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Spesso si parla della cosiddetta “Primavera di Praga” a partire dalla sua conclusione, cioè dall’estate 1968, da quel tragico 21 agosto in cui le truppe dell’Unione Sovietica e di altri quattro Paesi del Patto di Varsavia intervennero per “normalizzare” una situazione che essi ritenevano stesse per sfuggire al controllo del Partito Comunista Cecoslovacco.
Noi invece partiremo proprio dalla primavera del 1968 e anche, magari, dal 1967, quando al IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi si levarono le prime voci che chiedevano sostanziali riforme nella società cecoslovacca.
Presentiamo una ricostruzione storica di Donatella Sasso per la rivista online «East Journal» delle vicende che portarono nel 1968 alla nomina di Alexander Dubček a Primo segretario del Partito Comunista Cecoslovacco e all’avvio di una serie di riforme nella società della Repubblica Socialista Cecoslovacca. Negli strati intellettuali e in larghi settori della società si sentiva l’esigenza di un vero rinnovamento del sistema socialista dopo le rigidità imposte da una dirigenza del PCC che non aveva del tutto digerito gli esiti della destalinizzazione. Ci provarono i nuovi dirigenti comunisti cecoslovacchi con a capo Dubček, ma l’intervento militare di cinque Paesi del Patto di Varsavia stroncò quelle speranze di riformare il sistema senza tuttavia uscire dal socialismo, dalla proprietà collettiva dei principali mezzi produttivi.
L’esperienza della Primavera cecoslovacca fu seguita con grande interesse e partecipazione da tutta la comunità comunista del mondo. Anche insigni studiosi marxisti videro nell’esperimento praghese molte potenzialità per un rinnovamento globale del socialismo. I comunisti italiani stessi seguirono da vicino quegli eventi, fino alla decisa condanna dell’intervento armato. Dell’interesse del PCI per le riforme del sistema socialista promosse dal PCC di Dubček testimoniano anche le pagine del settimanale del PCI «Rinascita», che, per esempio, nel suo numero 13 del marzo 1968 pubblicò le opinioni di due grandi esponenti del marxismo europeo: l’austriaco Ernst Fischer e l’ungherese György Lukács. Riportiamo integralmente i loro interventi. Fischer scrisse appositamente per «Rinascita», mentre di Lukács il settimanale comunista riprodusse un’intervista rilasciata al settimanale cecoslovacco «Kulturní novyni» («Giornale culturale»).
Chi scrive questa breve introduzione al materiale che via via andrà accumulandosi sul sito non lo fa a cuor leggero: per me questa vicenda segna l’inizio della fine dell’esperienza del socialismo reale, esperienza che – pur da una certa distanza geografica – mi ha riguardato in prima persona per molti anni, avendo stretto rapporti amichevoli con persone impegnate sull’uno e sull’altro fronte, persone convinte sinceramente della giustezza delle proprie posizioni. Ma forse è più giusto dire che la vicenda cecoslovacca ancora mi riguarda. E mi addolora.
Leandro Casini
Praga, 27-29 giugno 1967. IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Ludvík Vaculik, Milan Kundera, Ivan Klíma.
Autore della foto: Libor Hajský, ČTK
Fonte della foto: https://www.ludvikvaculik.cz/tvorba/iv-sjezd-svazu-ceskoslovenskych-spisovatelu-protokol-praha-27-29-cervna-1967
1° Maggio 1968.
Autore della foto: ČTK
Alexander Dubček di fronte ai lavoratori di una grande fabbrica.
Autore della foto: ČTK
di Donatella Sasso
Come nacque e come si sviluppò quel processo politico e sociale che nel 1968 portò al potere in Cecoslovacchia Alexander Dubček e all’ordine del giorno della società tutta una serie di riforme volte a dare al socialismo un volto nuovo, più libero, democratico, partecipato.
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Breve storia della “Primavera di Praga”
1. Prologo e sviluppo
di Donatella Sasso
L’alba della Primavera di Praga
Verso la fine del giugno 1967 si tenne a Praga il IV Congresso dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Composta per tre quarti da comunisti della prima ora, già attivi durante la guerra e sostenitori convinti degli ideali del Partito, si espresse apertamente e per la prima volta contro le politiche del primo segretario e Presidente della Repubblica Antonín Novotný e contro la gestione degli affari culturali da parte di Jiří Hendrych.
La Cecoslovacchia era fra i paesi del blocco sovietico che meno aveva accolto i venti riformatori seguiti alla morte di Stalin e alle prese di posizione di Chruščëv, ma undici anni dopo il XX Congresso del Pcus, le contraddizioni di uno stalinismo fuori dal tempo ed estraneo alle istanze sociali di riforme iniziavano a emergere. Scrittori noti come Ludvík Vaculík e Milan Kundera espressero l’esigenza di mutamenti radicali in accordo con le tradizioni democratiche del paese. Un tale affronto a Novotný e Hendrych fu considerato gravissimo, tanto che il settimanale dell’Unione degli scrittori «Literární noviny» venne messo a tacere con l’espulsione degli oppositori e l’insediamento di un gruppo di fedeli giornalisti che, scortati dalla polizia, si insediarono nella redazione.
Fra le poche voci critiche nei confronti di questi provvedimenti vi fu quella del primo segretario del Partito comunista slovacco, Alexander Dubček. Da anni in conflitto con Novotný sui temi della libertà di stampa e di espressione, sulla riabilitazione delle vittime dello stalinismo e sulla parità tra cechi e slovacchi, Dubček comprese che stavano maturando i tempi per l’avvio di una serie di riforme strutturali. Novotný, seppure involontariamente, dovette incassare, in quell’occasione, la sua prima sconfitta; distratto da altre questioni, dimenticò, o evitò, di mettere in sordina l’equivalente slovacco del settimanale degli scrittori, «Kultúrny život», sul quale poterono continuare a scrivere i giornalisti cechi espulsi. Una bella beffa per il potere centrale che giungeva dalla periferia dello stato.
Tra il 30 e il 31 ottobre fu convocato il Comitato centrale del Partito comunista cecoslovacco. Dubček ne approfittò per rivendicare, pur senza eccessi, cambiamenti sostanziali nel modo con cui il Partito dirigeva la società, mettendo in evidenza l’errato atteggiamento verso la Slovacchia; già nel 1963 aveva lottato contro le accuse di “nazionalismo borghese” rivolte al Partito slovacco. Per la prima volta usò l’espressione “Programma d’azione” per indicare la serie di riforme che intendeva proporre. Dopo un intenso dibattito, durante il quale venne anche criticato il “cumulo di funzioni” nella persona di Novotný, la maggioranza ne respinse la risoluzione, accreditando di fatto l’ala riformista.
Nonostante questa apparente vittoria, Dubček, il 5 dicembre, fu convocato di fronte a una commissione incaricata di indagare sul suo presunto “nazionalismo borghese” e addirittura sulla sua “deviazione nazionalistica”, crimine che, con sfumature differenti, veniva ripescato ogni qual volta un’istituzione o un individuo uscivano dai binari dell’ortodossia comunista. La Commissione e il Partito respinsero le accuse, mentre Novotný iniziava a sentire la terra tremare sotto i propri piedi, tanto che iniziarono a girare voci sulla sua volontà di mettere in atto un colpo di Stato militare per difendere la sua sempre più fragile posizione. Non avvenne nulla, forse fu lo stesso Novotný a dissuadere gli alti ufficiali dal muovere i carri armati contro il nuovo corso che stava avanzando e che neanche la visita di Brežnev a Praga, l’8 dicembre, riuscì a fermare.
Il 5 gennaio del 1968 la Presidenza e il Comitato consultivo del Partito proposero la candidatura di Dubček al Comitato centrale che, nello stesso giorno, lo nominò primo segretario. Già a metà gennaio furono individuati i commissari incaricati di redigere il “Programma d’azione”, mentre il nuovo segretario prese contatti con i suoi omologhi in Polonia e Ungheria in quali, nonostante le timide aperture nei rispettivi paesi, non parvero troppo entusiasti delle scelte cecoslovacche. Sulla propria pelle, nel 1956, avevano assaggiato la violenza della repressione armata ed erano ancora molto diffidenti.
Dubček, però, con alcune cautele e nonostante qualche ingenuità, ammise anni dopo che l’ipotesi di un’invasione sovietica non lo sfiorò nemmeno, andava avanti con le sue riforme. Ai primi di marzo revocò la legge sulla censura del 1966, il 14 dello stesso mese presentò una proposta di riabilitazione generale delle vittime della repressione stalinista, mentre avanzava richieste di revisione della Costituzione del 1960 e alla città di Bratislava restituiva il titolo di capitale della Slovacchia.
Il 28 marzo si aprirono i lavori del Comitato centrale che condussero a due notevoli risultati: le dimissioni di Novotný dalla Presidenza della Repubblica (sarà sostituito due giorni dopo da Ludvík Svoboda) e l’approvazione senza riserve del “Programma d’azione”. Pur non toccando temi scottanti di politica estera, né minando il monopartitismo, il programma di riforme era assolutamente rivoluzionario. Prevedeva libertà di riunione e associazione (garantite formalmente dalla Costituzione, ma mai attuate), libertà di stampa e movimento; azioni di riparazione delle ingiustizie passate; federalizzazione della Repubblica e restaurazione delle istituzioni slovacche; legalizzazione delle piccole imprese oltre che decentramento e autonomia imprenditoriali per le direzioni aziendali.
La Primavera era sbocciata sfoggiando fiori bellissimi, ma che rischiavano di illudere e stordire allo stesso tempo. I giovani indossavano abiti occidentali, le band musicali si moltiplicavano, la Nová Vlna, la Nouvelle Vague cecoslovacca, produceva film apprezzati anche oltre cortina, nascevano i primi programmi televisivi e radiofonici che incoraggiavano il pubblico a intervenire.
Dubček, pur percependo il gelo di Mosca e l’ostilità dei compagni di Partito più conservatori, non aveva perso fiducia in quello che considerava il nucleo fondante del comunismo: la giustizia sociale, mentre era deciso a porre fine ai metodi dittatoriali, settari e burocratici del Partito.
I cittadini sembravano tutti con lui e le energie riformiste parevano in crescita esponenziale. Tutto ciò non sarebbe bastato, nonostante la promettente primavera.
Primo maggio 1968, la Primavera di Praga tra speranze e intimidazioni
Secondo i piani di Dubček e dei suoi stretti collaboratori l’attuazione del “Programma d’azione” si sarebbe potuto, e dovuto, realizzare tra gli inizi di aprile del 1968, quando fu approvato dal Comitato centrale, ed entro il XIV Congresso del Partito, previsto per il 1970.
Il grande consenso popolare, fortemente motivato dalle nuove libertà concesse, si alternava ai venti gelidi che soffiavano con uguale intensità sia da Mosca e da altri paesi satellite sia all’interno del Partito cecoslovacco.
Il 23 marzo, cinque giorni prima dell’avvio delle riunioni del Comitato centrale, Dubček era stato convocato a Dresda, su invito di Brežnev, per un incontro con gli esponenti dei paesi dell’Europa orientale su temi generici legati alla cooperazione economica. Giunto con la sua delegazione nella Germania Est Dubček aveva subito compreso che le finalità dell’invito erano tutt’altre rispetto a quelle ufficiali. In primo luogo notò l’assenza della Romania e degli osservatori jugoslavi, solitamente presenti a incontri di quel tipo, ma soprattutto si rese conto che i temi economici non erano in programma. Si trattò, in realtà, di un vero e proprio processo a Dubček e alle sue proposte riformiste. Il tribunale dei Cinque (Ungheria, Polonia, Bulgaria, Germania Est e Unione Sovietica) lo accusò di aver perso il controllo sulla stampa e sull’opinione pubblica e di essere a un passo dalla “controrivoluzione”.
Le velate intimidazioni non ebbero ripercussioni immediate, Dubček rigettò cortesemente le accuse e ai primi di aprile il Comitato centrale, come noto, approvò il Programma d’azione. Seguirono le nuove nomine: Svoboda alla Presidenza della Repubblica, Smrkovský alla presidenza dell’Assemblea nazionale, Černík alla carica di primo ministro.
I lavori finalizzati alle riforme furono avviati immediatamente, ma altrettanto immediatamente furono ostacolati da ingerenze moscovite: già il 14 aprile Brežnev inviava una lettera carica di preoccupazione per l’evoluzione riformista. Nel frattempo il maresciallo sovietico Jakubovskij informò il Primo segretario che era sua intenzione anticipare a giugno le già previste manovre militari sul territorio cecoslovacco, la cui urgenza parve molto sospetta. Assediato da timori reali e prevaricazioni costanti, ma allo stesso tempo sostenuto da buona parte dei suoi collaboratori e dei cittadini, Dubček iniziò a premere affinché il XIV Congresso fosse anticipato di due anni. Nella seconda metà di aprile, come previsto dallo statuto del Partito, si tennero le conferenze delle organizzazioni regionali e provinciali in cui furono eletti i delegati al Congresso; la maggioranza si espresse favorevolmente a convocarlo entro l’anno e il 1° giugno il Comitato, all’unanimità, fissò la data: 9 settembre 1968.
A metà luglio Dubček ricevette un invito per una riunione a Varsavia; le sue condizioni, non accolte, furono chiare fin da subito: non sarebbe andato se non fossero state invitate anche Romania e Jugoslavia, gli unici due paesi chiaramente vicini al suo programma. Così non fu e i Cinque si riunirono con il preciso scopo di condannare le riforme di Praga quali opera di forze controrivoluzionarie; il comunicato conclusivo fu inviato a Praga e sarà ricordato come la famigerata “lettera da Varsavia”. Il 19 luglio il Comitato approvò la risposta che fu pubblicata su tutti i giornali cecoslovacchi a fianco del comunicato, che i Cinque diffusero ampiamente, dimenticando però la replica praghese. Come avrebbe scritto anni dopo, Dubček, consapevole del sistema antidiluviano contro cui si stava scontrando, aveva compreso che: «L’ufficio politico del Pcus teneva insieme un impero immenso, che Stalin aveva eretto, e vegliava affinché in nessun angolo di esso si formasse un’opposizione».
Mentre gli alti vertici si giocavano le sorti della Cecoslovacchia, la società civile esplodeva letteralmente nei colori di una primavera reale e simbolica che pareva inarrestabile. La televisione diretta da Jiří Pelikán offriva appuntamenti quotidiani di approfondimento e di libera informazione, lo scrittore Ludvík Vaculík aveva pubblicato su «Literární listy», il nuovo giornale dell’Unione degli scrittori succeduto a «Literární noviny», il Manifesto delle Duemila parole, una dichiarazione di adesione alla politica di riforme, ma anche un’esortazione a correggere alcune idee del passato e a innovare in maniera ancora più coraggiosa, Nascevano le prime libere associazioni. In particolare il Kan (Club degli apartitici impegnati) e il K231, dal paragrafo del Codice utilizzato dagli stalinisti per reprimere arbitrariamente gli oppositori, composto da ex carcerati politici non comunisti. Nessuno dei loro membri, così come nessuno degli intellettuali finalmente liberi di esprimersi sui mezzi di comunicazione, si abbandonò a un superficiale anticomunismo. La gioia per il nuovo corso prevalse su facili rivalse e premature rivendicazioni. Certo non mancarono ingenuità, eccessi di verbalismo e di entusiasmi quasi infantili; in alcuni casi si respirò un velato antisemitismo, che in quegli stessi mesi stava invece dilagando in Polonia e che avrebbe provocato l’esodo di numerosi cittadini di origine ebraica.
Fu comunque un diffuso senso di speranza a prevalere su tutto il resto. L’apice positivo di questo clima di rinnovamento si manifestò durante le tradizionali celebrazioni del 1° Maggio. Per la prima volta in un paese sotto l’influenza sovietica non si videro masse di uomini e donne marciare in file ordinate, ma cittadini accorsi spontaneamente dietro a striscioni autoprodotti con slogan ironici, alcuni critici, molti con tonalità divertenti. Persino il Kan e il K231 parteciparono compatti, innalzando scritte di appoggio alle politiche riformiste.
Protagonista indiscusso di quei giorni entusiasmanti fu ovviamente Dubček, un politico assolutamente nuovo nel panorama del grigiore del socialismo reale. Sorridente, mite, ma anche determinato, elegante, raffinato, ma ugualmente vicino a tutti i cittadini, incontrava il favore delle persone semplici come degli intellettuali. Celebre quanto generoso rimane il ritratto che di lui tracciò lo scrittore Bohumil Hrabal, giocoliere delle parole, incantatore sopraffino: «Un giovane che capisce e sa far valere l’ironia e l’arguzia, un giovane che si veste con l’accuratezza di un damerino, che ha sempre un fazzoletto bianco ben piegato, la cravatta e il ciuffetto pettinato come Golonka (un noto giocatore di hockey), un giovane che sa saltare dal trampolino a capofitto nell’acqua, un giovane il quale sa che il destino e lo sviluppo del ventesimo secolo dipendono dalla rivolta e dalla speranza, dall’individualità creativa e dalle masse insorte».
La calda estate del 1968
Le truppe sovietiche, giunte in Cecoslovacchia in giugno con tanta premura e in largo anticipo sulla data prevista per le esercitazioni da tempo concordate, tardavano in maniera irritante a lasciare le loro postazioni. Nessuna minaccia aperta, solo un sottile senso di insicurezza che Mosca intendeva diffondere a Praga. A metà luglio una telefonata anonima alla polizia denunciò la presenza di un nascondiglio sotto il cavalcavia di un’autostrada, dove furono trovati venti mitra americani e le relative munizioni. La stampa sovietica e quella della Germania orientale non tardarono a lanciare una campagna allarmistica sulle manovre statunitensi «per armare la controrivoluzione cecoslovacca». Durante le indagini si scoprì che il grasso usato per lubrificare i mitra era di origine sovietica, come rivelò a Dubček il ministro degli Interni Pavel, e che probabilmente si trattava di materiale bellico introdotto nel paese da agenti sovietici per scatenare il panico, ma anche per giustificare, a posteriori, eventuali interventi.
Alle insofferenze e alle minacce contro il Programma d’azione, sia estere sia interne, si alternavano però altrettante e ben più visibili attestazioni di vicinanza.
Il Primo segretario riceveva quotidianamente lettere di adesione alla sua politica e di stima personale provenienti dalle realtà più disparate: associazioni di veterani, redazioni, sindacati, fabbriche, reparti militari. Il 26 luglio su «Literární listy», in edizione straordinaria, comparve un documento di solidarietà al Comitato centrale, redatto dallo scrittore Pavel Kohout e sottoscritto da centinaia di artisti, registi, studenti, scrittori, medici, compositori, architetti. Contemporaneamente alla pubblicazione, in diversi punti di Praga, si formarono code di migliaia di cittadini desiderosi di apporre la propria firma al messaggio e di certificare così la propria solidarietà. Il testo diverrà noto come “messaggio delle quattro esse” per le richieste contenute: Socialismus, Spojenectví (Alleanza), Suverenita (Sovranità) e Svoboda (Libertà).
L’entusiasmo si mescolava a una tensione costante, che si dipanava nell’ansia di un imminente attacco sovietico. Il 22 luglio giunse alla redazione di «Literární listy» l’affannosa telefonata di qualcuno che, in assoluta buona fede, annunciava terrorizzato l’avanzata delle truppe sovietiche verso la cittadina di Cheb; decine di lettere dello stesso tenore giunsero alle redazioni dei giornali in quelle giornate d’estate. Non si trattava solamente di una diffusa allucinazione collettiva, ma della comprensibile paura di un pericolo reale, che non mancherà di concretizzarsi di lì a breve.
Intanto Dubček ricevette l’ennesimo sollecito da Brežnev per un incontro bilaterale. Ancora scosso per le accuse contenute nella Lettera da Varsavia, decise di accettare a patto che si trovassero in territorio cecoslovacco, proponendo la città di Košice nella Slovacchia orientale, vicino al confine. Due giorni dopo arrivò la controproposta di Mosca: i colloqui si sarebbero tenuti a Čierna nad Tisou, alla frontiera fra i due paesi, una piccolissima località dove i binari dei treni erano a scartamento largo come quelli sovietici. Dubček replicò che si trattava di una sede inadatta, priva di alloggi e luoghi di incontro adeguati, ma Brežnev assicurò che si sarebbero arrangiati.
Ne scaturì una situazione paradossale, che avrebbe reso felice qualsiasi sceneggiatore cinematografico amante del surrealismo. I colloqui, che si tennero nel club dei ferrovieri presso la stazione, si aprirono il 29 luglio e durarono alcuni giorni. I sovietici arrivavano in treno la mattina e ripartivano la sera. I lavori non conducevano a nessun passo in avanti né per gli uni né per gli altri, ma la sera, quando i sovietici se ne andavano, i ferrovieri esprimevano il proprio entusiastico sostegno al Primo segretario cecoslovacco. L’ultimo giorno Brežnev si finse malato, Dubček lo trovò in pigiama nel suo vagone: voleva quanto prima un incontro con gli altri quattro paesi del Patto di Varsavia. Dubček accettò di incontrarli il 3 agosto a Bratislava, non richiese la presenza di Jugoslavia e Romania, a patto che non si ripetessero gli attacchi frontali di Varsavia. Brežnev rispose con un laconico: «Penso che possiamo farlo».
Quando giunsero a Bratislava i convenuti trovarono una bozza di comunicato congiunto già preparata dai sovietici, in quel linguaggio burocratico e stereotipato che i russi chiamavano sarcasticamente “lingua di legno”. Fortunatamente venne sostituita da una seconda versione, in cui mancavano del tutto i riferimenti alla condanna di Varsavia. Dubček chiese che si aggiungesse una frase sull’autonomia dell’evoluzione interna dei singoli paesi. La proposta fu oggetto di accese discussioni e alla fine si convenne su due passi di una certa rilevanza: in uno si affermava che ogni partito comunista «risolve in maniera creativa i problemi dell’ulteriore sviluppo del socialismo» e nell’altro si ribadivano i principi «dell’eguaglianza, del rispetto della sovranità, dell’indipendenza statale e dell’intangibilità territoriale». Una terza frase avrebbe, invece, consentito ai propagandisti sovietici di legittimare l’invasione di agosto, ma si trattava di sottigliezze linguistiche, non di asserzioni perentorie: «l’appoggio, la difesa e il consolidamento (delle conquiste degli Stati del blocco) sono un dovere internazionalista».
In apparenza, a Bratislava la Cecoslovacchia riportò una netta vittoria e questo le concesse ancora due settimane di relativa serenità. Certo, allora nessuno poteva immaginare che il 18 agosto, quando i Cinque decisero l’invasione, il documento sottoscritto a inizio del mese sarebbe stato manomesso, aggiungendo tre passi in cui il Partito cecoslovacco dichiarava che avrebbe reintrodotto la censura, messo fuori legge le associazioni e mutato alcune cariche istituzionali.
Il 9 giunse in visita a Praga Tito, accolto da un’immensa folla festante, che dichiarò la sua totale adesione alla politica di Praga; sei giorni dopo arrivò Ceauşescu, sicuramente non un riformatore né uno spirito democratico, ma la sua vicinanza ebbe un peso maggiore, in quanto la Romania era membro del Patto di Varsavia.
Dubček, che, nonostante il periodo estivo, continuò a lavorare assiduamente, in particolare alla preparazione del Congresso, si ritagliò pochissimi momenti di svago. In un giorno di giugno si recò in una piscina pubblica, dove fu attorniato da giovani, adulti e bambini che volevano parlagli, ascoltarlo, avere un suo autografo.
Uomo sportivo da sempre, si concesse un bagno, ma soprattutto un tuffo spettacolare, degno di un ventenne, che alcuni scatti fotografici si affrettarono a immortalare. Quello che si mostrò in quei caldi giorni d’estate come un glorioso balzo nel futuro, avrebbe a breve rivelato l’altra sua effigie, il negativo di un’istantanea di gioia, palesandosi come un drammatico lancio nel vuoto.
Donatella Sasso
(Nel 1918 «East Journal» ha dedicato al 50° anniversario della cosiddetta “Primavera di Praga” una serie di articoli per ricostruire storicamente quel “nuovo corso” del socialismo cecoslovacco; qui i link alle prime tre puntate, che abbiamo ripreso sopra: https://www.eastjournal.net/archives/88968; https://www.eastjournal.net/archives/89803; https://www.eastjournal.net/archives/91257).
Inserito il 31/07/2025.
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Gli avvenimenti cecoslovacchi di queste ultime settimane sono di grande rilevanza politica, e non soltanto per il paese che ne è il protagonista. L’attenzione di tutto il mondo si è concentrata sui mutamenti che sono in corso nel gruppo dirigente del partito comunista e dello Stato cecoslovacco come risultato di una lotta politica che ha investito tutto il paese, raggiungendo livelli molto alti e toni e momenti altrettanto tesi. Dalla fine dell’estate scorsa – quando si concluse il Congresso degli scrittori, che ha rappresentato uno dei punti di avvio della fase di lotta politica che è attualmente in corso – si sono avuti vari momenti caratterizzanti di questa decisiva congiuntura politica cecoslovacca: la lunga sessione del Comitato centrale del partito che si è prolungata nel corso di quasi quattro mesi (dall’ottobre ’67 allo scorso gennaio) e che si è conclusa con l’elezione del compagno Alexander Dubcek alla carica di primo segretario del partito, in sostituzione di Antonin Novotny; lo scontro che all’interno del gruppo dirigente e in tutto il paese si è avuto fra gli innovatori che lottavano per superare le deficienze gravi del passato e affermare i principi di un profondo rinnovamento politico e sociale del paese, sulla base dell’applicazione dei metodi nuovi della direzione dell’economia statale e sulla base di una più aperta e rigorosa osservanza delle norme democratiche nel governo del paese, così da assicurare la più vasta partecipazione delle masse alla gestione della società; e – infine – la resistenza che i settori più conservatori della società hanno opposto all’affermazione del nuovo gruppo dirigente e dei nuovi metodi di direzione politica della società e, soprattutto, alla sistematica ricerca di un nuovo e più avanzato rapporto fra democrazia e socialismo, che è oggi il tratto caratteristico dominante della situazione cecoslovacca. Tutti questi – che abbiamo voluto chiamare i momenti caratterizzanti della nuova situazione cecoslovacca – non si sono manifestati senza difficoltà. senza che «il nuovo» dovesse aprirsi – spesso faticosamente e talvolta anche in maniera drammatica – la strada per venire alla luce. La minaccia di una pressione militare che avrebbe dovuto esercitarsi contro il Comitato centrale del partito, la fuga negli Stati Uniti di un alto esponente militare, appartenente a quelle forze conservatrici che hanno resistito energicamente sulle loro vecchie posizioni in una battaglia di retroguardia che ha reso certamente più alto il prezzo pagato per il rinnovamento; tutto ciò ha ancora acuito l’interesse politico per avvenimenti di cui tutti hanno sentito l’importanza e la gravità.
Rinascita ha dedicato – dalla fine dell’estate ad oggi – numerosi articoli all’esame della situazione cecoslovaccа (п. 38, 40 е 47 del 1967 e n. 2, 5, 9, 10 e 11 del 1968). Gli avvenimenti cecoslovacchi rappresentano tuttavia non soltanto materia di rilevante interesse politico ma anche materia di una riflessione teorica e culturale destinata ad avere il più ampio sviluppo. Il dibattito che è ad esempio attualmente in corso a Praga sui rapporti fra il partito comunista e la società e sulla funzione dirigente del partito; le discussioni che si sono sviluppate sul ruolo e la posizione dei sindacati nel socialismo, sul ruolo e la funzione delle varie organizzazioni politiche e sociali che debbono fornire l’ossatura e i connotati del pluralismo della società socialista; la ricerca difficile di un nuovo rapporto fra politica e cultura e quella sui rapporti che l’applicazione della legge di riforma economica dovrà definire alla base dell’apparato produttivo: su queste questioni la riflessione – a cui Rinascita ha cercato sin qui di dare un primo contributo – è destinata a svilupparsi e la ricerca ad approfondirsi. Siamo perciò lieti di pubblicare qui due testi che riteniamo portino un contributo a questa discussione: uno è stato scritto espressamente per noi dal noto studioso di filosofia e saggista marxista austriaco Ernst Fischer e l’altro è il testo di un’intervista che il filosofo marxista ungherese György Lukács ha concesso in questi giorni alla rivista culturale praghese Kulturní Noviny.
La speranza di Praga
di Ernst Fischer
Nei tempi ancora bui in cui viviamo, Praga è il barlume di una grande speranza. In Cecoslovacchia comunisti coraggiosi e accorti sono all’opera per scoprire gli errori del passato, metter riparo ai crimini e progettare una società moderna, democratica, socialista, dove progettazione e prassi siano ingranate l’una nell’altra. Se questo ben ponderato e rischioso tentativo riuscirà, il risultato non sarà un evento locale, ma storico. Un comunismo che unisca la libertà e l’umanità alla proprietà collettiva dei mezzi di produzione decisivi, può infatti acquistare una forza di attrazione a grande raggio di azione.
La «nuova sinistra» nei paesi capitalistici industriali cerca lontano ciò che ritiene mancarle vicino: la dinamica rivoluzionaria. Questa mobilitazione verso l’esotico non di rado è una fuga dai problemi sociali di casa propria. Il Vietnam, marchio e vergogna degli USA, in Oc cidente ha scosso masse finora lontane dalla politica, ma un secondo, un terzo Vietnam è una prospettiva non accettabile per l’Europa. I giovani, disperati nella miseria della prosperità, desiderano non un moderato progresso nel quadro delle leggi vigenti, ma invece mutamenti radicali, che tocchino le radici; insieme però desiderano la libertà, una esistenza senza regolamento di servizio. Se in Cecoslovacchia il rinnovamento radicale riesce, se dunque non soltanto viene liberata l’econo-terzo vergogna degli USA, in Oc cidente ha scosso masse fi-nora lontane dalla politica. ma un secondo, un Vietnam è una prospettiva non accettabile per l’Europa. I giovani, disperati nella mi-seria della prosperità, desi-derano non un moderato progresso nel quadro delle leggi vigenti, ma invece mu-tamenti radicali, che tocchi no le radici; insieme però de siderano la libertà, una esi stenza senza regolamento di servizio. Se in Cecoslovac chia il rinnovamento radica le riesce, se dunque non sol-tanto viene liberata l’economia da alcune rigidità del piano, ma soprattutto se gli uomini saranno liberi di dire ciò che pensano, di scegliere fra alternative, in breve tempo sorgerà quello in cerca del quale molti vanno vagando nelle lontananze: una società socialista che si sviluppa nella libertà.
La lotta per liberare la strada verso questa mèta, è da anni la fatica di una avanguardia intellettuale in Cecoslovacchia. Questa avanguardia è costituita da comunisti convinti; io ritengo importante sottolineare particolarmente questo fatto, perché, per ignoranza o cattive intenzioni, viene insistentemente diffusa la diceria che quanto è iniziato in Cecoslovacchia sarebbe una rivolta anticomunista. Nella propagazione di tali dicerie vi è di fatto una cooperazione tra gli anticomunisti professionali dell’Occidente e i responsabili della deformazione dell’idea socialista, i quali d’un tratto scoprono il proletariato e vanno parlando di un colpo di mano degli intellettuali contro gli operai. Il metodo non è nuovo: quando i potenti sono in pericolo fanno appello all’antintellettualismo e all’antisemitismo che vi è congiunto. C’è da supporre che gli operai cecoslovacchi non cadranno nella trappola di questa demagogia incanutita nella vergogna; essi infatti sono intelligenti, d’orecchio fino e diffidenti verso gli inganni del patetismo.
In realtà il movimento per un rinnovamento democratico e socialista in Cecoslovacchia è partito dagli intellettuali, e innanzitutto gli scrittori hanno dato prova di essere ciò che sono chiamati a essere: i portavoce di ciò che non viene detto, la coscienza della propria epoca. Ma si deve aggiungere che fin dal principio non sono stati soli, hanno invece mantenuto il contatto e cooperato con economisti, sociologhi, lavoratori delle scienze e con preoccupati ed esperti funzionari del partito. Le nuove idee sono maturate in diversi campi di lavoro, dove sono stati progettati nuovi piani e i problemi economici sono stati strettissimamente intrecciati alle complesse questioni della democrazia, della codecisione, della educazione alla autoeducazione, alla libertà di pensiero e di decisione.
Per quanto grande sia la possibilità della Cecoslovacchia di diventare un modello di democrazia socialista, altrettanto grandi sono le difficoltà: e tra questa possibilità e queste difficoltà c’è qualcosa come una coincidenza. La Cecoslovacchia, a differenza della Russia, della Polonia e degli altri Stati orientali, era un paese dall’industria fortemente sviluppata e di autentica tradizione democratica al momento di passare al nuovo sistema sociale. Nelle libere elezioni democratiche avvenute dopo l’abbattimento del dominio hitleriano, i comunisti ottennero il 40 per cento dei voti e insieme con i socialisiti ebbero la maggioranza nel parlamento. Il partito comunista era seguito non solo dalle masse degli operai evoluti, ma anche dagli evolutissimi intellettuali e da larghi strati contadini. Il dissidio nazionale fra cechi e slovacchi cominciava a far posto all’alleanza delle due nazioni. L’esperienza dei vecchi uomini di fiducia del popolo lavoratore si associava allo slancio della nuova generazione.
Anche la svolta del febbraio 1948, con cui si vollero garantire i fondamenti economici e politici del socialismo, aveva in sé la possibilità di uno sviluppo adeguato alla natura e alla struttura del paese. Qui però intervenne il fatto malsano: l’assurda imitazione di quanto era avvenuto in Unione Sovietica su tutt’altre premesse e che era stato deformato e stravolto sotto il dominio di Stalin e del suo apparato. Il grande poeta ceco Frantisek Halas definiva Parigi e Mosca le due mammelle d’Europa: staccato dall’una e sottoalimentato dall’altra, l’organismo della Cecoslovacchia si logorò. La democrazia sparì, prese il sopravvento la dittatura del partito comunista e di un apparato sempre meno controllato, la quale anche troppo spesso si dimostrò solo la dittatura del dilettantismo. Leali direttori d’azienda, specialisti scientificamente e tecnicamente preparati, vennero sostituiti con abborracciatori accondiscendenti. I nuovi piani economici furono ampiamente in contraddizione con le possibilità e le esigenze del paese. Povera di materie prime (la lignite è un relitto di vecchi tempi, l’energia idraulica non è sufficiente), la Cecoslovacchia era specializzata nella produzione di beni ad alta intensità di lavoro; inoltre possedeva una economia agricola produttiva. Dal 1948 cominciò invece, con i consiglieri sovietici e adattandosi agli interessi veri o presunti dell’Unione Sovietica, un periodo di superinvestimenti, in parte (soprattutto in Slovacchia) giustificabili, ma in gran parte sbagliati, risultati di vanagloriosa presunzione. Coloro che ammonivano contro i pericoli, erano scomodi e venivano rimossi, non di rado arrestati e condannati come sabotatori. La critica non era soltanto indesiderabile, ma anche pericolosa, mentre gli investimenti sbagliati divoravano in nome di un futuro illusorio le risorse del presente. Il simbolo di questi investimenti fu il monumento a Stalin sulla Letna, che gigantesco sovrastava la città; quando una notte fu fatto saltare in aria, restarono le suole degli stivali. Quanto oggi avviene in Cecoslovacchia, potrebbe essere definito un allontanamento da queste suole.
Ogni dittatura che con l’arbitrio e la cattiva amministrazione suscita malcontento ha bisogno di colpevoli. Chi doveva far la parte del colpevole lo stabiliva il servizio segreto sovietico di allora, non senza l’intervento di qualche potente ceco, che così chiudeva i conti con qualche rivale. Fra tutti i pseudo-processi organizzati dall’apparato di potere stalinista nei diversi paesi, il più crudele e grottesco fu probabilmente quello contro Slansky e i suoi coimputati. Con confessioni imparate a memoria, costoro, portati in tribunale, dovettero accusarsi di congiura sionistica, e l’atto d’accusa ricorda anche troppo i famigerati «protocolli dei savi di Sion», una falsificazione antisemita nata nella Russia zarista e ripresa da Hitler. La discrepanza tra questo processo antisemita, insuperabile nella sua stupidità e infamia, e la cultura, l’intelligenza di un popolo istintivamente refrattario all’antisemitismo, era evidente; ma il fatto che nessuno di coloro che erano al vertice trovasse il coraggio di dire di no, non poté non provocare una estrema demoralizzazione. E sempre più andò dilagando la rassegnazione, l’apatia, la resistenza passiva contro un regime il quale, anche dopo il XX Congresso del PCUS, non osava dire la verità, si tirava indietro di fronte a una franca riabilitazione delle vittime, si sforzava di evitare ogni decisione muovendosi a metà della strada e con mezzi termini. A lungo si è andati avanti senza accettare né respingere le riforme proposte da Ota Sik e dai suoi amici, per approvarle alla fine, dopo averle castrate, con questo allegro commento: «Bene, dimostrate la vostra virilità!».
La Cecoslovacchia trotterellava a questo modo verso la rovina – finché giunse l’esplosione al congresso degli scrittori e in alcune sedute del Comitato centrale. Finalmente, anche se tardi, la verità è giunta davanti al popolo – e questa verità è dura e scarsa di promesse.
Dapprima dunque si è trattato di parlare senza paura della terribile eredità che i rinnovatori della Cecoslovacchia si vanno assumendo, delle deviazioni economiche, politiche e morali del passato, e delle operazioni niente affatto indolori che sono necessarie per riparare ai delitti e correggere gli errori. Quindi è indispensabile piena libertà di critica, di informazione e di formazione della opinione pubblica; in questo campo la forza propulsiva è data dagli scrittori, i pubblicisti, i giornali, le riviste, i mezzi di comunicazione di massa.
Contemporaneamente però, insieme a questa democratica libertà d’opinione, sono democratici anche i metodi del rivolgimento nella società. Forse una «epurazione» di vecchio stile avrebbe reso più facili alcune cose; tuttavia coloro che vanno aprendo la strada alla democrazia socialista non vogliono oscurare l’inizio di una nuova era mettendo mano, in nome della bontà del fine, ai mezzi cattivi dell’èra vecchia. È ammirevole la decisione con la quale proprio le vittime del vecchio regime si oppongono a chi pretende: «Occhio per occhio, dente per dente». Соstoro rifiutano la vendetta, ma insistono perché siano date garanzie radicali contro il ritorno di forme di dominio non democratiche. Si deve discutere apertamente e votare in segreto; la lunga marcia attraverso i metodi democratici non deve essere abbreviata con metodi amministrativi; non deve dominare una opinione unica al posto di un’altra opinione unica ma invece deve essere riconosciuto e garantito il diritto di contraddire. Quindi all’interno e all’esterno del partito giungeranno a esprimersi opinioni in contrasto, e anche nell’apparato non ci sarà l’unanimità obbligatoria, ma si avranno taluni disaccordi. Decisivo sarà che queste differenze non saranno liquidate dietro le quinte come «questioni interne», ma che saranno portate alla luce dell’opinione pubblica, che all’apparato non sarà permesso di sottrarsi al controllo democratico. La democrazia è meno comoda dei metodi imperativi e amministrativi, ed essere partecipi delle decisioni e corresponsabili è più difficile che non starsene da parte brontolando in una passività irresponsabile; ma senza una democrazia conseguente un popolo, al quale comandare e obbedire garbi tanto poco quanto ai cechi e agli slovacchi, non può essere se stesso, non può fare ciò che è in grado di fare.
In pratica tutto sta nel riuscire a superare il peggior risultato dell’arbitrio burocratico, della cattiva amministrazione e della disonestà: l’apatia della stragrande maggioranza di questo popolo intelligente, critico, ma profondamente deluso. Solo l’illimitata ammissione di quanto c’è di falso, di brutto e di incompatibile con la natura del socialismo, solo la piena libertà di discussione può di nuovo riportare in vita la fiducia nella democrazia. E lo potrà, se non sarà soltanto l’aria a essere messa in movimento, ma le cose, se alle parole seguiranno i fatti, più pesanti delle parole e quindi anche più cauti. È stata un’avanguardia che da principio si è addossata il ben ponderato rischio del rivolgimento; ma più rapidamente di quanto c’era da aspettarsi, ha avuto l’appoggio delle masse finora passive. E solo con l’aiuto di queste masse, attraverso la loro iniziativa, sarà possibile liberare l’economia e lo Stato dalla fitta ragnatela di uno strato parassitario, il quale per gran parte non vive affatto nel benessere, ma conduce un’esistenza meschina, però improduttiva e senza responsabilità. Quindi ci saranno decine di migliaia di persone che, abituate a questa vita, faranno resistenza contro una concezione che esige efficienza, responsabilità, iniziativa. Ed è appunto a queste persone arretrate che si appoggiano i corrucciati vecchi, gli usufruttuari, curatori e amministratori di un regime conservatore.
Nessuno potrebbe arrogarsi il diritto di dare dall’esterno consigli non richiesti ai rinnovatori della Cecoslovacchia. Sanno perfettamente di che cosa si tratta, e conoscono benissimo da soli i problemi della democrazia nella moderna società industriale. Assolutamente non si tratta qui di un ritorno a ciò che eufemisticamente viene raccomandato come «democrazia occidentale»; piuttosto ci si muove in avanti verso una democrazia socialista ancora inesplorata, quella verso cui ha cercato di muoversi per prima la Jugoslavia dopo il 1945 in condizioni poco favorevoli. La Cecoslovacchia rinnovata sarà uno Stato socialista, vale a dire uno Stato in cui i mezzi di produzione decisivi non sono in proprietà privata, ma sono socializzati. In questa produzione socializzata non dirigeranno né segretari di partito né autocratici uffici centrali, invece vi sarà garantita la codecisione degli operai e impiegati e l’autonomia dei sindacati. Le istituzioni parlamentari, non più soltanto facciate come è stato finora, saranno completate da molteplici strumenti e organismi democratici. Il presupposto è la libertà di parlare e di scrivere, la libertà della stampa, dei mezzi di comunicazione di massa e, per ogni cittadino, di esprimere la propria opinione e tentare di farla prevalere in associazione con altri. Quali saranno le forme della democrazia, dell’autogoverno, dell’effettiva codecisione, risulterà non solo da considerazioni teoriche, ma soprattutto da esperienze pratiche.
Per i rinnovatori cecoslovacchi il compito più importante e più urgente, il primo passo decisivo è il rinnovamento democratico del partito comunista. Io sono convinto che essi hanno ragione a volere un partito non più in eclissi con il potere statale e non più cristallizzato nel centralismo burocratico, ma che esso si rieduchi per divenire un’avanguardia intellettuale, in modo da diventare l’élan vital del corso della storia.
I comunisti cecoslovacchi non sono romantici. Rifiutano le fanfare e le promesse temerarie. Invece sanno unire audacia e circospezione, iniziativa e tenacia, indipendenza di pensiero, fermezza e umorismo. E appunto questa combinazione di slancio e lucidità, questo progredire senza precipitazione, ci incoraggia a sperare che lì a Praga sia cominciato un futuro, non soltanto per la fortuna della Cecoslovacchia, ma, in questa sintesi di socialismo e democrazia, degno di riflessione anche per l’Europa. Da questo rivolgimento può risultare ciò che finora è stato soltanto un desiderio, una possibilità informe: un comunismo senza deformazione, una società socialista in cui la libertà di tutti garantisca la libertà di ciascuno.
Ernst Fischer
(Tratto da: Ernst Fischer, La speranza di Praga, in «Rinascita», n. 13-1968, 29 marzo 1968).
Inserito il 02/08/2025.
Tutti i dogmatici sono disfattisti
di György Lukács
D. Recentemente, compagno professore, lei ha espresso l’opinione che negli ultimi tempi si sta creando nel mondo una situazione molto favorevole al crescente influsso dell’ideologia marxista. Mentre nell’Occidente si diffonde l’interesse per il marxismo e per la sua positiva comprensione, noi non ci rendiamo nemmeno sufficientemente conto, lei ha detto, di quanto profondamente potremmo influire sull’evoluzione del mondo capitalistico, se fossimo al necessario livello per esempio nella filosofia, nella letteratura, nella cinematografia, nella musica ecc. Che cosa impedisce secondo il suo giudizio, come dunque dovremmo progredire, affinché in avvenire noi ci avviciniamo a quel necessario livello?
Lukács. Innanzitutto dobbiamo partire dal riconoscimento del fatto che per trent’anni il marxismo è ristagnato, che nel periodo in cui Stalin stabiliva che cosa era il marxismo e che cosa il marxismo non era, per anni e purtroppo generalmente furono riconosciute come scientifiche anche molte vere e proprie sciocchezze. Dapprima dunque deve essere di nuovo restaurato il marxismo. Quanto tempo questo processo richiederà, se si svolgerà lentamente oppure rapidamente, non possiamo giudicarlo in anticipo. Abbiamo oggettive possibilità di rinascita del marxismo, sono in gioco però anche condizioni soggettive. Dipenderà dal fatto se il partito promuoverà lo sviluppo del marxismo, oppure se gli porrà degli ostacoli. È una questione che non possiamo valutare in generale — è differente nei vari paesi. Noi supponiamo che, per esempio, i compagni cecoslovacchi stiano per l’appunto attraversando una svolta degna di rilievo, e diverse cose attestano che lo sviluppo del marxismo può avere in Cecoslovacchia condizioni più favorevoli sotto Dubček di quanto non siano state sotto Novotný.
D. La personalità del dirigente politico e il suo accesso alla creazione della politica certamente hanno un notevole influsso sulle condizioni per lo sviluppo della teoria. Come intende lei in questo senso il ruolo dei politici?
Lukács. Il teorico e il politico in una sola persona è un fenomeno piuttosto eccezionale. Marx dice che l’ideologia esiste per appianare i conflitti sociali — e di questo si tratta certo anche in politica. Tuttavia i conflitti sociali si estendono a vari gradi e secondo Lenin il compito del politico consiste in questo, nel riuscire per la soluzione dei contrasti concreti a individuare proprio quell’anello della catena, afferrando il quale si possa acquistare il potere sull’intero concatenamento. Il compito del pensatore, del filosofo, dell’economista non è la risoluzione delle singole questioni al posto dei politici, bensì il tentativo di impostare i grandi problemi teorici dell’epoca. L’impostazione teorica delle questioni aiuta notevolmente i politici, però non dà la possibilità di dedurne immediatamente delle risoluzioni tattiche.
Porterò un esempio: quando Lenin nell’aprile del 1917 torna in Russia, è per lui, come teorico, già abbastanza chiaro che la rivoluzione russa è la strada per il socialismo. Tuttavia dia un’occhiata ai più importanti slogans tattici posti allora in rilievo da Lenin. In primo luogo: pace immediata. In secondo luogo: consegnare tutta la terra ai contadini. Nessuna di queste esigenze, evidentemente, è in senso logico, immediato, socialista, ma erano un anello nella catena, indussero le masse al movimento che le portò sulla strada del socialismo. Il primo movimento operaio ha avuto certo questa fortuna, che Marx, e dopo di lui Engels, e dopo di lui Lenin, erano uomini che univano le capacità di grandi teorici con le capacità di eccellenti politici. Poi giunse quell’infausto periodo in cui Stalin anche nei propri confronti credette che, in quanto politico, il segretario generale del partito sia contemporaneamente il capo ideologico del partito.
Purtroppo abbiamo provato anche da noi in Ungheria che persino Rákosi riteneva di essere la personalità che doveva decidere di ciò che è giusto dal punto di vista del marxismo…
Oggi nessuno può dire se nel nostro movimento tornerà di nuovo un’epoca in cui il capo politico sarà contemporaneamente la personalità che dirige la teoria del movimento. Abbiamo bisogno di avere nei partiti come primo segretario un buon politico, ma non esiste una garanzia, nessun indizio oggettivo del fatto che in ogni partito il primo segretario sarà la persona più competente riguardo alle questioni teoriche. Perciò presumo che dobbiamo consapevolmente fissare l’attenzione sul «dualismo», sforzarci affinché la collaborazione dei politici e dei teorici, che sono in ogni partito, sia nell’interesse del movimento ottimale.
D. Affinché il marxismo giunga al necessario livello abbiamo bisogno, secondo le condizioni di cui lei ha parlato, di ulteriori fattori soggettivi. Contare sull’automatismo dell’effetto oggettivo della riforma economica, che richiede risposte a sempre nuove questioni, non si può. Di questo lei ha avvertito nella precedente intervista, quando ha sostenuto che anche il movimento stesso e la riuscita della riforma economica dipendono in gran parte dai cambiamenti del nostro pensiero, da una più rapida trasformazione della sovrastruttura. Che cosa potrebbe aggiungere ad una questione così attuale?
Lukács. Credo che mai nella storia ci sia stata una situazione che fosse risolvibile senza l’attività di fattori soggettivi. Economicamente la necessità oggettiva di una serie di paesi è stata per esempio l’avvicendamento del feudalesimo col capitalismo. Ma paragoni la rivoluzione inglese con quella francese e anche il capitalismo in Germania, che si è sviluppato sulla base di una rivoluzione repressa, e vedrà come la fisionomia del capitalismo inglese, francese, tedesco, sia stata largamente determinata da fattori soggettivi. Il fatto oggettivo che il cammino tedesco verso il capitalismo ha conservato in così alto grado vecchi privilegi e forme feudali, conferisce al capitalismo tedesco un carattere piuttosto diverso da quello francese, in cui realmente è stato frantumato il feudalismo.
Perché ricordo questo? Da noi sarebbe potuto accadere pure analogamente. Senza le riforme economiche, l’economia dei paesi socialisti non può rimanere capace di concorrenza su scala internazionale. Le riforme economiche devono essere realizzate. Dipenderà però dal fatto, se saranno attuate coerentemente o in qualche luogo rimarranno formali, se costituiranno o no una svolta radicale, se saranno accompagnate da una desiderabile democratizzazione nella sfera economica e in quelle extraeconomiche ecc. — e ciò è straordinariamente dipendente da un fattore soggettivo. La diversità di sviluppo nei singoli paesi socialisti sarà determinata dalla differente attività dei fattori soggettivi in ognuno di essi. Oggi è in complesso generalmente riconosciuto che il sistema convenzionale della nostra programmazione è antiquato e deve essere superato. Se porremo teoricamente in modo corretto il problema della programmazione e come poi lo risolveremo praticamente, dipenderà da un fattore soggettivo; oltre il resto, dal pensiero delle classi colte marxiste. E qui, come in altre sfere, vedo due erronee tendenze e soltanto una terza (tertium datur!) può indicare il giusto. Da una parte ci sono cioè degli uomini che vogliono mantenere il marxismo nella forma che aveva acquisito sotto Stalin. Questi perdono qualsiasi capacità, o almeno in gran parte, di comprendere le esigenze di oggi, e che ormai lo vogliano o no, saboteranno le riforme economiche. Altri intellettuali, rispettabili e convinti, credono d’altra parte che il marxismo debba rinnovarsi mediante la accettazione delle concezioni ideologiche occidentali. Perché si mantenga, dicono, in una forma rispondente all’epoca moderna, il marxismo deve assorbire la logica matematica, la semantica, lo strutturalismo e dio sa che cosa ancora. Ritengo ciò un’assurdità. Il metodo del marxismo è un metodo giusto, che noi dobbiamo elaborare affinché sulla sua base sia possibile risolvere i problemi contemporanei del socialismo e del capitalismo. Tuttavia dobbiamo ormai, finalmente, arrivare in primo luogo alla reale comprensione del marxismo, in secondo luogo alla comprensione dei grandi cambiamenti del mondo ai quali si è giunti nell’epoca dopo Marx. Il marxismo ancora non ha raggiunto una valutazione di questi cambiamenti, al punto da trovarsi oggi quel giudizio sul capitalismo in una ingiusta antinomia contro la scienza. Esistono ancora degli uomini che manca poco non cerchino quotidianamente nei giornali se già in America è scoppiata «la crisi». Un lato non meno falso della medaglia sono le opinioni che le cose siano cambiate in tal grado che ormai non si tratta affatto di capitalismo. Per il capitalismo in generale vigono le leggi rivelate da Marx, tuttavia con i necessari cambiamenti: che non è la legge a portare, bensì li porta il tempo e la legge li riproduce. Vedere il mondo di oggi, incluso il capitalismo, marxisticamente, con i suoi reali tratti caratteristici — ha un enorme significato anche per il concetto di forma del socialismo.
D. In Cecoslovacchia e in Ungheria le idee sulla riforma economica sono relativamente, forse si può dire notevolmente, vicine. Mi sembra che da noi in Cecoslovacchia proprio in connessione con la ricerca delle vie per la riforma, con il raggiungimento di nuove vedute sul risanamento dello sviluppo economico, nella lotta contro l’indecisione durante il passaggio al nuovo sistema di governo — si sia cristallizzata la convinzione della indispensabilità di un energico superamento delle deformazioni del socialismo anche nella sfera extraeconomica. Contro la resistenza delle forze conservatrici la svolta attuale è riuscita ad ottenere la democratizzazione nel partito e nell’intera società. Lei ritiene, compagno Lukács, che in Ungheria si stia svolgendo un processo analogo, oppure forse — come ho letto da qualche parte — un simile processo ha prevenuto anzi la riforma economica?
Lukács. Intendere ciò così come lei ha detto nell’ultima frase sarebbe, credo, eccessivo. Sono di questo parere, che in Ungheria esisteva, anche in conseguenza degli avvenimenti del 1956, un fortissimo influsso del settarismo sulla nostra ideologia. La sua demolizione cominciò solo in qualche misura prima delle riforme economiche. Ma non dovrebbe essere sopravvalutata giacché l’influsso dei settari e degli uomini dei settarismi vicini è da noi ancora nelle questioni ideologiche molto forte. Sarebbe un’illusione supporre che il settarismo stalinista nell’Ungheria di oggi ormai abbia cessato di essere un fattore importante. Per di più, anche se non sarà abbastanza esatto come lo dirò, ma la forma che le relazioni da noi hanno acquistato immediatamente dopo gli avvenimenti del 1956, ha attraversato determinati cambiamenti piuttosto caratteristici, che si sono rivelati in modo straordinario specialmente nel campo culturale. Qui alcuni uomini si danno le arie di «progressisti a oltranza»; nel senso che, appena in Occidente si scopre qualunque sciocchezza, fanno a gara per accoglierla immediatamente, ma questa modernità esteriore più di una volta serve loro per la propagazione di idee altamente conservatrici, per esempio sulla storia ungherese, sulla letteratura ungherese. L’evoluzione ideologica in Ungheria certamente non si può ritenere a senso unico e univoca, esistono anche da noi varie correnti. Negli ultimi tempi — e credo che ciò sia in connessione con le riforme economiche — ci sono da noi possibilità di discussione in certo qual modo maggiori.
D. Lei ha menzionato le relazioni nella cultura, nella letteratura — là lei è particolarmente «a casa». Forse potremmo un po’ soffermarci sulle questioni di questa sfera. Innanzi tutto, come formulerebbe lei le condizioni di una affermazione ottimale del ruolo direttivo del partito in una sfera così sensibile qual è la creazione artistica?
Lukács. Se il partito vuole raggiungere anche in questa sfera l’egemonia della propria ideologia, deve fare ogni sforzo perché il marxismo diventi una autorità salda anche agli occhi dei creatori non marxisti. Da questo punto di vista, diremo allora, io ho il mio buon diritto di valutare la letteratura, nel rispetto di alcune condizioni. Innanzi tutto, a questa critica non segue nessuna disposizione organizzativa. Colui che è stato criticato deve avere il diritto e le condizioni per rispondere alla critica. Il critico del partito può dare di nuovo una risposta a questa replica, può nascere una discussione riguardo ad alcuni problemi —e questo è tutto. Io credo che il marxismo sia una teoria giusta, e credo che avremo una vera critica marxista, dimostreremo che abbiamo ragione nella valutazione delle opere letterarie, e così potremo anche nel settore della letteratura arrivare all’egemonia ideologica. Se il marxismo de facto non avesse questo predominio, allora, detto grossolanamente, allora tutto il socialismo sarebbe una truffa. Resisterebbe solo temporaneamente come una falsa ideologia e dopo un certo tempo scomparirebbe, come è scomparsa l’ideologia di Hitler. Mi scusi se ho espresso questo ora in una maniera certo assai pungente. Io ho fede nel marxismo e non mi piacciono i settari. Sono sicuro che il marxismo dall’attuale stato di cose gradualmente otterrà la vittoria, senza servirsi di misure violente. Mentre al contrario i settari, quelli non credono nel marxismo. Tutti i settari sono disfattisti. Questo è di nuovo uno degli errori dello stalinismo, che si confondevano due problemi. Nel 1917 dicevamo che l’espropriazione dei capitalisti era possibile soltanto mediante la violenza. Questa è una questione piuttosto diversa. Dal fatto che i capitalisti poterono essere espropriati soltanto con la violenza, che Kolčak e Denikin poterono essere espulsi dalla Russia solamente mediante la violenza, non consegue che il predominio di Puškin nella cultura si ottiene con la violenza. Per noi deve essere chiaro che il periodo della guerra civile è dietro di noi. I settari svezzati dalla teoria di Stalin sul continuo rinvigorimento della lotta di classe, costoro anelano a quel bel periodo in cui così evidentemente si poteva governare niente affatto alla lettera legalmente e senza che si osservassero le leggi il più severamente possibile. I settari vorrebbero rendere permanente quella «bella» epoca della guerra civile. Ma non è più possibile. Conoscete quell’arguto detto di Talleyrand: «Con le baionette si può fare tutto, solo non è possibile sedercisi sopra». Io spero che tra qualche tempo una certa parte posteriore di quei politici in questione, i quali presumono che il miglior divano al mondo sia una fila di baionette — sarà così conciata, che queste teorie dovranno capitolare. Ora mi sono espresso così di proposito — e non chiedo scusa.