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Spesso si parla della cosiddetta “Primavera di Praga” a partire dalla sua conclusione, cioè dall’estate 1968, da quel tragico 21 agosto in cui le truppe dell’Unione Sovietica e di altri quattro Paesi del Patto di Varsavia intervennero per “normalizzare” una situazione che essi ritenevano stesse per sfuggire al controllo del Partito Comunista Cecoslovacco.
Noi invece partiremo proprio dalla primavera del 1968 e anche, magari, dall’estate 1967, quando al IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi si levarono le prime voci che chiedevano sostanziali riforme nella società cecoslovacca.
Presentiamo una ricostruzione storica di Donatella Sasso per la rivista online «East Journal» delle vicende che portarono nel 1968 alla nomina di Alexander Dubček a Primo segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e all’avvio di una serie di riforme nella società della Repubblica Socialista Cecoslovacca. Negli strati intellettuali e in larghi settori della società si sentiva l’esigenza di un vero rinnovamento del sistema socialista dopo le rigidità imposte da una dirigenza del PCC che non aveva del tutto digerito gli esiti della destalinizzazione. Ci provarono i nuovi dirigenti comunisti cecoslovacchi con a capo Dubček, ma l’intervento militare di cinque Paesi del Patto di Varsavia stroncò quelle speranze di riformare il sistema senza tuttavia uscire dal socialismo, dalla proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.
L’esperienza della Primavera cecoslovacca fu seguita con grande interesse e partecipazione da tutta la comunità comunista del mondo. Anche insigni studiosi marxisti videro nell’esperimento praghese molte potenzialità per un rinnovamento globale del socialismo. I comunisti italiani stessi seguirono da vicino quegli eventi, fino alla decisa condanna dell’intervento armato. Dell’interesse del PCI per le riforme del sistema socialista promosse dal PCC di Dubček testimoniano anche le pagine del settimanale del PCI «Rinascita», che, per esempio, nel suo numero 13 del marzo 1968 pubblicò le opinioni di due grandi esponenti del marxismo europeo: l’austriaco Ernst Fischer e l’ungherese György Lukács. Riportiamo integralmente i loro interventi. Fischer scrisse appositamente per «Rinascita», mentre di Lukács il settimanale comunista riprodusse un’intervista rilasciata al settimanale cecoslovacco «Kulturní novyni» («Giornale culturale»).
Chi scrive questa breve introduzione al materiale che via via andrà accumulandosi sul sito non lo fa a cuor leggero: per me questa vicenda segna l’inizio della fine dell’esperienza del socialismo reale, esperienza che – pur da una certa distanza geografica – mi ha riguardato in prima persona per molti anni, avendo stretto rapporti amichevoli con persone impegnate sull’uno e sull’altro fronte, persone convinte sinceramente della giustezza delle proprie posizioni. Ma forse è più giusto che io dica che la vicenda cecoslovacca (e più in generale del socialismo reale) ancora mi riguarda. E ancora mi addolora.
Leandro Casini
Alexander Dubček di fronte ai lavoratori di una grande fabbrica.
Autore della foto: ČTK
1° Maggio 1968.
Autore della foto: ČTK
di Donatella Sasso
Come nacque e come si sviluppò quel processo politico e sociale che nel 1968 portò al potere in Cecoslovacchia Alexander Dubček e all’ordine del giorno della società tutta una serie di riforme volte a dare al socialismo un volto nuovo, più libero, democratico, partecipato.
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Breve storia della “Primavera di Praga”
1. Prologo e sviluppo
di Donatella Sasso
L’alba della Primavera di Praga
Verso la fine del giugno 1967 si tenne a Praga il IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Composta per tre quarti da comunisti della prima ora, già attivi durante la guerra e sostenitori convinti degli ideali del Partito, si espresse apertamente e per la prima volta contro le politiche del primo segretario e Presidente della Repubblica Antonín Novotný e contro la gestione degli affari culturali da parte di Jiří Hendrych.
La Cecoslovacchia era fra i paesi del blocco sovietico che meno aveva accolto i venti riformatori seguiti alla morte di Stalin e alle prese di posizione di Chruščëv, ma undici anni dopo il XX Congresso del Pcus, le contraddizioni di uno stalinismo fuori dal tempo ed estraneo alle istanze sociali di riforme iniziavano a emergere. Scrittori noti come Ludvík Vaculík e Milan Kundera espressero l’esigenza di mutamenti radicali in accordo con le tradizioni democratiche del paese. Un tale affronto a Novotný e Hendrych fu considerato gravissimo, tanto che il settimanale dell’Unione degli scrittori «Literární noviny» venne messo a tacere con l’espulsione degli oppositori e l’insediamento di un gruppo di fedeli giornalisti che, scortati dalla polizia, si insediarono nella redazione.
Fra le poche voci critiche nei confronti di questi provvedimenti vi fu quella del primo segretario del Partito comunista slovacco, Alexander Dubček. Da anni in conflitto con Novotný sui temi della libertà di stampa e di espressione, sulla riabilitazione delle vittime dello stalinismo e sulla parità tra cechi e slovacchi, Dubček comprese che stavano maturando i tempi per l’avvio di una serie di riforme strutturali. Novotný, seppure involontariamente, dovette incassare, in quell’occasione, la sua prima sconfitta; distratto da altre questioni, dimenticò, o evitò, di mettere in sordina l’equivalente slovacco del settimanale degli scrittori, «Kultúrny život», sul quale poterono continuare a scrivere i giornalisti cechi espulsi. Una bella beffa per il potere centrale che giungeva dalla periferia dello stato.
Tra il 30 e il 31 ottobre fu convocato il Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco. Dubček ne approfittò per rivendicare, pur senza eccessi, cambiamenti sostanziali nel modo con cui il Partito dirigeva la società, mettendo in evidenza l’errato atteggiamento verso la Slovacchia; già nel 1963 aveva lottato contro le accuse di “nazionalismo borghese” rivolte al Partito slovacco. Per la prima volta usò l’espressione “Programma d’azione” per indicare la serie di riforme che intendeva proporre. Dopo un intenso dibattito, durante il quale venne anche criticato il “cumulo di funzioni” nella persona di Novotný, la maggioranza ne respinse la risoluzione, accreditando di fatto l’ala riformista.
Nonostante questa apparente vittoria, Dubček, il 5 dicembre, fu convocato di fronte a una commissione incaricata di indagare sul suo presunto “nazionalismo borghese” e addirittura sulla sua “deviazione nazionalistica”, crimine che, con sfumature differenti, veniva ripescato ogni qual volta un’istituzione o un individuo uscivano dai binari dell’ortodossia comunista. La Commissione e il Partito respinsero le accuse, mentre Novotný iniziava a sentire la terra tremare sotto i propri piedi, tanto che iniziarono a girare voci sulla sua volontà di mettere in atto un colpo di Stato militare per difendere la sua sempre più fragile posizione. Non avvenne nulla, forse fu lo stesso Novotný a dissuadere gli alti ufficiali dal muovere i carri armati contro il nuovo corso che stava avanzando e che neanche la visita di Brežnev a Praga, l’8 dicembre, riuscì a fermare.
Il 5 gennaio del 1968 la Presidenza e il Comitato consultivo del Partito proposero la candidatura di Dubček al Comitato centrale che, nello stesso giorno, lo nominò primo segretario. Già a metà gennaio furono individuati i commissari incaricati di redigere il “Programma d’azione”, mentre il nuovo segretario prese contatti con i suoi omologhi in Polonia e Ungheria in quali, nonostante le timide aperture nei rispettivi paesi, non parvero troppo entusiasti delle scelte cecoslovacche. Sulla propria pelle, nel 1956, avevano assaggiato la violenza della repressione armata ed erano ancora molto diffidenti.
Dubček, però, con alcune cautele e nonostante qualche ingenuità, ammise anni dopo che l’ipotesi di un’invasione sovietica non lo sfiorò nemmeno, andava avanti con le sue riforme. Ai primi di marzo revocò la legge sulla censura del 1966, il 14 dello stesso mese presentò una proposta di riabilitazione generale delle vittime della repressione stalinista, mentre avanzava richieste di revisione della Costituzione del 1960 e alla città di Bratislava restituiva il titolo di capitale della Slovacchia.
Il 28 marzo si aprirono i lavori del Comitato centrale che condussero a due notevoli risultati: le dimissioni di Novotný dalla Presidenza della Repubblica (sarà sostituito due giorni dopo da Ludvík Svoboda) e l’approvazione senza riserve del “Programma d’azione”. Pur non toccando temi scottanti di politica estera, né minando il monopartitismo, il programma di riforme era assolutamente rivoluzionario. Prevedeva libertà di riunione e associazione (garantite formalmente dalla Costituzione, ma mai attuate), libertà di stampa e movimento; azioni di riparazione delle ingiustizie passate; federalizzazione della Repubblica e restaurazione delle istituzioni slovacche; legalizzazione delle piccole imprese oltre che decentramento e autonomia imprenditoriali per le direzioni aziendali.
La Primavera era sbocciata sfoggiando fiori bellissimi, ma che rischiavano di illudere e stordire allo stesso tempo. I giovani indossavano abiti occidentali, le band musicali si moltiplicavano, la Nová Vlna, la Nouvelle Vague cecoslovacca, produceva film apprezzati anche oltre cortina, nascevano i primi programmi televisivi e radiofonici che incoraggiavano il pubblico a intervenire.
Dubček, pur percependo il gelo di Mosca e l’ostilità dei compagni di Partito più conservatori, non aveva perso fiducia in quello che considerava il nucleo fondante del comunismo: la giustizia sociale, mentre era deciso a porre fine ai metodi dittatoriali, settari e burocratici del Partito.
I cittadini sembravano tutti con lui e le energie riformiste parevano in crescita esponenziale. Tutto ciò non sarebbe bastato, nonostante la promettente primavera.
Primo maggio 1968, la Primavera di Praga tra speranze e intimidazioni
Secondo i piani di Dubček e dei suoi stretti collaboratori l’attuazione del “Programma d’azione” si sarebbe potuto, e dovuto, realizzare tra gli inizi di aprile del 1968, quando fu approvato dal Comitato centrale, ed entro il XIV Congresso del Partito, previsto per il 1970.
Il grande consenso popolare, fortemente motivato dalle nuove libertà concesse, si alternava ai venti gelidi che soffiavano con uguale intensità sia da Mosca e da altri paesi satellite sia all’interno del Partito cecoslovacco.
Il 23 marzo, cinque giorni prima dell’avvio delle riunioni del Comitato centrale, Dubček era stato convocato a Dresda, su invito di Brežnev, per un incontro con gli esponenti dei paesi dell’Europa orientale su temi generici legati alla cooperazione economica. Giunto con la sua delegazione nella Germania Est Dubček aveva subito compreso che le finalità dell’invito erano tutt’altre rispetto a quelle ufficiali. In primo luogo notò l’assenza della Romania e degli osservatori jugoslavi, solitamente presenti a incontri di quel tipo, ma soprattutto si rese conto che i temi economici non erano in programma. Si trattò, in realtà, di un vero e proprio processo a Dubček e alle sue proposte riformiste. Il tribunale dei Cinque (Ungheria, Polonia, Bulgaria, Germania Est e Unione Sovietica) lo accusò di aver perso il controllo sulla stampa e sull’opinione pubblica e di essere a un passo dalla “controrivoluzione”.
Le velate intimidazioni non ebbero ripercussioni immediate, Dubček rigettò cortesemente le accuse e ai primi di aprile il Comitato centrale, come noto, approvò il Programma d’azione. Seguirono le nuove nomine: Svoboda alla Presidenza della Repubblica, Smrkovský alla presidenza dell’Assemblea nazionale, Černík alla carica di primo ministro.
I lavori finalizzati alle riforme furono avviati immediatamente, ma altrettanto immediatamente furono ostacolati da ingerenze moscovite: già il 14 aprile Brežnev inviava una lettera carica di preoccupazione per l’evoluzione riformista. Nel frattempo il maresciallo sovietico Jakubovskij informò il Primo segretario che era sua intenzione anticipare a giugno le già previste manovre militari sul territorio cecoslovacco, la cui urgenza parve molto sospetta. Assediato da timori reali e prevaricazioni costanti, ma allo stesso tempo sostenuto da buona parte dei suoi collaboratori e dei cittadini, Dubček iniziò a premere affinché il XIV Congresso fosse anticipato di due anni. Nella seconda metà di aprile, come previsto dallo statuto del Partito, si tennero le conferenze delle organizzazioni regionali e provinciali in cui furono eletti i delegati al Congresso; la maggioranza si espresse favorevolmente a convocarlo entro l’anno e il 1° giugno il Comitato, all’unanimità, fissò la data: 9 settembre 1968.
A metà luglio Dubček ricevette un invito per una riunione a Varsavia; le sue condizioni, non accolte, furono chiare fin da subito: non sarebbe andato se non fossero state invitate anche Romania e Jugoslavia, gli unici due paesi chiaramente vicini al suo programma. Così non fu e i Cinque si riunirono con il preciso scopo di condannare le riforme di Praga quali opera di forze controrivoluzionarie; il comunicato conclusivo fu inviato a Praga e sarà ricordato come la famigerata “lettera da Varsavia”. Il 19 luglio il Comitato approvò la risposta che fu pubblicata su tutti i giornali cecoslovacchi a fianco del comunicato, che i Cinque diffusero ampiamente, dimenticando però la replica praghese. Come avrebbe scritto anni dopo, Dubček, consapevole del sistema antidiluviano contro cui si stava scontrando, aveva compreso che: «L’ufficio politico del Pcus teneva insieme un impero immenso, che Stalin aveva eretto, e vegliava affinché in nessun angolo di esso si formasse un’opposizione».
Mentre gli alti vertici si giocavano le sorti della Cecoslovacchia, la società civile esplodeva letteralmente nei colori di una primavera reale e simbolica che pareva inarrestabile. La televisione diretta da Jiří Pelikán offriva appuntamenti quotidiani di approfondimento e di libera informazione, lo scrittore Ludvík Vaculík aveva pubblicato su «Literární listy», il nuovo giornale dell’Unione degli scrittori succeduto a «Literární noviny», il Manifesto delle Duemila parole, una dichiarazione di adesione alla politica di riforme, ma anche un’esortazione a correggere alcune idee del passato e a innovare in maniera ancora più coraggiosa, Nascevano le prime libere associazioni. In particolare il Kan (Club degli apartitici impegnati) e il K231, dal paragrafo del Codice utilizzato dagli stalinisti per reprimere arbitrariamente gli oppositori, composto da ex carcerati politici non comunisti. Nessuno dei loro membri, così come nessuno degli intellettuali finalmente liberi di esprimersi sui mezzi di comunicazione, si abbandonò a un superficiale anticomunismo. La gioia per il nuovo corso prevalse su facili rivalse e premature rivendicazioni. Certo non mancarono ingenuità, eccessi di verbalismo e di entusiasmi quasi infantili; in alcuni casi si respirò un velato antisemitismo, che in quegli stessi mesi stava invece dilagando in Polonia e che avrebbe provocato l’esodo di numerosi cittadini di origine ebraica.
Fu comunque un diffuso senso di speranza a prevalere su tutto il resto. L’apice positivo di questo clima di rinnovamento si manifestò durante le tradizionali celebrazioni del 1° Maggio. Per la prima volta in un paese sotto l’influenza sovietica non si videro masse di uomini e donne marciare in file ordinate, ma cittadini accorsi spontaneamente dietro a striscioni autoprodotti con slogan ironici, alcuni critici, molti con tonalità divertenti. Persino il Kan e il K231 parteciparono compatti, innalzando scritte di appoggio alle politiche riformiste.
Protagonista indiscusso di quei giorni entusiasmanti fu ovviamente Dubček, un politico assolutamente nuovo nel panorama del grigiore del socialismo reale. Sorridente, mite, ma anche determinato, elegante, raffinato, ma ugualmente vicino a tutti i cittadini, incontrava il favore delle persone semplici come degli intellettuali. Celebre quanto generoso rimane il ritratto che di lui tracciò lo scrittore Bohumil Hrabal, giocoliere delle parole, incantatore sopraffino: «Un giovane che capisce e sa far valere l’ironia e l’arguzia, un giovane che si veste con l’accuratezza di un damerino, che ha sempre un fazzoletto bianco ben piegato, la cravatta e il ciuffetto pettinato come Golonka (un noto giocatore di hockey), un giovane che sa saltare dal trampolino a capofitto nell’acqua, un giovane il quale sa che il destino e lo sviluppo del ventesimo secolo dipendono dalla rivolta e dalla speranza, dall’individualità creativa e dalle masse insorte».
La calda estate del 1968
Le truppe sovietiche, giunte in Cecoslovacchia in giugno con tanta premura e in largo anticipo sulla data prevista per le esercitazioni da tempo concordate, tardavano in maniera irritante a lasciare le loro postazioni. Nessuna minaccia aperta, solo un sottile senso di insicurezza che Mosca intendeva diffondere a Praga. A metà luglio una telefonata anonima alla polizia denunciò la presenza di un nascondiglio sotto il cavalcavia di un’autostrada, dove furono trovati venti mitra americani e le relative munizioni. La stampa sovietica e quella della Germania orientale non tardarono a lanciare una campagna allarmistica sulle manovre statunitensi «per armare la controrivoluzione cecoslovacca». Durante le indagini si scoprì che il grasso usato per lubrificare i mitra era di origine sovietica, come rivelò a Dubček il ministro degli Interni Pavel, e che probabilmente si trattava di materiale bellico introdotto nel paese da agenti sovietici per scatenare il panico, ma anche per giustificare, a posteriori, eventuali interventi.
Alle insofferenze e alle minacce contro il Programma d’azione, sia estere sia interne, si alternavano però altrettante e ben più visibili attestazioni di vicinanza.
Il Primo segretario riceveva quotidianamente lettere di adesione alla sua politica e di stima personale provenienti dalle realtà più disparate: associazioni di veterani, redazioni, sindacati, fabbriche, reparti militari. Il 26 luglio su «Literární listy», in edizione straordinaria, comparve un documento di solidarietà al Comitato centrale, redatto dallo scrittore Pavel Kohout e sottoscritto da centinaia di artisti, registi, studenti, scrittori, medici, compositori, architetti. Contemporaneamente alla pubblicazione, in diversi punti di Praga, si formarono code di migliaia di cittadini desiderosi di apporre la propria firma al messaggio e di certificare così la propria solidarietà. Il testo diverrà noto come “messaggio delle quattro esse” per le richieste contenute: Socialismus, Spojenectví (Alleanza), Suverenita (Sovranità) e Svoboda (Libertà).
L’entusiasmo si mescolava a una tensione costante, che si dipanava nell’ansia di un imminente attacco sovietico. Il 22 luglio giunse alla redazione di «Literární listy» l’affannosa telefonata di qualcuno che, in assoluta buona fede, annunciava terrorizzato l’avanzata delle truppe sovietiche verso la cittadina di Cheb; decine di lettere dello stesso tenore giunsero alle redazioni dei giornali in quelle giornate d’estate. Non si trattava solamente di una diffusa allucinazione collettiva, ma della comprensibile paura di un pericolo reale, che non mancherà di concretizzarsi di lì a breve.
Intanto Dubček ricevette l’ennesimo sollecito da Brežnev per un incontro bilaterale. Ancora scosso per le accuse contenute nella Lettera da Varsavia, decise di accettare a patto che si trovassero in territorio cecoslovacco, proponendo la città di Košice nella Slovacchia orientale, vicino al confine. Due giorni dopo arrivò la controproposta di Mosca: i colloqui si sarebbero tenuti a Čierna nad Tisou, alla frontiera fra i due paesi, una piccolissima località dove i binari dei treni erano a scartamento largo come quelli sovietici. Dubček replicò che si trattava di una sede inadatta, priva di alloggi e luoghi di incontro adeguati, ma Brežnev assicurò che si sarebbero arrangiati.
Ne scaturì una situazione paradossale, che avrebbe reso felice qualsiasi sceneggiatore cinematografico amante del surrealismo. I colloqui, che si tennero nel club dei ferrovieri presso la stazione, si aprirono il 29 luglio e durarono alcuni giorni. I sovietici arrivavano in treno la mattina e ripartivano la sera. I lavori non conducevano a nessun passo in avanti né per gli uni né per gli altri, ma la sera, quando i sovietici se ne andavano, i ferrovieri esprimevano il proprio entusiastico sostegno al Primo segretario cecoslovacco. L’ultimo giorno Brežnev si finse malato, Dubček lo trovò in pigiama nel suo vagone: voleva quanto prima un incontro con gli altri quattro paesi del Patto di Varsavia. Dubček accettò di incontrarli il 3 agosto a Bratislava, non richiese la presenza di Jugoslavia e Romania, a patto che non si ripetessero gli attacchi frontali di Varsavia. Brežnev rispose con un laconico: «Penso che possiamo farlo».
Quando giunsero a Bratislava i convenuti trovarono una bozza di comunicato congiunto già preparata dai sovietici, in quel linguaggio burocratico e stereotipato che i russi chiamavano sarcasticamente “lingua di legno”. Fortunatamente venne sostituita da una seconda versione, in cui mancavano del tutto i riferimenti alla condanna di Varsavia. Dubček chiese che si aggiungesse una frase sull’autonomia dell’evoluzione interna dei singoli paesi. La proposta fu oggetto di accese discussioni e alla fine si convenne su due passi di una certa rilevanza: in uno si affermava che ogni partito comunista «risolve in maniera creativa i problemi dell’ulteriore sviluppo del socialismo» e nell’altro si ribadivano i principi «dell’eguaglianza, del rispetto della sovranità, dell’indipendenza statale e dell’intangibilità territoriale». Una terza frase avrebbe, invece, consentito ai propagandisti sovietici di legittimare l’invasione di agosto, ma si trattava di sottigliezze linguistiche, non di asserzioni perentorie: «l’appoggio, la difesa e il consolidamento (delle conquiste degli Stati del blocco) sono un dovere internazionalista».
In apparenza, a Bratislava la Cecoslovacchia riportò una netta vittoria e questo le concesse ancora due settimane di relativa serenità. Certo, allora nessuno poteva immaginare che il 18 agosto, quando i Cinque decisero l’invasione, il documento sottoscritto a inizio del mese sarebbe stato manomesso, aggiungendo tre passi in cui il Partito cecoslovacco dichiarava che avrebbe reintrodotto la censura, messo fuori legge le associazioni e mutato alcune cariche istituzionali.
Il 9 giunse in visita a Praga Tito, accolto da un’immensa folla festante, che dichiarò la sua totale adesione alla politica di Praga; sei giorni dopo arrivò Ceauşescu, sicuramente non un riformatore né uno spirito democratico, ma la sua vicinanza ebbe un peso maggiore, in quanto la Romania era membro del Patto di Varsavia.
Dubček, che, nonostante il periodo estivo, continuò a lavorare assiduamente, in particolare alla preparazione del Congresso, si ritagliò pochissimi momenti di svago. In un giorno di giugno si recò in una piscina pubblica, dove fu attorniato da giovani, adulti e bambini che volevano parlagli, ascoltarlo, avere un suo autografo.
Uomo sportivo da sempre, si concesse un bagno, ma soprattutto un tuffo spettacolare, degno di un ventenne, che alcuni scatti fotografici si affrettarono a immortalare. Quello che si mostrò in quei caldi giorni d’estate come un glorioso balzo nel futuro, avrebbe a breve rivelato l’altra sua effigie, il negativo di un’istantanea di gioia, palesandosi come un drammatico lancio nel vuoto.
Donatella Sasso
(Nel 1918 «East Journal» ha dedicato al 50° anniversario della cosiddetta “Primavera di Praga” una serie di articoli per ricostruire storicamente quel “nuovo corso” del socialismo cecoslovacco; qui i link alle prime tre puntate, che abbiamo ripreso sopra: https://www.eastjournal.net/archives/88968; https://www.eastjournal.net/archives/89803; https://www.eastjournal.net/archives/91257).
Inserito il 31/07/2025.
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Si tratta di un avvenimento importante, che viene considerato come l’atto iniziale della cosiddetta “Primavera di Praga”.
I rapporti tra il potere comunista e gli scrittori cecoslovacchi si acuirono rapidamente alla fine degli anni '60. A ciò contribuì, tra l'altro, la posizione ufficiale della Cecoslovacchia sul conflitto arabo-israeliano (la "Guerra dei sei giorni"; la Cecoslovacchia si schierò con gli arabi contro Israele), contro la quale protestarono gli scrittori Arnošt Lustig e Jan Procházka. La riunione del gruppo di partito dell'Unione degli Scrittori Cecoslovacchi evidenziò già forti opinioni antagoniste tra gli scrittori iscritti al partito e i rappresentanti del Comitato Centrale del Partito Comunista di Cecoslovacchia.
La sessione del congresso fu aperta il 27 giugno 1967 da Milan Kundera, il cui intervento, che rifletteva sul significato della cultura di una piccola nazione, fu in seguito valutato dagli ideologi del partito come fonte di ispirazione per ulteriori discorsi critici. Le tensioni raggiunsero l'apice quando Pavel Kohout lesse una lettera dello scrittore sovietico Aleksandr Solženicyn, che la dirigenza comunista voleva nascondere alla base dell'Unione. Il membreo della segreteria del partito, Jiří Hendrych, non riuscì a gestire la situazione e abbandonò la riunione.
Anche il secondo giorno di riunione fu ricco di discorsi critici. Il contributo di Ludvík Vaculík fu particolarmente acuto, evidenziando le contraddizioni tra la Costituzione e l'operato degli organi del partito. Allo stesso tempo, espresse dubbi sul possibile ulteriore sviluppo positivo dell'attuale forma di socialismo; il suo discorso ricevette un fragoroso applauso.
La reazione delle autorità non si fece attendere: il settimanale «Literární noviny» fu ritirato dall'Unione degli scrittori cecoslovacchi e trasferito al Ministero della Cultura e dell'Informazione. Gli scrittori critici Ivan Klíma, A. J. Liehm e Ludvík Vaculík furono espulsi dal Partito Comunista Cecoslovacco. Pavel Kohout ricevette un rimprovero con ammonizione, Jan Procházka fu rimosso dal suo incarico di candidato al Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco e fu aperta un'indagine disciplinare contro Milan Kundera. Tuttavia, i rappresentanti del partito in quel momento non avevano più la forza o il tempo per una persecuzione più dura.
(Da “Cronaca della nostra vita 1967”; Televisione Cecoslovacca).
Da «l’Unità» del 30 giugno 1967.
Da «l’Unità» del 1° luglio 1967.
Ludvík Vaculík (1926-2015).
Un intervento dirompente al Congresso degli scrittori
di Ludvík Vaculík
Uno fra gli interventi che più destarono scandalo al IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi fu quello dello scrittore e giornalista Ludvík Vaculík, membro del Partito Comunista, che denunciò il carattere meschino e antidemocratico degli organismi dirigenti della Repubblica Socialista Cecoslovacca.
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Discorso sul potere
di Ludvík Vaculík
Prima parte
Compagne e compagni, colgo quest’occasione per dirvi cose che voi già sapete anche senza che io venga a dirvele, perché avrei da aggiungervi un paio di proposte concrete. Nella proposta di Risoluzione si scrive che scopo del sistema socialista è quello di realizzare la reintegrazione dell’uomo, al quale è garantito lo status di cittadino. Questa parola, cittadino, era un tempo una gloriosa parola rivoluzionaria. Essa indicava un uomo sul quale nessuno poteva disporre di un potere incontrollato, un uomo che poteva tutt’al più venire astutamente governato in modo tale che avesse l’impressione di governarsi quasi da solo. Riuscire a fare in modo che i governati nutrissero una tale impressione costituì lo scopo di un’attività particolare, altamente specializzata, che si chiama politica. In realtà un cittadino che si governi da solo è stato e sarà sempre un mito.
La critica marxista mise in luce i rapporti fin’allora inesplorati tra il potere al governo e la proprietà dei mezzi di produzione. Questa scoperta, insieme alla nuova interpretazione della storia dell’umanità come storia di lotte di classe, preparò il terreno alla rivoluzione sociale, dalla quale si attendeva anche una nuova soluzione del secolare problema del potere. Da noi la rivoluzione sociale ha trionfato, ma il problema del potere continua ad esistere. Sebbene abbiamo afferrato il toro per le corna e continuiamo a reggerlo, tuttavia c’è sempre qualcuno che ci prende a calci nel sedere e non la vuol smettere.
Si direbbe che il potere abbia delle sue proprie, ineluttabili leggi di sviluppo e di comportamento, chiunque sia ad esercitarlo. Il potere è un particolare fenomeno umano originato dal fatto che già nell’orda primitiva ci doveva essere qualcuno che comandasse, e che perfino nella più nobile società di spiriti eletti ci deve pur sempre essere qualcuno che riassuma i risultati della discussione e dichiari ciò che è necessario fare. Il potere è una situazione specificamente umana. Colpisce governanti e governati e minaccia la salute di entrambi. Una esperienza millenaria del potere ha indotto l’umanità a sforzarsi di determinare certe regole di esercizio. È questo appunto il sistema della democrazia formale, che prevede impegni reciproci, interruttori di controllo e scadenze limitative. Tuttavia sulle leve di potere sì chiaramente definite fanno pressione gl’interessi di persone che detengono la forza bruta fondata sul possesso di capitali, sul possesso delle armi, su parentele vantaggiose, sul monopolio della produzione, ecc. Dunque il rispetto delle regole non è una garanzia contro il male, e una leggera deformazione di una simile constatazione può addirittura condurre alla triviale affermazione che le regole della democrazia formale provocano il male. Tuttavia queste regole, di per se stesse, non possono definirsi né capitalistiche, né socialiste, non dicono cosa bisogna fare, bensì dicono in che modo si deve giungere a una decisione su ciò che si deve fare. Si tratta di una invenzione umana, la quale in sostanza rende più difficile il governare. Protegge i governati, ma inoltre, quando il governo cade, lo salva dalla fucilazione. Il mantenimento di questo sistema di democrazia formale non porta come conseguenza lo stabilirsi di governi troppo solidi; determina soltanto la convinzione che il nuovo governo potrà essere migliore. Dunque il governo cade, ma il cittadino si rinnova. Al contrario, là dove il governo rimane al potere a lungo è il cittadino a decadere. E dove va a cadere? Non farò il gioco dei nemici dicendo che cade sul patibolo. Questo càpita soltanto a qualche decina o qualche centinaio di cittadini.
Ma anche gli amici sanno benissimo che questo è sufficiente, giacché ciò porta come conseguenza la caduta di forse tutto un popolo nella paura, nell’indifferentismo politico, nella rassegnazione civile, nelle futili cure e nei meschini desideri di ogni giorno, nella dipendenza da padroni di statura sempre più meschina, insomma in una sudditanza di tipo così nuovo e insolito che non siete neppure in grado di spiegarne la natura a un visitatore che provenga da un paese straniero. Penso che qui da noi non ci siano ormai più cittadini. Potrei dimostrare la verità di quest’affermazione con esempi tratti da anni di lavoro nelle redazioni dei giornali e alla radio. Citerò un esempio recente, che ci tocca da vicino. Questo congresso non si è tenuto quando i membri di questa organizzazione hanno deciso di tenerlo, bensì quando il padrone, dopo aver soppesato le proprie preoccupazioni, ha concesso amabilmente la sua approvazione. In compenso egli si aspetta – vi è ormai abituato da una esperienza millenaria – che renderemo omaggio alla sua dinastia. Propongo di non rendergli omaggio. Propongo di esaminare il testo della Risoluzione e di cancellare tutto ciò che puzza di anima servile. In quei popoli che hanno saputo fondare e sviluppare la loro cultura nella critica del potere al governo, gli scrittori non sono certo costretti a rinunciare ai doveri di una educazione civica rettamente intesa.
Propongo che tutti coloro che prenderanno d’ora in poi la parola dicano anche in che modo, secondo loro, si potrebbero risolvere le questioni che li preoccupano. Mettiamoci insomma a giocare sul serio «ai cittadini», giacché ce ne hanno dato il permesso e anche questo giardinetto di giochi, e per il tempo che ci resta comportiamoci come se fossimo davvero indipendenti e maggiorenni.
Parlo qui come cittadino di uno stato che non voglio mai abbandonare, ma nel quale non posso vivere felice. Parlo di questioni che riguardano tutti i cittadini, ma vengo a trovarmi in una situazione delicata. Sono allo stesso tempo membro del partito comunista e pertanto non debbo e non voglio parlare in questa sede di questioni che riguardano il partito. Però sta di fatto che da noi ormai non esiste quasi più nulla che, a un certo livello della discussione, non diventi una questione che riguarda il partito. Che mi resta da fare dal momento che entrambi, il mio paese e il mio governo, hanno fatto di tutto affinché le loro faccende coincidessero?
La mia opinione personale è che ciò sia svantaggioso per entrambi. Inoltre ciò pone in una situazione difficile noialtri cittadini qui raccolti. I membri del partito sono tenuti a non parlare della maggior parte dei problemi più importanti che si trovano in questo momento sul tappeto davanti a quelli che non sono membri; questi ultimi d’altra parte non hanno accesso alle riunioni che costituiscono l’unica sede dove abbia un senso parlarne; quindi tanto gli uni che gli altri debbono subire una limitazione di una libertà fondamentale: parlare tra di loro da pari a pari. Forse ciò è addirittura in contrasto con l’articolo n. 20 della nostra Costituzione. Ma io mi limiterò disciplinatamente al campo delle questioni che riguardano i cittadini e parlerò unicamente del governo; soltanto qualora questo termine non risultasse adatto userò l’espressione «circoli di potere». È una espressione antica e provata, che nonostante la sua apparente imprecisione si rivela più esatta di tante altre. Da tempo immemorabile serve per indicare persone che in pratica governano, a prescindere dalle cariche da loro nominalmente occupate, tra le quinte dei governi democratici; persone il cui potere ha origine da altre fonti: dalla ricchezza, da parentele influenti, dal monopolio della produzione o dei servizi, dal possesso di armi e così via. In questa espressione viene compreso anche il potere di circoli e massonerie chiuse, il potere che deriva dal ricevere un’inattesa comunicazione, di notte, per mezzo di un corriere speciale, dall’aver captato un paio di frasi significative nelle anticamere o nei corridoi, dall’esser venuto a conoscenza di accordi stretti prima ancora di entrare nella sala delle conferenze o di leggi varate prima ancora di arrivare in parlamento. I nostri due popoli erano già stati preparati al socialismo da tutto il corso della loro storia. Dopo l’ultima guerra questa nazione è risorta come un organismo politico che aveva ormai come unico compito quello di organizzare il socialismo. Ha lasciato passare dei momenti importanti, ma in realtà dopo l’anno 1945 nessun altro programma è stato posto sul tappeto. Uno degli attributi postulati come propri dal nuovo governo era l’unità di governanti e governati, anzi la loro identità: il popolo e il governo avanzano insieme.
Ma ora voglio tornare a parlare di quel che penso della natura di ogni potere: il suo sviluppo e il suo comportamento è guidato da proprie leggi interne, leggi che non possono venire mutate né da un’individualità al governo né da una classe al governo, giacché si tratta semplicemente di una legge del comportamento umano in una situazione determinata: la situazione di chi sta al governo. La prima legge di ogni potere è di voler esistere più a lungo possibile. Esso si riproduce sotto un aspetto sempre più preciso. In secondo luogo esso tende ad omogeneizzarsi sempre più, a purificarsi dai corpi estranei, finché ogni sua parte diventi fedele immagine dell’intero, finché tutte le parti divengano reciprocamente intercambiabili, cosicché una particella periferica possa in pratica sostituirsi al centro, e anche le singole cellule periferiche possano venir sostituite le une alle altre senza che succeda nulla, senza che il funzionamento dell’apparato subisca alterazione di sorta; in realtà infatti esso non deve reagire alle variazioni dell’ambiente, né all’altezza sul livello del mare, né alla particolare composizione della popolazione, né a null’altro, cioè per meglio dire: deve reagire sempre in uno stesso senso, elaborando a suo uso e consumo situazioni e ambienti diversi in modo da renderli identici fra loro, cosicché sia sufficiente applicare a tutti uno stesso, generalissimo modello. Il potere pertanto si rende indipendente, il che costituisce un’ulteriore caratteristica del suo comportamento, non pretende più l’aiuto di nessuno, si appoggia su se stesso, il centro sulla periferia e viceversa; essi possono contare al cento per cento reciprocamente l’uno sull’altro; anzi debbono contarci, in quanto formano un circolo. Non si può cacciar fuori nessuno, e del resto il circolo non fa uscire nessuno. I disaccordi e gli errori interni vengono anche liquidati all’interno di esso.
Si passa così a un’ulteriore fase che chiamerò «dinastizzazione». Al momento opportuno il potere al governo convoca un’assemblea costituente dalla quale fa legittimare nella costituzione la propria posizione indipendente. Da quel momento qualsiasi cosa faccia, la fa a norma di costituzione. E siccome per dieci, venti, cinquant’anni non c’è più nessuno che metta a posto questa faccenda, e anzi, a norma di costituzione, non c’è più nessuno che possa metterla a posto, e secondo la costituzione non c’è neppure alcuno che possa convocare una nuova assemblea costituente, ecco che attraverso la costituzione si giunge alla fondazione di una dinastia. È una dinastia di tipo storicamente nuovo, giacché conserva un’importante caratteristica democratica: chi ci tiene può entrare a farne parte. Pertanto la dinastia non corre il rischio di spegnersi per mancanza di discendenza maschile o femminile.
Dal nostro punto di vista l’aspetto più interessante è costituito da una legge interna del potere: il sistema perfettamente determinato, descritto mille volte dalla letteratura nel corso della storia dell’umanità e sempre identico a se stesso, di manipolare gli uomini. Il potere naturalmente dà la preferenza a uomini che per la loro struttura mentale sono ad esso affini. Ma siccome non ce n’è a sufficienza, esso deve servirsi anche di uomini diversi che si manipola per proprio uso e consumo; per servire il potere gli uomini più adatti sono naturalmente quelli che smaniano per il potere, poi gli uomini inclini ad obbedire per il loro stesso carattere, gli uomini dalla coscienza sporca, gli uomini in cui il desiderio del benessere, del profitto e del vantaggio personale non si lascia condizionare da imperativi morali. È possibile manipolare uomini che hanno paura o molti figli, uomini che hanno prima subito delle umiliazioni e accolgono quindi riconoscenti l’offerta di una nuova fierezza, oppure uomini per natura sciocchi. Per un certo tempo, in determinate circostante e per determinati compiti sono temporaneamente utilizzabili anche dei moralisti di vario genere e degli entusiasti disinteressati ma male informati, come me per esempio. La manipolazione degli uomini si fonda essenzialmente su alcuni vecchi sistemi: tentazioni morali e materiali, minaccia di sofferenze, porre la gente in situazioni compromettenti, ricorrere a denunciatori, gettare ingiustificati sospetti su gente che per difendersi deve dimostrare la propria fedeltà, far cadere l’individuo in mano di gente malvagia, per poi fingere ipocritamente di salvarlo. Il risultato è la diffusione di una generale sfiducia tra i cittadini. La fiducia viene catalogata come fiducia di prima, seconda e terza classe, e viene presupposta una massa di cittadini che non dà assolutamente nessun affidamento. Allo stesso modo l’informazione viene catalogata in diverse classi: su carta rosa, su carta verde, su carta gialla e infine su carta di giornale (risate).
Ciò che ho detto della natura del potere dev’essere inteso nel senso più generale; non intendo riferirmi specificamente al governo di uno stato socialista, giacché pongo in stretto collegamento il concetto di socialismo con quello di direzione scientifica dello stato. E certo una teoria scientifica del socialismo sarebbe inconcepibile senza una psicologia del potere: come in essa non può mancare la filosofia o l’economia politica o la sociologia, così non possiamo neppure fare a meno di una psicologia del potere che sfrutti le nozioni della psicologia individuale e sociale, della psicoanalisi e della psicopatologia.
Ho tralasciato di occuparmi della questione del carattere classista del potere perché sotto questo aspetto la faccio rientrare nella problematica del potere in generale.
Anche qui da noi è stato applicato il criterio sopra descritto di scelta degli uomini dal punto di vista della loro utilizzazione da parte del potere. È stata concessa fiducia alle persone obbedienti, che non creano difficoltà e non sollevano le questioni maledette. Da ognuna di queste scelte ne uscivano col massimo dei voti gli uomini più mediocri, mentre scomparivano dalla scena gli uomini più complicati, gli uomini dotati di una particolare fascino e specialmente gli uomini che, per le loro qualità e il loro lavoro, costituivano un muto e non ufficiale criterio del pubblico decoro, erano come la misura della pubblica moralità. In particolare poi scomparvero dalla scena della vita politica le personalità dotate di senso dell’umorismo e di proprie idee personali. Ha perduto ormai ogni significato il concetto di «politico-pensatore», così come la parola «rappresentante», о quella di «difensore»; la parola «movimento» è ormai un suono privo di significato, dal momento che niente si muove. Sono stati lacerati i tessuti sui quali si fonda l’immateriale struttura e la speciale cultura di certe comunità umane come il villaggio, la fabbrica, l’officina. Non c’è più nulla che possa portare il sigillo dell’opera personale di qualcuno, soltanto in rarissimi casi si è salvato il concetto di équipe di officina; sono stati scacciati dal loro posto dei presidi che si dedicavano soltanto al loro lavoro di pedagoghi, dei direttori di fornaci che nutrivano delle opinioni critiche nei riguardi dell’ambiente che circondava la loro fornace; sono stati chiusi circoli culturali e sportivi di ottima fama e luoghi di riunione che per una determinata categoria di persone rappresentavano, sotto tutti i rapporti, la continuità del villaggio, della regione, dello stato.
Benjamin Klička, nel suo romanzo La selvaggia Jaja, scriveva: «Ricorda, uomo, che il dimostrarsi abile e capace è un’impertinenza che offende i tuoi superiori, e pertanto sforzati, se ti è possibile, di essere più stolido di un bue, se vuoi vivere a lungo e felicemente su questa terra». Non c’era neanche bisogno che le leggessi, avrei potuto ripetere a memoria queste parole che tante volte mi sono tornate in mente da sole. Sono parole vecchie di quarant’anni, e si riferiscono a una situazione anteriore alla rivoluzione socialista, ma credo che qui da noi esse abbiano dimostrato la loro piena validità soltanto dopo la rivoluzione, tanto che la loro verità ha potuto essere apprezzata da chiunque. Non so se vi siete accorti come tutti quanti noi, sia Čechi che Slovacchi, siamo inclini a credere che in qualsiasi luogo di lavoro la direzione sia affidata a persone più incapaci di quanto possiamo esserlo noi stessi. Inoltre, ogni volta che ci si trova in tre o quattro, cominciamo a lamentarci. È un’abitudine detestabile, se non altro perché insieme a quelli che magari hanno veramente un motivo per lagnarsi, c’è gente pigra, incapace, scansafatiche, priva di coraggio, che si lamentano anche loro e dicono che non possono, non sono in grado di farci niente. E così si determina un’intesa equivoca e nociva tra persone che non hanno nulla di comune, e questo perché siamo tutti in preda al sentimento più meschino che si possa immaginare: un generale disgusto originato da motivi diversi.
Quelli che si dedicano anima e corpo alla vita pratica si sono in tal modo procurati un campo di attività sostitutivo, quelli che non vi si dedicano si sono procurati un’aureola di martire; sul mercato letterario è adesso di moda la depressione, lo sfacelo spirituale, il nihilismo. Una vera orgia di snobismo. Anche le persone intelligenti rimbecilliscono. Ogni tanto si risveglia nei migliori il naturale istinto di conservazione, che si manifesta nel desiderio di prendere a schiaffi tutti quanti; ma se poi si guarda in alto, a ciò che ci sovrasta, o in basso, alla folla che ci calpesterebbe, viene da domandarsi: e chi me lo fa fare?
E adesso consideriamo il fatto che ormai da venti anni in qua da noi ottengono il massimo successo proprio coloro che oppongono minore resistenza a tutte le forze demoralizzatrici messe in atto dal regime. Consideriamo inoltre che la gente che si fa degli scrupoli non trova appoggio e non le viene nemmeno riconosciuto il diritto di appello sia da parte delle leggi che del regime, i quali invece, in teoria, dovrebbero difenderli. In teoria infatti sembrerebbe che qui da noi sia in vigore un sistema di diritti e doveri che «favorisce il libero e totale sviluppo e affermazione della personalità del cittadino e assicura allo stesso tempo il consolidamento e lo sviluppo della società socialista» (par. 19 della Costituzione).
Durante il mio lavoro nelle redazioni dei giornali o alla radio ho invece avuto modo di convincermi che in realtà molto spesso i cittadini non si richiamano ai diritti garantiti loro dalla Costituzione, e questo perché in pratica qualsiasi funzionario, magari anche periferico, è in grado di condizionare il rispetto dei loro diritti a particolari circostanze che non sono citate nella Costituzione e che sarebbe perfino assurdo che lo fossero.
Ultimamente mi è capitato spesso di leggere la Costituzione e sono giunto alla conclusione che si tratta di un documento mal redatto, che forse proprio per questa ragione ha perduto autorità agli occhi dei cittadini e degli uffici governativi. Sotto il punto di vista stilistico appare prolisso, il che non gl’impedisce di esprimersi in maniera nebulosa in una quantità di casi importanti. Faccio un esempio relativo all’àmbito del lavoro intellettuale, che riguarda più da vicino la nostra associazione. L’articolo n. 16 suona così: «In Cecoslovacchia la politica culturale, lo sviluppo della cultura, l’educazione e l’insegnamento vengono svolti nello spirito delle concezioni scientifiche mondiali, del marxismo-leninismo e in stretto collegamento con la vita e il lavoro del popolo». A prescindere dal fatto che qualsiasi buon pedagogo comprenderà naturalmente come implicito nel concetto di educazione il fatto che essa debba essere collegata col lavoro e con la vita, non mi è chiaro quale apparato o magari quale giudice sentenzierà della scientificità di una determinata concezione, giacché nel concetto stesso di scienza è implicito il moto e l’avvicendarsi delle ipotesi in relazione con l’ampliarsi delle conoscenze e una tale instabilità si oppone all’immutabilità e univocità dei concetti, condizione essenziale per ogni norma giuridica. A meno che per «concezioni scientifiche mondiali» non si debba intendere un sistema compatto di dottrine, ma in tal caso si porrebbe la questione se il nostro stato non sarebbe allora da considerarsi uno stato dottrinario piuttosto che organizzato secondo principi scientifici, come invece certo intendeva il legislatore.
Un altro esempio, che si riferisce più strettamente al tema. L’articolo 28 suona così: «In armonia con gli interessi del popolo lavoratore, a tutti i cittadini è garantita la libertà d’espressione in tutti i campi della vita sociale, e in particolare anche la libertà di parola e di stampa». Ritengo che le libertà di cui qui si tratta siano di per sé stesse in armonia con gl’interessi del popolo lavoratore, pertanto giudico superflua una tale aggiunta, e anzi la giudico apportatrice di confusione, perché in tal modo si abbandona al primo venuto l’interpretazione di quale sia l’interesse del popolo lavoratore. Penso che un esperto giurista, nel caso avesse ritenuto necessario servirsi di una tale espressione, avrebbe giudicato indispensabile anche esemplificare ciò che è o ciò che non è interesse del popolo lavoratore, e un accorto legislatore avrebbe anche evitato un’enumerazione meramente esemplificativa, ma avrebbe preteso un’enumerazione tassativa. Quanto a me, io darei la preferenza a una formulazione laconica, il cui significato fosse indiscutibile. Soltanto una formulazione netta e laconica conferisce alle leggi il tono di un assioma comunemente noto, cosicché esse finiscono per entrare a far parte del patrimonio della saggezza tradizionale, e la coscienza giuridica comune funziona poi così bene da non essere più quasi necessario un tribunale per la definizione di un diritto. La verbosa prolissità e la imprecisione concettuale della Costituzione fa sì che non sia possibile assicurarne il rispetto. Cosicché la più alta norma giuridica dello stato rimane nel campo delle buone intenzioni e dei programmi invece di diventare una legale garanzia dei diritti del cittadino. Del resto ritengo che la Costituzione dovrebbe funzionare allo stesso modo di qualsiasi altra norma giuridica, con in più la particolarità che nessun’altra norma ad essa subordinata – ordinanze, statuti, risoluzioni che impartiscano disposizioni – abbia il diritto di limitarne la obbligatorietà o di oscurarla.
(1/2. Segue).
Ludvík Vaculík
(Tratto da: La svolta di Praga. Raccolta di documenti, a cura di Gianlorenzo Pacini, Samonà e Savelli, Roma, 1968, pp. 170-192).
Inserito il 18/08/2025.
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Discorso sul potere
di Ludvík Vaculík
Seconda parte
Ho esposto qui delle considerazioni sulla natura, lo sviluppo e il comportamento di ogni potere, e mi sono sforzato di dimostrare che i meccanismi di controllo, che dovrebbero opporsi al potere stesso, in realtà non funzionano, cosicché il cittadino perde il rispetto di se stesso e perde quindi obbiettivamente lo status di cittadino. Se un simile stato di cose si protrae tanto a lungo quanto per esempio dura qui da noi, è naturale che esso s’imprima nel modo di pensare di molte persone ed entri a far parte della «filosofia della vita» specialmente della generazione più giovane, la quale non ha mai saputo, né per mezzo dello studio, né attraverso l’attività pratica, che esiste una certa continuità nello sforzo appassionato degli uomini per raggiungere una perfetta democrazia. Se questo stato di cose dovesse ulteriormente protrarsi (e se allo stesso tempo ad esso non si opponessero le naturali reazioni di difesa dei cittadini), il carattere stesso dei nostri popoli potrebbe mutarsi già nella prossima generazione. Al posto di una società progredita e capace di resistenza, vedremo insorgere una popolazione facilmente dominabile, imperare sulla quale costituirebbe un vero spasso perfino per uno straniero. Se si dovesse arrivare a questo, mi pare che sarebbe proprio inutile tutto il nostro millenario lavoro di autoperfezionamento.
Partendo dal principio che nessuno di noi è venuto al mondo per lasciarsi dominare facilmente, propongo che l’Associazione degli scrittori prenda l’iniziativa – eventualmente in collaborazione con l’Associazione dei giornalisti ed altre associazioni la cui problematica di lavoro presenti delle affinità con la nostra problematica – di chiedere all’Accademia Cecoslovacca delle Scienze di procedere a una perizia scientifica della nostra Costituzione, e qualora lo si ritenga ncessario, promuova l’iniziativa di farla modificare; ciò si potrebbe effettuare, ad esempio, raccomandando ai membri dell’Associazione di frequentare delle riunioni preelettorali in occasione della prossima campagna, d’interessare gli intervenuti a questi problemi e di far sì che i deputati che verranno eletti siano consci di una tale problematica; si può anche considerare l’eventualità che ognuno di noi si rechi in precedenza a far visita al proprio deputato e lo solleciti ad affrontare questo tema in Parlamento.
Mentre sto qui parlando non provo affatto quella libera sensazione che dovrebbe provare un uomo che dice in piena libertà quello che vuole. Provo piuttosto la sensazione di stare approfittando in maniera piuttosto timida e timorosa. di una specie di armistizio tra il cittadino e il potere, e che il mio fallo consiste proprio nell’approfittare di una certa speciale immunità di cui gli scrittori e gli artisti godono in questo periodo. Quanto potrà durare questo periodo non lo so: forse fino all’inverno, forse solo fino a domani.
Come non credo che il cittadino e il potere si possano mai un giorno identificare, che governanti e governati possano mai pienamente accordarsi, così non credo che l’arte e il potere possano mai andare d’amore e d’accordo. Questo non accadrà mai, non può accadere, perché sono diversi fra loro e non hanno nulla che li accomuni. Ciò che invece è possibile e che ci fa sperare per perseverare nei nostri sforzi, è questo: che queste due entità diverse comprendano reciprocamente la situazione in cui l’altro si trova ed elaborino delle norme che regolino convenientemente i loro rapporti. Gli scrittori sono anche uomini e pure i circoli di potere sono composti da uomini. Se chiunque di noi, per uno scherzo della sorte, si trovasse a far parte di un organismo politico, si troverebbe senz’altro orientato secondo la sua interna polarizzazione e avrebbe di che preoccuparsi. Un uomo che ami la libertà, che sia naturalmente anche un po’ egoista e pensi alla propria pulizia anche soltanto un pochino di più – ma di quel tanto che è risolutivo – che non alla sporcizia di questo mondo, un uomo che veda bene quanto le cose siano complesse, ma che vorrebbe ardentemente che esse fossero semplici e cioè, per esempio, un poeta o un musicista, ebbene un tal uomo non entrerebbe mai a far parte dell’organismo dello stato. Un poeta-ministro può essere soltanto un piccolo, aggraziato inchino al potere. Parlo qui di incompatibilità e non di avversione. Vi racconterò un fatto che mi è capitato e di cui in questi due ultimi giorni mi sono spesso rammentato. Nel marzo dell’anno scorso, come membro della redazione del Literární noviny ho avuto occasione di partecipare a una riunione della sezione ideologica del Comitato Centrale del Partito. Quella riunione non ebbe per noi un risultato favorevole. Sedevo a tavolino proprio di fronte al segretario del Comitato Centrale, compagno Jiří Hendrych, cosicché invece della solita immagine sommaria e imprecisa, mi sono visto a un tratto davanti in primo piano il volto di un uomo più vecchio di me (a casa mi è stato insegnato a salutare per primo le persone di tanto più vecchie di me), il viso di un uomo che da istituzione qual era prima, mi si era trasformato in persona concreta, che come me aveva certo le sue preoccupazioni di lavoro e forse anche di altro genere, preoccupazioni certamente più gravi delle mie e tra le quali viveva da più tempo. In quella occasione non riuscii a parlare bene; volevo parlare in modo assolutamente chiaro e aperto, ma invece ebbi paura, feci marcia indietro; ebbi l’impressione che loro attribuissero al mio discorso altre motivazioni, si sussurravano qualcosa tra di loro, cosicché mi abbandonai a un sentimento d’impotenza che mi umiliò e mi mandò immediatamente su tutte le furie. Poi me ne andai a casa e tra le confuse riflessioni che mi aveva ispirato tutta quella scena c’era un pensiero nuovo che m’importunava, o meglio una sensazione inquietante che mi confondeva davanti agli occhi quella netta linea divisoria che prima ci separava in due campi, NOI e LORO; ebbi l’impressione di essere stato investito da un colpo di vento di chissà dove, mi parve di avere almeno il presentimento di difficoltà originate da una determinata situazione umana, difficoltà alle quali evidentemente non si riferiscono i concetti nascosti sotto i termini «punto di vista classista», «opposizione», ecc., così frequentemente in uso da noi. Questi sono termini militari. Naturalmente dovetti cercare appoggio in un punto di vista perlomeno provvisorio per poter andare avanti. E mi dissi che quella difficoltà originata dalla situazione appartiene alle cose stesse. Deriva dal fatto che lui vuol fare in quel modo, sebbene nessuno lo obblighi a farlo, e anch’io voglio restare al giornale. Ma ciò mi spronò ulteriormente a pensare al potere come a una situazione umana. Con ciò chiudo questa parentesi e torno al punto di prima: gli scrittori sono anche uomini e pure i circoli di potere sono composti da uomini. Neppure gli scrittori vogliono l’anarchia, perché preferiscono abitare in belle città, avere un bell’appartamento, e desiderano tutto ciò anche per gli altri, desiderano la prosperità dell’industria e del commercio. E tutto ciò non è possibile senza l’attività organizzatrice del potere.
L’arte non può rinunciare a trattare il tema del governo, perché governare significa decidere in continuazione, in modo diretto o indiretto, secondo un giusto criterio, della vita degli uomini, decidere della loro felicità o della loro delusione, decidere di ciò a cui non si fa altro che pensare e che costituisce un problema insolubile, e l’esercizio del potere entra in contatto con l’attività artistica proprio in quel campo di problemi insolubili che nonostante tutto vengono in qualche modo risolti. L’arte non può quindi rinunciare alla critica dei governi, perché i governi, così come sono e nelle modalità con cui si presentano, sono un prodotto della cultura dei popoli.
Mettiamo pure che il nostro governo conceda una certa soddisfazione agli artisti quando, per esempio, li loda per aver messo su un bel padiglione in rappresentanza del nostro stato all’esposizione mondiale. Certo il governo è contento di esprimere una lode, una simile dichiarazione costituisce inoltre anche una mossa politica e forse il governo è anche sincero. Ma non per questo gli artisti devono essere necessariamente soddisfatti del governo che hanno. Un tale padiglione, che in un certo senso si può dire che goda di un diritto di extraterritorialità culturale, non fa altro che dimostrare che cosa questi stessi artisti potrebbero realizzare a casa propria se soltanto ne avessero la possibilità, se godessero a casa loro della stessa considerazione. Pertanto confesserò un sospetto che mi ha assalito più di una volta: non ci rendiamo tutti quanti complici di un inganno quanto costruiamo un bel padiglione per la esposizione? Giacché sappiamo che perfino i nostri migliori lavori sono di livello insufficiente, che tutto quel che facciamo lo facciamo soltanto per grazia di Dio, con le scadenze ormai prossime e noi che non sappiamo neppure a che data siamo. Tutto ciò che la gente è riuscita a fare di buono, tutti i buoni risultati ottenuti, tutti gli edifici innalzati e tutte le idee elaborate dai laboratori, dagli studi e dai vari istituti, ebbene tutto ciò è stato realizzato – si può dire – nonostante l’intervento e il comportamento in questi anni dei nostri circoli dirigenti. Tutto ciò è stato loro letteralmente estorto. Ma non voglio dimostrarmi ingiusto: sono convinto che qualsiasi impulso benintenzionato all’interno degli stessi circoli dirigenti, ogni tentativo di correggere lo stile di comportamento, viene amaramente scontato, produce delle vittime, e se apporta un risultato visibile dev’essere anch’esso faticosamente estorto. E allora come si può parlare di direzione, di amministrazione? Io ci vedo soltanto un sistema frenante. Da dieci anni in qua non mi è mai capitato di dirmi, mentre ascoltavo una qualche loro relazione: Guarda un po’, questa sì che è una buona idea, che non era ancora mai venuta in mente a nessuno! Al contrario, talvolta mi sono detto malinconicamente: Queste son cose che tutti quanti sappiamo già da un pezzo! E più spesso ancora mi son chiesto: Come posso fare per salvare la mia idea, come raggirarli, dal momento che convincerli non posso, perché non li vedo mai? Vedo e sento che il potere arretra soltanto là dove esso scorge e avverte una resistenza troppo forte. Non ci sono argomenti che valgono a convincerlo. Soltanto l’insuccesso, un ripetuto insuccesso quando vuole ricorrere agli antichi sistemi. Un insuccesso che costa denari a tutti quanti e ci logora i nervi. Vedo sempre presente il pericolo e la volontà di far tornare gli antichi tempi, peggiori di questi. Giacché cosa può significare il fatto che abbiamo ricevuto un’associazione, abbiamo ricevuto un fondo per la casa editrice e anche un giornale? Soltanto la minaccia che ci toglieranno tutto se non faremo i bravi. Se almeno ammettessi che si trattava di roba loro, allora direi, come dice mia sorella: Il Signore ha dato, il Signore ha tolto… Ma sono veramente loro i padroni dı tutto? E allora che cosa intendono affidare a mani altrui? Nulla? E allora noialtri che ci stiamo a fare? Ma che almeno lo dicano! Che sia almeno assolutamente chiaro che in realtà c’è un pugno d’uomini che vuole decidere dell’essere o del non essere di tutto, che vuol decidere di tutto ciò che si deve fare, si deve pensare e sentire. Questo ci dice chiaramente quale sia la situazione della cultura nel nostro stato e costituisce una fedele immagine di quale sia il grado di cultura del popolo. E non le singole opere letterarie da tutti apprezzate e celebrate.
In questi ultimi tempi ci è capitato spesso di sentir dire che i circoli governativi riconoscono una certa autonomia all’arte nel campo che le è proprio. Che quindi la cultura non se la prenda – dicono loro – se si becca dei rabbuffi quando invade il campo della politica. Si porta come argomento contro di noi il fatto che così facendo noi tradiremmo il nostro stesso motto: che ogni lavoro dev’essere fatto dagli esperti in quel determinato campo. È vero che anche la politica dev’essere fatta da esperti, ma come possono essere così sicuri che gli esperti siano proprio loro? Io per esempio ne dubito, e voglio esporre per metafora i motivi del mio dubitare: un medico è certo un esperto, può meglio di noi diagnosticare il male che ci affligge e può anche curarci a regola d’arte; tuttavia non potrebbe mai affermare di sapere meglio di noi stessi come ci sentiamo durante la cura a cui lui ci sottopone. E soltanto un medico rozzo e ignorante può sottoporci ad un’operazione pericolosa senza aver prima ottenuto il nostro consenso scritto.
Autonomia dell’arte e della cultura? Ma queste sono solo parole a cui non corrisponde nessuna realtà. Oggi valgono queste e domani delle altre, sembra che ci sia qualche differenza, ma non ci vuole davvero una grande intelligenza per capire che è sempre vino della stessa botte, anche se la botte ha due rubinetti.
Così come non mi sento molto sicuro nell’attuale situazione di politica culturale, situazione che i circoli di potere possono spingere fino al punto di rottura, allo stesso modo non mi sento sicuro come cittadino fuori dalle pareti di questa sala, cioè di questo giardinetto di giochi. Nessuno mi fa niente e non mi è successo niente. Questo ormai al giorno d’oggi non si fa più. Dovrei forse mostrarmene riconoscente? Non ne ho voglia. Ho paura. Il fatto è che non vedo valide garanzie. È vero che oggi si vedono tribunali e giudici che lavorano meglio, ma questi stessi giudici non scorgono valide garanzie per il loro lavoro; vedo che i procuratori oggi lavorano meglio, ma questi procuratori hanno forse delle garanzie e si sentono forse sicuri? Se voleste, potrei intervistarli per la radio, ma credete forse che una tale trasmissione andrebbe in onda? Io non avrei paura d’intervistare magari lo stesso procuratore generale per chiedergli come mai quelli che sono stati condannati innocenti e poi riabilitati non rientrano automaticamente in possesso dei loro originari diritti, come mai i comitati nazionali non restituiscono loro le case o gli appartamenti confiscati; ma l’intervista non verrebbe trasmessa. Perché nessuno si è mai scusato come si deve con questa gente, perché non godono delle facilitazioni che si accordano ai perseguitati politici, perché si lesina loro il denaro? Perché non possiamo vivere dove preferiamo, perché un sarto non può andarsene per tre anni a Vienna, o un pittore per trenta a Parigi, con la possibilità di ritornare quando vuole, senza per questo essere considerato un delinquente? Evidentemente il nostro parlamento conosce bene una regola giuridica fondamentale: Nullum crimen sine lege, non c’è delitto senza legge. La mette in pratica in modo tale che fabbrica per lo stato tanti delinquenti quanti ne occorrono. (Applausi). Perché la gente che si trova decisamente male qui da noi non può andarsene magari all’inferno e perché quelli che non vogliono veder portato a compimento il processo di democratizzazione da noi iniziato non se ne vanno?
È vero: sono uscite alcune nuove leggi, migliori delle precedenti. È vero che se ne stanno preparando delle altre. È anche vero che la nuova legge sulla stampa spazza bene come ogni scopa nuova. Si sta preparando anche una formulazione della legge sulle altre libertà civili: la libertà di riunione e di associazione. La proposta di legge viene preparata dal ministero degli Interni, ma un articolo su quest’argomento già in composizione per il Literární noviny è stato sequestrato dalla censura: non vedo nessuna garanzia. Ma quali garanzie? Non so. A questo punto mi fermo, perché sono ormai arrivato al punto definitivo ed essenziale, ad un grave dubbio: se i circoli di potere, se lo stesso governo e i suoi singoli membri abbiano la garanzia delle proprie libertà civili, senza le quali è impossibile svolgere qualsiasi opera, anche l’opera di un politico. A questo punto la mia analisi delle leggi interne di ogni potere si conclude e posso riferirmi a una similitudine che è stata formulata da altri: la similitudine del mulino che talvolta macina anche coloro che ne hanno messo in moto la ruota.
La civile applicazione di tutti quei provvedimenti che sono naturalmente indispensabili per l’ordinato funzionamento della macchina statale costituisce la misura del grado di cultura effettivamente raggiunto. Là dove la politica svolta dai politici è ispirata dalla cultura, lo scrittore, l’artista, lo scienziato o l’ingegnere non si vede obbligato ad esaurirsi in continue discussioni per difendere i diritti della propria specializzazione, della professione, del settore, del club, dell’associazione; non si vede costretto a insistere sulla specificità del proprio lavoro, non si trova obbligato a destare l’avversione degli altri cittadini, degli operai, dei contadini, degli impiegati, i quali hanno gli stessi suoi diritti, ma non trovano la strada adatta per far passare le loro idee attraverso le maglie della censura, non possono tradurre il dolore o il pathos morale in una forma artistica, nella struttura o nel colore, nella frase o nel verso o nella composizione musicale. È una politica incolta, e non una cattiva politica culturale quella che suscita dei focolai di lotta per la libertà, e per giunta si sente offesa dal fatto che se ne parli continuamente e non capisce che la libertà si trova là dove non c’è bisogno di parlarne. Si sente offesa per quel che la gente racconta o vede, ma invece di cambiare ciò che la gente si trova sotto gli occhi, vorrebbe cambiare gli occhi a tutti quanti. E intanto il tempo passa e si porta con sé ciò che soltanto è degno di tutto il pathos di tutti noi, e cioè il sogno di un governo che s’identifichi col cittadino, e di un cittadino che si governi quasi da sé. Ma è forse realizzabile un tale sogno?
Nell’inseguire quel sogno, verso il quale i nostri popoli marciano fin dalle più remote origini della loro storia, abbiamo percorso delle tappe che rappresentano dei successi parziali. Una di queste tappe è costituita dal sorgere di uno stato cecoslovacco indipendente per merito di masse popolari progressiste e di alcuni politici progressisti, della qual cosa non si fa cenno nella proposta di Risoluzione, e pertanto io qui propongo che vi venga ricordata. Infatti con quell’atto sorse una formazione statale che, nonostante la sua imperfezione, apportò un alto grado di democrazia alla categoria storica dei regimi allora esistenti ed ebbe il merito di non voler destare nei pensieri e nei sentimenti de cittadini nessuna notevole avversione nei confronti d quel socialismo che si sarebbe potuto realizzare in un successiva tappa di sviluppo. (Applausi). La continuità esistente di un modello di stato sociale, dopo la guerra si è tradotta direttamente in un programma di stato socialista. Le particolari condizioni in cui si giunse alla realizzazione di quel programma, e soprattutto la situazione del socialismo nei paesi in cui esso già esisteva, nonché il livello raggiunto a quell’epoca dalle conoscenze sul socialismo, tutto ciò fece sì che nel corso della sua realizzazione si determinassero delle deformazioni e si verificassero dei fatti che non si possono spiegare soltanto con le particolari condizioni climatiche della Cecoslovacchia, né si accordano col carattere del popolo o della sua storia. Quando si parla di questo periodo, quando si cerca una spiegazione del perché abbiamo sprecato tante forze morali e materiali, perché siamo rimasti indietro dal punto di vista dell’economia, i circoli di potere rispondono che ciò era necessario. Io penso invece che dal punto di vista di tutti noi ciò non era necessario, ma che forse era necessario per lo sviluppo spirituale degli organi del potere, i quali hanno praticamente costretto anche tutti i partigiani del socialismo ad attraversare insieme a loro questa fase di sviluppo. Bisogna riconoscere che in vent’anni da noi non è stata risolta nessuna questione nazionale, dalle necessità primarie, come gli alloggi, le scuole e la generale prosperità economica, alle necessità d’indole più complessa, che i regimi non democratici non sono in grado di soddisfare, come il sentimento di godere della pienezza dei propri diritti nell’interno della società, la convinzione che le decisioni politiche siano conformi a criteri etici, la fiducia nel significato che anche un lavoro di scarsa importanza può rivestire, il bisogno che tra i cittadini regni una reciproca fiducia, l’elevazione del livello culturale delle masse. E ho paura che non abbiamo progredito neppure sulla scena del mondo, sento che la nostra repubblica ha perduto il suo buon nome, vedo che non abbiamo trasmesso all’umanità nessun pensiero originale, nessuna idea positiva, che per esempio non abbiamo saputo proporre una nostra soluzione di come produrre senza poi lasciarsi soffocare dai frutti della produzione, e per ora non facciamo altro che imitare ottusamente la civiltà disumanizzata di tipo americano, ripetendo gli errori commessi in oriente e in occidente. La nostra società non possiede neppure un organismo incaricato di ricercare una vantaggiosa scorciatoia che faccia risparmiare un po’ di strada a questa ansimante e fumigante macchina dello sviluppo sociale.
Non voglio con questo dire che abbiamo vissuto invano, che tutto quel ch’è stato sia stato inutile: è stato utile, ma forse soltanto a metterci in guardia. Anche in questo modo il complesso delle umane conoscenze continuerebbe ad accrescersi, ma come strumento per fare una simile esperienza non doveva servire proprio una nazione la cui cultura era già al corrente del pericolo. Propongo che nella Risoluzione venga esposto tutto ciò di cui era al corrente la cultura cecoslovacca degli anni Trenta, o almeno ciò che presentiva.
In questi ultimi tempi ho conosciuto parecchia gente straordinariamente sveglia e vivace. Non soltanto singoli individui, ma anche alcuni gruppi di persone riunite da comuni interessi di lavoro o di varia cultura. Straordinaria era la forza di resistenza da essi dimostrata nel resistere all’influenza negativa esercitata dal regime e nel continuare a regolarsi secondo i principi a cui si attiene naturalmente la gente perbene: lavorare come si deve, mantenere la parola data, non lasciarsi scoraggiare né avvelenare la vita.
A queste qualità, che possono dirsi classiche di una persona perbene, si è aggiunta nel carattere di questa gente anche una nuova caratteristica: l’insufficiente comprensione della necessità di una distanza tra superiori e inferiori, tra chi comanda e chi deve ubbidire. È strano constatare come questa, che costituisce oggi una caratteristica repellente di ogni cialtrone, quando si sommi – e soltanto in tal caso – alle «classiche» buone qualità, appaia davvero come una nuova caratteristica di un uomo che non deve umiliarsi per guadagnarsi il pane.
Per concludere vorrei esprimere chiaramente – anche se forse è inutile – ciò che certo emerge da tutto il mio intervento: questa mia critica al potere nelle forme in cui è stato esercitato in questo stato non è rivolta al socialismo, perché io non sono convinto che l’evoluzione che esso ha avuto in Cecoslovacchia sia stata necessaria e perché non identifico questo potere con il socialismo stesso, con cui invece esso pretenderebbe identificarsi. Anche il loro destino non dovrà necessariamente coincidere. E se gli uomini che esercitano questo potere – per un istante voglio farli uscire dal cerchio magico in cui sono rinchiusi e voglio rivolgermi a loro come a singole persone dotate di personali idee e sentimenti – se venissero qui tra noi e ci rivolgessero questa domanda: se quel sogno sia effettivamente realizzabile, ebbene se noi rispondessimo: non so, essi dovrebbero considerarlo come una manifestazione di buona volontà e allo stesso tempo di massima probità civile da parte nostra. (Applausi).
(2/2. Fine).
Ludvík Vaculík
(Tratto da: La svolta di Praga. Raccolta di documenti, a cura di Gianlorenzo Pacini, Samonà e Savelli, Roma, 1968, pp. 170-192).
Inserito il 18/08/2025.
Pavel Kohout (n. 1928).
Autore della foto: Oldřich Škácha.
Fonte della foto: https://oldrichskacha.cz/galerie-osobnosti/en/0107/pavel-kohout
di Pavel Kohout
Al tempo del Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi (1967) era in discussione una nuova legge sulla stampa, che inaspriva il controllo della censura. Lo scrittore Pavel Kohout basò tutto il suo intervento sul fondamentale principio della libertà d’espressione, sancito peraltro dalla Costituzione, riportando davanti all’assemblea esempi di come le autorità trovassero tutti i modi per ostacolarla.
A chiusura del suo discorso Kohout rivendicava alla Cecoslovacchia una via originale nella costruzione del socialismo: «Prodotto della rivoluzione dovrebbe essere l’uomo libero. Naturalmente è più difficile governare degli uomini liberi e proprio per questo neppure il socialismo ha saputo evitare dei periodi in cui si sono avuti dei dittatori divinizzati. Ma esso è l’unica organizzazione sociale che sia in grado di liberarsi di tali limiti attraverso un processo di autopurificazione, restando fedele all’essenza del suo ideale, altrimenti cesserebbe di essere socialismo. […] L’esperienza storica si è incaricata di mettere l’accento sulla dialettica del marxismo. Oggi sappiamo che non soltanto possono, ma debbono esistere particolari modi di andare verso il socialismo. La Cecoslovacchia, questa terra abitata da un popolo intelligente e attivo, ha oggi un’occasione unica – ma anche l’unica possibile – che la sua via al socialismo sia la via della libertà dello spirito».
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Discorso sulla censura
di Pavel Kohout
In una certa parte del mondo è sorta una nuova formazione statale. È sorta sullo storico territorio di un piccolo popolo che per più secoli era stato vittima della brutale oppressione e dei tentativi di snazionalizzazione da parte dei suoi vicini. La sua formazione è stata conseguenza di un conflitto mondiale nel corso del quale quel popolo, per quanto piccolo, aveva avuto una parte non insignificante e aveva ottenuto il riconoscimento diplomatico e anche dei regolari confini. Ciononostante il nuovo stato non cessò di essere una spina nel fianco per i suoi vicini, i quali col passare del tempo cominciarono ad accampare delle pretese sul suo territorio. Queste pretese venivano fondate soprattutto sul fatto dell’esistenza di una forte minoranza appartenente etnicamente alla popolazione di uno stato confinante, ma compresa nei confini del nuovo stato, e sulla pretesa condizione di oppressione a cui quella minoranza sarebbe stata sottoposta. Dopo vent’anni la situazione arrivò ad un punto tale che un potente vicino minacciò il piccolo stato di sterminio, e la minaccia non andava intesa metaforicamente, ma alla lettera, e non venne espressa in sede privata, ma davanti a tutto il mondo. Questa parola, «sterminio», ricorreva costantemente in quasi tutti i discorsi del capo del potente popolo vicino e «sterminio» ripetevano a una voce i manifesti, la stampa, la radio. Nell’interno della piccola nazione minacciata vennero inviate non soltanto armi, ma anche interi gruppi di sabotatori, mentre ai suoi confini si raccoglieva l’esercito del potente vicino con intenzioni assolutamente evidenti. Per avere un quadro completo è necessario aggiungere che il piccolo stato aveva un regime democratico-borghese di tipo occidentale, mentre il potente vicino era retto da un regime totalitario che tentava di nascondere sotto frasi pseudo-socialiste il suo imperialismo nazionalistico. I tentativi compiuti dal piccolo popolo per riportare l’ordine sul proprio territorio e liquidare i terroristi, vennero definiti un genocidio dal potente vicino e offrirono il pretesto per un ultimatum posto in questi termini: o vi arrendete entro la tale data, oppure verrete sterminati. Questo ci dice la storia. Non vi sarà certo sfuggito che si tratta di storia autentica. Ma non vi ho descritto il duello tra gli Arabi e Israele, bensì quello tra Germania e Cecoslovacchia, Un simile accostamento mi è venuto in mente come, penso, sarà venuto in mente a più di uno tra noi mentre scrivevo, al principio di questo mese di giugno, con quel caldo spaventoso, sulle rive di un piccolo fiume cèco, e in quel bollore mi pareva quasi di sentire fisicamente come doveva essere terribile la morte per i giovani arabi e i giovani israeliani sulle sabbie del Sinai. Un tale accostamento mi è venuto in mente e allora mi sono posto questa domanda: se, nel 1938, invece di capitolare, la Cecoslovacchia avesse sparato il primo colpo, ci sarebbe stato anche un solo giudice imparziale di quel conflitto che avrebbe potuto condannarla come aggressore? Sotto il riguardo morale è difficile. Tuttavia i paralleli storici non sono mai precisi. Nel conflitto che è divampato or è un mese in Medio Oriente, e del quale, grazie a Dio, non siamo stati parte in causa, ma, se volete, semplici testimoni, se non pure giudici, le condizioni specifiche erano evidentemente diverse, specialmente per il fatto che il potente vicino è in questo caso un popolo che attraversa una fase di resurrezione economica e morale, giacché ancora qualche anno fa non era nient’altro che un mercato di schiavi. Cionostante il cittadino di un paese che ha subito l’esperienza di Monaco ha certo il diritto di chiedersi se il concetto di aggressione possa venir tranquillamente manipolato in maniera così unilaterale come appunto abbiamo visto fare da parte della nostra stampa. Parlo del cittadino, giacché il governo ha certo il diritto di assumere l’atteggiamento che crede meglio, in considerazione di impegni assunti, di alleanza o di altro genere; il governo c’è appunto per questo. Ma può darsi che il cittadino, anche se per principio fedele il suo governo, abbia anche un proprio, personale modo di vedere le cose, e a ventidue anni dall’instaurazione di una democrazia socialista egli deve avere il diritto anche di pubblicare la sua opinione. Per quanto io ne so, alcuni membri di questo congresso hanno compiuto un simile tentativo relativamente al conflitto del Medio Oriente. I loro interventi sono stati dovunque censurati con la motivazione che lo scrittore deve occuparsi di letteratura e non di politica. È bene ricordare che questa parola d’ordine ci accompagna ormai dal 1956, anno in cui essa è spuntata improvvisa come un fungo, presentandosi come modifica appena percettibile della parola d’ordine precedente, che diceva che lo scrittore è tenuto a fare soprattutto politica attraverso la letteratura. Come se un’esperienza millenaria e specialmente gli anni Cinquanta non ci avessero insegnato a sufficienza che la letteratura non è certo in grado di sostituirsi alla politica, ma tra tutte le arti è proprio quella che della politica non può fare a meno. L’aggressione, sia quella di cui – secondo la versione ufficiale – venne accusata la Cecoslovacchia nell’anno 1938, che quella effettiva e reale di Hitler, sia quella di fatto da parte d’Israele, come quella potenziale da parte araba, oltre all’aspetto politico presenta anche un aspetto morale. Ci tocca tutti quanti, dovunque siamo. Tocca allo stesso modo tanto l’uomo politico, che lotta per il volto esteriore del mondo, quanto l’artista, che lotta per l’anima del mondo. Non è mia intenzione – come non era intenzione degli autori degli articoli censurati – mettermi in polemica con l’atteggiamento assunto dal governo. Quel che m’interessa è assicurarmi la possibilità di esprimere pubblicamente la mia opinione relativamente alle più importanti questioni della nostra politica interna ed estera, qualora io abbia dei dubbi in proposito. Nel caso da me citato non sarebbe difficile trovare in abbondanza degli specialisti eruditi in materia i quali potrebbero correggere o addirittura confutare la mia opinione. Tutt’al più potrebbe accadere che un portavoce ufficiale del governo la respingesse o se ne dissociasse, per esempio in una di quelle conferenze-stampa che vengono periodicamente organizzate anche da nazioni che vantano una tradizione democratica più recente di quella cecoslovacca, come per esempio la Nigeria.
Ma in quell’istante svanirebbe la mia paura – e non solo la mia, ma forse anche quella di decine di migliaia di cittadini che nutrono le mie stesse preoccupazioni: che l’uomo, in questo mondo sconvolto da potenti interessi, sia destinato, oggi come in futuro, a fare soltanto la parte della comparsa che, rivestita di abiti diversi, a seconda delle varie epoche e occasioni, viene spinta sulla scena senza neppure sapere – e ogni regista può confermarvi che effettivamente perlopiù le comparse non lo sanno – chi abbia scritto la commedia, né di che si tratti.
Il compito svolto fino ad oggi dalla censura nella nostra società, senza tener conto della nuova legge sulla stampa, è semplicemente scandaloso. Di un articolo da me scritto per il «Literární noviny» è stato censurato proprio il paragrafo per il quale era stata fatta la intervista, e cioè il paragrafo dove spiegavo perché avevo rinunciato a far parte del Comitato Centrale. La frase censurata dice così: «Il primo motivo è esterno: alcune importanti decisioni sono state prese nonostante le nostre consistenti e motivate obiezioni; la nostra organizzazione non è stata considerata un interlocutore competente proprio da quelle istituzioni che erano tenute a considerarla tale».
Proprio in quel torno di tempo ero in causa con l’Ispettorato Alloggi. Mosso dalle ingenue illusioni che mi ero fatto in seguito all’emanazione della nuova legge sulla stampa, incaricai il mio avvocato di sporgere querela a mio nome per la violazione della legge stessa, giacché nel paragrafo censurato, neppure con tutta la buona volontà, si sarebbe potuto trovare qualcosa che potesse minacciare gli interessi dello stato o della società. Con mia grande sorpresa, il giorno seguente, quell’eccellente avvocato – lui stesso piuttosto meravigliato – mi telefonò per dirmi che la legge non mi concedeva quella possibilità di rivalsa. Allora gli ho chiesto di consigliarmi su quel che mi restava da fare e così sono venuto a sapere che potevo presentare una protesta soltanto attraverso la redazione. Nel caso che la redazione prendesse le mie difese, si sarebbe potuto inoltrare congiuntamente la protesta all’editore. Se poi anche l’editore avesse ritenuto di potersi addossare la responsabilità dell’articolo insieme all’autore e alla redazione, in tal caso la censura sarebbe stata costretta a far pubblicare l’articolo, a meno che non volesse esporsi al rischio di venir querelata. Affermo esplicitamente che questo procedimento dev’essere portato fino in fondo se l’articolo tratta effettivamente un problema sociale – qual era evidentemente il problema trattato nel mio articolo – e se, naturalmente, non riporta dati e fatti che possano nuocere alla difesa dello stato o che siano in contrasto con la costituzione. Fin qui la teoria. La prassi invece ci dice che la censura non concede ugualmente il suo timbro perché tanto sa che non verrà mai querelata. Infatti nella situazione attuale la nuova legge sulla stampa si trova in contrasto con una risoluzione del partito secondo la quale gli editori comunisti sono tenuti a consultarsi sui singoli casi con la sezione competente del Comitato Centrale del Partito Comunista Cecoslovacco. Il risultato di un tale complesso procedimento è univoco: soltanto al «Literární noviny» negli ultimi mesi sono state fermate decine di articoli, alcuni dei quali sono poi stati pubblicati in seguito all’intervento degli organi di partito, mentre altri non sono stati mai pubblicati; di questi ultimi molti non sono usciti solo perché nel frattempo avevano perduto di attualità. Forse i compagni Sotola, Spitzer e Ptačnik saranno in grado di dirci esattamente quante volte è stata querelata la censura.
Compagno Ptačnik: Neppure una volta.
Compagno Kohout: Penso che sia dovere del nostro congresso, congresso di un’associazione la cui maggioranza è composta di scrittori e di pubblicisti, chiedere la modifica della legge sulla stampa nel senso che l’autore stesso dovrebbe avere il diritto di difendere la propria libertà di espressione sul fondamento della costituzione; ripeto: della costituzione. In passato, come ancora al giorno d’oggi, ogni autore ha una triplice responsabilità nei confronti delle proprie opinioni e della propria opera: una responsabilità morale, nel caso che egli venga pubblicamente criticato; una responsabilità materiale, nel caso che la sua opera venga censurata e quindi non ricompensata; infine una responsabilità giuridica, com’è dimostrato dal procedimento penale a carico del caricaturista Liďak. In compenso di questa sua triplice responsabilità, lasciamogli almeno quest’unico, inalienabile diritto: difendersi per mezzo di quella stessa legge che viene applicata ai suoi danni quando egli si rende in qualche modo colpevole. Propongo che questa richiesta venga inserita nella risoluzione congressuale come punto a sé stante. (Applausi).
La guerra nel Medio Oriente e la legge cecoslovacca sulla stampa sono due fatti che soltanto a prima vista danno l’impressione di non aver nulla in comune. Io ho la fortuna – certe volte magari piuttosto problematica, ma comunque essenzialmente è una fortuna – che il giro delle mie amicizie e delle mie conoscenze è costituito perlopiù da persone sui venti o venticinque anni, sempre rinnovantisi; gente della giovane generazione, in maggioranza universitari. Mi si potrebbe obbiettare che il mio giudizio sulla giovane generazione risulta – grazie al cielo! – falsato, giacché nelle fabbriche o sui campi, stando almeno a quanto dicono certi funzionari dell’Associazione Giovanile Cecoslovacca, s’incontra ancora oggi una gioventù pura e incontaminata che vede come unico scopo della sua vita l’essere ammessa nei ranghi del partito comunista. Ma anche se le cose stessero effettivamente così, non mi sento per questo liberato dall’angoscia, giacché tra le varie decine dei miei giovani amici, che diventeranno un giorno – oppure lo son già diventati – ingegneri, attori, architetti o medici, tutta gente insomma che tra non molto, nel secolo della rivoluzione tecnico-scientifica, si troverà ad occupare dei posti di comando nella nostra società, tra di loro, dico, non ce n’è neanche uno che pensi ad entrare nel partito. Mi si potrebbe obbiettare che sono in rapporto con gente poco sana, ma lo strano è che invece si tratta di gente assolutamente normale, e per giunta – il che è più importante – molto dotata.
I rapporti umani non si determinano soltanto sulla base dell’appartenenza allo stesso partito, e proprio per questo essi non soltanto tollerano la mia presenza fra loro, ma esiste tra noi un legame forse anche più stretto e un’assoluta apertura. Mi capita di litigare con loro, quando rispolverano le solite illusioni e mezze verità sul conto della prima repubblica, dell’anno 1945, degli avvenimenti del febbraio ’48, della democrazia occidentale, dell’Unione Sovietica e della nostra alleanza con l’URSS. Ma litigo invece per loro e in nome loro quando essi denunciano quale fonte delle loro illusioni e del loro scetticismo il fatto che ad essi, ed essenzialmente a tutti i cittadini pensanti di questo stato, le opinioni ancora oggi vengono imposte di autorità, senza che venga concessa la possibilità di formarsele liberamente, attraverso la discussione e il paragone degli opposti punti di vista. Il fatto che a quattro scrittori, due dei quali si erano recati in visita a Israele e gli altri due nella Repubblica Araba Unita, non sia stato concesso di confrontare gli opposti punti di vista sule pagine del «Literární noviny», forse perché ciò avrebbe potuto intaccare il prestigio del governo che aveva adottato sulla faccenda un atteggiamento univoco, dettato da interessi superiori, ebbene un tale fatto costituisce soltanto un banale esempio che serve ad illustrare l’attuale situazione. Ma nelle democrazie borghesi, che noi definiamo «burattinesche» e abbiamo anche dei buoni motivi per definirle in tal modo – vedi ad esempio la vasta e recente, addirittura commovente, ma per ora infruttuosa coalizione governativa nella Repubblica Federale Tedesca – in quelle democrazie un simile fenomeno è assolutamente comune. E il risultato di ciò è l’attivismo politico della gioventù, non dissimile dall’attivismo politico della mia generazione, che tra l’altro è nata anch’essa nell’atmosfera del dopoguerra, aperta al libero scambio di opinioni. Si tratta di un attivismo che oggi noi non possiamo neppure sognarci. Prima di Pasqua mi sono recato a Berlino Occidentale per la presentazione del mio film Sette assassinati. La presentazione del film si è svolta in una baracca di legno che un’associazione giovanile, chiamata Ça ira, aveva preso in affitto e riattato. Sebbene il dirigente dell’associazione culturale avesse cautamente cercato di prepararmi, tuttavia rimasi sbalordito quando mi trovai in una stanza piena zeppa di gente, dove ai tavolini, per terra e l’uno sull’altro se ne stavano seduti degli spettatori di età dai quindici ai trent’anni, perlopiù barbuti, occhialuti e in maglione, che a prima vista si sarebbe detto piuttosto che stessero aspettando l’ingresso dei Rolling Stones. Un’altra sorpresa mi è stata offerta dalla discussione che seguì la proiezione del film, discussione a cui quasi tutti presero parte e che si distinse per la completa assenza di qualsiasi accenno provocatorio, per l’alto livello d’informazione e il tono assolutamente aperto. È degno di nota il fatto – specialmente nella situazione attuale, in cui il nostro cinema si trova esposto alla ferula critica del Parlamento – che poco prima erano stati proiettati alcuni films della nouvelle vague cecoslovacca, che avevano indotto il pubblico a delle considerazioni sulla stagnazione dell’arte borghese e a criticare la politica culturale della Repubblica Federale Tedesca. Ma la sorpresa più forte dovevo averla al momento di andarmene, quando per errore ho aperto un’altra porta e ho creduto per un momento di sognare o di essere trasportato nella Cecoslovacchia di tanti anni fa, la notte prima del primo maggio. In quella stanza c’erano centinaia di cartelli che un altro gruppo di barbuti stava appunto finendo di dipingere. Erano cartelli che invitavano gli Americani ad andarsene dal Vietnam. Giacché il giorno seguente l’associazione Ça ira al completo aveva deciso di farsi bastonare dalla polizia in occasione della marcia pasquale di dimostrazione contro la guerra e gli armamenti atomici, manifestazione che si svolgeva appunto a Berlino. C’era appunto questa piccola differenza: che loro stessi avevano deciso di farsi bastonare: infatti i membri di quella libera associazione erano giunti a quella decisione in seguito a una libera votazione. E ho avuto occasione di ricordarmi di loro, e anche di varie altre migliaia di studenti di Berlino Occidentale, quando essi hanno riservato una tale accoglienza allo Scià che c’è scappato addirittura un morto e circa quaranta feriti. Lo Scià si è recato in visita ufficiale tanto da loro, quanto da noi, proprio allo stesso modo. La differenza consiste nel fatto che essi sono stati informati dalla stampa che dopo un quarto di secolo che lo Scià siede sul trono ci sono nel suo paese l’ottanta per cento di analfabeti e della libertà politica se ne occupa una speciale brigata agli ordini dello Scià, armata di lunghi coltelli. E così, oltre alla accoglienza organizzata dal governo, hanno voluto offrire allo Scià un loro speciale ricevimento. Solo perché sapevano tutto questo. Noi invece ci siamo risparmiati i fastidi di un passo diplomatico e non abbiamo guastato i buoni rapporti esistenti. Grazie a tutto ciò il nostro popolo sa che lo Scià è un gran bell’uomo e che Farah Diba è la più bella regina del mondo. E così torno di nuovo all’argomento da cui ho preso le mosse e con cui voglio chiudere questo intervento. Che lo stato è sempre lo stato, anche se socialista, e che ha le proprie funzioni e i propri impegni, che ogni cittadino che ragiona è tenuto a comprendere. Ma bisogna anche tener conto della circostanza che un tempo abbiamo pure fatto una rivoluzione che avrebbe dovuto realizzare i sogni più sublimi dell’umanità, quali sono stati elencati e ridotti al minimo comune multiplo da Marx e da Engels. Prodotto della rivoluzione dovrebbe essere – e ritengo che ancora oggi debba essere – l’uomo libero. Naturalmente è più difficile governare degli uomini liberi e proprio per questo neppure il socialismo ha saputo evitare dei periodi in cui si sono avuti dei dittatori divinizzati. Ma esso è l’unica organizzazione sociale che sia in grado di liberarsi di tali limiti attraverso un processo di autopurificazione, restando fedele all’essenza del suo ideale, altrimenti cesserebbe di essere socialismo. La generazione di coloro che oggi hanno venticinque anni e che non hanno interesse ad entrare nel partito, almeno per ora non è in attesa di un’altra organizzazione sociale. È in attesa piuttosto di vedere quale sarà l’aspetto autentico di quel socialismo di cui essi hanno conosciuto soltanto l’aspetto deformato. Possiamo criticare questo loro atteggiamento di attesa, ma non possiamo non comprenderlo. Perché, almeno per ora, essi non si trovano al potere. Al potere ci siamo noi, chi più chi meno, ma tutti gravati della stessa responsabilità.
Considero questo mio intervento come la parte che mi spetta del mio dovere di assumermi le mie responsabilità. Di più non posso fare. Ci sono persone che possono fare di più. Queste persone oggi siedono in mezzo a noi, come nostri compagni. Possono non trovarsi d’accordo con me, possono anche arrabbiarsi, ma debbono sapere che ci sta a cuore la stessa cosa: il futuro di questa rivoluzione. Sono le armi che cominciano la rivoluzione, ma del suo essere o non essere, della sua giustificazione morale e della sua vitalità si decide soltanto sul campo di battaglia del cuore e del cervello. E soprattutto il cuore e il cervello delle generazioni future, che ricevono in eredità questa rivoluzione. Noi possiamo ancora cantare, per esperienza personale, i versi dell’Internazionale che dicono: «già troppo a lungo si son pasciuti delle nostre piaghe gli stormi di corvi e d’avvoltoi». Loro invece vogliono che si realizzi l’altra metà della strofa: «il giorno futuro disperderà lo stormo e per sempre fiammeggerà splendido il sole». L’esperienza storica si è incaricata di mettere l’accento sulla dialettica del marxismo. Oggi sappiamo che non soltanto possono, ma debbono esistere particolari modi di andare verso il socialismo. La Cecoslovacchia, questa terra abitata da un popolo intelligente e attivo, ha oggi un’occasione unica – ma anche l’unica possibile – che la sua via al socialismo sia la via della libertà dello spirito. (Applausi).
Pavel Kohout
(Tratto da: La svolta di Praga. Raccolta di documenti, a cura di Gianlorenzo Pacini, Samonà e Savelli, Roma, 1968, pp. 81-91).
Inserito il 29/08/2025.
Praga, 27-29 giugno 1967. IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Ludvík Vaculik, Milan Kundera, Ivan Klíma.
Autore della foto: Libor Hajský, ČTK
Fonte della foto: https://www.ludvikvaculik.cz/tvorba/iv-sjezd-svazu-ceskoslovenskych-spisovatelu-protokol-praha-27-29-cervna-1967
di Franco Bertone
Con questo articolo il settimanale teorico del PCI «Rinascita» riportò i termini delle discussioni svoltesi al IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi, tenutosi a Praga dal 27 al 29 giugno 1967. Sul durissimo scontro svoltosi al congresso inseriamo altri materiali di provenienza cecoslovacca.
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Intellettuali e potere socialista
di Franco Bertone
[…] Al congresso la maggioranza di coloro che hanno preso la parola ha preferito dedicarsi all’esame dello stato della società cecoslovacca piuttosto che a quello della letteratura cecoslovacca. Congresso essenzialmente politico dunque, che per la congiuntura in cui è avvenuto ha finito col dovere pagare alcuni prezzi che con la cultura in genere e la letteratura in particolare hanno poco a che vedere.
La congiuntura era ancora dominata dal conflitto fra arabi e Israele e dall’ondata emozionale profondissima che esso ha potuto suscitare in un paese come la Cecoslovacchia ove – ad esempio – la nascita e la sussistenza di Israele come Stato sono direttamente legati a un’azione politica, diplomatica ed economica che ha impegnato a suo tempo la Cecoslovacchia in prima persona e in primissima fila e dove la errata parola d’ordine della distruzione dello Stato d’Israele è stata risentita in maniera lacerante. Di più: lo sciagurato caso dello scrittore Ladislav Mnacok [sic!]1 aveva reso ancora più passionale la reazione di una parte dell’opinione pubblica e soprattutto degli intellettuali. Tutto questo, se non poteva impedire come non ha impedito al partito e al governo di assumere una giusta posizione di condanna dell’aggressione israeliana e di sostegno della causa di liberazione dei popoli arabi, ha certamente contribuito a rendere pesante il clima in cui il congresso si è tenuto.
Due questioni hanno dominato l’inizio del congresso: la ricerca di una periodizzazione dello sviluppo di questi ultimi anni del socialismo nel paese e il giudizio da dare di questi periodi. Su queste questioni è nato e si è sviluppato un conflitto molto acceso.
Una fortissima maggioranza si è creata sulla definizione degli ultimi quattro anni – altri hanno detto cinque – come i più fecondi per la letteratura ma anche ad esempio per la cinematografia cecoslovacca. Romanzi come La beffa di Kundera o come L’ascia di Vaculik, i saggi e gli studi kafkiani riproposti da Edvard Goldstücker; film come Gli amori di una bionda di Formann (ed anche il suo Hori, ma panenko, appena finito, che è di notevole bellezza e pieno del vivido immaginare del giovane regista, e a proposito del quale alcuni critici praghesi non hanno esitato a parlare di Gogol ceco) o come La festa e gli invitati di Nemec sono stati presi come esempio di questo fiorire. E l’elenco potrebbe ancora continuare.
Una maggioranza altrettanto grande o quasi il congresso l’ha trovata nell’attribuire questa fioritura al clima di più aperta e coraggiosa ricerca consentito dalle conclusioni cui è giunto quattro anni addietro su tali questioni il XIII Congresso del partito comunista e questo giudizio deve essere sottolineato, perché qui ritroviamo una spiegazione e una precisazione importanti delle cause che hanno aperto la felice stagione di cui il Congresso degli scrittori ha tanto discusso. Ma a questo punto l’unanimità o almeno la solida maggioranza si sono disciolte in uno scontro pieno di accesa passione, di accuse – talvolta pesantissime anche se spesso prive di vera chiarezza – e di controaccuse.
Certa burocrazia del partito e del ministero della Cultura – ma anche l’ufficio statale di censura che ha trovato sanzione legale nell’ultima legge sulla stampa – è stata accusata da numerosi scrittori di errata e miope applicazione delle stesse risoluzioni congressuali del partito e di voler condurre contro molte opere e i loro autori una battaglia di retroguardia insidiosa e piena di dogmatismo che, con lo scopo dichiarato di voler impedire la diffusione di attacchi contro la società socialista e contro la scelta storica della nazione cecoslovacca, persegue invece lo scopo reale di bloccare ogni tentativo di indagare la realtà, di ricercare in essa le linee di forza di tutto ciò che di vecchio, di dogmatico, di «contrario all’umanesimo socialista» (mi servo di una espressione ripetuta su ogni tono nel dibattito congressuale) ancora si annida nella società nazionale socialista, di bloccare ogni tentativo degli intellettuali in genere e degli scrittori in particolare di partecipare in maniera autonoma alla ricerca e alla elaborazione delle vie di sviluppo «dell’uomo nella società socialista».
E poiché il punto di riferimento per la ricerca di questi elementi di negazione dell’umanesimo socialista è sempre – in maniera quasi obbligata – il recente passato della società socialista, quello del cosiddetto «culto della personalità», non deve meravigliare che il giudizio da dare di questo passato sia una delle ragioni di conflitto più profonde. Il congresso – e il post-congresso non poteva essere diverso – ha offerto a questo proposito un ventaglio amplissimo di interpretazioni: sono emerse nel dibattito anche le opinioni di coloro i quali affermano che gli anni che vanno dal febbraio 1945 al 1960-62 non hanno nulla da spartire con il socialismo e che, in quel periodo, il partito e lo Stato «non hanno risolto in Cecoslovacchia neppure uno dei problemi umani che si ponevano alla nuova classe dirigente: né la scuola, né la casa, né la difesa della possibilità di libero sviluppo dell’individuo». Che sia questa una posizione politica da respingere non vi è dubbio, ma allo stesso modo non vi è dubbio che la maggioranza del congresso non si è schierata con essa. Essa ha tuttavia ribadito con grande energia la necessità di discutere pubblicamente la questione della libertà di pensiero e di creazione artistica, riaffermando che la società socialista vanta al suo attivo tali successi nella edificazione sociale e politica da potersi non solo ma da dovere accettare come una condizione del suo ulteriore sviluppo, la discussione pubblica delle questioni che sono motivo di conflitto culturale anche di fondo, e soprattutto la necessità di non sconfessare alcun aspetto di tale dibattito che ha come unico scopo quello della ricerca della migliore e meno accidentata via di sviluppo sociale. E se qualcuno pensa di potersi servire del dibattito pubblico come di un veicolo capace di dare dignità di massa a opinioni contrarie alla scelta storica del socialismo non si deve avere timore di affrontarlo in campo aperto, forti della superiorità ideale del marxismo e del vigore politico che la società socialista ha saputo darsi in due decenni.
Il congresso non ha esitato ad esprimere con vigore le sue opinioni sulle questioni di fondo. Lo ha fatto contrappuntando il dibattito di denunce molto aspre dell’incapacità di certa burocrazia e dei guasti che essa provoca sul piano culturale ma anche su quello politico.
Deve essere detto che alcune di quelle denunce hanno messo in luce fatti già noti ed altri ignoti ma tutti egualmente difficili da spiegare. Come è difficile spiegare che certi ottimi film cecoslovacchi siano autorizzati a circolare all’estero ma la censura li blocchi all’interno; come è difficile da spiegare che la censura approvi un romanzo ma non la sua riduzione cinematografica; come è incomprensibile che possa ancora esercitarsi tout court una censura politica sulle opere d’arte in un paese socialista. Come è difficile spiegare che in quattro anni il giornale dell’Unione degli scrittori Literarni Noviny abbia dovuto cambiare tre direttori e che nel seno stesso dell’Unione si sia creata una situazione di pesante disorganizzazione, che è stata espressamente denunciata allo stesso congresso da uno dei relatori. Come è infine difficilmente spiegabile che, al termine dei suoi lavori, il congresso non abbia potuto eleggere gli organi dirigenti dell’Unione degli scrittori come è previsto dalle norme statutarie dell’organizzazione. O meglio: tali fatti di ventano comprensibili solo se si accettano – e allora perché non farlo pubblicamente – i limiti di una direzione culturale che prima ancora di essere settaria e dogmatica o qualunque altra cosa è, a nostro avviso, soltanto un prodotto delle imperfezioni, delle trasformazioni e delle contraddizioni che marcano così profondamente – soprattutto in questa fase – la società cecoslovacca.
La Cecoslovacchia sta vivendo un periodo di profonde trasformazioni. La riforma economica ha aperto un processo di rinnovamento: la maggiore autonomia definita per le aziende, nel quadro di un nuovo sistema di pianificazione, ha largamente spostato dal centro alla periferia una parte del potere decisionale. I managers, i pianificatori, gli economisti ma anche i sindacalisti e i dirigenti del partito al livello aziendale sono stati dotati di nuovi poteri e quindi di più elevate responsabilità. Il potere di decidere ha conferito loro anche l’obbligo di scegliere e in questo senso la riforma che già si applica da qualche mese ha largamente riproposto non soltanto problemi di promozione, di sviluppo e di miglioramento delle capacità di migliaia di quadri ma anche problemi di democrazia alla base, di ricerca di nuove sedi e di nuovi e più moderni strumenti della democrazia socialista a tutti i livelli. Il processo ha investito tutta la società la quale oggi pretende giustamente di discutere e di ricercare in una grande opera di creazione collettiva i modi, le forme e le prospettive aperte dalla nuova fase di sviluppo del socialismo.
La riforma ha inoltre proposto all’attenzione della società anche elementi di preoccupazione più immediata, poiché ha portato con sé le difficoltà inevitabili del primo periodo: alcuni prezzi che salgono, nuove norme di calcolo dei livelli salariali, nuovi metodi per garantire il lavoro a tutte le braccia e cervelli disponibili. Insomma: un turbinare di questioni che rendono il dibattito pubblico attorno ad esse non solo inevitabile ma pregiudizialmente necessario per garantire il successo della grande fase che si apre. Nessuno può certo pensare che in questa congiuntura storica – caratterizzata fra l’altro da un rapido decadimento di vecchi valori e dall’altrettanto rapido sorgere di valori nuovi e del tutto diversi – gli intellettuali e prima di tutto gli scrittori potessero restare alla finestra. Tanto più in un paese come la Cecoslovacchia ove gli scrittori hanno sempre avuto nell’opinione pubblica una «udienza» considerevole.
La tentazione di rispondere anche con misure amministrative alla partecipazione degli intellettuali al grande dibattito che ha investito la nazione è evidente da parte di una certa burocrazia, abituata a considerare indebito ogni tentativo di pubblicizzare al massimo la ricerca e di portarla – come è giusto e necessario, e questo è il punto nodale della questione – su strade mai prima battute. Per un certo verso le tentazioni amministrative sono già state accreditate da alcuni dirigenti politici i quali hanno generalizzato il giudizio sul Congresso degli scrittori partendo dalle posizioni più estreme che vi erano emerse e sembrano orientati a dare a tutto il dibattito congressuale anche una risposta «di tipo amministrativo» che finirebbe col coinvolgere e colpire tutti i propositi di ricerca, di dibattito, di discussione che dovrebbero avere invece pieno diritto di cittadinanza e col ritardare una ricerca indispensabile alla soluzione di un nodo di problemi che nascono dal grembo stesso della società come il partito e i suoi alleati l’hanno formata in Cecoslovacchia.
Franco Bertone
(Tratto da: Franco Bertone, Intellettuali e potere socialista, in «Rinascita», n. 38, 29 settembre 1967).
Note
1 Da Wikipedia: «Ladislav Mňačko (Valašské Klobouky, 28 febbraio 1919 – Bratislava, 24 marzo 1994) è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo slovacco.
Trascorse l’infanzia e l’adolescenza a Martin, dove si formò come commesso di farmacia e in seguito come operaio nell’edilizia. Nel 1939 tentò invano di trasferirsi in Unione Sovietica, nel 1940 tentò di passare il confine tedesco-olandese, ma fu incarcerato in campo di concentramento e condannato ai lavori forzati in Germania. Nel 1944 riuscì a evadere e prese parte alla Seconda guerra mondiale nelle file dei partigiani.
Nel 1945 divenne membro del Partito Comunista di Cecoslovacchia. All’inizio degli anni 1950, in quanto perfettamente allineato al regime comunista, era fra i giornalisti più prominenti. Dal 1945 al 1953 fu redattore di «Rudé právo» e della «Pravda», dal 1954 al 1966 fu corrispondente in diversi paesi europei e asiatici. Nel 1956 divenne caporedattore del giornale «Kultúrny život» («Vita culturale»). Nel corso del tempo smarrì il suo entusiasmo per il comunismo; fu annoverato infine tra gli oppositori più intransigenti del regime e pertanto fu perseguitato.
Nell’autunno del 1967 emigrò in Israele per protestare contro la posizione cecoslovacca nella Guerra dei sei giorni. Quando fece ritorno in patria, qualche mese più tardi, gli fu negata la cittadinanza cecoslovacca. Emigrò una seconda volta, questa volta per un periodo più lungo, subito dopo l’intervento militare del Patto di Varsavia nell’agosto del 1968 e si stabilì in Austria vicino a Eisenstadt. Fu espulso dall’Unione degli scrittori slovacchi, le sue opere furono proibite e scomparvero dai libri di testo.
Mňačko nel 1989 tornò in Cecoslovacchia. Si oppose decisamente all’indipendenza della Slovacchia e dopo la divisione scelse polemicamente di risiedere a Praga. Tuttavia, chiuse i suoi giorni a Bratislava, dopo un breve ricovero durante una delle sue visite in Slovacchia. Fu sepolto a Lukovištia» [ndr].
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Dal 19 novembre 1957 al 5 gennaio 1968 Antonín Novotný aveva cumulato le due massime cariche del potere in Cecoslovacchia: era al tempo stesso Presidente della Repubblica e Primo segretario del Partito comunista. La figura di Novotný e il suo modo di dirigere Stato e partito restavano nel solco della tradizione burocratica dello stalinismo, una delle cui caratteristiche peculiari consisteva nell’accentramento dei poteri e nella consuetudine di trasmettere tutte le decisioni dal vertice alle istanze istituzionali inferiori.
Negli anni Sessanta la Cecoslovacchia attraversava una crisi su più fronti: in economia si registrava un calo della produttività della grande e media industria e un arretramento negli approvvigionamenti dei prodotti di consumo quotidiano; nella cerchia ampia degli intellettuali le critiche al potere erano emerse in modo palese durante il Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi del giugno 1967; anche nelle università iniziava a registrarsi un fermento tra gli studenti, desiderosi di maggiore libertà di espressione.
Una questione cruciale era rappresentata dal fatto che la Repubblica includeva due etnie principali, i cechi (in Boemia e Moravia) e gli slovacchi (in Slovacchia), con questi ultimi in posizione ancillare rispetto alle decisioni cruciali che venivano prese a Praga; si prospettava quindi l’idea della trasformazione dello Stato cecoslovacco in una repubblica federativa in cui la parte slovacca godesse di una più larga autonomia decisionale. Segretario del Partito comunista slovacco era allora proprio Alexander Dubček, che nelle pagine che seguono (tratte dalle sue memorie) racconta quale fu il processo politico che si svolse all’interno delle stanze della sede centrale del Partito comunista cecoslovacco, un processo che condusse alla separazione delle cariche fino ad allora accentrate nella persona di Novotný e alla conseguente nomina dello stesso Dubček alla carica di Primo segretario del Pcc. Proprio da qui, da questo 5 gennaio 1968, si fa iniziare per convenzione la “Primavera di Praga”.
L.C.
Da «l’Unità» del 6 gennaio 1968.
di Alexander Dubček
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Il gennaio che aprì la porta alla Primavera di Praga
Dubček racconta: «Come divenni segretario del Partito»
di Alexander Dubček
[…] Per i giorni 30 e 31 ottobre [1967] fu convocato il Cc del Pcc. Alla base della discussione e della risoluzione che ne sarebbe dovuta uscire, doveva essere una relazione, che si presumeva esprimesse l’opinione della presidenza, sulla collocazione del partito nel sistema politico del paese. La bozza fu sottoposta, il 19 e il 24 ottobre, alla presidenza. Parti essenziali a me sembravano inadeguate e chiesi, quindi, cambiamenti e correzioni. Concentrai il mio intervento su tre questioni. Innanzitutto, proposi che la relazione contenesse un’aperta autocritica della dirigenza, visto che nella bozza non si andava oltre le solite critiche alle istanze inferiori, ai comitati provinciali e regionali. In secondo luogo suggerii di completarla con la chiara definizione dei poteri e delle competenze del partito e del governo. (Il mio obiettivo era di far cessare la quotidiana ingerenza della burocrazia del partito nel lavoro del governo.) Infine sollecitai la rapida elaborazione di un programma d’azione fondato sulle decisioni del comitato centrale1.
Oggi tutto ciò può sembrare troppo poco e troppo tardivo, ma bisogna ricordare che nel 1967 vivevamo ancora in un sistema disegnato da Stalin per servire ai suoi orientamenti dittatoriali, che potevamo smantellare soltanto con gradualità. Perfino quel «troppo poco», in ogni caso, costò al nostro paese, meno di un anno dopo, un esercito d’occupazione formato da 600.000 uomini e 7.000 carri armati.
Novotný e altri respinsero la mia critica e le proposte avanzate, in particolare l’idea di un programma d’azione, e lasciarono sostanzialmente inalterata la relazione. Il presidente era tanto sicuro del sostegno della maggioranza da limitarsi a mormorare un semplice «approva», dopo ogni intervento. Non si votò sulle mie richieste e non ricordo che qualcuno mi abbia appoggiato.
La riunione del Cc si aprì lunedì 30 ottobre 1967 e la relazione, che avrebbe dovuto rappresentare il pensiero dell’intera presidenza, venne letta dal primo segretario. Subito dopo, come d’abitudine, continuò a porte chiuse, cioè senza giornalisti e ospiti. Io fui tra i primi a prendere la parola.
Contrariamente a quanto riportato da diversi cronisti, soprattutto in Occidente, non lanciai alcun sensazionale attacco a Novotný. Ripresi i temi sollevati in sede di presidenza del partito il 19 e il 24 ottobre. Rivendicai sostanziali cambiamenti nel modo con il quale il partito dirigeva la società e un atteggiamento autocritico della dirigenza.
Parlai, sì, dell’errato comportamento verso la Slovacchia, il che però non costituì il centro del mio discorso. Tuttavia, proprio questo tema venne scelto da Novotný e dai suoi alleati per il contrattacco; fui accusato, per screditare quanto avevo detto, di «nazionalismo borghese». Martin Vaculík giunse addirittura a imputarmi una «deviazione nazionalistica».
Per fortuna, molti componenti il Cc capirono che il problema vero era altrove e dopo che io avevo aperto il vaso di Pandora si lanciarono nella mischia. Il seguito del dibattito rivelò subito che era giunto il momento di parlare dei problemi reali. Quel giorno e il successivo ogni oratore aggiunse peso agli argomenti da me avanzati, per la prima volta venne usata la locuzione cumulo di funzioni. Dapprima la critica all’eccessivo potere di Novotný fu implicita, ma presto diventò esplicita richiesta allo stesso di dimettersi da primo segretario del partito.
Fu quello il primo scontro di una battaglia che sarebbe durata oltre due mesi. Con particolare gratitudine ricordo l’intervento di Josef Smrkovský. Era un uomo apprezzato nei Paesi cechi per l’attività svolta nella resistenza, al tempo della seconda guerra mondiale. Nei primi anni Cinquanta era stato vittima delle repressioni; dal gennaio 1967 aveva un’insignificante funzione politica nel governo: ministro per l’Economia idrica e forestale. Aveva notevole importanza il fatto che si fosse schierato, fin dall’inizio, con i riformatori. Due segretari regionali della Moravia, Oldřich Voleník e Josef Špaček, sostennero con forza la mia posizione, insieme a un buon numero di altri membri del Cc.
Verso le 8 della sera del secondo giorno di discussione giunse nella sala dov’eravamo riuniti la notizia di una dimostrazione di studenti nella capitale e dell’intervento della polizia per disperderla. La cosa sembrò non avere grande rilievo, visto che la protesta era stata originata soprattutto dalle frequenti interruzioni di energia elettrica negli internati studenteschi, contribuì tuttavia a far «precipitare» l’atmosfera dei nostri lavori.
Alla chiusura della sessione del Cc si ebbe un altro «colpo» per Novotný: la maggioranza respinse la risoluzione, preparata da lui e dal suo staff, che suonava approvazione delle tesi presentate all’inizio della riunione. Il documento fu criticato per il suo formalismo e per la sua inadeguatezza, il Comitato centrale votò affinché fosse rielaborato e discusso in una successiva riunione, in dicembre. Era accaduto un fatto senza precedenti, non poteva aversi segnale più chiaro del declino dell’autorità del primo segretario. Lo stesso organismo che aveva preso quella decisione sembrò sorpreso del potere di cui disponeva. Ora, la crisi della dirigenza diventava chiara a tutti.
La riunione del Ce si sciolse senza documenti conclusivi. Il giorno seguente, 1º novembre, Novotný e altri membri della presidenza lasciarono Praga per Mosca, dove avrebbero partecipato alle celebrazioni per il 50° anniversario della rivoluzione bolscevica: una pausa nel dramma che aveva cominciato a svolgersi. Il Comitato centrale avrebbe potuto riunirsi nuovamente soltanto poco prima di Natale, ma il treno degli avvenimenti che ci portava verso la Primavera di Praga era in movimento e non poteva piú essere arrestato o deviato.
La riluttante partenza di Novotný
Il primo segretario tornò dalla capitale sovietica soltanto il 10 novembre. Di nuovo, contrariamente al protocollo, non mi aveva incluso nella delegazione. Si era fatto accompagnare, invece, da Michal Chudík, il suo «slovacco preferito». Il prolungato soggiorno a Mosca diede luogo a parecchie voci. Era giunto lì il 1° novembre, per assistere alle cerimonie previste per i giorni 6 e 7 e partecipare a una conferenza dei rappresentanti dei partiti comunisti in programma per l’8. Potevamo supporre che nella capitale sovietica contasse sulla possibilità di parlare con Brežnev dei suoi problemi in patria, ma non riuscimmo a sapere nulla di concreto. Ci fu detto, dopo il suo ritorno, che a Mosca aveva contratto un’influenza, con la quale furono inoltre giustificate le sue assenze in due successive riunioni della presidenza del partito. Va ricordato che l’influenza «moscovita» godeva di una triste fama in Cecoslovacchia: dal marzo 1953, da quando Gottwald ne era stato colpito, con conseguenze letali, ai funerali di Stalin.
In assenza di Novotný, nei corridoi del Pcc dominavano i discorsi sulla drammatica sessione del Cc di fine ottobre. Parecchi membri cechi di quell’istanza vennero a Bratislava, per incontri con noi dirigenti del Pcs [Partito comunista slovacco, n.d.r.]: Josef Smrkovský, Václav Slavík, František Kriegel e altri2. Con loro ci trovammo d’accordo sui problemi di fondo, e dal canto mio potei constatare che nel Cc del Pcc esisteva un consistente blocco riformatore. Non era ancora certo, tuttavia, che fosse tanto forte da piegare la resistenza del primo segretario.
La reazione di quest’ultimo alla riunione di ottobre era prevedibile. Costituì, in seno alla presidenza, un gruppo di cinque persone, incaricate di investigare sulla mia «deviazione nazionalistica». Un esempio perfetto del suo semplicistico modo di pensare stalinista: innanzitutto avrei dovuto essere accusato di trasgressione ideologica, quindi si sarebbe trovato un peccato da punire (almeno con un biasimo), tanto sarebbe bastato per giustificare la mia rimozione dall’incarico di primo segretario in Slovacchia. Infine, avrebbe potuto mettere Chudík al mio posto.
La commissione d’inchiesta era composta, oltre che dal primo segretario del Pcc, da Hendrych, Chudík, Sabolčík e Lenárt. Naturalmente, Novotný aveva scelto le persone che riteneva più fidate. Era convinto che ce l’avrebbe fatta. Dal canto mio ero sicuro del contrario e non persi la calma. Quel modo di pensare era vecchio, di almeno dieci anni.
Dopo il Cc di ottobre, la presidenza cominciò a discutere del «cumulo di funzioni». L’organismo contava allora dieci membri con diritto di voto, quattro dei quali – Černík, Dolanský, Kolder e io – erano per la separazione delle cariche di presidente e di primo segretario; Hendrych, Chudík e Lenárt, insieme allo stesso Novotný, erano nella «Commissione Dubček», il quinto componente di questa, Sabolčík, non aveva diritto di voto, in quanto membro candidato della presidenza. Avevo bisogno del voto di uno degli altri due componenti (Bohuslav Laštovička e Otokar Šimůnek) o di ottenere il sostegno di un lealista novotniano. In questo caso si sarebbe avuta una condizione di parità e i giochi si sarebbero riaperti. La situazione sembrava non offrire speranze, per diverse buone ragioni.
Šimůnek, da lunghi anni nel governo e dal 1959 vicepremier con la responsabilità degli affari economici, era fedele senza riserve al primo segretario del Pcc, sicché non potevo prenderlo in considerazione. Dovetti escludere anche Laštovička. Iscritto al partito da prima della guerra, aveva combattuto in Spagna e nei primi anni Cinquanta era sfuggito alle persecuzioni staliniste che avevano colpito non pochi ex appartenenti alle Brigate internazionali, tra i quali Artur London (autore di La confessione), in larga misura perché protetto da Novotný, al quale era rimasto grato.
Rivolsi quindi la mia attenzione a Hendrych, da anni indiscusso numero 2 del Pcc. Era considerato un deciso sostenitore del presidente, senza ulteriori ambizioni. Dopo il Cc di ottobre aveva dato l’impressione di essere saldamente accanto a Novotný.
Ma io stavo osservandolo da qualche tempo. Era un uomo di bassa statura, largo, con spesse lenti su una montatura pesante e scura, sembrava un anziano curato di campagna. Per molto tempo era stato il braccio destro del presidente, il consigliere piú ascoltato, l’estensore dei suoi discorsi. Era, insieme, un alleato di tipo particolare. Diversamente da Novotný era un intellettuale, che aveva fatto alcuni anni alla facoltà di giurisprudenza dell’università Carlo di Praga, prima che i nazisti la chiudessero, nel 1939. Sentivo che la sua corazza di dogmatismo non era priva di crepe, e sicuramente egli comprendeva che i giorni del primo segretario erano contati. Lo avevo visto tentennare in diverse occasioni, da ultimo in aprile, quando il presidente aveva cercato di sostituirmi alla testa del partito in Slovacchia, e non credevo che l’accaduto fosse stato casuale.
Dopo aver ponderato la questione giunsi a concludere che era la sola persona che poteva essere piegata. Non sottovalutavo le difficoltà, perché sapevo da quanto tempo Novotný e lui erano amici stretti, tra l’altro per essere stati ambedue rinchiusi a Mauthausen. Ma sapevo, inoltre, che Šik proprio a Mauthausen era stato più intimo di Novotný dello stesso Hendrych. E adesso era suo risoluto oppositore, il che mi lasciava ben sperare.
Alcuni storici, in seguito, hanno avanzato l’ipotesi che io avrei stipulato un accordo con Hendrych per fargli cambiare opinione. La verità è che non ci fu alcun’intesa: mi limitai a piantare un seme nel suo cervello.
Verso la fine di novembre dissi a Kolder che cosa pensavo sull’atteggiamento di Hendrych. Uomo dalle semplici vedute, egli ne rimase sbalordito, mi guardò come se fossi uscito di senno e disse: «Non ha senso neanche tentare di parlarne con Hendrych. Lui e Novotný sono come gemelli. Non riuscirai mai a fargli cambiare idea. Ti renderesti soltanto ridicolo». Continuai a credere nel mio istinto e, lasciato Kolder, andai direttamente all’ufficio di Hendrych. Sopra la porta della sua stanza era accesa la luce rossa e la segretaria mi disse: «È molto occupato. Sta lavorando a qualcosa di urgente e importante». «Bene, replicai, anch’io ho una cosa molto importante». Aprii la porta ed entrai, chiudendomela alle spalle. Hendrych sedeva alla scrivania e stava leggendo alcune carte. Appena mi sentì, volse su di me il viso rotondo e chiese: «Di che hai bisogno?». Rimasi in piedi, nonostante mi avesse invitato ad accomodarmi, lo rassicurai che non gli avrei preso molto tempo e arrivai subito al dunque: «Ambedue sappiamo che la separazione delle funzioni di primo segretario e di presidente è soltanto questione di tempo. Ho pensato di chiederti se non hai interesse per una delle due». Per un momento interminabile restò come fosse gelato di colpo. Capii che quasi sicuramente non aveva mai preso in considerazione una possibilità del genere.
Appena riprese a respirare, continuai: «In un modo o nell’altro la situazione va risolta. Vero è che sarebbe difficile cambiare il presidente a breve termine. Rimane in piedi l’incarico di primo segretario. Non puoi farci niente, se ti opporrai potresti cadere con lui».
Continuò a non pronunciare parola. Uscendo, vidi che gli scivolava dalle dita la matita che teneva in mano. Almeno, pensai, gli ho infilato un tarlo nel cervello.
E l’avevo fatto davvero.
Non molto dopo la mia incursione nello studio di Hendrych, il primo segretario mi fece ufficialmente sapere che il 5 dicembre avrei dovuto comparire davanti alla commissione incaricata d’indagare sulla mia «deviazione nazionalistica» e mi fece avere un elenco di domande alle quali avrei dovuto rispondere. Suonavano come un esame al temine di un corso sul nazionalismo alla scuola di partito. L’intera faccenda era ridicola, se consideriamo la rapidità con la quale stava cambiando il clima politico. Mancava di una base reale ed era in contrasto con lo statuto del partito.
Davanti ai commissari mi accorsi subito che in maggioranza non apparivano entusiasti. Solamente Chudík appoggiò in pieno Novotrný. Notai con sorpresa l’assenza di Sabolčík, mentre Lenárt si limitò a poche notazioni formali. Ero curioso, naturalmente, di vedere quale atteggiamento avrebbe assunto Hendrych: almeno tre volte si pulì gli occhiali, prese moltissimi appunti, ma appariva indifferente e sulle questioni di sostanza restò del tutto neutrale. Sapevo che il presidente doveva essere non poco indignato mentre io ero molto divertito.
Nonostante l’insipida conclusione del mio «interrogatorio», dopo il ritorno a Bratislava, dovetti informarne gli altri componenti della presidenza del Pcs, la quale si riunì il giorno successivo e decise all’unanimità, meno Chudík, di respingere l’accusa di nazionalismo che mi era stata lanciata. Di fatto, quella era la parola fine messa all’intera faccenda.
Nel frattempo, Novotný aveva sollecitato Brežnev a recarsi a Praga, convinto che il leader sovietico sarebbe intervenuto in suo favore. Questi arrivò infatti l’8 dicembre, inaspettatamente, lo stesso giorno dell’appena citata decisione della presidenza del Pcs. Che Brežnev avesse quell’intenzione lo seppi a distanza di poche settimane, a dirmelo fu uno dei suoi assistenti, che mi raccontò anche come il suo capo avesse poi cambiato idea.
Prima di lasciare Mosca, il leader del Cremlino volle informarsi su chi fosse, «veramente, a Praga, il numero 2». Gli fu risposto che era Hendrych e gli venne precisato che si trattava di una persona, secondo l’ambasciata sovietica nella capitale cecoslovacca, saldamente legata a Novotný.
Brežnev aveva con sé i nomi di cinque dirigenti che pensava di incontrare: Novotný, Hendrych, Lenárt, Dolanský e il mio. L’elenco, comunque, non sembrava compilato allo scopo di trovare un successore del primo segretario del Pcc. Intenzionalmente, l’ospite aveva scelto tre cechi e due slovacchi membri della presidenza, secondo il protocollo. Niente di più e niente di meno.
Hendrych fu il primo a incontrare il capo sovietico, dopo che aveva parlato con Novotný. Stando a un mio informatore, Brežnev rimase di stucco, perché appena chiese l’opinione dell’interlocutore sulle possibili soluzioni del problema, si sentì rispondere, quasi senza alcun preambolo: «Sono disposto ad assumere l’incarico di primo segretario». Di che cos’altro discutessero poi i due non lo seppi, ma è chiaro che il capo del Cremlino si rese conto come fosse impossibile mantenere al potere Novotný, quando lo stesso veniva abbandonato anche dal suo più fidato sostenitore.
Parlai con Brežnev il giorno successivo, a Praga, nella sede del Cc del partito. (In Occidente si diffuse l’errata notizia che l’ospite fosse venuto a Bratislava appunto per incontrarmi.) Il colloquio durò un’ora circa. Forse meno del tempo trascorso con gli altri suoi interlocutori, ma noi non avevamo bisogno d’interpreti. Il leader sovietico mi chiese di dirgli che cosa pensavo della situazione. Lo feci, sottolineando l’ampiezza dei problemi che avevamo di fronte e l’indisponibilità di Novotný a risolverli. Parlai inoltre della sua intolleranza, a proposito dei rapporti tra le nostre due nazioni. Il mio interlocutore pose ancora qualche domanda supplementare, senza tuttavia esprimere alcuna opinione. Non vi furono accenni alla successione.
Credo che all’arrivo a Praga Brežnev non avesse un’idea chiara della serietà dei nostri problemi, parlando con me non mostrò interesse a saperne di piú. Ascoltò, senza porre domande che potessero aiutarlo a comprendere la sostanza del contrasto e le cause sociali, economiche e politiche dello stesso. Penso che lo considerasse uno scontro personale tra alti dirigenti. E, cosa ancora peggiore, lui e il suo ufficio politico dimostrarono la propria ignoranza nei mesi successivi. Semplificarono il tutto e lo ridussero a un’unica questione: gli interessi della burocrazia del partito di governo.
In diverse occasioni è stato ripetuto, in Occidente, che al termine della sua visita Brežnev avrebbe detto che spettava a noi risolvere i nostri problemi: «Eto vaše dělo» («È una faccenda vostra»), sarebbero state le sue conclusioni. Se e a chi l’abbia detto non so. Resta il fatto che non ci fu l’atteso incontro con l’intera nostra presidenza. Partì il 9 dicembre, accompagnato all’aeroporto da Novotný.
Alla fin fine, ciò che avrebbe detto il leader del Cremlino è meno importante del fatto che evitò di incontrarsi con la presidenza, sulla quale avrebbe potuto fare pressione a favore del primo segretario. Risultato della visita fu il fatto che si rivelò incapace di sostenere Novotný. Personalmente, non dubito che fu l’atteggiamento di Hendrych a influenzare, più di ogni altra cosa, Brežnev.
Il presidente della repubblica, in ogni caso, non si rassegnò neanche dopo quest’altro insuccesso e resistette per altre settimane. L’11 dicembre, nella riunione della presidenza, la disputa continuò con la stessa intensità registrata in precedenza. Osservai con attenzione Hendrych, che però rimase passivo, non diede alcun segnale di voler cambiare atteggiamento. Fu necessario posporre la riunione del Cc, che era stata annunciata per il giorno successivo, al 19, sotto Natale cioè. Alcune donne si lamentarono, perché non avrebbero avuto il tempo per preparare i dolci natalizi.
Nella riunione della presidenza, tenuta due giorni prima del Cc, si ebbe la svolta. Presi la parola per dire che fino a quel momento soltanto in quattro avevamo espresso con chiarezza il nostro pensiero: Dolanský, Černík, Kolder e io stesso. Era un’esagerazione voluta per fare una proposta: tutti i componenti la dirigenza, compresi i membri candidati della presidenza e i segretari del Cc dovevano pronunciarsi. Non ci fu opposizione e l’idea venne tacitamente accettata. Neppure Novotný sollevò obiezioni, pensando, certamente, che la maggioranza si sarebbe espressa a suo favore.
Non si stabilì alcun ordine per gli interventi, il momento cruciale arrivò quando prese la parola Vladimír Koucký, segretario del Cc, un dirigente cólto (a differenza di parecchi altri) che aveva partecipato alla resistenza contro il nazismo, molto vicino a Hendrych, tanto da non fare nulla senza averne preventivamente discusso con lui. Cominciò con cautela, affermando di aver seguìto attentamente il dibattito e concludendo di essersi formato la convinzione che non era possibile evitare la divisione delle cariche di primo segretario del partito e di presidente della repubblica.
Osservai l’effetto traumatico di quelle parole e non dubitai che erano state soltanto il prologo di quanto avrebbe detto Hendrych, il quale non disilluse l’attesa. Sottolineò, infatti, che la separazione era ormai inevitabile. Il gatto era stato tirato fuori dal sacco. Alla conta dei voti si ebbe un risultato di parità: 5 contro 5. La decisione ultima spettava, ora, al Comitato centrale, che si riunì il 19 dicembre. Al primo punto dell’ordine del giorno vi era un discorso di Lenárt sulla situazione economica del paese, ma tutti aspettavano l’introduzione di Novotný sul secondo punto in discussione, quello relativo alla riorganizzazione degli organismi dirigenti del partito.
L’oratore cominciò scusandosi per gli attacchi rivoltimi nella riunione di ottobre e cercò di presentarsi come il più ardente partigiano dell’amicizia ceco-slovacca. Proseguì leggendo un testo pieno di frasi fatte e generiche come quelle sulle «minacce esterne alla sicurezza dello Stato», un tentativo maldestro per evitare di entrare nel vivo della contesa.
I presenti non gradirono e interruppero il discorso con grida di ogni genere. Seguì una tempestosa discussione e alcuni intervenuti invitarono apertamente il primo segretario a dimettersi. Il dibattito continuò il 20, mostrando che Novotný non aveva più la maggioranza. La riunione si protrasse ancora il 21 e tutti i membri effettivi e candidati della presidenza, nonché i segretari furono invitati a pronunciarsi. Del gruppo, composto da 15 persone, soltanto 4 restarono accanto al primo segretario in carica: Laštovička, Šimůnek, Miroslav Pastyřík, presidente del Consiglio centrale dei sindacati, e Pavel Hron, presidente della Commissione centrale di revisione. Tra coloro che avevano abbandonato il campo del presidente un personaggio importante: Martin Vaculík.
A quel punto Novotný fece marcia indietro e accolse il principio della separazione delle due massime funzioni nello Stato. Rimise l’incarico di primo segretario «a disposizione del Comitato centrale».
Fino ad allora non si era parlato di chi avrebbe potuto succedergli e il Cc elesse un comitato consultivo di 11 membri, uno per ciascun comitato regionale del partito, per assistere la presidenza a scegliere tra i possibili candidati. A presiedere il gruppo fu chiamato Jan Piller, rappresentante della Boemia centrale. Il Cc quindi aggiornò i propri lavori al 3 gennaio 1968, decisione accolta con riluttanza da alcuni, perché temevano che Novotný potesse fare ricorso a mezzi illegali, al fine di difendere la sua posizione.
La paura si rivelò giustificata. Probabilmente non fu all’insaputa del primo segretario che già durante la riunione del Cc vennero approntati piani per un colpo di mano che avrebbe dovuto essere realizzato dalla polizia segreta e da speciali unità militari. Un centro dell’operazione era l’8° dipartimento dell’apparato del Cc, diretto dal già ricordato Miroslav Mamula, stretto compagno di Novotný, nel quale si dice che era stata approntata una lista con centinaia di nomi di oppositori, da arrestare all’inizio del golpe.
Una sollevazione parallela tentò di organizzarla il generale Jan Šejna, responsabile dell’organizzazione di partito al ministero della Difesa. Questi era un protetto del presidente e amico personale di suo figlio. Dopo la sua fuga in Occidente, nel febbraio 1968, si scoprì che era anche un ladro: aveva venduto al mercato nero sementi di graminacee di proprietà dell’esercito. Šejna tentò di convincere il comitato di partito da lui diretto a sostenere Novotný e, ironia della sorte, ci riuscì il 5 gennaio, quando la battaglia era ormai conclusa.
Non è stato accertato se Šejna fosse coinvolto inoltre nel tentativo espletato da alcuni alti ufficiali dello stato maggiore generale di far muovere su Praga un’unità di carri armati a sostegno di Mamula.
Non è stata provata l’esistenza di un accordo segreto, ma va notato che due influenti generali di corpo d’armata, Otakar Rytíř e Josef Hečko, membri candidati del Cc, restarono a fianco di Novotný fino all’ultimo, insieme al ministro degli Interni Josef Kudrna. Altri, invece, vanno ricordati per i loro coraggiosi sforzi di ostacolare la cospirazione. Tra questi, Martin Dzúr, Egyd’ Pepich e Václav Prchlík, che poi furono da me proposti e accettati per importanti incarichi3.
I putchisti, per fortuna, non riuscirono nel loro intento di salvare Novotný e forse fu lui stesso, alla fine, a farli desistere. Era tutto troppo ridicolo: un putsch militare di quel tipo non aveva precedenti in Cecoslovacchia e soprattutto, seppure fosse riuscito, non avrebbe eliminato i problemi di fronte ai quali si trovava il paese. È vero, comunque, che quei giorni furono pieni di tensione e delle voci più diverse. Natale lo passai in famiglia, a Bratislava, ma, devo ammettere, sempre con il timore di sentire la proverbiale bussata alla porta verso le 3 del mattino.
La presidenza del partito tornò a riunirsi il 2 gennaio 1968, insieme al gruppo dei consulenti, al fine di approntare le proposte da presentare al Cc, convocato per il giorno seguente. Il presidente continuò a manovrare, propose infatti di posporre l’elezione del successore almeno alla fine di febbraio. I suoi fedeli considerarono la richiesta di rinvio come un modo per restare in carica. La presidenza restò divisa come in precedenza e dopo oltre dieci ore di discussione, fin quasi alle 2 del mattino, si dimostrò incapace di risolvere il problema.
Cresceva, peraltro, la pressione e lo si vide nei successivi due giorni di riunione del Cc. La ritirata di Novotný ebbe inizio nella riunione della presidenza che si tenne la sera del 4, senza il gruppo consultivo, ma con i membri candidati e i segretari del Cc. Il primo segretario chiese ai presenti di indicare per iscritto i nomi dei candidati alla successione.
Fino a quel momento non avevo immaginato di poter essere io il prescelto. Non vigeva ancora il principio di una divisione bilanciata delle massime cariche tra cechi e slovacchi e le probabilità mi erano contrarie, appunto in quanto slovacco. Delle quattro funzioni principali presidente della repubblica, primo ministro, primo segretario del Pcc e presidente del parlamento soltanto una, quella di presidente del governo, risultava assegnata allo slovacco Lenárt. Mi aspettavo, quindi, che fosse ancora un ceco a dovere succedere a Novotný, e non ero contrario a questa soluzione, purché fosse stato scelto qualcuno orientato a favore delle riforme, per esempio Černík. Lui però aveva rifiutato perfino di prendere in esame la proposta, preferendo restare vice primo ministro.
Se fossi o meno qualificato per l’incarico è tutt’altra questione. Ero cosciente delle enormi responsabilità di un primo segretario del Pcc. Già allora avevo una buona esperienza del lavoro di partito e della pubblica amministrazione, tale da permettermi di averne un’idea chiara, sicché tra i miei obiettivi principali vi era quello di ridurre drasticamente gli interventi dell’apparato sul lavoro quotidiano del governo. Intendevo così aprire la strada alle riforme.
Allo scrutinio dei voti risultai al primo posto: Laštovička ne aveva avuti 4, come Černík, Lenárt 6 e io 7. Il risultato venne consegnato al comitato consultivo, che ne discusse per il resto della notte.
La presidenza e il comitato consultivo tornarono a riunirsi alle 8 del mattino del 5 gennaio e le candidature furono ridotte a due: quella di Lenárt e la mia. Dopo un breve dibattito, una netta maggioranza si pronunciò affinché fossi io il candidato da proporre al Cc. Alla fine, seppure a malincuore, anche Novotný accettò la decisione. Il Cc del partito accettò la raccomandazione e fui scelto così per succedere al primo segretario.
A volte si ricorda, magari con un sorriso, che il breve discorso da me pronunciato in chiusura di quella riunione fu troppo garbato, nella sostanza e nel tono. Vorrei chiedere: non è sempre bene comportarsi in maniera civile?
Il Comitato centrale decise, inoltre, di eleggere altri quattro componenti la sua presidenza: Jan Piller, Josef Borůvka, Emil Rigo e Josef Špaček. Un passo importante, perché spostava a favore dei riformatori l’equilibrio nel massimo organismo dirigente: nessuno dei neoeletti era seguace della dura linea staliniana.
L’insieme di quegli avvenimenti fu definito, in seguito, «il gennaio che aprì la porta alla Primavera di Praga». Dal canto mio provai la sensazione di vivere un momento storico: ci si apriva una serie di possibilità. Allora non vidi grandi e minacciosi ostacoli all’orizzonte. Non mi sfiorò neppure l’idea che avessimo ottenuto quello che volevamo con venti anni d’anticipo.
Ci furono poi speculazioni scorrette, relativamente al modo in cui avvenne lo scambio di consegne. Il mio comportamento non fu casuale. Subito dopo il 5 gennaio discussi la questione con Novotný. Chiesi e ottenni che tutti i documenti e la cartoteca appartenenti all’ufficio del primo segretario fossero lasciati sul posto e catalogati. Dissi al mio predecessore che, naturalmente, avrebbe potuto prendere con sé le cose di sua proprietà. Avrebbe dovuto traslocare entro 1’8 gennaio, e uomini suoi e miei presero parte allo sgombero. Mi comportai con cortesia e adeguato rispetto: era pur sempre il presidente della repubblica. Non ha senso affermare che gli fornii l’occasione di portar via dall’ufficio documenti riservati. Volli evitare peraltro, a ogni costo, una severa ispezione poliziesca per la divisione tra cose personali e documenti ufficiali. Non credo vi fosse molto da portare via ed ero convinto che la gran parte del suo archivio era già negli uffici della cancelleria presidenziale. Dopo 1’8 gennaio, Novotný non disponeva più di stanze nella sede del Cc del partito, il suo ufficio era a Hradčany, al Castello, nel quale risiede il presidente della repubblica.
Quando tutto ebbe fine partii, stanchissimo, per Bratislava, dove giunsi poco dopo mezzogiorno. Mi recai direttamente a casa, per liberarmi dalla tensione che mi aveva accompagnato nei giorni e nelle settimane precedenti riposai per un po’ (ma non ho avuto mai bisogno di dormire a lungo) e trascorsi qualche momento con mia moglie e i ragazzi. La sera andai ad assistere all’incontro di hockey in programma allo stadio invernale. Fu una buona idea. L’incontro mi piacque e mi sentii bene in mezzo a una folla vivace.
Alexander Dubček
(Tratto da: Alexander Dubček, Il socialismo dal volto umano. Autobiografia di un rivoluzionario, a cura di Jiří Hochman, Roma, Editori Riuniti, 1996, pp. 144-158).
Note
1 Nell’intervento al Cc, Dubček disse, tra l’altro: «Per questo non possiamo impiegare ogni energia nella lotta continua e difensiva contro qualcosa, dobbiamo impiegarla nello sforzo per la profonda conoscenza delle cause e per la soluzione dei problemi, per l’ulteriore sviluppo. Sottolineo di proposito questi “per”». Egli mirava sempre avanti; era per la soluzione dei problemi, passati e correnti, mediante un programma positivo, un lavoro positivo per il futuro (n. O.J.). (Una versione italiana del discorso pronunciato il 30 ottobre 1967 è in Le ventimila parole di Dubcek, il Saggiatore, Milano, 1969, pp. 9-28, n.d.t.).
2 Tra questi vi fu anche Ota Šik, come lui stesso ha ricordato in un suo libro di memorie. Numero e posizione dei visitatori erano un chiaro segnale dell’attenzione che veniva riservata alla direzione politica slovacca e a Dubček (n.O.J.).
3 Dzúr (1919-1985) fu nominato ministro della Difesa nell’aprile 1968 e ricoprì tale funzione anche dopo l’invasione, fino al gennaio 1984; Pepich e Prchlik (1922-1983) ebbero importanti incarichi di partito in seno alle forze armate, che dovettero lasciare per volontà di Mosca già prima dell’invasione (n.d.t.).
Inserito il 13/09/2025.
Il commento di Giuseppe Boffa, all’epoca inviato del quotidiano del PCI a Praga, sulle decisioni del CC del Partito Comunista Cecoslovacco che portarono all’ascesa al vertice del partito di Alexander Dubček. Fin da subito Boffa aveva intuito la portata eccezionale di quell’evento.
di Giuseppe Boffa
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Una «fase nuova» aperta in Cecoslovacchia
di Giuseppe Boffa
PRAGA, 6 – La sessione del Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco che si è appena conclusa a Praga apre una fase nuova nella vita politica di questo paese. Per giustificare un’affermazione tanto impegnatira occorrono alcune spiegazioni: vale quindi la pena che ci soffermiamo su alcuni punti più caratteristici delle misure adottate.
Cominciamo dalla principale: la scissione delle cariche di primo segretario e di presidente della Repubblica, per cui Novotny cede allo slovacco Dubcek il primo posto. Essa ha modificato una situazione che in Cecoslovacchia esisteva da dieci anni (Novotny ricopriva le due cariche dal 1957) e che aveva precedenti più lontani, poiché anche Gottwald era stato prima del ’53 capo del Partito e dello Stato contemporaneamente. Essa cambia dunque tutto un costume invalso in quasi venti anni. Proprio per questo, poteva apparire o essere presentata da alcuni come un passo avventato, un «salto nel buio».
Timori di questo genere sono stati espressi. Attorno al dilemma si è accesa una lotta politica. A un determinato momento il Presidium del partito si è trovato diviso in due gruppi uguali di cinque membri ognuno. A questo punto vi era da temere che la situazione fosse senza uscita, con tutti i rischi che una simile divisione, un simile equilibrio al vertice avrebbero comportato. È stato proprio in questo mоmento, però, che ad arbitrare il dissidio è intervenuto – così come conviene – il Comitato centrale del partito.
Va detto che da tempo il CC del partito cecoslovacco si era andato investendo in pratica di un ruolo sempre più impegnativo. Dal XIII Congresso, che si è tenuto nel ’66, le sue riunioni sono diventate molto frequenti, in certi periodi quasi mensili: le ultime si sono avute in settembre, ottobre, dicembre e, adesso, in gennaio. Anche il carattere degli argomenti affrontati è diventato più radicale, specie dopo l’introduzione della riforma есоnomica, avvenuta un anno fa. In ottobre, quando il grande dibattito è cominciato, il Comitato centrale era stato chiamato a discutere lo stesso ruolo del partito nella società cecoslovacca nella sua fase attuale.
Di fronte alla divisione manifestatasi nel Presidium, è stato il CC a non volere in dicembre che la questione controversa fosse accantonata, come in un primo momento si era proposto, e ad impegnare invece direttamente una discussione che in due successive riprese – cioè in dicembre e in gennaio – ha investito tutta la politica cecoslovacca, finché si è giunti alla nota soluzione della questione centrale, che ha finito con l’essere non solo corretta – cioè statutaria e democratica – ma anche unanime.
In questo modo il Comitato centrale ha riaffermato una sua supremazia anche nei confronti del Presidium e della Segreteria del partito, considerati come suoi organismi esecutivi. Risulta che nella stessa discussione sono state fatte esplicite proposte in questo senso, che richiedevano anche una sanzione con emendamenti dello statuto. Non è improbabile che si torni a parlare di esse in avvenire.
Nello stesso tempo il Presidium è stato allargato. Abbiamo segnalato ieri i quattro nomi dei nuovi membri effettivi. È previsto tuttavia che ve ne sia un quinto: sarà il nuovo primo segretario del Partito slovacco, che verrà eletto al posto di Dubcek ormai diventato primo segretario del Partito cecoslovacco. L’elezione probabilmente avrà luogo lunedì a Bratislava. Quanto ai quattro già noti, si può dire che Spacek è considerato uno dei dirigenti periferici più саpaci e innovatori e che Boruvka è stato uno dei più battaglieri protagonisti delle recenti riunioni. Il terzo, Piller, еrа stato tempo fa rimosso dalla carica di vicepresidente del Consiglio per vedersi relegato in quella di semplice viceministro. Un ultimo particolare curioso: Rigo, il quarto, è uno zingaro, forse il primo a trovarsi in Europa in un organo di direzione tanto importante.
Deve essere chiaro che le ultime sessioni del Comitato centrale cecoslovacco sono state fortemente critiche. Eppure non si è cercato un capro espiatorio. La critica ha coinvolto problemi essenziali. Segnaliamo i principali, riservandoci di tornare in avvenire su ognuno di essi: la politica verso la nazione slovacca, la politica verso gli intellettuali e la vita democratica del partito. Questa critica ha toccato inevitabilmente in primo luogo Novotny, che concentrava nelle sue mani i massimi poteri di Stato e di partito. Ma essa è rimasta una critica politica. Il comunicato ufficiale segnala e riconosce anche i meriti del presidente. Questi, del resto, ha preso due volte e molto ampiamente la parola, in dicembre e in gennaio, di fronte al CC, difendendo le sue posizioni. Più che nella persona si è indicata così la radice degli errori proprio nel sistema di concentrazione delle cariche decisive nelle mani di un solo uomo.
Gli slovacchi si lamentavano – e al CC lo hanno detto poiché i loro interventi sono stati molti – dell’eccessivo accentramento praghese. Essi sanno di avere avuto solo nella Repubblica popolare e socialista diritti di nazione uguale, autonoma, ai quali tengono moltissimo. Ma proprio per questo si erano anche convinti che non fossero stati sufficientemente rispettati negli ultimi anni. Il Comitato centrale ha deciso che siano quindi gli stessi organismi autonomi di partito e di governo della Slovacchia a proporre le soluzioni più idonee.
Insomma, sin dall’inizio, con le decisioni di Praga si è voluto dare la sensazione di uno stile nuovo, simbolo di un nuovo sviluppo della democrazia nel partito e nel paese. Qui è l’importanza di ciò che si è fatto.
Beninteso, le decisioni adottate non sono la soluzione di tutti i problemi. Molte sono però le altre idee interessanti che si sarebbero affacciate nel dibattito al Comitato centrale. Di alcune di esse si tornerà certamente a discutere in un prossimo avvenire. Il calendario dei mesi futuri prevede altre riunioni frequenti del Comitato centrale. Si ridiscuteranno anche le cariche di governo. Per questo ci sembra legittimo dire che una fase nuova è cominciata.
6 gennaio 1968
Giuseppe Boffa
(Tratto da «l’Unità», 7 gennaio 1968).
Inserito il 16/09/2025.
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Gli avvenimenti cecoslovacchi di queste ultime settimane sono di grande rilevanza politica, e non soltanto per il paese che ne è il protagonista. L’attenzione di tutto il mondo si è concentrata sui mutamenti che sono in corso nel gruppo dirigente del partito comunista e dello Stato cecoslovacco come risultato di una lotta politica che ha investito tutto il paese, raggiungendo livelli molto alti e toni e momenti altrettanto tesi. Dalla fine dell’estate scorsa – quando si concluse il Congresso degli scrittori, che ha rappresentato uno dei punti di avvio della fase di lotta politica che è attualmente in corso – si sono avuti vari momenti caratterizzanti di questa decisiva congiuntura politica cecoslovacca: la lunga sessione del Comitato centrale del partito che si è prolungata nel corso di quasi quattro mesi (dall’ottobre ’67 allo scorso gennaio) e che si è conclusa con l’elezione del compagno Alexander Dubcek alla carica di primo segretario del partito, in sostituzione di Antonin Novotny; lo scontro che all’interno del gruppo dirigente e in tutto il paese si è avuto fra gli innovatori che lottavano per superare le deficienze gravi del passato e affermare i principi di un profondo rinnovamento politico e sociale del paese, sulla base dell’applicazione dei metodi nuovi della direzione dell’economia statale e sulla base di una più aperta e rigorosa osservanza delle norme democratiche nel governo del paese, così da assicurare la più vasta partecipazione delle masse alla gestione della società; e – infine – la resistenza che i settori più conservatori della società hanno opposto all’affermazione del nuovo gruppo dirigente e dei nuovi metodi di direzione politica della società e, soprattutto, alla sistematica ricerca di un nuovo e più avanzato rapporto fra democrazia e socialismo, che è oggi il tratto caratteristico dominante della situazione cecoslovacca. Tutti questi – che abbiamo voluto chiamare i momenti caratterizzanti della nuova situazione cecoslovacca – non si sono manifestati senza difficoltà. senza che «il nuovo» dovesse aprirsi – spesso faticosamente e talvolta anche in maniera drammatica – la strada per venire alla luce. La minaccia di una pressione militare che avrebbe dovuto esercitarsi contro il Comitato centrale del partito, la fuga negli Stati Uniti di un alto esponente militare, appartenente a quelle forze conservatrici che hanno resistito energicamente sulle loro vecchie posizioni in una battaglia di retroguardia che ha reso certamente più alto il prezzo pagato per il rinnovamento; tutto ciò ha ancora acuito l’interesse politico per avvenimenti di cui tutti hanno sentito l’importanza e la gravità.
Rinascita ha dedicato – dalla fine dell’estate ad oggi – numerosi articoli all’esame della situazione cecoslovaccа (п. 38, 40 е 47 del 1967 e n. 2, 5, 9, 10 e 11 del 1968). Gli avvenimenti cecoslovacchi rappresentano tuttavia non soltanto materia di rilevante interesse politico ma anche materia di una riflessione teorica e culturale destinata ad avere il più ampio sviluppo. Il dibattito che è ad esempio attualmente in corso a Praga sui rapporti fra il partito comunista e la società e sulla funzione dirigente del partito; le discussioni che si sono sviluppate sul ruolo e la posizione dei sindacati nel socialismo, sul ruolo e la funzione delle varie organizzazioni politiche e sociali che debbono fornire l’ossatura e i connotati del pluralismo della società socialista; la ricerca difficile di un nuovo rapporto fra politica e cultura e quella sui rapporti che l’applicazione della legge di riforma economica dovrà definire alla base dell’apparato produttivo: su queste questioni la riflessione – a cui Rinascita ha cercato sin qui di dare un primo contributo – è destinata a svilupparsi e la ricerca ad approfondirsi. Siamo perciò lieti di pubblicare qui due testi che riteniamo portino un contributo a questa discussione: uno è stato scritto espressamente per noi dal noto studioso di filosofia e saggista marxista austriaco Ernst Fischer e l’altro è il testo di un’intervista che il filosofo marxista ungherese György Lukács ha concesso in questi giorni alla rivista culturale praghese Kulturní Noviny.
La speranza di Praga
di Ernst Fischer*
Nei tempi ancora bui in cui viviamo, Praga è il barlume di una grande speranza. In Cecoslovacchia comunisti coraggiosi e accorti sono all’opera per scoprire gli errori del passato, metter riparo ai crimini e progettare una società moderna, democratica, socialista, dove progettazione e prassi siano ingranate l’una nell’altra. Se questo ben ponderato e rischioso tentativo riuscirà, il risultato non sarà un evento locale, ma storico. Un comunismo che unisca la libertà e l’umanità alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione decisivi, può infatti acquistare una forza di attrazione a grande raggio di azione.
La «nuova sinistra» nei paesi capitalistici industriali cerca lontano ciò che ritiene mancarle vicino: la dinamica rivoluzionaria. Questa mobilitazione verso l’esotico non di rado è una fuga dai problemi sociali di casa propria. Il Vietnam, marchio e vergogna degli USA, in Oc cidente ha scosso masse finora lontane dalla politica, ma un secondo, un terzo Vietnam è una prospettiva non accettabile per l’Europa. I giovani, disperati nella miseria della prosperità, desiderano non un moderato progresso nel quadro delle leggi vigenti, ma invece mutamenti radicali, che tocchino le radici; insieme però desiderano la libertà, una esistenza senza regolamento di servizio. Se in Cecoslovacchia il rinnovamento radicale riesce, se dunque non soltanto viene liberata l’econo-terzo vergogna degli USA, in Oc cidente ha scosso masse fi-nora lontane dalla politica. ma un secondo, un Vietnam è una prospettiva non accettabile per l’Europa. I giovani, disperati nella mi-seria della prosperità, desi-derano non un moderato progresso nel quadro delle leggi vigenti, ma invece mu-tamenti radicali, che tocchi no le radici; insieme però de siderano la libertà, una esi stenza senza regolamento di servizio. Se in Cecoslovac chia il rinnovamento radica le riesce, se dunque non sol-tanto viene liberata l’economia da alcune rigidità del piano, ma soprattutto se gli uomini saranno liberi di dire ciò che pensano, di scegliere fra alternative, in breve tempo sorgerà quello in cerca del quale molti vanno vagando nelle lontananze: una società socialista che si sviluppa nella libertà.
La lotta per liberare la strada verso questa mèta, è da anni la fatica di una avanguardia intellettuale in Cecoslovacchia. Questa avanguardia è costituita da comunisti convinti; io ritengo importante sottolineare particolarmente questo fatto, perché, per ignoranza o cattive intenzioni, viene insistentemente diffusa la diceria che quanto è iniziato in Cecoslovacchia sarebbe una rivolta anticomunista. Nella propagazione di tali dicerie vi è di fatto una cooperazione tra gli anticomunisti professionali dell’Occidente e i responsabili della deformazione dell’idea socialista, i quali d’un tratto scoprono il proletariato e vanno parlando di un colpo di mano degli intellettuali contro gli operai. Il metodo non è nuovo: quando i potenti sono in pericolo fanno appello all’antintellettualismo e all’antisemitismo che vi è congiunto. C’è da supporre che gli operai cecoslovacchi non cadranno nella trappola di questa demagogia incanutita nella vergogna; essi infatti sono intelligenti, d’orecchio fino e diffidenti verso gli inganni del patetismo.
In realtà il movimento per un rinnovamento democratico e socialista in Cecoslovacchia è partito dagli intellettuali, e innanzitutto gli scrittori hanno dato prova di essere ciò che sono chiamati a essere: i portavoce di ciò che non viene detto, la coscienza della propria epoca. Ma si deve aggiungere che fin dal principio non sono stati soli, hanno invece mantenuto il contatto e cooperato con economisti, sociologhi, lavoratori delle scienze e con preoccupati ed esperti funzionari del partito. Le nuove idee sono maturate in diversi campi di lavoro, dove sono stati progettati nuovi piani e i problemi economici sono stati strettissimamente intrecciati alle complesse questioni della democrazia, della codecisione, della educazione alla autoeducazione, alla libertà di pensiero e di decisione.
Per quanto grande sia la possibilità della Cecoslovacchia di diventare un modello di democrazia socialista, altrettanto grandi sono le difficoltà: e tra questa possibilità e queste difficoltà c’è qualcosa come una coincidenza. La Cecoslovacchia, a differenza della Russia, della Polonia e degli altri Stati orientali, era un paese dall’industria fortemente sviluppata e di autentica tradizione democratica al momento di passare al nuovo sistema sociale. Nelle libere elezioni democratiche avvenute dopo l’abbattimento del dominio hitleriano, i comunisti ottennero il 40 per cento dei voti e insieme con i socialisiti ebbero la maggioranza nel parlamento. Il partito comunista era seguito non solo dalle masse degli operai evoluti, ma anche dagli evolutissimi intellettuali e da larghi strati contadini. Il dissidio nazionale fra cechi e slovacchi cominciava a far posto all’alleanza delle due nazioni. L’esperienza dei vecchi uomini di fiducia del popolo lavoratore si associava allo slancio della nuova generazione.
Anche la svolta del febbraio 1948, con cui si vollero garantire i fondamenti economici e politici del socialismo, aveva in sé la possibilità di uno sviluppo adeguato alla natura e alla struttura del paese. Qui però intervenne il fatto malsano: l’assurda imitazione di quanto era avvenuto in Unione Sovietica su tutt’altre premesse e che era stato deformato e stravolto sotto il dominio di Stalin e del suo apparato. Il grande poeta ceco Frantisek Halas definiva Parigi e Mosca le due mammelle d’Europa: staccato dall’una e sottoalimentato dall’altra, l’organismo della Cecoslovacchia si logorò. La democrazia sparì, prese il sopravvento la dittatura del partito comunista e di un apparato sempre meno controllato, la quale anche troppo spesso si dimostrò solo la dittatura del dilettantismo. Leali direttori d’azienda, specialisti scientificamente e tecnicamente preparati, vennero sostituiti con abborracciatori accondiscendenti. I nuovi piani economici furono ampiamente in contraddizione con le possibilità e le esigenze del paese. Povera di materie prime (la lignite è un relitto di vecchi tempi, l’energia idraulica non è sufficiente), la Cecoslovacchia era specializzata nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro; inoltre possedeva una economia agricola produttiva. Dal 1948 cominciò invece, con i consiglieri sovietici e adattandosi agli interessi veri o presunti dell’Unione Sovietica, un periodo di superinvestimenti, in parte (soprattutto in Slovacchia) giustificabili, ma in gran parte sbagliati, risultati di vanagloriosa presunzione. Coloro che ammonivano contro i pericoli, erano scomodi e venivano rimossi, non di rado arrestati e condannati come sabotatori. La critica non era soltanto indesiderabile, ma anche pericolosa, mentre gli investimenti sbagliati divoravano in nome di un futuro illusorio le risorse del presente. Il simbolo di questi investimenti fu il monumento a Stalin sulla Letna, che gigantesco sovrastava la città; quando una notte fu fatto saltare in aria, restarono le suole degli stivali. Quanto oggi avviene in Cecoslovacchia, potrebbe essere definito un allontanamento da queste suole.
Ogni dittatura che con l’arbitrio e la cattiva amministrazione suscita malcontento ha bisogno di colpevoli. Chi doveva far la parte del colpevole lo stabiliva il servizio segreto sovietico di allora, non senza l’intervento di qualche potente ceco, che così chiudeva i conti con qualche rivale. Fra tutti i pseudo-processi organizzati dall’apparato di potere stalinista nei diversi paesi, il più crudele e grottesco fu probabilmente quello contro Slansky e i suoi coimputati. Con confessioni imparate a memoria, costoro, portati in tribunale, dovettero accusarsi di congiura sionistica, e l’atto d’accusa ricorda anche troppo i famigerati «protocolli dei savi di Sion», una falsificazione antisemita nata nella Russia zarista e ripresa da Hitler. La discrepanza tra questo processo antisemita, insuperabile nella sua stupidità e infamia, e la cultura, l’intelligenza di un popolo istintivamente refrattario all’antisemitismo, era evidente; ma il fatto che nessuno di coloro che erano al vertice trovasse il coraggio di dire di no, non poté non provocare una estrema demoralizzazione. E sempre più andò dilagando la rassegnazione, l’apatia, la resistenza passiva contro un regime il quale, anche dopo il XX Congresso del PCUS, non osava dire la verità, si tirava indietro di fronte a una franca riabilitazione delle vittime, si sforzava di evitare ogni decisione muovendosi a metà della strada e con mezzi termini. A lungo si è andati avanti senza accettare né respingere le riforme proposte da Ota Sik e dai suoi amici, per approvarle alla fine, dopo averle castrate, con questo allegro commento: «Bene, dimostrate la vostra virilità!».
La Cecoslovacchia trotterellava a questo modo verso la rovina – finché giunse l’esplosione al congresso degli scrittori e in alcune sedute del Comitato centrale. Finalmente, anche se tardi, la verità è giunta davanti al popolo – e questa verità è dura e scarsa di promesse.
Dapprima dunque si è trattato di parlare senza paura della terribile eredità che i rinnovatori della Cecoslovacchia si vanno assumendo, delle deviazioni economiche, politiche e morali del passato, e delle operazioni niente affatto indolori che sono necessarie per riparare ai delitti e correggere gli errori. Quindi è indispensabile piena libertà di critica, di informazione e di formazione della opinione pubblica; in questo campo la forza propulsiva è data dagli scrittori, i pubblicisti, i giornali, le riviste, i mezzi di comunicazione di massa.
Contemporaneamente però, insieme a questa democratica libertà d’opinione, sono democratici anche i metodi del rivolgimento nella società. Forse una «epurazione» di vecchio stile avrebbe reso più facili alcune cose; tuttavia coloro che vanno aprendo la strada alla democrazia socialista non vogliono oscurare l’inizio di una nuova era mettendo mano, in nome della bontà del fine, ai mezzi cattivi dell’èra vecchia. È ammirevole la decisione con la quale proprio le vittime del vecchio regime si oppongono a chi pretende: «Occhio per occhio, dente per dente». Соstoro rifiutano la vendetta, ma insistono perché siano date garanzie radicali contro il ritorno di forme di dominio non democratiche. Si deve discutere apertamente e votare in segreto; la lunga marcia attraverso i metodi democratici non deve essere abbreviata con metodi amministrativi; non deve dominare una opinione unica al posto di un’altra opinione unica ma invece deve essere riconosciuto e garantito il diritto di contraddire. Quindi all’interno e all’esterno del partito giungeranno a esprimersi opinioni in contrasto, e anche nell’apparato non ci sarà l’unanimità obbligatoria, ma si avranno taluni disaccordi. Decisivo sarà che queste differenze non saranno liquidate dietro le quinte come «questioni interne», ma che saranno portate alla luce dell’opinione pubblica, che all’apparato non sarà permesso di sottrarsi al controllo democratico. La democrazia è meno comoda dei metodi imperativi e amministrativi, ed essere partecipi delle decisioni e corresponsabili è più difficile che non starsene da parte brontolando in una passività irresponsabile; ma senza una democrazia conseguente un popolo, al quale comandare e obbedire garbi tanto poco quanto ai cechi e agli slovacchi, non può essere se stesso, non può fare ciò che è in grado di fare.
In pratica tutto sta nel riuscire a superare il peggior risultato dell’arbitrio burocratico, della cattiva amministrazione e della disonestà: l’apatia della stragrande maggioranza di questo popolo intelligente, critico, ma profondamente deluso. Solo l’illimitata ammissione di quanto c’è di falso, di brutto e di incompatibile con la natura del socialismo, solo la piena libertà di discussione può di nuovo riportare in vita la fiducia nella democrazia. E lo potrà, se non sarà soltanto l’aria a essere messa in movimento, ma le cose, se alle parole seguiranno i fatti, più pesanti delle parole e quindi anche più cauti. È stata un’avanguardia che da principio si è addossata il ben ponderato rischio del rivolgimento; ma più rapidamente di quanto c’era da aspettarsi, ha avuto l’appoggio delle masse finora passive. E solo con l’aiuto di queste masse, attraverso la loro iniziativa, sarà possibile liberare l’economia e lo Stato dalla fitta ragnatela di uno strato parassitario, il quale per gran parte non vive affatto nel benessere, ma conduce un’esistenza meschina, però improduttiva e senza responsabilità. Quindi ci saranno decine di migliaia di persone che, abituate a questa vita, faranno resistenza contro una concezione che esige efficienza, responsabilità, iniziativa. Ed è appunto a queste persone arretrate che si appoggiano i corrucciati vecchi, gli usufruttuari, curatori e amministratori di un regime conservatore.
Nessuno potrebbe arrogarsi il diritto di dare dall’esterno consigli non richiesti ai rinnovatori della Cecoslovacchia. Sanno perfettamente di che cosa si tratta, e conoscono benissimo da soli i problemi della democrazia nella moderna società industriale. Assolutamente non si tratta qui di un ritorno a ciò che eufemisticamente viene raccomandato come «democrazia occidentale»; piuttosto ci si muove in avanti verso una democrazia socialista ancora inesplorata, quella verso cui ha cercato di muoversi per prima la Jugoslavia dopo il 1945 in condizioni poco favorevoli. La Cecoslovacchia rinnovata sarà uno Stato socialista, vale a dire uno Stato in cui i mezzi di produzione decisivi non sono in proprietà privata, ma sono socializzati. In questa produzione socializzata non dirigeranno né segretari di partito né autocratici uffici centrali, invece vi sarà garantita la codecisione degli operai e impiegati e l’autonomia dei sindacati. Le istituzioni parlamentari, non più soltanto facciate come è stato finora, saranno completate da molteplici strumenti e organismi democratici. Il presupposto è la libertà di parlare e di scrivere, la libertà della stampa, dei mezzi di comunicazione di massa e, per ogni cittadino, di esprimere la propria opinione e tentare di farla prevalere in associazione con altri. Quali saranno le forme della democrazia, dell’autogoverno, dell’effettiva codecisione, risulterà non solo da considerazioni teoriche, ma soprattutto da esperienze pratiche.
Per i rinnovatori cecoslovacchi il compito più importante e più urgente, il primo passo decisivo è il rinnovamento democratico del partito comunista. Io sono convinto che essi hanno ragione a volere un partito non più in eclissi con il potere statale e non più cristallizzato nel centralismo burocratico, ma che esso si rieduchi per divenire un’avanguardia intellettuale, in modo da diventare l’élan vital del corso della storia.
I comunisti cecoslovacchi non sono romantici. Rifiutano le fanfare e le promesse temerarie. Invece sanno unire audacia e circospezione, iniziativa e tenacia, indipendenza di pensiero, fermezza e umorismo. E appunto questa combinazione di slancio e lucidità, questo progredire senza precipitazione, ci incoraggia a sperare che lì a Praga sia cominciato un futuro, non soltanto per la fortuna della Cecoslovacchia, ma, in questa sintesi di socialismo e democrazia, degno di riflessione anche per l’Europa. Da questo rivolgimento può risultare ciò che finora è stato soltanto un desiderio, una possibilità informe: un comunismo senza deformazione, una società socialista in cui la libertà di tutti garantisca la libertà di ciascuno.
Ernst Fischer*
* Politico e scrittore austriaco (Chomutov, Boemia, 1899 - Deutschfeistritz, Stiria, 1972), militò dal 1920 nella socialdemocrazia per approdare (1934) al Kommunistische Partei Österreichs. Nel 1934-45 lavorò a Mosca presso il Komintern. Deputato (1945-59) e membro del comitato centrale (1946-69), fu espulso dal partito per le critiche all'invasione sovietica della Cecoslovacchia. Opere: Zeitgeist und Literatur (1964), Kunst und Koexistenz (1966), Erinnerungen und Reflexionen (1969), Das Ende einer Illusion (1973). [https://www.treccani.it/enciclopedia/ernst-fischer/]
(Tratto da: Ernst Fischer, La speranza di Praga, in «Rinascita», n. 13-1968, 29 marzo 1968).
Inserito il 02/08/2025.
Tutti i dogmatici sono disfattisti
di György Lukács
D. Recentemente, compagno professore, lei ha espresso l’opinione che negli ultimi tempi si sta creando nel mondo una situazione molto favorevole al crescente influsso dell’ideologia marxista. Mentre nell’Occidente si diffonde l’interesse per il marxismo e per la sua positiva comprensione, noi non ci rendiamo nemmeno sufficientemente conto, lei ha detto, di quanto profondamente potremmo influire sull’evoluzione del mondo capitalistico, se fossimo al necessario livello per esempio nella filosofia, nella letteratura, nella cinematografia, nella musica ecc. Che cosa impedisce secondo il suo giudizio, come dunque dovremmo progredire, affinché in avvenire noi ci avviciniamo a quel necessario livello?
Lukács. Innanzitutto dobbiamo partire dal riconoscimento del fatto che per trent’anni il marxismo è ristagnato, che nel periodo in cui Stalin stabiliva che cosa era il marxismo e che cosa il marxismo non era, per anni e purtroppo generalmente furono riconosciute come scientifiche anche molte vere e proprie sciocchezze. Dapprima dunque deve essere di nuovo restaurato il marxismo. Quanto tempo questo processo richiederà, se si svolgerà lentamente oppure rapidamente, non possiamo giudicarlo in anticipo. Abbiamo oggettive possibilità di rinascita del marxismo, sono in gioco però anche condizioni soggettive. Dipenderà dal fatto se il partito promuoverà lo sviluppo del marxismo, oppure se gli porrà degli ostacoli. È una questione che non possiamo valutare in generale — è differente nei vari paesi. Noi supponiamo che, per esempio, i compagni cecoslovacchi stiano per l’appunto attraversando una svolta degna di rilievo, e diverse cose attestano che lo sviluppo del marxismo può avere in Cecoslovacchia condizioni più favorevoli sotto Dubček di quanto non siano state sotto Novotný.
D. La personalità del dirigente politico e il suo accesso alla creazione della politica certamente hanno un notevole influsso sulle condizioni per lo sviluppo della teoria. Come intende lei in questo senso il ruolo dei politici?
Lukács. Il teorico e il politico in una sola persona è un fenomeno piuttosto eccezionale. Marx dice che l’ideologia esiste per appianare i conflitti sociali — e di questo si tratta certo anche in politica. Tuttavia i conflitti sociali si estendono a vari gradi e secondo Lenin il compito del politico consiste in questo, nel riuscire per la soluzione dei contrasti concreti a individuare proprio quell’anello della catena, afferrando il quale si possa acquistare il potere sull’intero concatenamento. Il compito del pensatore, del filosofo, dell’economista non è la risoluzione delle singole questioni al posto dei politici, bensì il tentativo di impostare i grandi problemi teorici dell’epoca. L’impostazione teorica delle questioni aiuta notevolmente i politici, però non dà la possibilità di dedurne immediatamente delle risoluzioni tattiche.
Porterò un esempio: quando Lenin nell’aprile del 1917 torna in Russia, è per lui, come teorico, già abbastanza chiaro che la rivoluzione russa è la strada per il socialismo. Tuttavia dia un’occhiata ai più importanti slogans tattici posti allora in rilievo da Lenin. In primo luogo: pace immediata. In secondo luogo: consegnare tutta la terra ai contadini. Nessuna di queste esigenze, evidentemente, è in senso logico, immediato, socialista, ma erano un anello nella catena, indussero le masse al movimento che le portò sulla strada del socialismo. Il primo movimento operaio ha avuto certo questa fortuna, che Marx, e dopo di lui Engels, e dopo di lui Lenin, erano uomini che univano le capacità di grandi teorici con le capacità di eccellenti politici. Poi giunse quell’infausto periodo in cui Stalin anche nei propri confronti credette che, in quanto politico, il segretario generale del partito sia contemporaneamente il capo ideologico del partito.
Purtroppo abbiamo provato anche da noi in Ungheria che persino Rákosi riteneva di essere la personalità che doveva decidere di ciò che è giusto dal punto di vista del marxismo…
Oggi nessuno può dire se nel nostro movimento tornerà di nuovo un’epoca in cui il capo politico sarà contemporaneamente la personalità che dirige la teoria del movimento. Abbiamo bisogno di avere nei partiti come primo segretario un buon politico, ma non esiste una garanzia, nessun indizio oggettivo del fatto che in ogni partito il primo segretario sarà la persona più competente riguardo alle questioni teoriche. Perciò presumo che dobbiamo consapevolmente fissare l’attenzione sul «dualismo», sforzarci affinché la collaborazione dei politici e dei teorici, che sono in ogni partito, sia nell’interesse del movimento ottimale.
D. Affinché il marxismo giunga al necessario livello abbiamo bisogno, secondo le condizioni di cui lei ha parlato, di ulteriori fattori soggettivi. Contare sull’automatismo dell’effetto oggettivo della riforma economica, che richiede risposte a sempre nuove questioni, non si può. Di questo lei ha avvertito nella precedente intervista, quando ha sostenuto che anche il movimento stesso e la riuscita della riforma economica dipendono in gran parte dai cambiamenti del nostro pensiero, da una più rapida trasformazione della sovrastruttura. Che cosa potrebbe aggiungere ad una questione così attuale?
Lukács. Credo che mai nella storia ci sia stata una situazione che fosse risolvibile senza l’attività di fattori soggettivi. Economicamente la necessità oggettiva di una serie di paesi è stata per esempio l’avvicendamento del feudalesimo col capitalismo. Ma paragoni la rivoluzione inglese con quella francese e anche il capitalismo in Germania, che si è sviluppato sulla base di una rivoluzione repressa, e vedrà come la fisionomia del capitalismo inglese, francese, tedesco, sia stata largamente determinata da fattori soggettivi. Il fatto oggettivo che il cammino tedesco verso il capitalismo ha conservato in così alto grado vecchi privilegi e forme feudali, conferisce al capitalismo tedesco un carattere piuttosto diverso da quello francese, in cui realmente è stato frantumato il feudalismo.
Perché ricordo questo? Da noi sarebbe potuto accadere pure analogamente. Senza le riforme economiche, l’economia dei paesi socialisti non può rimanere capace di concorrenza su scala internazionale. Le riforme economiche devono essere realizzate. Dipenderà però dal fatto, se saranno attuate coerentemente o in qualche luogo rimarranno formali, se costituiranno o no una svolta radicale, se saranno accompagnate da una desiderabile democratizzazione nella sfera economica e in quelle extraeconomiche ecc. — e ciò è straordinariamente dipendente da un fattore soggettivo. La diversità di sviluppo nei singoli paesi socialisti sarà determinata dalla differente attività dei fattori soggettivi in ognuno di essi. Oggi è in complesso generalmente riconosciuto che il sistema convenzionale della nostra programmazione è antiquato e deve essere superato. Se porremo teoricamente in modo corretto il problema della programmazione e come poi lo risolveremo praticamente, dipenderà da un fattore soggettivo; oltre il resto, dal pensiero delle classi colte marxiste. E qui, come in altre sfere, vedo due erronee tendenze e soltanto una terza (tertium datur!) può indicare il giusto. Da una parte ci sono cioè degli uomini che vogliono mantenere il marxismo nella forma che aveva acquisito sotto Stalin. Questi perdono qualsiasi capacità, o almeno in gran parte, di comprendere le esigenze di oggi, e che ormai lo vogliano o no, saboteranno le riforme economiche. Altri intellettuali, rispettabili e convinti, credono d’altra parte che il marxismo debba rinnovarsi mediante la accettazione delle concezioni ideologiche occidentali. Perché si mantenga, dicono, in una forma rispondente all’epoca moderna, il marxismo deve assorbire la logica matematica, la semantica, lo strutturalismo e dio sa che cosa ancora. Ritengo ciò un’assurdità. Il metodo del marxismo è un metodo giusto, che noi dobbiamo elaborare affinché sulla sua base sia possibile risolvere i problemi contemporanei del socialismo e del capitalismo. Tuttavia dobbiamo ormai, finalmente, arrivare in primo luogo alla reale comprensione del marxismo, in secondo luogo alla comprensione dei grandi cambiamenti del mondo ai quali si è giunti nell’epoca dopo Marx. Il marxismo ancora non ha raggiunto una valutazione di questi cambiamenti, al punto da trovarsi oggi quel giudizio sul capitalismo in una ingiusta antinomia contro la scienza. Esistono ancora degli uomini che manca poco non cerchino quotidianamente nei giornali se già in America è scoppiata «la crisi». Un lato non meno falso della medaglia sono le opinioni che le cose siano cambiate in tal grado che ormai non si tratta affatto di capitalismo. Per il capitalismo in generale vigono le leggi rivelate da Marx, tuttavia con i necessari cambiamenti: che non è la legge a portare, bensì li porta il tempo e la legge li riproduce. Vedere il mondo di oggi, incluso il capitalismo, marxisticamente, con i suoi reali tratti caratteristici — ha un enorme significato anche per il concetto di forma del socialismo.
D. In Cecoslovacchia e in Ungheria le idee sulla riforma economica sono relativamente, forse si può dire notevolmente, vicine. Mi sembra che da noi in Cecoslovacchia proprio in connessione con la ricerca delle vie per la riforma, con il raggiungimento di nuove vedute sul risanamento dello sviluppo economico, nella lotta contro l’indecisione durante il passaggio al nuovo sistema di governo — si sia cristallizzata la convinzione della indispensabilità di un energico superamento delle deformazioni del socialismo anche nella sfera extraeconomica. Contro la resistenza delle forze conservatrici la svolta attuale è riuscita ad ottenere la democratizzazione nel partito e nell’intera società. Lei ritiene, compagno Lukács, che in Ungheria si stia svolgendo un processo analogo, oppure forse — come ho letto da qualche parte — un simile processo ha prevenuto anzi la riforma economica?
Lukács. Intendere ciò così come lei ha detto nell’ultima frase sarebbe, credo, eccessivo. Sono di questo parere, che in Ungheria esisteva, anche in conseguenza degli avvenimenti del 1956, un fortissimo influsso del settarismo sulla nostra ideologia. La sua demolizione cominciò solo in qualche misura prima delle riforme economiche. Ma non dovrebbe essere sopravvalutata giacché l’influsso dei settari e degli uomini dei settarismi vicini è da noi ancora nelle questioni ideologiche molto forte. Sarebbe un’illusione supporre che il settarismo stalinista nell’Ungheria di oggi ormai abbia cessato di essere un fattore importante. Per di più, anche se non sarà abbastanza esatto come lo dirò, ma la forma che le relazioni da noi hanno acquistato immediatamente dopo gli avvenimenti del 1956, ha attraversato determinati cambiamenti piuttosto caratteristici, che si sono rivelati in modo straordinario specialmente nel campo culturale. Qui alcuni uomini si danno le arie di «progressisti a oltranza»; nel senso che, appena in Occidente si scopre qualunque sciocchezza, fanno a gara per accoglierla immediatamente, ma questa modernità esteriore più di una volta serve loro per la propagazione di idee altamente conservatrici, per esempio sulla storia ungherese, sulla letteratura ungherese. L’evoluzione ideologica in Ungheria certamente non si può ritenere a senso unico e univoca, esistono anche da noi varie correnti. Negli ultimi tempi — e credo che ciò sia in connessione con le riforme economiche — ci sono da noi possibilità di discussione in certo qual modo maggiori.
D. Lei ha menzionato le relazioni nella cultura, nella letteratura — là lei è particolarmente «a casa». Forse potremmo un po’ soffermarci sulle questioni di questa sfera. Innanzi tutto, come formulerebbe lei le condizioni di una affermazione ottimale del ruolo direttivo del partito in una sfera così sensibile qual è la creazione artistica?
Lukács. Se il partito vuole raggiungere anche in questa sfera l’egemonia della propria ideologia, deve fare ogni sforzo perché il marxismo diventi una autorità salda anche agli occhi dei creatori non marxisti. Da questo punto di vista, diremo allora, io ho il mio buon diritto di valutare la letteratura, nel rispetto di alcune condizioni. Innanzi tutto, a questa critica non segue nessuna disposizione organizzativa. Colui che è stato criticato deve avere il diritto e le condizioni per rispondere alla critica. Il critico del partito può dare di nuovo una risposta a questa replica, può nascere una discussione riguardo ad alcuni problemi —e questo è tutto. Io credo che il marxismo sia una teoria giusta, e credo che avremo una vera critica marxista, dimostreremo che abbiamo ragione nella valutazione delle opere letterarie, e così potremo anche nel settore della letteratura arrivare all’egemonia ideologica. Se il marxismo de facto non avesse questo predominio, allora, detto grossolanamente, allora tutto il socialismo sarebbe una truffa. Resisterebbe solo temporaneamente come una falsa ideologia e dopo un certo tempo scomparirebbe, come è scomparsa l’ideologia di Hitler. Mi scusi se ho espresso questo ora in una maniera certo assai pungente. Io ho fede nel marxismo e non mi piacciono i settari. Sono sicuro che il marxismo dall’attuale stato di cose gradualmente otterrà la vittoria, senza servirsi di misure violente. Mentre al contrario i settari, quelli non credono nel marxismo. Tutti i settari sono disfattisti. Questo è di nuovo uno degli errori dello stalinismo, che si confondevano due problemi. Nel 1917 dicevamo che l’espropriazione dei capitalisti era possibile soltanto mediante la violenza. Questa è una questione piuttosto diversa. Dal fatto che i capitalisti poterono essere espropriati soltanto con la violenza, che Kolčak e Denikin poterono essere espulsi dalla Russia solamente mediante la violenza, non consegue che il predominio di Puškin nella cultura si ottiene con la violenza. Per noi deve essere chiaro che il periodo della guerra civile è dietro di noi. I settari svezzati dalla teoria di Stalin sul continuo rinvigorimento della lotta di classe, costoro anelano a quel bel periodo in cui così evidentemente si poteva governare niente affatto alla lettera legalmente e senza che si osservassero le leggi il più severamente possibile. I settari vorrebbero rendere permanente quella «bella» epoca della guerra civile. Ma non è più possibile. Conoscete quell’arguto detto di Talleyrand: «Con le baionette si può fare tutto, solo non è possibile sedercisi sopra». Io spero che tra qualche tempo una certa parte posteriore di quei politici in questione, i quali presumono che il miglior divano al mondo sia una fila di baionette — sarà così conciata, che queste teorie dovranno capitolare. Ora mi sono espresso così di proposito — e non chiedo scusa.
21 agosto 1968, Praga, Piazza Venceslao. I carri armati delle truppe del Patto di Varsavia occupano il centro della città.
Fonte della foto: La Primavera di Praga 1968-’69, @ Fondazione Sant’Agostino, 2019.
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Eccoci giunti al dunque, all’agosto 1968. Dopo un anno (a partire almeno dal Congresso dell’Unione degli scrittori nel giugno 1967) di dibattiti, scontri, riforme economiche, abolizione della censura, proteste, dimissioni, ascese e cadute, si arrivò all’intervento militare di cinque Paesi del Patto di Varsavia (la Romania si rifiutò di partecipare) capeggiati dall’Unione Sovietica, primo drammatico atto con cui si iniziò a soffocare quello che era stato un esperimento di costruzione di una società socialista in cui si determinasse un maggior decentramento dei poteri tra i vari organi istituzionali e tra le autorità dei due popoli ceco e slovacco, in cui le libertà civili si coniugassero al controllo collettivo dei mezzi di produzione. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, non si trattò di un taglio netto, ma dopo quel primo atto militare passarono mesi di minacce e ricatti politici, tradimenti personali e riposizionamenti, mesi nei quali Dubček, Smrkovský e altri protagonisti della “Primavera” continuarono ad avere dei ruoli che diventarono via via più marginali. Fino alla destituzione per alcuni, all’esilio per altri…
Qui davvero c’è un prima e un dopo. Un prima e un dopo l’invasione, e non solo per la Cecoslovacchia, ma per tutto il sistema dei Paesi socialisti e per il movimento operaio europeo e mondiale. Un prima e un dopo che lacerò nell’intimo molti di noi comunisti.
L.C.
La prima pagina de «l’Unità» del 21 agosto 1968.
La prima pagina de «l’Unità» del 21 agosto 1968 (edizione straordinaria).
La prima pagina de «l’Unità» del 22 agosto 1968.
di Donatella Sasso
Dall’intervento dei cinque Paesi del Patto di Varsavia nell’agosto 1968 fino al suicidio eclatante di Jan Palach in piazza Venceslao nel gennaio 1969 e all’inizio di un difficile periodo di “normalizzazione”.
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Breve storia della “Primavera di Praga”
2. Intervento militare ed epilogo
di Donatella Sasso
L’invasione della Cecoslovacchia e la fine della Primavera
Se è vero che nell’estate del 1968 presso gran parte dei cittadini cecoslovacchi si era sviluppata una psicosi di invasione, che faceva vedere militari e blindati sovietici ovunque, è altrettanto vero che in molti ritenevano improbabile e fantasiosa qualsiasi ipotesi di aggressione.
Anton Ťažký, uno dei segretari del Partito comunista cecoslovacco e amico personale di Dubček, nella notte tra martedì 20 agosto e mercoledì 21 stava viaggiando in automobile verso Bratislava. D’un tratto vide luci insolite e colonne di carri armati, camion e soldati in divise straniere che non riuscì a identificare. Avrebbe a breve scoperto che si trattava di militari ungheresi entrati nel paese da sud. Ťažký rimase un po’ sorpreso, ma pensò: «Stanno girando qualche film». Tornò tranquillamente a casa e si mise a letto. Cinque minuti dopo ricevette una telefonata allarmante che annunciava l’invasione da parte dell’Unione Sovietica e dei quattro paesi alleati.
Il 20 agosto era trascorso come una qualsiasi giornata d’estate. Praga era piena di turisti, molti stranieri, famiglie intere nei parchi e nelle vie del centro. Dubček fu impegnato tutto il giorno in una riunione di presidenza del Comitato centrale che si protrasse fin dopo l’ora di cena. Fu allora che il primo ministro Černík venne informato telefonicamente dal ministro della Difesa.
L’invasione parve da subito velleitaria e priva di una finalità precisa, se non quella di mostrare la forza di Mosca e, allo stesso tempo, di annichilire le libertà praghesi. Appresa la lezione di Budapest nel 1956, i soldati avevano ricevuto ordine di non sparare sui cittadini, anche se alla fine dei giorni d’invasione si conteranno almeno 68 morti. Spararono invece sulle facciate del Museo Nazionale e della Radio cecoslovacca.
La vivace ironia praghese non tardò a definire il martoriato Museo “un’opera di El Grečko”, sfruttando la similitudine con il cognome del ministro della Difesa sovietico. Da parte sua, la radio, seppur colpita dai proiettili e sabotata dai militari invasori, riuscì quasi miracolosamente a trasmettere nei giorni successivi. In particolare le radio clandestine rimasero l’unico mezzo di comunicazione attivo nel paese e si trasformarono nello strumento di una delle più pacifiche e diffuse resistenze che la storia ricordi. Non appena i carri armati entrarono nel paese e gli aerei militari sorvolarono i cieli di Praga, si diffuse un appello raccolto da migliaia di cittadini: in poche ore scesero nelle strade con latte di vernice e cancellarono le indicazioni dei cartelli stradali oppure li invertirono, levarono i numeri civici dalle case e le targhe delle vie urbane, rendendo illeggibile il territorio e le sue strade.
I carri armati arrivarono con ritardo nelle città, alla guida di soldati spaesati non solo per il sabotaggio dei cecoslovacchi, ma perché privi di provviste sufficienti e di riserve di acqua, senza una destinazione precisa, senza nemmeno latrine da campo né abiti di ricambio. Per giorni rimasero nel centro di Praga e delle maggiori città, circondati da cittadini, avvezzi alla lingua russa fin dai tempi della scuola, che si arrampicavano sui carri, li circondavano, cercando di convincerli ad abbandonare il paese. Intorno a loro fiorirono scritte sui muri e sulle vetrine, cartelli e slogan. “Idite domoj”, “Tornate a casa!”, scritto in russo, era la più breve e diffusa, ma ve ne furono di ben altro tenore. Crebbe in fretta un’eccezionale commistione di ironia e sarcasmo, che mai cadde nell’insulto: “Il Circo di stato sovietico è di nuovo a Praga. In programma gorilla ammaestrati. Si prega di non dar loro del cibo e di non stuzzicarli” oppure “L’Urss ci ha violentato ma vuole sposarci”.
Sia fotografi che avrebbero raggiunto la fama mondiale, come Josef Koudelka, sia persone semplicemente provviste di una fotocamera, in quei giorni, si trasformarono in attenti cronisti del proprio tempo. E non mancarono di immortalare i momenti più alti della pacifica resistenza cecoslovacca. Grazie alle comunicazioni ancora possibili tramite le radio, su sollecitazione dei delegati riuniti nella sessione straordinaria del XIV Congresso che avrebbe dovuto tenersi il 9 settembre, fu possibile organizzare due momenti di protesta collettiva. Già il 23 agosto, a mezzogiorno in punto, subito dopo il suono delle sirene, tutti rimasero in assoluto silenzio per un’ora intera. Le auto e i tram si fermarono, chi era in strada si precipitò a nascondersi nei portoni e nei cortili. Per un’ora, che parve un secolo, Praga divenne deserta, i negozi chiusero, gli uffici si fermarono. Il giorno seguente, alla stessa ora e per venti minuti, fu la volta del rumore. Le sirene non smisero di suonare, mentre tutti si impegnarono a fare fracasso: mani sui clacson, pentole e posate come strumenti musicali improvvisati, saracinesche alzate e abbassate con forza, ci fu persino un violinista che improvvisò un concerto dalla veranda di casa propria.
E tutto questo avveniva mentre le sorti della nazione erano tragicamente sospese.
Dubček e i suoi collaboratori, poco dopo aver ricevuto la notizia dell’invasione, si erano gettati in confuse discussioni. In fretta redassero un comunicato congiunto che invitava la popolazione alla calma, a non opporre resistenza alle truppe e condannava l’invasione quale violazione delle norme fondamentali del diritto internazionale. Il comunicato uscì il giorno successivo in un’edizione speciale del «Rudé Právo». Attorno alle quattro del mattino, mentre una folla immensa, soprattutto di giovani, si era radunata sotto il Palazzo del Comitato centrale per esprimere solidarietà a Dubček e ai suoi, giunsero una Volga nera e una colonna di carri armati che circondarono l’edificio. La folla si oppose al passaggio, vi fu qualche contrasto e un colpo sparato dai sovietici uccise una persona. Un gruppo di militari, accompagnati da alcuni ufficiali del Kgb, salirono fino agli uffici di Dubček, dove si trovavano anche Kriegel e Smrkovský, presidenti rispettivamente del Fronte nazionale e dell’Assemblea nazionale. Anni dopo Dubček disse che tutto si svolse con tale rapidità e organizzazione che parve ai presenti una rapina a mano armata. Si trattava, invece, di un sequestro a tutti gli effetti. A Dubček e ai suoi stretti collaboratori fu imposto un assurdo viaggio attraverso la Polonia e l’Ucraina con meta finale il Cremlino. Svoboda giunse invece volontariamente poco dopo, mosso dal lucido proposito di evitare un possibile bagno di sangue.
La Primavera stava spirando, schiacciata sotto i carri armati, anche se i suoi fautori continuarono a lottare con i mezzi a loro disposizione per difendere le libertà raggiunte, l’indipendenza, la dignità.
Il Congresso clandestino e la normalizzazione in Cecoslovacchia
L’invasione nella notte tra il 20 e il 21 agosto 1968, dopo i primissimi momenti di spaesamento e paura, dopo le notizie frammentarie sulle sorti di Dubček e delle altre cariche istituzionali, non condusse i membri del Partito nel panico né tantomeno a dichiarazioni grondanti violenza e odio.
Tutt’altro, gli eletti al XIV Congresso del Partito, fissato per il 9 settembre, grazie alle radio clandestine decisero di convocarlo in tutta fretta e in condizioni di grande precarietà.
Il 22 agosto, in una fabbrica nel quartiere di Praga Vysočany, giunse la maggior parte dei delegati che, nonostante i carri armati e la minaccia alla propria libertà personale, non volle perdere la storica occasione di opporsi con mezzi democratici all’invasione liberticida. Il Congresso rappresentava, fra le azioni del nuovo corso di Dubček, quella più temuta da Brežnev che proprio per questo aveva inviato i carri armati; assumeva quindi ancora più importanza. Sebbene molti degli slovacchi fossero trattenuti a causa delle truppe occupanti, l’assemblea decise ugualmente di avviare i lavori. Alla fine della giornata risultarono comunque presenti 1219 dei 1543 delegati legalmente eletti.
Nelle febbrili dichiarazioni dei presenti, quasi tutte rigorosamente registrate, era tangibile una duplice urgenza: quella di terminare i lavori in fretta, prima che gli invasori occupassero tutte le posizioni di potere con i vari collaborazionisti, fra cui risulteranno Indra e Bil’ak, e quella di evitare, quanto più possibile, decisioni non conformi ai regolamenti o in contrasto con le posizioni di Dubček e dei suoi collaboratori trattenuti a Mosca. Dopo lunga discussione si passò all’elezione del nuovo Comitato centrale e della presidenza affinché potessero procedere a loro volta alla nomina del Primo segretario e del suo ufficio politico; una volta normalizzata la situazione sarebbe stato possibile ratificare l’elezione.
Fu proprio durante il XIV Congresso che vennero pronunciate per la prima volta le parole “normalizzazione” e “normalizzare”. Per i partecipanti si trattava di una terminologia rassicurante e carica di speranze: il ritorno alla normalità della vita quotidiana avrebbe significato l’allontanamento delle truppe occupanti e il ripristino delle politiche avviate otto mesi prima. A Mosca, però, la pensavano molto diversamente: normalizzare significava tornare alle “normali” condizioni di gestione del potere, alla sottomissione alle direttive del Cremlino, all’abolizione della libertà di stampa e associazione, alla cessazione di qualsiasi forma di indipendenza nazionale.
La sera del 22 il Congresso, che si proclamò “permanente”, nella consapevolezza di tutte le decisioni ancora da prendere, e che si concluse con il canto dell’Internazionale, annunciò gli eletti del nuovo Comitato centrale, dal quale vennero esclusi solo i componenti precedenti giudicati traditori. Dubček e i suoi stretti collaboratori furono rieletti, ma anche sostenuti e acclamati. Fu indetto lo sciopero di un’ora per il giorno successivo, scritti vari comunicati, alcuni pubblicati sul «Rudé Právo», in cui si auspicava la strenua difesa del “volto umano del socialismo”.
Il giorno successivo, intanto, esattamente alle 23 del 23 agosto, Dubček fu condotto al Cremlino. Fu accompagnato davanti a Brežnev e altri alti dirigenti, i quali, dopo un primo tentativo di sostituirlo con Indra, avevano compreso che la situazione era molto più complessa.
Solo, davanti a loro, fu attaccato, ma anche lusingato da profferte di prestigiose collocazioni nel caso avesse acconsentito a dichiarare la sua approvazione all’invasione. Dubček non solo non accettò, ma resistette tenendo un dialogo serrato, ribattendo punto per punto. Isolato, intimorito, fu sottoposto a pressioni affinché firmasse una sorta di “accordo” che non solo legittimasse a posteriori l’aggressione, ma in cui si dichiarasse anche l’illegittimità del XIV Congresso e si chiedesse al Consiglio di Sicurezza dell’Onu di ritirare la mozione sui fatti cecoslovacchi. I “sequestrati” al Cremlino, una volta cui fu concesso loro di riunirsi, risposero con un documento di difesa del proprio operato, in cui derubricavano l’invasione a “tragico errore”. Non fu accettato e furono aperte trattative sul labile filo sospeso tra diplomazia e intimidazioni. Dubček e gli altri furono tenuti all’oscuro circa l’evoluzione dell’occupazione e alla fine sottoscrissero un protocollo, ad eccezione di Kriegel, dal quale riuscirono a far espungere i riferimenti alla legittimità dell’occupazione e all’esistenza di una controrivoluzione. Le resistenze ci furono fino all’ultimo.
In molti avrebbero successivamente accusato Dubček non tanto di tradimento, ma di debolezza e accondiscendenza. Lui fu tormentato e dubbioso fino alla fine. La decisione di apporre la sua firma il 26 agosto fu dettata, infine, dal timore che un suo rifiuto potesse essere letto come un invito alla resistenza attiva. La paura che si arrivasse a un massacro di civili non era del tutto infondata.
Tranne che per i collaborazionisti e per quanti già speravano in posti di rappresentanza nel nuovo corso inaugurato da Mosca, per tutti gli altri furono giorni difficilissimi e dilanianti. Fra le richieste cui cedettero, l’annullamento del XIV Congresso rappresentò la maggior sconfitta, anche se Dubček riuscirà successivamente a far confermare molti degli eletti. Poco prima della mezzanotte, davanti a fotografi e telecamere, i cecoslovacchi firmarono quindi il protocollo e alle 3 del mattino presero l’aereo che li riportava, sconfitti e amareggiati, a casa.
Alle 17.30 del 27 agosto Dubček tenne un discorso alla radio. Con ogni probabilità il più difficile di tutta la sua vita, quello su cui pesarono maggiormente le sue responsabilità, i dubbi, le paure, le speranze spezzate. Dopo un obbligato cenno di gratitudine ai sovietici – in nessun modo voleva irritarli – per il supporto nei durissimi giorni dell’invasione, proseguì con una dichiarazione del tutto opposta: la Cecoslovacchia aveva perso la sua libertà d’azione e una volontà esterna avrebbe guidato tutte le decisioni future. Garantì il massimo impegno per il ritiro delle truppe e chiese compattezza e sostegno a tutti i cittadini. La sua voce, sensibilmente rotta dal pianto, arrivò nelle case di milioni di cecoslovacchi, che non ebbero dubbi sulla reale portata della situazione.
Nei mesi successivi circa 100.000 persone emigrarono all’estero, il governo fu costretto a istituire un Ufficio per la stampa e l’informazione che, pur non contemplando la censura, poneva i giornalisti in una situazione di controllo, il Comitato centrale fu riorganizzato e alcune figure importanti, tra cui il direttore della televisione Pelikán, dovettero lasciare il proprio posto.
Sebbene i cambiamenti formali fossero stati, tutto sommato, pochi e a settembre le truppe si fossero ritirate dai centri maggiori, la sostanza delle relazioni politiche e sociali aveva subito cambiamenti radicali, il controllo era totale e i traditori interni si stavano attrezzando per la corsa alle cariche istituzionali.
La lunga normalizzazione era iniziata.
Il sacrificio di Jan Palach e il fallimento del socialismo dal volto umano
Il 16 gennaio 1969 era un giorno freddo. A Praga l’inverno sa essere molto rigido. Lo studente di filosofia Jan Palach si preparò con calma, quel pomeriggio. La determinazione dei suoi vent’anni – sarebbero stati 21 l’11 agosto – gli permise di riempire una sacca a tracolla con i suoi quaderni, debordanti di articoli, pensieri e dichiarazioni, e di prendere con sé una tanica di benzina.
Giunto di fronte al Museo Nazionale in Piazza Venceslao, quello che gli occupanti avevano trivellato di colpi nell’agosto dell’anno prima, posò a terra la sua sacca. Poi prese mentalmente le misure, le fiamme non avrebbero dovuto toccare i suoi preziosi appunti, si spostò a sufficienza, si cosparse di combustibile e si diede fuoco.
La sua agonia durò tre lunghi giorni. In ospedale confidò ai medici di avere preso a modello i monaci buddisti del Vietnam del Sud che, nel 1963, protestarono in quel modo contro le discriminazioni inflitte dal presidente cattolico. Fra i suoi scritti si lesse: «Poiché i nostri popoli sono sull’orlo della disperazione e della rassegnazione, abbiamo deciso di esprimere la nostra protesta e di scuotere la coscienza del popolo. Il nostro gruppo è costituito da volontari, pronti a bruciarsi per la nostra causa. Poiché ho avuto l’onore di estrarre il numero 1, è mio diritto scrivere la prima lettera ed essere la prima torcia umana». Poche settimane dopo altri giovani seguirono il suo esempio, ma ebbero molta meno risonanza mediatica perché il governo si impegnò a soffocare la diffusione di determinate notizie.
In effetti il suicidio di Jan Palach aveva procurato un’enorme commozione in tutto il paese. Il 25 gennaio ai funerali avevano partecipato centinaia di migliaia di persone, certo per rendere omaggio al giovane compatriota, ma anche per prendere una chiara posizione politica di fronte ai propri governanti e alla dirigenza sovietica.
Alexander Dubček, in quei giorni ricoverato all’ospedale a Bratislava per una virulenta influenza, fu molto colpito dall’estremo sacrificio del giovane. Tutto si stava sgretolando intorno a lui e le “torce umane” che cercavano drammaticamente di illuminare le coscienze glielo sottolineavano nel modo più duro e cruento possibile.
Poco prima del 16 gennaio il presidente del Parlamento Smrkovský, fra i più fedeli sostenitori di Dubček, era stato costretto alle dimissioni, segnando un ulteriore passo verso la perdita di sovranità e autonomia della Cecoslovacchia. Intanto gli animi rimanevano accesi.
In marzo, a Stoccolma, si tennero i campionati mondiali di hockey su ghiaccio, sport nazionale cecoslovacco. Il 21 marzo vi fu la prima partita fra Cecoslovacchia e Unione Sovietica: in campo si percepiva molto di più della rivalità sportiva e, quando i primi vinsero, tutto il paese scese in strada a celebrare la propria rivalsa nazionale. Le cose furono un po’ più complesse una settimana dopo quando la Cecoslovacchia vinse la finale, sempre contro i sovietici, con un sofferto 4 a 3. Gi animi erano sovraeccitati e i servizi segreti non si lasciarono sfuggire l’occasione. Alcuni poliziotti, travestiti da operai, misero diverse pietre da pavimentazione di fronte alla sede della compagnia aerea sovietica, l’Aeroflot. Quando i praghesi scesero in piazza, alcuni di loro iniziarono a lanciare le pietre contro le vetrine degli uffici e in molti li imitarono. Non successe nulla di più, ma quest’episodio servì a scatenare altri scontri che si protrassero nei giorni successivi. Il 31 marzo, senza alcun preavviso, giunse a Praga il maresciallo Grečko che minacciò l’uso delle armi contro i provocatori e ribadì la doppia necessità di reintrodurre la censura e soffocare la “controrivoluzione”. Dubček incassò l’ennesima provocazione, ma comprese, in quel preciso momento, di aver esaurito forze e strumenti per far fronte allo strapotere sovietico. Decise quindi di rassegnare le proprie dimissioni.
Lo comunicò durante la riunione di presidenza del Comitato centrale, il 17 aprile, nella consapevolezza che suo successore sarebbe stato Husák, fedele a Mosca e contrario alle riforme, al quale chiese, in extremis e senza alcuna speranza, di non tradire il Programma d’azione. Gli fu offerta la presidenza del Parlamento, che accettò solo per avere ancora un minimo di voce in capitolo.
Con Husák fu dato il via ai licenziamenti dei giornalisti scomodi, furono chiusi vari giornali, si ebbero arresti e destituzioni di segretari regionali noti per essere favorevoli alle riforme, le espulsioni dal Partito colpirono mezzo milione di persone. Ad agosto, in concomitanza con l’anniversario dell’invasione, in trenta città si organizzarono manifestazioni di protesta, tutte represse da 35.000 fra soldati e poliziotti. Almeno cinque persone persero la vita, fra cui una di soli 15 anni. Husák approfittò dei disordini, sobillati dai militari, per far approvare la cosiddetta “legge del manganello” sulla repressione, anche se non riuscì a far instaurare, come avrebbe auspicato, la legge marziale. Dubček, errore di cui si sarebbe pentito fino alla morte, pose la sua firma in calce alla legge. A metà settembre fu estromesso dalla carica di Presidente del Parlamento ed espulso dal Comitato centrale. Forse per motivi tattici o perché Husák non si sentiva ancora abbastanza forte, gli risparmiò l’espulsione dal Partito e lo mandò come ambasciatore ad Ankara. Fin da subito Dubček fiutò in quella decisione un tranello, una mossa per non farlo più tornare in patria, ma, sostenuto anche dalla moglie, non si oppose. I due coniugi giunsero in Turchia nel gennaio del 1970 e furono accolti con grande calore, sia dalle autorità sia dai cittadini. Verso maggio Dubček ebbe però conferma dei suoi sospetti: da Praga tramavano per imporgli un esilio perpetuo. Molti paesi gli offrirono asilo politico, ma lui era determinato a tornare a casa. Dopo alcuni tentativi di comprare un biglietto aereo per Praga, riuscì a trovarne uno per Budapest. Partì da solo, la moglie lo raggiunse con difficoltà un mese dopo, e, come mise piede a Praga, gli fu comunicata l’espulsione dal Partito.
Cominciò per lui e per la sua famiglia il periodo più duro. Nel dicembre 1970 trovò lavoro come meccanico nell’Azienda forestale della Slovacchia occidentale nei pressi di Bratislava, dove rimase fino alla pensione. In quello stesso periodo iniziò a essere costantemente pedinato, sia in auto sia a piedi, la sua casa fu riempita di cimici, rimase isolato, praticamente relegato in Slovacchia. La situazione era drammatica, ma non mancarono episodi divertenti, quanto surreali.
Un giorno andò a trovarlo nella sua casetta in campagna Václav Slavík, un vecchio amico dissidente. Per poter parlare tranquillamente decisero di fare un bagno nel vicino laghetto. Gli agenti, molto infastiditi, presero in fretta alcune barche e si misero a remare forsennatamente per non perdere alcuna parola. Uno di loro, stanco di quella situazione, a un certo punto urlò «Per quanto pensate di restare, ancora?». Dubček rispose senza scomporsi: «Sicuramente resisteremo più a lungo di voi!».
E non si sbagliò. A distanza di vent’anni vinsero quanti, come lui, seppero resistere più a lungo.
Donatella Sasso
(Tratto da: https://www.eastjournal.net/archives/91679; https://www.eastjournal.net/archives/91746; https://www.eastjournal.net/archives/95188).
Inserito il 30/08/2025.