. Dalle mie famiglie confluivano tradizioni cattoliche, d’un certo tipo, un po’ ereticali, tradizioni laiche e tradizioni socialiste; quindi contraddittorie fra di loro, e allora molto contraddittorie. A tredici anni, quando facevo il Ginnasio, ero diventato materialista, in senso biologico. Dio era un’ipotesi senza senso. E allora trovai un poeta – Leopardi – che anche nel seguito è poi rimasto sempre il mio poeta. Ricordo che all’esame di quinta ginnasio (che era stato introdotto dalla Riforma Gentile) portai proprio Leopardi. Al Liceo, invece, divenni idealista, anche per effetto d’un grande insegnante, Giacomo Vertova, che poi lasciò presto l’insegnamento. Così, in qualche modo arrivai all’università un po’ preformato, o “pregiudicato”.
All’università, ho studiato e mi sono laureato in questa Facoltà, che, molti anni dopo, m’ha fatto l’onore di chiamarmi, e così vi ho insegnato questi ultimi vent’anni. Mi sono laureato con Lamanna, col quale già al primo anno, mi ricordo, avevo fatto un’esercitazione, per me non poco impegnativa, su Platone (ma ero già in rapporto con Giorgio Pasquali). E a Lamanna sono grato soprattutto della completa libertà che mi lasciò nel mio lavoro per la tesi di laurea. Questa fu su Kant; ma mi laureai in Lettere, non in Filosofia, perché, venendo qui studente, nel 1927, m’ero diretto su altri studi che non quelli filosofici: piuttosto su studi storici e filologici; anche se pur per ragioni filosofiche, e cioè per l’idea crociana che facesse bene, prima di fare il filosofo, d’occuparsi di altre cose; ma anche – devo dirlo apertamente – per una certa non fiducia, propriamente, nella “Filosofia” di questa Facoltà. A differenza di Garin, mio coetaneo, ma che era un anno avanti – e che già allora consideravamo di gran lunga il più maturo di noi – io non avevo capito quanto si potesse imparare da Limentani. Lo capii solo il giorno della discussione della mia tesi di laurea. Mi pentii di non averlo frequentato, prima, se non molto poco; e da allora in poi presi ad andare a casa sua, mi ricordo, molto di frequente. Poi, avrei occupato quella che era stata la sua cattedra – «Filosofia morale» – allorché la Facoltà volle ricostituirla per me. Durante gli anni universitari, dunque, i miei maestri furono altri. Soprattutto Pasquali, che per me non fu soltanto maestro di storia. A lui debbo molto. Se ho imparato, per esempio, a fare il “seminario”, lo devo prima di tutto a lui (e poi, devo aggiungere subito, a Heidegger).
Professori non si nasce; almeno, non so se ci sia qualcuno che sia nato professore (può anche darsi; ma in generale credo di no). Io avrei potuto avere una vita diversa; mentre non riesco a immaginarla senza due cose: senza la filosofia e senza la politica; e non dico d’essere riuscito a mandarle insieme sempre bene, ma sono due lati essenziali, determinanti, per me, e fortemente intrecciati. D’essere diventato professore, in certo modo non ho finito di stupirmi, stupirmi d’essere da quest’altra parte della cattedra. E fare il professore è stata per me un’opzione forte, e non fatta una volta sola, perché ho avuto altre alternative. Anche in momenti un po’ difficili, per me, della cosiddetta carriera accademica, mi sono ostinato in questa scelta.
Quanto al fascismo (nel 1922 – marcia su Roma – avevo tredici anni), se devo dire di un’impressione d’allora, soggettiva, parlerei d’una mutilazione della politica, dell’impossibilità cioè di parteciparvi decentemente, con tutte le conseguenze: separazione dal popolo, ecc.; e per questo, già allora, subito, accumulai un rancore, verso il fascismo. È questa impressione d’insieme che ancora serbo degli anni Venti, più che non di un’oppressione intellettuale e culturale. C’era, cioè, la possibilità di svolgersi, di formarsi, ma su un lato solo. Credo anche che a questa impressione corrispondano dei dati oggettivi. Sanno tutti che il fascismo, come regime, ha avuto fasi diverse, anche con un prevalere di personale diverso ai posti di comando; e a questo corrispondevano climi morali diversi. Ci fu chi – della generazione precedente alla mia, ma anche della mia – fu capace di reagire molto presto politicamente. Invece, il mio cammino fu più lento, allora.
Vorrei evocare un attimo cos’era Firenze tra gli anni Venti e Trenta: una specie di salotto, pochissime automobili, molte biciclette, molto spazio per passeggiare, molti stranieri, intendo stranieri residenti qui, con i quali avveniva d’avere un rapporto. E anche ciò facilitava un atteggiamento, di distacco dal regime, un po’ snobistico, dopo le prime delusioni che poteva averne avuto uno della mia generazione. Io partecipai allora d’un tale atteggiamento.
Il cambiamento avvenne, per me, un giorno del maggio del 1930 – una giornata stupenda, trasparente, come quelle che abbiamo avuto anche in questa settimana – allorché ascoltai un discorso di Benito Mussolini. Aveva fatto un discorso (come venivano chiamati allora i comizi) a Livorno, un altro a Lucca, e poi venne a Firenze. E io andai a sentirlo (come privato cittadino, devo dire, e non in qualche organizzazione). Ero, in Piazza Signoria, in quell’angolo in cui c’è il caffè Rivoire, dove la folla era un po’ più rada; e mi ricordo benissimo la scena: dietro di me, un frataccio entusiasta, e poi una signora, che s’era sentita male, fu portata lì perché respirasse… Il discorso di Mussolini aveva un tono molto acceso, infiammato: parlava dell’avanzare dell’Italia come un siluro, un bolide, e così via, con tutto il resto immaginabile (ma, qui a Firenze, parlò anche, mi ricordo, del «profeta disarmato»). Ebbene, fu allora che io capii che bisognava uscire da quell’atteggiamento che ho detto snobistico.
Di lì inizia il mio lungo – lungo – viaggio nell’antifascismo (il povero Zangrandi ha scritto Il lungo viaggio attraverso il fascismo; per me, parlerei appunto d’un lungo viaggio nell’antifascismo). A metà degli anni Trenta ero già in una rete, non propriamente, ancora, cospirativa, ma che lo sarebbe diventata. Era il momento della guerra d’Etiopia; e mi ricordo, fra tutto il resto, della nostra preoccupazione che Benedetto Croce aderisse a essa (non al fascismo, ma alla guerra in corso). Si diceva che andava al porto di Napoli a vedere le truppe che partivano; e comunque un appoggio a quella guerra sarebbe rientrato abbastanza coerentemente in tutto il suo modo di vedere la storia d’Italia. Mi ricordo che si diceva: chi può, vada a Napoli a trattenerlo per la giacca.
Un po’ dopo, questi gruppi, in cui ero già entrato, diventarono “liberalsocialisti”: Capitini, Calogero; a Firenze, Enzo Enriques, Tristano Codignola, Ramat; Bobbio, che allora era incaricato a Siena; e tanti altri. Nel 1942, confluiranno nel Partito d’Azione; ma Bianchi Bandinelli e io non vi entrammo: non eravamo d’accordo che quel movimento si trasformasse in Partito. Poi, nell’agosto del 1943 – quando ormai tutto precipitava – aderii al Partito comunista, con il quale ero entrato in rapporto da alcuni mesi. Ricordo che, come usava allora, per l’ammissione subii un esame, in una vecchia casa popolare di Pisa; ed ero molto emozionato.
Dopo quel giorno del maggio 1930 di cui ho parlato, il primo problema che mi si presentò fu come orientare il mio studio, in vista della tesi di laurea. Ma anche qui devo accennare al quadro complessivo. In Italia, non c’era solo la dittatura fascista. C’era anche il predominio dell’idealismo, che si distingueva nei due grandi nomi: Croce e Gentile; ed era estremamente avviluppante, intricante. “Croce e Gentile”, “Croce o Gentile”: questi erano i termini in cui si dibatteva.
Il dissenso politico fra loro dopo il 1925 (il fascismo l’avevano appoggiato entrambi, ma poi Croce se n’era distaccato) era solo un lato della questione, non la ricopriva tutta. Per dire sinteticamente come sentivamo allora: dall’“atto puro” o dall’identità di teoria e prassi, sostenuti da Gentile, non si passava necessariamente allo “Stato etico”; sembrava che ci potessero essere altre scelte, e anche in senso rivoluzionario (questo, non soltanto per noi; era stato così, per esempio, per il Togliatti giovane, e lo sarebbe stato, poi, ancora per Lelio Basso, ai tempi di «Quarto Stato»). Dall’altra parte, dai “distinti” crociani non si passava necessariamente a un liberalismo antifascista. A molti sembrava poi che filosoficamente le due posizioni, di Gentile e di Croce, fossero da conciliare, così anche sorpassandole. Intanto, però, era Croce a dominare la cultura – soprattutto quella non strettamente filosofica, ma storica ed estetica – e, rispetto al fascismo, questo era un bel paradosso. In certi ambienti culturali c’era anche la convinzione che l’idealismo italiano, nel suo insieme, fosse comunque in grado di mettere in scacco qualunque altra posizione filosofica, passata, presente e futura; cioè la convinzione che eravamo alla testa del movimento mondiale – e, guardate, sarebbe venuto poi alla luce che anche Gramsci in fondo partecipava di quest’idea. Mi ricordo d’averne discusso, più tardi, rispettosamente, ma vivacemente, con Luigi Russo. Gli dicevo che “essere in testa” significa avere qualcuno dietro; mentre invece il movimento mondiale era andato per altre strade. D’altro canto, sapevamo bene che in Italia l’idealismo s’era costituito, al principio del secolo, come superamento non solo del positivismo, ma anche del marxismo; in due versioni diverse, ma che i loro due autori, appunto Croce e Gentile, avevano considerato complementari.
Mi è stato chiesto, per esempio da La Penna, come io sarei passato – molto dopo, fra guerra e dopoguerra – dall’esistenzialismo al marxismo. Ma credo che a questa domanda non sia difficile rispondere.
Qui vorrei dire piuttosto come ero passato, prima, all’esistenzialismo. Ebbene vi passai per effetto di un’esperienza, fallimentare, ma che in qualche modo può avere un certo significato per ricostruire quel periodo. Ritorno così ai miei anni universitari, nella prospettiva della tesi di laurea. Ne tentai infatti una in storia medievale, con Nicola Ottokar, che era un incaricato, ma di grande fascino come insegnante, con angolature diverse dalle nostre, italiane, tradizionali. Una tesi di laurea sopra le societates populi all’inizio del Trecento a Firenze, che avrebbe dovuto essere lo sviluppo di un’esercitazione a cui avevo dedicato molto impegno (m’ero anche messo a frugare negli archivi, dopo aver studiato le tecniche necessarie a leggere dei documenti medievali). Avevo un assunto incredibilmente ambizioso: di ritrovare in quell’ambito la lotta di classe, che il libro di Ottokar uscito nel 1926, Il Comune di Firenze, in qualche modo sembrava cancellare; cioè di ritrovare le tesi del Salvemini giovane nel suo Magnati e popolani (quando ero arrivato all’università, Salvemini non c’era più, ma c’era ancora una traccia di lui in studenti più anziani; ricordo, per esempio, le sorelle Nordio, una delle quali avrebbe poi sposato un illustre slavista).
Devo dire che quella mia ambizione non era determinata tanto dal libro di Ottokar, quanto dalla recensione che gli aveva fatto Croce, nella «Critica». Una recensione di grande esaltazione, ma dove si vedeva che a Croce poco importava la storia medievale, gli importava invece di mettere da parte la lotta di classe; e difatti tutta la sua polemica era verso la scuola economico-giuridica e verso il materialismo storico. A rileggerla oggi (l’ho riletta proprio in vista di questa lezione), dopo cinquant’anni, è veramente impressionante. La strada che allora avevo intrapreso non era dunque quella d’un qualche crocianesimo, magari pure “di sinistra”, come fu invece per tanti altri. Ma in quel mio proposito fallii completamente.
Non so dire oggi la debolezza di quello che poteva essere il mio marxismo d’allora (avevo sui vent’anni). Non avevo capito quasi nulla, devo riconoscere, di Antonio Labriola, che mi era rimasto sigillato. Fallii completamente, dunque; e abbandonai il campo. Però ne ebbi un trauma molto forte. La conclusione era che il marxismo era bello, ma non vero. L’altra conclusione, che il lavoro dello storico era inutile: si vanno a vedere i documenti, ma poi le cose non tornano. E così passai alla filosofia, non potevo più evitarla; ma sotto una sollecitazione per la quale il quadro dell’idealismo non bastava: se il marxismo non era vero, questo significava che, anche per capire la società, bisognava riconfermare l’individuo come centro d’iniziativa irriducibile; mentre proprio questa questione, dell’individuo, ci appariva il punto debole dell’idealismo. In questo, l’individuo scompariva: nello “Stato etico” di Gentile oppure nella “morale dell’opera” del Croce; ma comunque scompariva.
Quella mia d’allora era una spinta (che oggi potremmo anche dire libertaria) legata all’idea della finitezza umana, nella sua irriducibilità. Per questa esigenza – della finitezza umana, dell’iniziativa individuale, della libertà, e d’una ricostruzione su una tale base anche del rapporto sociale – mi rivolsi verso Heidegger.
Nel ’30 andai in Germania, a Friburgo, dove insegnava; ma non riuscii a incontrarlo, avevo sbagliato i tempi. Invece, l’anno dopo (ma ero ancora studente) entrai nel suo seminario del semestre estivo. L’uomo era di grande fascino, un fascino, direi, enigmatico; ma anche di un’enigmatica affabilità – qualcuno diceva che affabile lo era soprattutto con gli studenti stranieri – e io riuscii a entrare in rapporto con lui molto rapidamente (venendo da Firenze, era più facile; perché anche a Firenze s’entrava in rapporto con i professori – con alcuni professori, ancora una volta, innanzitutto con Pasquali – senza sfacciataggine ma nemmeno timidezza). Se dovessi dire che cosa ho preso da Heidegger, direi, in sostanza, quello che invece lui avrebbe poi respinto, e cioè, precisamente, l’esistenzialismo; mentre mi sembra d’aver preso pochissimo del suo ontologismo, che già c’era nel suo libro Sein und Zeit. E devo dire che la ripugnanza verso l’ontologismo m’è ritornata proprio adesso, e non solo verso quello di Heidegger, ma in generale, verso tutto quell’ontologismo che oggi è in circolazione, mi pare, magari anche sotto vesti politiche (le tante parole con la maiuscola, come “il Sociale”, “il Politico”, ecc.). Mi ricordo che una volta dissi, a Heidegger: «Ma in alcune lingue il verbo essere non c’è. E perché allora costruire tutto intorno a esso?» – e lui si stupì di quest’osservazione.
Forte fu il trauma per l’adesione di Heidegger al nazismo. Nel semestre estivo del 1933 ero tornato a Friburgo, con una specie di borsa di studio – nel frattempo, m’ero laureato, e nella tesi, su Kant, avevo tenuto conto anche di Heidegger. E così sono fra i pochi stranieri ancora vivi (credo che ce ne sia un altro in Francia) presenti allora alla famosa prolusione Die Selstbehauptung der deutschen Universität. Fu un grosso colpo, per parecchi, particolarmente per gli stranieri, che erano poi soprattutto dell’Europa centrale. Quanto a me, dopo una settimana andai da Heidegger, a prendere congedo (il pretesto era facile, perché, con le sue mansioni di rettore, aveva sospeso il seminario).
Allora, mi spostai a Berlino. S’era nell’anno della presa del potere da parte dei nazisti; e la grande cultura di Weimar non era ancora del tutto spenta, ma era in agonia. Era, direi, il “crepuscolo degli dèi”. Molti professori erano già con la valigia pronta; molti che poi furono effettivamente costretti ad andare all’estero. Per esempio, Werner Jaeger, la cui casa allora frequentai. Poi, ricordo, per esempio, Romano Guardini, o Spranger. Ma il mio rapporto, a Berlino, fu soprattutto con Nicolai Hartmann, di cui presi a frequentare il seminario (non fu sempre un rapporto facile; ma su questo ora sorvolo). E attraverso Hartmann scoprii Scheler (cosa che naturalmente non entusiasmò Hartmann), che su di me ebbe molta influenza.
In quella specie di collegio in cui risiedevo a Berlino – si chiamava Hegel Haus, ed è poi andato distrutto con la guerra – c’era già Claudio Varese, qui presente oggi; e da lì iniziò la nostra amicizia. A un certo punto arrivò Cantimori, anche lui con la valigia, ma, lui, perché attraversava l’Europa in cerca di biblioteche. Anche con lui il primo approccio non fu tanto semplice; però poi (doveva rimanere solo pochi giorni, e invece rimase, mi pare, un mese) si strinse allora un legame profondo fra di noi. In seguito, Cantimori l’avrei ritrovato a Pisa, alla Scuola Normale, allorché nel 1939 vi fui chiamato da Giovanni Gentile.
Con Gentile ero entrato in rapporto perché aveva letto la mia tesi di laurea, in occasione d’un concorso a cui l’avevo presentata. Poi – dopo che ero entrato nell’insegnamento – nel 1937 aveva appoggiato la mia richiesta di trasferimento dal Liceo Scientifico di Livorno a Firenze. Sennonché questo trasferimento fu bloccato, all’ultimo momento, dal ministro, Bottai, in seguito a un ricorso, ma in realtà, come venni a sapere, per le cattive informazioni politiche su di me. Bottai rinfacciò a Gentile d’andare a raccomandare gente sospetta; e proprio così cominciò per me un rapporto, con Gentile, di grande franchezza politica. Non direi che fosse un uomo complicato. Era un uomo di potere, non c’è dubbio. Ma aveva anche una sua concezione – diciamo “dialettica” fra virgolette – per cui era bene che i giovani fossero ribelli, perché poi, dopo, sarebbero diventati uomini d’ordine più saldamente. E fu sulla base di questa concezione che diresse anche la Scuola Normale.
Il trasferimento a Firenze l’ebbi l’anno dopo. Ma qui, nella nuova scuola, trovai un’atmosfera, un clima, molto diversi, rispetto a Livorno. Qui c’erano i microfoni, in classe, e gli scolari, ogni tanto, me li indicavano, perché, mentre parlavo, me ne dimenticavo. Sentivo come un cerchio che si stringeva; cercai allora il modo d’andare fuori d’Italia, e pensai d’andare a fare il lettore d’italiano a Friburgo. Gentile lo venne a sapere, e mi chiamò a un redde rationem. Io gli dissi – ormai, a quattr’occhi gli parlavo molto francamente – che le cose precipitavano (si era nella prima parte del 1939), e che in fondo Friburgo era solo a sessanta chilometri dalla Francia (non so se era esatto, credo anzi che geograficamente non lo fosse), e cioè che di lì sarebbe stato più facile passare dall’altra parte. Allora, Gentile mi diede del pazzo, accomunandomi ad altri che, egli sapeva, avevano avuto lo stesso pensiero.
Poi, però, venne la guerra, e io mi ritrovai con l’impegno preso con il ministero degli Esteri, che ora insisteva perché andassi a Friburgo, mentre naturalmente non ne avevo più alcuna intenzione, proprio perché non sarebbe più stato possibile un passaggio, di lì, dall’altra parte.
Sennonché, una notte, verso le due del mattino, ricevetti una telefonata, da Gentile, che mi disse che era disponibile un posto di lettore di tedesco alla Scuola Normale – evidentemente, non ci voleva mettere un nazista – ma che non c’era tempo per decidere: dovevo farlo entro poche ore. Io aspettai un momento, e poi gli risposi che accettavo. Dopo un silenzio, lui commentò: «Così si decide la vita d’un uomo!». E aveva ragione.
Non mi soffermerò sull’ultima fase di Gentile, tragica. Ricordo solo che, certo illusoriamente, cercai di persuaderlo a che si tirasse fuori dal fascismo, nel frattempo divenuto la Repubblica di Salò. Nel novembre del ’43, al Salviatino, dove abitava, ebbi con lui un incontro che non finiva mai, perché non riuscivo a rimanere solo con lui. Quando ce la feci, lo misi al corrente di quello che stava succedendo, dandogli delle notizie che evidentemente non gli davano le autorità fasciste – era stato anche ucciso uno del suo entourage – mentre io le avevo dalla rete clandestina in cui mi trovavo. Me ne uscii con la sensazione che forse qualcosa avevo ottenuto. Invece, non era così: due giorni dopo, venne fuori che il ministro Biggini s’era recato lì, al Salviatino, per offrirgli la presidenza dell’Accademia d’Italia, e che Gentile aveva accettato (ma, quand’ero stato da lui, non me l’aveva detto). E così s’avviò verso un destino di cui in qualche modo aveva consapevolezza.
Potrei dire qualcosa anche della cerchia di Benedetto Croce. Egli veniva ogni tanto a Firenze, nei suoi viaggi. Io ero fra quelli che si raccoglievano attorno a lui in casa di Luigi Russo; e si parlava delle cose più varie (avrei da raccontare alcuni aneddoti). Poi, la sera, almeno una parte di noi lo accompagnava, in corteo, all’Albergo Porta Rossa, dove alloggiava. Ricordo che una volta, tornando indietro – eravamo in via Tornabuoni – Raffaello Ramat, preso dall’entusiasmo, disse: «è il nostro Socrate»; e io mi ribellai vivacemente. Era un uomo di grande fascino culturale, Croce; ma no, io non l’ho mai sentito come il mio Socrate.
Ora vorrei passare a una questione più generale: che cultura avevamo, in Italia, negli anni Trenta. Beninteso, parlo qui dell’élite a cui appartenevo, allevata per essere tale, secondo la tradizione della scuola italiana, come scuola di classe, caratteristica che era stata addirittura rafforzata dalla Riforma Gentile (chiamata, allora, la Riforma Croce-Gentile); e quindi persone destinate alle professioni liberali e all’insegnamento, tanto più allora che, per chi era antifascista, non era praticabile la politica istituzionale.
Ora, la cultura fascista era, largamente, una fictio, se non per la parte politica, per la teoria dello Stato (dallo Stato “etico” s’era passati allo Stato “corporativo”, e alle diverse interpretazioni di quest’ultimo: di sinistra, come nel caso di Ugo Spirito, o non di sinistra). Ma per il resto la cosiddetta cultura fascista non era che un’etichetta. Ricordo d’essere stato solo due volte all’«Istituto di cultura fascista»: una volta, per sentire Ungaretti che parlava su Leopardi, e un’altra per sentire Corrado Pavolini (il fratello del famigerato Alessandro) che, non privo d’una qualche finezza, parlava di cultura tedesca. Un’etichetta, la pretesa cultura fascista; o una velleità di certi letterati, come Papini, o Soffici, che noi disprezzavamo. La cultura – pensavamo – era altrove; era nella «Critica» di Croce, oppure nella «Civiltà moderna» di Codignola, che cominciò proprio nei primi anni Trenta, oppure nella «Cultura» di De Lollis, e così via (naturalmente, rispetto al fascismo, c’era una doppiezza, in questo sistema; il che a noi giovani cominciava a ripugnare). Da un certo punto di vista, la vera dittatura era proprio quella idealistica, nei suoi due rami, crociano e gentiliano.
Devo dire però che non mancava affatto la possibilità di informarsi più largamente. Devo dire anche che, in tutti gli anni Trenta – e nei primi Quaranta – fu molto importante la letteratura, sia quella italiana sia quella non italiana. Faccio solo dei nomi, di chi via via venivamo scoprendo: Svevo; e poi Vittorini, che su «Letteratura» pubblicò Conversazione in Sicilia; Gadda; poi (ma più tardi), Pavese; ecc. E i poeti. Nella nostra gioventù, c’era una triade: Ungaretti, Montale, Saba.
Di quello che veniva da fuori, mi ricordo che cosa voleva dire, ogni mese, l’arrivo della «Nouvelle Revue Française». E Gide; Valéry; Proust. Non altrettanto potrei dire della filosofia, per quel che ci veniva dalla Francia (Les deux sources di Bergson non fece una grande impressione, almeno a quelli come me), prima di – molto più tardi – Kojève, e cioè della riscoperta, sotto nuova angolatura, di Hegel.
Ancora, i bagliori, i grandi bagliori, provenienti dalla cultura di Weimar; Thomas Mann; poi, Kafka; poi, Rilke (ricordo le traduzioni da Rilke di Giaime Pintor per la Einaudi). E non solo la letteratura, ma anche il pensiero. Per esempio, si parlava di Freud, allora (qui, a Firenze, da parte di Enzo Bonaventura). O di Max Weber (il libro di Mario Manlio Rossi L’ascesi capitalistica di Max Weber risale al 1928). Da Milano ci arrivava in qualche modo una parte di Husserl. Dall’Inghilterra, la cultura del dopo-crisi. E sapete tutti quanto operò, poi, il romanzo americano, per iniziativa di Vittorini.
Certo, molte di queste cose Croce le giudicava negativamente, quando ne parlava nella «Critica»; e io ero tra quelli che non l’accettavano. Comunque, tutto ciò tendeva a rompere quello che altrimenti sarebbe stato un isolamento. E quando, alcuni anni fa, Arbasino s’è chiesto, degli intellettuali italiani di quegli anni: «Perché non attraversavano il ponte di Chiasso?», ha dato un quadro assolutamente falso, della cultura che vivevamo allora. Come si sarebbero mai formati degli Chabod, o dei Cantimori, per limitarsi agli studi storici, se il ponte di Chiasso non l’avessero traversato?
Poi, ancora, ci fu la scoperta, o la riscoperta, della Russia; che, credo, fu molto condizionata, per opposizione, dall’avvento del regime nazista in Germania. Mi ricordo quello che fu il successo di Solochov, con Il placido Don, quando ne fu tradotto il primo volume (gli altri, successivamente). Era una società corale che in questo grande romanzo veniva come a rispecchiarsi; questa era l’immagine che veniva fuori. Mi ricordo anche che, alla fine del secondo anno che ero professore a Livorno, nel ’37, venne una delegazione di studenti a chiedermi delle lezioni supplementari. Credevo che volessero un aiuto per l’esame di Stato; e invece volevano delle lezioni sulla Russia. Per un attimo, pensai che fosse una provocazione; e invece non era così: era un effetto, in qualche modo, anche delle mie lezioni (pur non essendo io, allora, per niente comunista). A quegli studenti, dissi che non sapevo molto più di quello che già gliene avevo detto; ma ci mettemmo a far qualcosa, cominciando con lo studiare la Costituzione sovietica del 1936, che nel frattempo era stata pubblicata, in italiano, da un editore che si chiamava Grimaldi.
Mentre cresceva sempre più l’inquietudine, lentamente in noi si produceva un rivoluzionamento culturale – “molecolare”, avrebbe detto Gramsci. Gli elementi di rottura erano molto precisi. Per esempio, col dannunzianesimo: forse nessuno è stato odiato più di Gabriele D’Annunzio, dalla mia generazione. Un rivoluzionamento, dunque; che tendeva anche a politicizzarsi, in modo del tutto indipendente dai partiti politici che erano nell’emigrazione.
E nascevano anche nuove case editrici: basta vedere quello che fu il catalogo della casa Einaudi, per vedere quale immissione di fatti e di problemi nuovi – si andava da Trotzkij ai più recenti economisti inglesi, come Keynes.
Noi eravamo uno strato sottile, modesto, di studenti, giovani professori di liceo; e più o meno – parlo dell’Italia – ci si conosceva tutti. Si veniva costituendo, direi, un nuovo antifascismo, o almeno una nuova potenzialità di antifascismo, indipendente, ripeto, dai partiti antifascisti dell’emigrazione. E credo che questo sia molto importante, perché credo che senza questo passaggio non si spiegano tante cose, a cominciare dai quadri intellettuali della Resistenza, che i partiti organizzati non ebbero nemmeno il tempo di formare; col che si avrà poi anche il ricongiungersi con un movimento popolare. E neppure si spiega, direi, quell’esplosione di idee che ci sarà dopo la Liberazione, quella che Cesare Pavese, nel suo diario, uscito postumo, Il mestiere di vivere, ha chiamato la «pienezza» degli anni ’45 e ’46.
Un momento di svolta era stato la guerra di Spagna, con la scossa che produsse. Ricordo che allora circolò clandestinamente, perché naturalmente in Italia era proibito, il romanzo Les grands cimetières sous la lune d’un cattolico francese, Bernanos, che in Spagna c’era andato dalla parte di Franco, ma era passato in quella opposta.
E, poi, il 1938; l’anno delle leggi razziali, in Italia. Un anno decisivo. Fra l’altro, anche quello in cui Croce ripubblicò Labriola, accompagnandolo col suo famoso saggio Come nacque e come morì il marxismo teorico in Italia. In un mio scritto1 ho detto che, da parte di Croce, questo era un «rischio calcolato», perché sentiva che il marxismo tornava. Per noi, furono molti importanti allora, per esempio, i Morceaux choisis di Marx, curati da Guterman e Lefebvre; ma cominciavano a entrare anche altre opere, oltre che di Marx (queste, in fondo, era più facile trovarle), per esempio di Lenin.
Proprio nel 1938 cominciò la crisi profonda del fascismo – una crisi morale – in un processo di decomposizione all’interno del Partito fascista stesso. Il clima cambiava. Si annunciava, in qualche modo, anche la tempesta alla quale si sarebbe andati incontro. Molti passarono allora dal fascismo all’antifascismo; e alcuni di loro sarebbero poi caduti eroicamente nella Resistenza: delle persone, quindi, con le quali era magari accaduto di discutere, anni prima, sul loro fascismo.
Poi, la guerra. Rispetto alla guerra, l’atteggiamento degli intellettuali antifascisti fu vario; ché taluni ritenevano che comunque dovessimo entrarci. In questa situazione, e nonostante tutto quello che si annunciava, noi giovani antifascisti, però, sentivamo d’avere una qualche forza. È il momento di certe riviste. Ricordo, per esempio, una rivistina, «Argomenti» (dalla quale sarebbero derivati, nel dopoguerra, i «Nuovi argomenti»), su cui pubblicai uno scritto in tre puntate2. Poi, naturalmente, fu proibita, per il tono antifascista che vi circolava; ma intanto ne era uscito un certo numero di fascicoli. Oppure, il gioco che veniva facendo Bottai su «Primato»; ma su questo non mi soffermo, perché oggi se n’è scritto molto.
Comparve allora, in una collezione diretta da Gentile, anche il mio libro Situazione e libertà nell’esistenza umana. Porta la data del 1942; ma era uscito alla fine del ’41, perché mi ricordo che per Natale l’avevo portato in omaggio a una ragazza che amavo, e che oggi è qui presente (ma, devo dire, lei non si fece né in qua né in là, perché era abituata a vivere tra gente che pubblicava dei libri). Non era scritto per ragioni accademiche; ed ebbe una certa risonanza anche fuori dalla cerchia dei filosofi, nonostante che fosse d’un giovane sconosciuto. Ricordo come ne parla Pavese in un capitolo del diario che già ho menzionato, Il mestiere di vivere (Pavese non me ne aveva mai detto niente, e io fui colpito, quando lo lessi, dopo la sua morte). Oppure, tempo fa, Claudio Varese m’ha passato una bellissima lettera di Dessì, sempre a proposito di quel libro. Lo lesse anche Mario Manlio Rossi, allora professore a Edinburgo. Lo incontrai qui, alla Sansoni, e mi disse: «Di qui, si va dritti al marxismo»; e io gli risposi: «No, assolutamente no; anzi, è vero il contrario: è proprio dal marxismo che io provengo» (un’incredibile, ancora, ingenuità, dire che provenivo dal marxismo). Ricordo anche che, nelle nostre discussioni, i compagni liberalsocialisti mi dicevano sempre: «Ma, allora, tu sei comunista»; e io mi difendevo da questa taccia (era una taccia). Ma, in fondo, su di me, allora, avevano ragione loro. Così, quando, oggi, ho una discussione con Bobbio, ho l’impressione di continuare ancora, in condizioni mutate, quelle di allora. Per diventare, poi, comunista, decisiva fu per me la lettura di Stato e rivoluzione di Lenin, che mi passò Cantimori; ma su questo non voglio ora inoltrarmi. Vorrei dire solo che tutto quello che ho evocato finora ha un rapporto stretto con un’impresa alla quale partecipai, subito dopo la Liberazione: una rivista, che si chiamava «Società»; perché, almeno per la parte che mi riguardava, che era poi quella programmatica, l’idea era d’una saldatura fra quella cultura degli anni Trenta di cui ho parlato – quella rottura con il passato che eravamo venuti preparando lentamente, modestamente, molecolarmente – e la cultura di quelli che venivano da fuori, soprattutto i dirigenti comunisti, e segnatamente Togliatti. Perciò, non ero d’accordo con Vittorini, con la sua idea, nel «Politecnico», d’una “nuova cultura”. I contenuti li avevamo in comune, più o meno; però io ero per un continuismo, non assoluto, naturalmente, ma rispetto a quel che ho detto; e scrissi anche un articolo, intitolato Rigore della cultura3, che aveva una parte di polemica con Vittorini, e che ora ripubblico in un volume in cui, iniziando proprio con questo intervento, raccolgo trent’anni di Polemiche marxiste4. (Dopo i primi due anni, però, l’impresa di «Società» fallì; certo, per debolezze nostre, culturali e politiche, ma anche non solo per questo.).
E qui mi fermo: non parlo di questi ultimi trent’anni. Non parlo, per esempio, di quello che è stata per me l’importanza, grande, della militanza in un partito operaio, come quello a cui appartengo, e di ciò che ciò ha significato anche per la ricerca e l’insegnamento: molto, anche se non vorrei indulgere a troppo facili armonizzazioni a posteriori.
Per l’intellettuale – intendo per chi in qualche misura è un produttore di conoscenza – è sempre tutto abbastanza difficile, quando si sia anche impegnati direttamente nella vita politica. Semmai, mi consentirei di dare una specie di indicazione per chi s’incamminasse appunto per questa strada, peraltro affascinante, e che io ho sentito comunque come doverosa. Anzi, due indicazioni. La prima, di non diventare mai cortigiano, rispetto a chi ha il potere, nelle organizzazioni di cui si faccia parte. La seconda, ancora più importante, di non tenere troppo al proprio nome, quanto alle idee politiche che uno riesca, o creda di riuscire, a elaborare. Quel che importa è la loro socializzazione: che entrino, per esempio, nella testa dei dirigenti. Ma, perché possano socializzarsi, queste idee devono partire da esperienze reali, e in qualche modo avere un rapporto con le masse. Ciò non significa sparire nell’anonimato, ma distinguere piani diversi: altra cosa è il piacere, credo legittimo, anche sacrosanto, di vedere il proprio nome sopra un libro o in fondo a un saggio critico, e altra è appunto quel tipo d’elaborazione a cui mi riferivo.
Per finire, o quasi, prendo ancora qualche minuto, per esprimere la mia gratitudine verso chi mi ha aiutato nella cosiddetta carriera accademica: anche altri, ma, prima di tutto, Garin e Calogero. E per la Facoltà di Lettere di Pisa, che mi tenne per quindici anni, non facili. Erano i tempi della guerra fredda (e d’altronde allora non era tanto facile neppure essere comunisti). Ho avuto la fortuna d’avere degli scolari di grande valore e di averli in qualche modo aiutati a crescere. Alcuni sono presenti. Nomino solo il più antico, Nicola Badaloni, al quale sono molto grato che sia qui oggi. Poi, ci sono quelli che hanno preso altre strade che non quelle dello studio. E poi quelli scomparsi, che non posso non rammentare: Nicola Vaccaro, che tanto avrebbe lavorato per le Lezioni d’estetica di Hegel; e Carlo Ascheri, che ha lasciato una traccia indelebile negli studi feuerbachiani, cominciando da un’esercitazione di Filosofia morale, quand’era studente del secondo anno, a Pisa (ho ancora il volume su cui avevo appuntato il suo nome, per quell’esercitazione), e in seguito avrebbe avuto molto aiuto, in Germania, da Löwith. Ho avuto la fortuna – ma credo anche qualche merito – d’avere questi scolari.
Invece, non credo d’avere fatto una scuola. Io non l’ho cercata. Qualcuno me l’ha rimproverato, per esempio, una volta, ricordo, l’amico Vacatello. Può darsi che avesse ragione; ma questo attiene al modo in cui uno sente l’insegnamento, che può essere molto vario. Penso che, sul modo in cui lo sente, ogni professore, a un certo momento della sua vita, dovrebbe fare un po’ d’autoanalisi. Forse, ci sono come due poli estremi: un modo, che tende a una forma di potere – non intendo potere accademico, ma intellettuale –, e un altro, per il quale non saprei parlare che d’una forma di eros. Quest’altro, era il modo di Giorgio Pasquali. Ora, io non mi sono trovato né sull’uno, propriamente, né sull’altro, dei due poli; ma, certo, più vicino al secondo, e anche per questo a Pasquali sono tanto grato.
Per concludere, ora, davvero, vorrei dire che, nell’insegnamento della filosofia, ho cercato sempre d’avere presenti due parametri. Uno, l’importanza delle circostanze storiche, cioè culturali – circolazione delle idee – e sociali. L’altro, la dimensione, per me irrinunciabile, dei grandi pensatori. Per me, i grandi filosofi ci sono, continuano a parlarci. Diceva Burckhardt (non a proposito specificamente di filosofi, ma in generale) che la grandezza è un mistero; ma, io credo, un mistero che poi si risolve, di volta in volta, abbastanza empiricamente.
Per me, i grandi filosofi sono quelli che, avessero o no una grande cultura, sono riusciti a lavorare in presa diretta sulla realtà. E quindi un primo compito è quello di ricostruire – e, nell’insegnamento, aiutare gli studenti a ricostruire – l’immagine della realtà, naturale, sociale, politica, che essi hanno elaborato; perché di lì viene anche il loro retaggio teorico, quello che ci hanno lasciato, che permane o che riemerge in certi momenti della storia. Allora, in quest’ambito teorico, è possibile anche, in certa misura, farli dialogare tra di loro. Penso che questo sia importante di comunicare ai giovani. A me non piace, devo dire, l’espressione “trasmissione del sapere”, mi piace piuttosto “appropriazione”; e quindi: aiutare ad appropriarsi di qualcosa. Ma rimane la questione della grandezza, che poi tocca anche il senso della nostra misura, riportandoci a un’altra frase di Burckhardt: «grandezza è ciò che noi non siamo». Grazie.
Cesare Luporini
(Tratto da «Il Ponte», Cesare Luporini. 1909-1993 [numero monografico dedicato a Cesare Luporini], anno LXV, n. 11, novembre 2009).
Note
1 Il marxismo e la cultura italiana del Novecento, nella Storia d’Italia Einaudi, V (I documenti), Torino, Einaudi, 1973, pp. 1583 ss.
2 Esistenza I, Esistenza II, Esistenza III, ora in C. Luporini, Situazione e libertà nell’esistenza umana e altri scritti, Roma, Editori Riuniti, 1993, p. 225 ss.
3 «Società», II, 1946, n. 5, p. 5 ss.
4 Il progetto qui annunciato, non ebbe poi realizzazione.
Inserito il 21/03/2023.
Pietro Ingrao ed Enrico Berlinguer.
Fonte della foto: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=23144
Il XX Congresso del PCI, svoltosi a Rimini dal 31 gennaio al 3 febbraio 1991.
Fonte della foto: https://www.chiamamicitta.it/wp-content/uploads/2017/01/XXcongresso-pci.jpg
Lo scambio polemico di lettere tra Pietro Ingrao e il filosofo Cesare Luporini, che riprendiamo da «Critica marxista», riflette lo scontro fra due modi di intendere il rilancio di un’idea comunista, dopo la svolta della Bolognina e la fine del Partito Comunista Italiano.
Quando Luporini scrisse la sua lettera erano passati appena due mesi dal congresso di Rimini (febbraio 1991) che aveva decretato la fine del PCI e la nascita del Partito Democratico della Sinistra. In quelle assise Pietro Ingrao aveva deciso (insieme a Aldo Tortorella, Giuseppe Chiarante e lo stesso Luporini) di restare “nel gorgo”, cioè nel PDS, e di non seguire i compagni che diedero vita al Movimento per la Rifondazione Comunista. A lui la scelta scissionista dei “rifondatori” appariva troppo facile e scontata, la sua sfida invece era quella di portare avanti o tenere almeno in vita un pensiero “comunista democratico” all’interno di un partito che ormai non si richiamava neanche più alla tradizione del socialismo.
E proprio sulle motivazioni che furono alla base di quella scelta difficile – al centro dei convegni di Ariccia e di Arco di Trento e poi di un’assemblea a Roma nel marzo del 1991 – avvenne il successivo confronto tra Ingrao e Luporini. La delusione e l’amarezza per quegli eventi spinse quest’ultimo a lasciare il partito dopo cinquant’anni di militanza. Ingrao, dopo aver “retto” ancora due anni, abbandonò anch’egli il PDS nel 1993.
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Cesare Luporini
«Non mi convince il tuo modo di stare nel PDS»
Firenze, 15 aprile 1991
Caro Pietro,
sembra la storia della “lettera smarrita”… mi scuso… Il fatto è che la riscrivo per la terza volta, e spero che sia quella buona. Cercherò di non affliggerti troppo con la lunghezza (in parte inevitabile) e di riuscire ad esprimermi per punti essenziali. Essa riguarda sia la tua relazione (ti ringrazio di avermene mandata copia, ma la conoscevo già da tempo), sia la situazione maturata (diciamo così!) nella nostra ‘area’ dopo il 23 marzo.
In una riunione locale (Firenze) della medesima (relatore Manca) seguita a quella di Roma io dissi che non ero d’accordo con le conseguenze pratiche che tu traevi nella tua relazione, pur riconoscendo in essa diversi punti nuovi e importanti, ma che questo derivava anche da certe impostazioni che non mi convincevano. Dissi anche che ti avevo scritto una lettera (il che era vero), ma che non te l’avevo ancora spedita (e che aspettavo anche di sentire la discussione di quella sera). Alla domanda di un compagno (Valerio Nardini), un po’ solenne, di farla conoscere anche a loro, risposi che no, non si trattava di una “lettera aperta”, era una lettera personale: perché fra noi due ci sono rapporti antichi e profondissimi che vanno al di là di queste stesse gravi contingenze politiche; e che quindi mi volessero scusare se non lo facevo. Avevo accennato alla lettera solo per la chiarezza delle relazioni. Inoltre dissi un’altra cosa, che riferirò più oltre in questa lettera (circa il senso del mio mettermi in disparte), la quale si riflette esattamente nelle dichiarazioni mie apparse (su richiesta del giornale) nell’«Unità» dell’11 aprile, in seguito al fattaccio (la cui origine pettegola mi è inesplicabile) della «Stampa» del 9 aprile, in seguito a cui mi telefonasti e abbiamo avuto una conversazione vivace [«La Stampa» aveva riportato la notizia del dissenso di Luporini in un articolo intitolato «La scissione sfiora Ingrao», ndr]. Questa lettera è ormai una continuazione di essa: per questo la riscrivo per la terza volta, ma la sostanza resta quella originaria.
In verità il mio non-accordo con te è qualcosa di più (mi pare) di quel che io dissi ai compagni fiorentini; almeno ogni giorno che passa mi sembra confermare che è così. Vorrei scansare subito un possibile equivoco: ciò non significa mio accordo (complessivo) con posizioni altre, almeno fra quelle finora conosciute (e non sto a precisare). Se così fosse, per me sarebbe tutto molto facile: basterebbe dire in che cosa approssimativamente mi identifico, e con chi.
E vengo all’essenziale. Naturalmente condivido moltissimo della descrizione generale che fai, specie internazionale, di alcuni nodi che individui, di alcuni spunti di proposte che dai, e soprattutto dell’altezza alla quale ti collochi.
Quello a cui invece più scarsamente partecipo è il modo in cui da quelle considerazioni più generali ti cali nel concreto delle cose, e delle cose da fare, e soprattutto il modo che viene suggerito (se ho bene compreso) di stare – o rimanere – nella nuova formazione politica, modo che a mio parere, si collega anche a un’analisi insufficiente dello stato del partito dopo Rimini, in cui fu costituito il PDS, e dopo la nota scissione.
E circoscrivo qualche punto. Il primo (da cui dipende tutto il resto, in certa misura): la guerra e la pace. Il 23 agosto rimane un momento altissimo: in quel giorno salvasti l’onore dei comunisti italiani (non mi stanco di ripeterlo), e riconosco anch’io che quella tua presa di posizione pubblica, in sede istituzionale, dapprima deprecata, ha avuto nel seguito un’influenza positiva sulla linea del partito circa la guerra [Il 23 agosto del 1990 Ingrao era intervenuto alla Camera in dissenso dal gruppo comunista che si era astenuto sul voto che autorizzava la partecipazione alla Guerra del Golfo, ndr]. Ma credo che sul movimento pacifista di questi mesi (a cui anch’io, ovviamente, ho partecipato) bisogna avere ormai, e innanzi tutto, una posizione critica circa quelli che sono stati i suoi limiti intrinseci, in gran parte dovuti (a mio parere) proprio all’influenza frenante dell’allora PCI (e relativa organizzazione giovanile), e quindi sulla capacità reale di incidere profondamente sull’opinione pubblica e contrastare la forsennata campagna bellicistica, e anti-terzomondista (e di fatto contro il “Sud del mondo”). Sono state debolezze politiche che riguardano anche, e non secondariamente, il presente-futuro.
(Il massimo aiuto militare agli Usa nella guerra del Golfo l’ha dato proprio l’Italia, ritengo io, sia pur passivamente, con la piena disponibilità del suo territorio, e con le istallazioni, inoltre, più o meno segrete e comunque micidiali presenti in esso: o il movimento pacifista affronta questo nodo terribile – e di fatto oggi certamente impopolare – o esso si perde nel “millenarismo”…).
Sono d’accordo con la riapertura seria del dialogo con il “mondo arabo”, anche se non mi accontento dell’“ascolto” di cui tu parli, importantissimo ovviamente. Ho bisogno però di un dialogo critico e interrogante, e anche incalzante, che faccia precipitare (in senso chimico) la differenza tra governi e popoli, e movimenti, stimolando quelli di potenzialità democratica: e qui ci vuole davvero molto ‘ascolto’ per non imporre i nostri schemi occidentali, ma anche fermezza in alcune discriminanti. Potrei esemplificare: ma basti pensare quel che accade in questi mesi in Algeria, e l’arretramento che ciò significa (il fondamentalismo come unico movimento visibile di massa). Non sono disposto a connettere tutte insieme cose che mi appaiono assai disparate: come la questione palestinese, quella dello stato israeliano (e suoi confini) da una parte e l’altra del Libano, in cui un vero e proprio popolo non esiste (per ragioni storiche) e sono in gioco interessi assai sporchi e bene intricati. Tanto meno vorrei lasciare intendere una qualche accettazione della proposta De Michelis, che rimane al livello del rapporto stati-governi. Ma in sostanza su questa parte della tua relazione, come sulla questione dell’Onu (citazioni di Gambino ecc.) mi sento assai vicino a te (con le dette precisazioni critiche).
E ora vengo alla nostra situazione interna, italiana e di partito. Tu tocchi alcune “questioni strategiche”, innalzi l’istanza di dare “ampiezza strategica” (“rinnovata concretezza sociale” ecc.) a una linea di partito in cui la sua “identità” in via di trasformazione trovi finalmente chiarezza. Ma mi sembri molto reticente nell’analisi delle tendenze presenti in esso a partire dall’attuale gruppo dirigente (e “dominante”, direi), dalle sue divisioni, e dalla coorte dei suoi supporti burocratici di personale politico (punto su cui è fallito completamente il proposito annunziato di cambiare la “forma partito”; basti vedere i congressi regionali in corso, che sono per la nostra area un ingabbiamento abominevole, che neppure abbiamo accennato a mettere in discussione). Ne viene che nella tua relazione non emerge una sufficientemente autonoma piattaforma politica, cioè una strategia da affermare subito – quale minoranza interna, per il momento – e che sia subito mobilitante (il che non comporta il dar fondo alla questione dell’orizzonte comunista, ma neppure lasciar quasi inerte questa parola). Dalla tua relazione emerge invece un inserimento di “lunga lena”, per così dire, col rischio, a mio parere palpabilissimo, di arrivare all’appuntamento in quattro gatti, fra qualche mese.
C’è un punto del tuo discorso che mi ha sconcertato, ma nello stesso tempo mi è sembrato (indirettamente) rivelatore. Là dove dici (p. 47 della copia che mi hai inviato): «Riconosco che le compagne e i compagni che hanno scelto la separazione sono più di quanti avessi pensato; e voglio riflettere su questo mio errore di valutazione». Non per quello che dici, ma per quello che salti. E cioè la situazione concreta della nostra “area” dopo il congresso di Rimini e a partire da esso. Almeno in grande parte della mia Regione (cioè non solo a Firenze) i compagni della nostra area (già mozione n. 2), nonostante un diffuso criticismo circa la sua conduzione centrale nei mesi passati (Ariccia, Arco e così via), sono andati a Rimini pieni di orgoglio per quello che avevano fatto in questo anno difficilissimo, e di conseguente fiducia nel nostro futuro – insomma sono andati a Rimini ancora pienamente motivati, dopo essersi battuti nei congressi di sezione e di federazione, e ne sono tornati frustrati e a pezzi per la “non-sintonia” (non è parola mia ma di uno di questi compagni) lì sperimentata fra loro delegati e i compagni dirigenti di area, apparsi molto chiusi e incomunicanti rispetto a essi, in quanto tutti presi nella negoziazione politica interna con gli altri vertici (la cui necessità in sé considerata credo nessuno pensasse di respingere, visto che si era rimasti dentro, ma la sua separatezza sì). Onde sconforto, precipitanti defezioni non immaginabili prima di Rimini (potrei fare anche singoli esempi molto significativi anche localmente, ivi compreso nell’apparato e nelle regioni).
Mi accadde di prendere posizione (riflessa anche nell’«Unità», in una pagina regionale con una certa evidenza forse strumentale), in un senso che voleva essere arginante-recuperante, in favore della elaborazione collettiva di linee strategiche sui grandi e incalzanti problemi, ove si potesse verificare l’autonomia di opposizione di cui avevamo parlato (fin da Bologna), e attraverso un continuato confronto in cui venissero a misurarsi chi era rimasto dentro, chi stava altrimenti tornando a casa, amareggiato, e chi era andato altrove, tuttavia a sinistra. Una strategia ovviamente molto decentrata (e in certa guisa trasversale) – comunque per nulla simmetrica (cioè omologa-opposta) a quella messa in opera dalla ala riformista – che potesse influire, fra l’altro sulla forma-partito in crisi, ma anche raggelata, com’è. La riunione del 23 marzo a Roma e le conclusioni operative-interne della tua stessa relazione, hanno sancito la sconfitta di una posizione di questo genere, e la vittoria, per contro, di un verticismo di fatto. Nella riunione successiva di Firenze che ho ricordato al principio di questa lettera presi atto di essere tra i soccombenti (con gran parte della mia sezione, ritengo, in cui siamo sempre stati maggioranza, anche dopo che tanti se ne sono andati) e per conto mio, anche data l’età, annunciai di mettermi in disparte rispetto alla vita di partito, pur continuando ad appoggiare i tentativi che ancora si volessero fare – come appunto accade qui – di larghi incontri a sinistra in cerchie politico-culturali ecc. (Anche se a questo punto poco credo a un loro successo, ma spero di sbagliare).
Queste sono le mie ragioni, buone o cattive che siano: comunque, ti assicuro, riflettute. E che mi è stato un po’ duro comunicarti, se ci sono riuscito. Ora siamo in mezzo della crisi di governo, anzi della crisi nella crisi. Mi pare che rifulga, ahimè, tutta la debolezza-incertezza del PDS (la cosiddetta “gente” non capisce proprio, alla lettera, fra l’altro, che cosa sia un “governo di garanzia”). Ma su questo terreno è inutile che prosegua qui. (Del resto non sono e non mi sento un politico-politico, ma solo uno che sente e ragiona in un certo modo, che nel passato ti era molto vicino).
Ricordami affettuosamente a Laura; ti abbraccio,
Cesare
* * * * *
Pietro Ingrao
«Non condivido il tuo giudizio sul Congresso di Rimini»
Roma, 6 maggio 1991
Caro Cesare,
torno a ringraziarti per avermi scritto. Come ti dissi ho atteso un po’ a risponderti, perché volevo riflettere sui punti che mi hai esposto.
Cerco di seguire l’ordine del tuo ragionamento. Anch’io penso che sulla politica internazionale non ci siano tra noi due differenze apprezzabili. E rispondo alle due questioni che sollevi: 1) la critica che ritieni necessaria ai movimenti pacifisti: comprendo la tua osservazione; e tuttavia a me pareva che in quella mia relazione fosse utile soprattutto mettere l’accento sul loro scendere in campo nel corso della guerra; fatto che è stato di rilevanza politica. Io non sono sicuro che questo peso e significato dei movimenti pacifisti sia colto nelle nostre file. Lascia un momento da parte che cosa ne pensiamo io e te: temo che nell’insieme delle nostre forze siano parecchio deboli invece, tuttora, sia la conoscenza sia il contatto reale con questi movimenti e le loro iniziative. Mi parve che si dovesse sottolineare soprattutto il loro significato, e anche ciò che di nuovo recano in sé anche a fini pratici, perché nel momento difficile del dopoguerra nel Golfo, la iniziativa pacifista non si spegnesse. In ogni modo, non vedo su ciò fra noi due differenze che contano.
Lo stesso per l’obiezione che tu muovi sul mondo arabo. Sono del tutto d’accordo con te circa il bisogno di un’analisi differenziata. Quando dicevo: dobbiamo conoscere, intendevo dire la stessa cosa; salvo accentuare di più – da parte mia – l’assenza di un’analisi e di un rapporto reale (quale in altre epoche c’era stato…). Nel concreto, io credo che in Algeria ci sia anche altro, oltre il fondamentalismo e l’Eln. Ma quello che mi preme è una “ricognizione sul campo”: questo sollecitavo. E quindi una svolta rispetto al distacco e alla passività manifestati da tempo da pressoché tutta la sinistra europea. Certo c’era qui molto da dire (e da cercare) su altri aspetti cruciali della situazione internazionale a cominciare dai nuovi, gravi, significativi sconvolgimenti ad Est. Ma la mia relazione era già troppo lunga.
E vengo alla politica interna, dove invece le differenze di valutazione mi sembra ci siano, e siano significative. Non mi sento di accettare molto la critica generale che tu fai alla mia relazione: e cioè che doveva andare più al concreto. Certo: quello che tu chiedi contiene una certa verità, segnala un bisogno, che è forte. Ma – almeno nelle intenzioni – la relazione tentava un’analisi della crisi politico-sociale aperta ormai nel paese; cercava di uscire da una lettura che fosse tutta politica-politica, e chiusa nei problemi più strettamente istituzionali; e tentava di dare una motivazione dei processi che avevano portato a questa crisi. E mi provavo anche a sottolineare le scelte che si presentavano. In seguito sono tornato sul tema: nell’intervento che feci al convegno promosso da Bassolino a Ripetta e che in parte è uscito sul Manifesto (ora ti invio il testo completo) e nell’intervista all’Unità sulle questioni istituzionali (anche di questo ti invio copia).
Lo faccio perché ti sia chiaro il filo del ragionamento impostato già nella relazione.
È insufficiente o sbagliato questo filo, sia nella relazione sia in questi altri testi? È possibile. Ma che cosa è l’entrare nel concreto, se non cimentarsi con questa nuova tensione che sta da mesi scuotendo questo Paese e ci sta portando ad aspri e pesanti appuntamenti non solo politici, ma sociali? (e anche su questo io tendevo a dare una lettura e stabilire nessi con l’appuntamento di giugno con la Confindustria). Su questi nodi (e su quel tanto di valutazione che sono riuscito a svolgere) mi piacerebbe di avere il tuo giudizio. Altrimenti conosco meno il concreto che chiedi.
Nella relazione io avevo deliberatamente fatto una scelta: concentrando – quasi polemicamente – l’attenzione sugli eventi politici che incalzavano da mesi non solo sul piano internazionale, ma sul piano interno. Tentavo di spostare su questi nodi il dibattito tra noi, perché altrimenti anche il discorso sulla nostra iniziativa come “area” non vedo dove poggi, e rischia di restare per aria o tutto interno (in senso sbagliato).
Lascia che io ti ricordi che da Ariccia, e poi ancora ad Arco, per mesi io sono venuto facendo questo tentativo: con molte lacune e sbagli, ma avendo la convinzione che o muovevamo da ciò che sta accadendo di nuovo nel Paese e nel mondo, o non trovavamo il filo giusto nemmeno per la battaglia e l’iniziativa nel partito.
E invece da Ariccia in poi, c’è stata a questo tentativo un’obiezione (non esplicitata, purtroppo, ma evidentissima) che tendeva invece a mettere al primo posto il giudizio sul gruppo dirigente che aveva fatto la svolta e la lotta interna contro di esso. Ma – ecco il punto – con quale analisi e con quale proposta condurre questa lotta? Tu fai bene a chiedere a me di andare molto più a fondo su ciò. Sinceramente, trovo però che trascuri un po’ lo sforzo che ho tentato – per mesi! – proprio per venire a questo (appunto questo) “concreto”. Certo, poi ci sono le insufficienze o gli sbagli di questa relazione del 23 febbraio. Ma essa, questo era: ostinatamente tornare a ciò che stava scuotendo non solo noi, ma la gente e questo Paese e questa Europa. Una questione del genere – questo almeno è il mio pensiero – si è posta anche a Rimini.
Io non mi sento di condividere il tuo giudizio sulle cose accadute nel Congresso di Rimini. Certo: anche lì quanti difetti da parte nostra, quante debolezze nostre e altrui nel congresso! Ma esso non si ridusse solo a una trattativa di vertice per cercare alcuni accordi su organigrammi ecc.
A Rimini si posero questioni politiche non piccole: ancora il giudizio sulla guerra del Golfo e sulla risposta a questa “svolta” nel mondo; sulla linea da seguire nello scontro e sulle proposte sulle riforme istituzionali; sul giudizio su Craxi e la politica del Psi. Noi, minoranza, non affrontammo con sufficiente incisività e limpidezza questi nodi? O non riuscimmo a dare evidenza alle nostre proposte? O fummo troppo tiepidi e imprecisi nel nostro ragionamento e nelle nostre proposte? Mettiamo che sia stato così: è vero che la posta in campo richiedeva molto di più. E certamente non riuscimmo a coinvolgere con forza congresso e area nostra in questo confronto. Ma allora dobbiamo discutere perché e come e su che accadde questo. Qui è il punto da approfondire. Solo dentro questo orizzonte e dentro questa problematica possiamo analizzare lo stato d’animo di delusione e addirittura di rifiuto che ci fu nei compagni e che tu segnali nella tua lettera. Io posso avere sottovalutato o non capito questo stato d’animo. Ma non sono sicuro che esso esprimesse in tutto una ragione positiva. Posso sospettare – lo dico con tutta la modestia necessaria ma anche con sincerità – che ci fosse anche un ritrarsi da nodi che domandavano scelte difficili e dolorose, e un pronunciamento e una scelta non solo sull’accaduto dopo la Bolognina e sugli errori della maggioranza. Ma sul presente, e sul nuovo che nei mesi brucianti dall’agosto al febbraio erano venuti maturando. E su questo io forzo volutamente la polemica. A me parve, in quei giorni, che una larga parte della nostra area era ferma alla condanna di ciò che faceva la maggioranza, ricavando da tale condanna il quesito angoscioso se stare dentro il nuovo partito oppure no. E riluttava a scendere sul terreno della proposta e delle vie con cui darle forza e sviluppare l’iniziativa politica.
Lo dico perché io avverto questa difficoltà ancora oggi. Io sono persuaso che stiamo andando verso accelerazioni forti della crisi italiana. Anche di questo ho parlato pubblicamente, a Bari, nell’incontro con D’Alema e Giovanni Maro: ho sostenuto che l’identità del PDS si definisce intanto sulla sua capacità di battersi per uno sbocco democratico (ed ho cercato di ragionare concretamente su questo termine così generico e abusato) alla crisi in atto, al progetto “presidenzialista” (che per me significa nuova fase di centralizzazione, gerarchizzazione, e passivizzazione della masse) e al blocco Cossiga-Craxi che ne è attualmente la guida. Penso che se non impostiamo e costruiamo questa risposta democratica, passerà la prospettiva della “fusione” con Craxi (quale che la si voglia chiamare); e ciò porterà a una nuova e più grave scissione (o abbandono) e quindi alla pratica dissoluzione della principale forza di opposizione esistente (ed esistita) in Italia. Dubbi possono ancora essere i tempi e le tappe, ma in nodi si vedono. E già a Rimini questo era il sottofondo.
Perché non discutiamo abbastanza di questo? E se è giusta o no questa analisi, come andare a questa prova, e con quali nessi, soggetti, alleanze anche sul terreno internazionale… Secondo me, non riusciamo ancora a farlo anche perché questa parte delle nostre forze che non si è separata ancora è presa dalla “nostalgia” (nel senso forte di questo termine) e cioè non vuole prendere atto in pieno delle “catastrofi” (e delle innovazioni) avvenute o trae da questo una sospensione che può mutarsi in disperazione o addirittura in disgregazione. La conseguenza è che l’ottica resta ancora inchiodata soprattutto sull’interno di questo PDS, e poco sulla vasta area dei processi reali.
Infine, il “verticismo” di cui parli. Accetto la tua critica, sinceramente. Ma con alcune precisazioni (o letture), fuori dalle quali invece non sono d’accordo. La prima – la più semplice –: ritengo che ci siano momenti in cui – nelle società moderne, in cui viviamo – l’atto della decisione ha i suoi tempi e i suoi luoghi: e ambedue questi aspetti non possono essere elusi. Da quello che ho scritto in questi anni puoi comprendere – spero – il senso di queste parole. Io “movimentista” accanito (e anche ostinato difensore del momento rappresentativo-parlamentare, anche oltre il “lecito”) penso però che a questi momenti di “centralizzazione” anche le nuove forme della politica non possono sottrarsi. E certo non potevamo reggere noi in questo duro anno in questa difficile battaglia di aspra opposizione, dove spesso qualcuno di noi ha dovuto decidere sul campo, senza – in certi momenti – avere modo nemmeno di consultare e chiedere consiglio. Anche al congresso ci sono stati alcuni di questi momenti.
Sì, quanti errori, quante improvvisazioni, quante discussioni fatte male! Ma noi dovevamo anche “improvvisare” posizioni e schieramenti; e penso c’è stato, sì, “verticismo”. Quindi accetto la tua sollecitazione critica, ma in questo quadro reale. Io soprattutto l’accetto forse in un senso particolare: che siamo stati troppo “fronte del no” ed abbiamo esitato a selezionare i nostri sì, e quindi a confrontarci fino in fondo e correre anche il rischio della divisione fra di noi, che poi alla fine c’è stata lo stesso.
Ma il senso di questa mia risposta è che tutta la prospettiva della nostra azione va collocata con più forza nel quadro delle forze in movimento: nel Paese e nella situazione internazionale. In quell’arena bisognava stare. E invece vedo – non mi riferisco assolutamente a te – tanti compagni fissi troppo al nostro “interno”, e quindi chiusi in questa dimensione. Anche questo, caro Cesare, è un difetto grave di “verticismo”, di vecchio burocratismo: e poi non prende atto delle mutazioni enormi. Restando così, per me è la sconfitta peggiore.
Caro Cesare, scusa la fretta e la passionalità di questa risposta. Sai quanto mi preme il tuo consiglio. Sai quanto è importante il dialogo con te. Un abbraccio,
Pietro
(Tratto da: Pietro Ingrao, Cesare Luporini, Due lettere del 1991, in «Critica marxista», n. 2-3, 2020).
Inserito il 05/05/2023.