«Secondo me non è cosa che l’Italia possa sperare finattanto ch’ella non abbia libri adattati al tempo, letti ed intesi dal comune de’ lettori, e che corrano dall’un capo all’altro di lei; cosa tanto frequente fra gli stranieri quanto inaudita in Italia. E mi pare che l’esempio recentissimo delle altre nazioni ci mostri chiaro quanto possano in questo secolo i libri veramente nazionali a destare gli spiriti addormentati di un popolo e produrre grandi avvenimenti. Ma per corona de’ nostri mali, dal seicento in poi s’è levato un muro fra i letterati ed il popolo, che sempre più s’alza, ed è cosa sconosciuta appresso le altre nazioni. E mentre amiamo tanto i classici, non vogliamo vedere che tutti i classici greci, tutti i classici latini, tutti gl'italiani antichi hanno scritto pel tempo loro… E com'essi non sarebbero stati classici facendo altrimenti, così né anche noi saremo mai tali, se non gl’imiteremo in questo ch’è sostanziale e necessario, molto più che in cento altre minuzie nelle quali poniamo lo studio principale... Allora avremo gran poeti quando avremo gran cittadini, ed io soggiungo che allora parimente avremo eloquenza, e quando avremo eloquenza e libri propriamente italiani e cari a tutta la nazione, allora ci sarà concessa qualche speranza».
Giacomo Leopardi
(Lettera a Giuseppe Montani del 21 maggio 1819)
Jurij Valentinovič Trifonov (1925-1981).
Fonte della foto: https://vk.com/@the.sherb-puteshestvie-1969-u-trifonova
Pagine di letteratura
di Jurij Trifonov
Questo breve racconto di Jurij Valentinovič Trifonov (1925-1981) è del 1969. Di esso colpisce subito l’incipit:
«Un giorno d’aprile capii all’improvviso che una sola cosa avrebbe potuto salvarmi: un viaggio. Bisognava partire. Non importa per dove, non importa come, in aereo, in nave, a cavallo, in camion, ma partire immediatamente. Il perché stavo così male fa parte di un’altra storia, lunga da raccontare e anche inutile. Semplicemente d’un tratto, all’alba, mentre ero tormentato dall’insonnia e da un affanno al petto […] mi parve di soffocare, mi parve che al cervello non affluisse più sangue e che se non fossi fuggito domani stesso da questa gabbia di stucco, di carta da parati a disegni astratti, di ripiani per libri di legno lucido, di copertine, di frittelle di ricotta, di tè leggero, di giornali, di telefonate, di ricevute, di malattie, di offese, di speranze, di stanchezza, di volti cari, sarei morto».
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Il viaggio
di Jurij Trifonov
Un giorno d’aprile capii all’improvviso che una sola cosa avrebbe potuto salvarmi: un viaggio. Bisognava partire. Non importa per dove, non importa come, in aereo, in nave, a cavallo, in camion, ma partire immediatamente. Il perché stavo così male fa parte di un’altra storia, lunga da raccontare e anche inutile. Semplicemente d’un tratto, all’alba, mentre ero tormentato dall’insonnia e da un affanno al petto – i medici lo spiegavano come una nevrosi vegetativa, ma io sapevo che si trattava d’altro, forse da qualche parte si preparava un temporale, ondate di aria calda si stavano già avvicinando a Podolsk e si muovevano su Mosca – mi parve di soffocare, mi parve che al cervello non affluisse più sangue e che se non fossi fuggito domani stesso da questa gabbia di stucco, di carta da parati a disegni astratti, di ripiani per libri di legno lucido, di copertine, di frittelle di ricotta, di tè leggero, di giornali, di telefonate, di ricevute, di malattie, di offese, di speranze, di stanchezza, di volti cari, sarei morto.
È difficile spiegare che cosa avviene a un uomo all’alba in aprile quando la finestra aperta si muove leggermente per il vento e gratta sul davanzale contro una striscia di carta non completamente staccata. Arrivò il giorno. Era grigio. Solo un po’ più tardi il cielo si rivelò azzurro e privo di nubi. Per la prima volta in quell’anno uscii senza cappello e mi diressi alla redazione del giornale per farmi mandare in missione e partire immediatamente. I collaboratori di questo giornale mi avevano loro stessi proposto una volta una missione di lavoro, ma adesso non riuscivano a capire che cosa volessi. Il capo della cronaca industriale, un uomo piccolo, malaticcio, con una camicia di jersey, mi raccontò che a Solikamsk e Kondopaga si stavano costruendo a pieno ritmo grandi stabilimenti per la produzione della carta e nella regione di Tjumen’ erano stati scoperti nuovi giacimenti di petrolio. Cose ancora più interessanti avvenivano nella regione di Irkutsk, dove sorgeva un nuovo bacino industriale. Per quel che riguarda la grande chimica poi, egli disse, non si poteva ignorare il complesso chimico di Navoj dove erano entrati in esercizio, in anticipo sul piano, reparti di ammoniaca, di sintesi e di conversione.
Dissi che il tutto era estremamente interessante, ma proprio per questo mi era difficile fare una scelta. Accennai che avrei voluto conoscere conflitti, passioni, drammi di produzione che rivelassero il destino delle persone e il loro approccio alla vita.
– Questo lo potrà trovare dove vuole – disse rapidamente il caposezione. Sul suo viso si stampò una strana espressione ambigua, dolente e altezzosa al tempo stesso. E parlando con me continuava a far rotolare sul tavolo una penna a sfera straniera. Lo ringraziai e uscii dicendo che ci avrei pensato. Un giovanotto che aveva assistito silenzioso al nostro colloquio mi seguì in corridoio. Scendemmo insieme le scale.
– Ha bisogno di provare delle sensazioni? – mi chiese il giovanotto, inaspettatamente.
– Certamente, – dissi io. – Sono proprio le sensazioni che mi mancano, accidenti! Sono rimasto a secco di sensazioni. Suona un po’ sciocco, ma è proprio così.
Mi vergognavo un po’, mi sembrava di confessare di essere rimasto senza soldi e di chiederne in prestito. Ma il giovanotto voleva aiutarmi sinceramente, lo sentivo.
– Se ha bisogno di sensazioni, – disse lui, – non è necessario andare lontano, a Tjumen’ o a Irkutsk. Vada qui vicino, a Kursk, a Lipetsk. Le assicuro che non sarà meno interessante della Siberia.
– Lo pensa proprio? – chiesi io rallegrandomi segretamente. Aveva espresso ad alta voce i miei pensieri. – Certo ha ragione: non è mica un problema di chilometri…
Quando uscii per strada era mezzogiorno. C’era un gran sole. Davanti all’ingresso del cinema c’era folla. Passai attraverso la folla, girai a sinistra, superai un monumento accanto al quale stavano sempre alcuni provinciali con cappotti lunghi e apparecchi fotografici in mano e scesi lungo l’ampio viale. Mi veniva incontro un fiume di gente primaverile, denso e lento. Guardavo i volti che spuntavano in continuazione davanti a me e sparivano dietro le mie spalle, senza lasciare traccia, per non comparire mai più nella mia vita e pensavo: perché mai dovrei andare a Kursk o a Lipetsk, quando non conosco bene neppure i dintorni di Mosca. Non sono mai stato a Novo-Fominsk. Non so che cosa sia Mytišče. E a Mosca stessa vi sono vie e quartieri per me assolutamente sconosciuti. Mezz’ora dopo scesi dal filobus accanto a casa mia. All’angolo della Seconda Peščianaja, accanto al negozio di prodotti dietetici, mi fermai e mi guardai intorno: vidi un giardinetto con alberi nudi e rami umidi che splendevano al sole. Sulle panchine, disposte a circolo intorno alla fontana, sedeva una quarantina di pensionati, uomini e donne coi visi protesi verso il sole. Sedevano stretti, cinque per panchina. Non conoscevo nessuno di loro. Il sole accarezzava la loro pelle vecchia, coperta di borse e di pieghe. Alcuni sorridevano, altri avevano volti impietriti e ottusi, alcuni sonnecchiavano.
Dopo una breve sosta mi diressi verso il mio portone, presi l’ascensore e salii al sesto piano. Al sesto piano, dall’appartamento di fronte al mio, uscì Dašenkin, il mio vicino. Mi tese in silenzio la mano sempre un po’ tremante e scese di corsa le scale. Aveva sempre fretta, camminava con le spalle curve e nei suoi occhi ardeva sempre una preoccupazione un po’ folle. Faceva il lattoniere in un deposito di tram. La sua vicina d’appartamento lo riteneva matto, e aveva scritto delle lettere al Centro Psichiatrico chiedendo di internarlo.
Alcuni giorni prima era passata da me e mi aveva pregato di firmare una richiesta, oppure di confermare che Dašenkin tormentava sua moglie e sua figlia, allieva della terza elementare, con scandali a non finire. Il rumore delle liti e anche delle risse arrivava spesso fino al mio appartamento; e a volte la vicina, suo marito e Dašenkin uscivano urlando sul pianerottolo, cosa che io confermai. Poi mi ravvidi e mi chiesi cosa mai aveva fatto il pover’uomo da dover essere messo in manicomio. Quella sera stessa ero andato dalla vicina e le avevo chiesto di restituirmi la lettera da me firmata, ma quella mi disse che l’aveva già spedita. Mi tranquillizzò: nessuno avrebbe internato Dašenkin, l’avrebbero soltanto ammonito.
Evidentemente quella lettera non aveva ancora cominciato ad agire poiché Dašenkin mi strinse la mano con sentimento, come ad un buon amico. Sentii che correva giù per i gradini, battendo gli scarponi pesanti, e che al terzo e al quarto piano tossì forte e sputò sul pavimento. Non aveva mai la pazienza di arrivare fino alla strada.
Aprii la porta con la mia chiave ed entrai nell’appartamento. In cucina stavano cuocendo del pesce. In basso, al quinto piano, dove viveva una enorme famiglia di una decina di persone, qualcuno suonava il pianoforte. Nello specchio apparve per un istante un viso grigio, estraneo.
Pensai che conoscevo poco anche me stesso.
Jurij Trifonov
(Tratto da: Jurij Trifonov, La sparizione e altri racconti, a cura di Lucetta Negarville, Roma, Editori Riuniti, 1988, pp. 243-246).
Inserito il 03/01/2025.
Un articolo da «Rinascita» del 1979
recensione di Ottavio Cecchi
Un’altra vita è un romanzo dello scrittore sovietico Jurij Trifonov (1925-1981), la cui opera più famosa è senza dubbio La casa sul lungofiume. Ne presentiamo l’autorevole recensione del critico Ottavio Cecchi comparsa sul n. 1/1979 della rivista culturale del PCI «Rinascita».
«In questo libro si consuma il dramma della quotidianità, che ancor prima di essere posta a confronto e in contraddizione con il mito dei miti del nostro tempo, la rivoluzione come eccezione conclusiva, dev’essere riconsiderata mediante i risultati di una analisi che la scomponga e la ricomponga come un complesso, un sistema, un mito, anch’esso, contraddittorio. C’è la quotidianità dei burocrati: un’imbecillità quieta, ma vogliosa e cattiva».
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L’uomo di dentro
A proposito del romanzo di Jurij Trifonov Un’altra vita
recensione di Ottavio Cecchi
Anche chi non ami il racconto consequenziale – ormai ridotto a falsetto, a oggetto di consumo e a instrumentum regni – deve riconoscere che questo libro di Jurij Trifonov (Un’altra vita, Editori Riuniti, Roma 1978, pagg. 207, L. 3.600) è quanto di più nobile la narrativa possa offrire al giorno d’oggi. L’abitudine a riportare ciò che di meglio viene da Mosca alla letteratura del grande Ottocento russo, ci fa pensare a Cechov, a Dostoevskij: ma una riflessione più attenta riconduce la mente del lettore ad altri nomi, come, per esempio, Virginia Woolf, E.M. Forster, e ad altri libri: La signora Dalloway, Passaggio in India. Racconto consequenziale, dunque, ma tagliato anche nel senso dell’altezza, dall’alto in basso, tutto in levare, se ci è consentito un richiamo alla musica, e inscritto in quel difficile spazio del non detto, o non suonato, che soltanto i grandi narratori riescono a praticare; racconto consequenziale, ma con accettazione da parte dell’autore delle leggi di probabilità. Di qui i legami anche con l’ultima grande stagione del romanzo europeo fino a Robert Musil. Poiché la narrativa di Trifonov è colta, le risonanze sono molte. Non ultima quella che ha origine nell’insegnamento teorico di Viktor Sklovskij: «A ama B, B non ama A; se successivamente B incomincia ad amare A, A cessa di amare B (…). Per la nascita di una novella è dunque necessaria non solo una trama ma anche una contro trama, una non-coincidenza». Un’altra vita è anche un libro di non-coincidenze.
Soltanto a lettura finita ci si accorge di avere avuto una lunga, sommessa, disperata eppure ironica e liberatrice conversazione con un uomo che non c’è più. Quest’uomo è Seriòsa (gli specialisti ci perdoneranno se i segni diacritici non ci sono e se, per ragioni di forza maggiore, siamo costretti a scrivere così il nome del protagonista; che poi si chiama Sergej: Sergio), storico, parente stretto, se non fratello, del dolce e inetto a vivere (ma portatore di forza vitale) dottor Aziz di Passaggio in India, e uomo senza qualità. Seriòsa ha trascorso la sua breve vita – a quarant’anni, poco più poco meno, il cuore lo ha tradito – parallelamente a uno stuolo di piccoli intellettuali intriganti e pusillanimi, arrivisti e profittatori. La sua forza, dal confronto, è uscita perdente: ha vinto la reale debolezza dei «ragazzi di ferro», o uomini di tempra speciale, come diceva Stalin.
Intelligente e sensibile, Seriòsa ha vissuto un’altra vita. Non lo hanno capito i suoi compagni di lavoro, non lo ha voluto capire la moglie, Ol’ga Vasil’evna, non lo hanno capito gli uomini e le donne della generazione dei padri rivoluzionari, non lo ha capito la figlia Irinka; e Seriòsa, per parte sua, non si è fatto capire da Dar’ja Mamedovna, la bellissima donna, zingaresca, stravagante, che sul finire della vita di lui lo incanta con la magia delle pratiche parapsicologiche ma, in realtà, con la sua presenza diversa, inconsueta. In lei si materializza l’altra vita: quella interiore, aperta a tutto il possibile. L’inconcludenza, l’irresolutezza, l’amarezza e l’ironia fanno di Seriòsa un antieroe; ma un antieroe della pasta dei veri eroi, che scelgono la polemica donchisciottesca fino al sacrificio di sé. Servirà pure a qualcosa. O non servirà a niente.
In questo libro si consuma il dramma della quotidianità, che ancor prima di essere posta a confronto e in contraddizione con il mito dei miti del nostro tempo, la rivoluzione come eccezione conclusiva, dev’essere riconsiderata mediante i risultati di una analisi che la scomponga e la ricomponga come un complesso, un sistema, un mito, anch’esso, contraddittorio. C’è la quotidianità dei burocrati: un’imbecillità quieta, ma vogliosa e cattiva. Aspirare a una candidatura in scienze (ultimo passo verso il dottorato di ricerca), per un uomo che crede alla storia, e quindi a un se stesso tutto esterno, tutto in superficie, proiettato in un futuro immaginato, prefigurato, può essere una spinta, una giustificazione a ogni sorta di piccole e meno piccole cattiverie. Sentirsi nella storia e per giunta dalla parte del potere è motivo di soddisfatta coscienza, non solo, ma di autoesaltazione; fino a proporsi come modello agli altri. Il mondo accademico nel quale a fatica si muove Seriòsa è pieno di gente fra i trenta e i quarant’anni che sta per dare l’assalto finale alla «posizione».
Arrampicarsi senza scrupoli è pratica di tutti i giorni. Per il bene del re e della patria, si può commettere non una ma cento, mille nefandezze. È ciò che fanno gli amici di Seriòsa. Figli della rivoluzione, essi si sono impadroniti delle leve burocratiche e le tengono strette. Non sono uomini da poco; il loro valore, ce l’hanno. Più di una volta, leggendo, ci si sorprende a verificare e valutare le somiglianze tra questi arrivisti del mondo sovietico e i primi funzionari del New Deal descritti da John Dos Passos in un libro tanto bello quanto poco noto dalle nostre parti. Viene fatto di sostituire le strade e le piazze di Mosca con la Pennsylvania Avenue. Ma sono somiglianze di superficie e la lettura le fa presto scomparire.
La quotidianità di questi accademici in lotta tra loro nella capitale dello Stato uscito dalla rivoluzione del ’17 si presenta compatta sotto l’emblema della carriera. Vivono bene, questi giovanotti di ferro, hanno tutto quello che ha un professore americano, più o meno. E non hanno pensieri. Il solo problema che li angustia concerne le loro persone, le loro case, le loro mogli, le loro dacie nei pressi della città. Mai una volta che le grandi masse popolari attraversino, con un pensiero, le loro menti. È tutto fatto, non c’è più niente da fare. Vivono come topi nel formaggio in una quotidianità figlia legittima delle prefigurazioni e dei modelli. Basta pensare: questo in cui viviamo è il migliore dei mondi possibili. E tutto diventa retorica, linguaggio di complici.
Seriòsa vive in una diversa quotidianità: quella esposta a tutti i soprassalti dell’imprevisto e dell’imprevedibile, non protetta dall’adattamento alla condizione assistenziale del modello realizzato. Seriòsa, anche lui, è esposto a tutto. Le prediche affettuose e sincere di Ol’ga, che lo tedia con un amore un po’ miope e possessivo e con un materialismo di maniera, imparaticcio, servono solo a isolarlo sempre più, a metterlo ai margini della sua e della loro vita e a respingerlo in una solitudine che, del resto, egli ha scelto: per scetticismo, per debolezza di carattere, per disinteresse. Ma la quotidianità di Seriòsa è quella che porta in sé la vita con tutte le sue inquietudini, le sue gioie, le sue vanità, i suoi alti e bassi, le sue miserie che Seriòsa capisce in sé e negli altri, la sua ricchezza di bene e di male. Seriòsa non crede che tutto sia già stato fatto e che perciò non ci sia più niente da fare: crede che tutto, come la sua tesi di candidato in scienze, sia sempre in questione, che la ricerca non finisca mai e che niente sia stato fatto una volta per tutte, nemmeno la rivoluzione. Egli non è un uomo di tempra speciale. È ricco di vita interiore, perciò muore colpito al cuore. I suoi amici, gonfi di ideali e carichi di avvenire, sono i veri responsabili della sua morte: la sua presenza è troppo scomoda, è una coscienza viva anche al di là della vita.
Romanzo politico, dunque. Ma lo stile di Trifonov è elegante, è il rovescio di quello enfatico degli scrittori stalinisti, e Serena Vitale ce lo restituisce perfettamente con la sua traduzione. Anche chi non riesce più a sopportare fastidiose commistioni – estetizzazione della politica e politicizzazione dell’arte – accoglie questo libro e lo apprezza. Jurij Trifonov tiene con rara bravura le fila del racconto; che, come tutti i bei racconti, comincia con un gruppo di temi e un viluppo di persone; poi i nodi si sciolgono lasciando decantare il dialogo ininterrotto tra Seriòsa e la sua mediatrice Ol’ga. La maestria del narratore si rivela, sul finire, anche al lettore meno attento: che si trova in un mondo crepuscolare dove Seriòsa c’è e non c’è, è realtà e irrealtà, presenza e memoria, e lo stesso racconto finisce per somigliare a una evocazione, non di fantasmi, ma di forze interiori mortificate e represse dalla violenza quotidiana del piccolo borghese conformista e conservatore. Dar’ja Mamedovna non è comparsa inutilmente, la sua presenza è valsa a riaffermare la primaria importanza della vita di dentro e, quindi, di quella diversità che i piccoli borghesi temono quanto la povertà e la morte dei loro corpi: quanto quel processo di identificazione che Seriòsa compie in solitudine sapendo di giocarsi la vita.
Ottavio Cecchi
(Tratto da: Ottavio Cecchi, L’uomo di dentro. Un nuovo romanzo di Jurij Trifonov: “Un’altra vita”, in «Rinascita», n. 1/1979, 5 gennaio 1979).
Inserito il 03/01/2024.
Aleksandr Blok (1880-1921).
Fonte dell’immagine: https://embassylife.ru/2022/11/28/10476/#prettyPhoto
Pagine di letteratura
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Aleksandr Blok (1880-1921) fu uno dei più grandi poeti simbolisti russi, rappresentante supremo di quell’“età d’argento” della poesia russa che fu caratterizzata da atmosfere di sogno ed evocative, sfuggenti ad una realtà materiale che non poteva essere accettata per come era. Un movimento poetico di stampo idealista e decadente, ma a suo modo precursore delle avanguardie letterarie rivoluzionarie.
Blok accolse gli eventi di ottobre 1917 con grande entusiasmo e speranza, invitando nel suo articolo L’intelligencija e la rivoluzione ad ascoltare la rivoluzione «con tutto il cuore, con tutto il corpo», ad accettare prontamente i cambiamenti contribuendo alla realizzazione di un grande compito.
Nel 1918 egli compose il celebre poema I dodici, l’apogeo dei suoi sentimenti rivoluzionari. Dodici guardie rosse diventano simbolo di un rapido movimento in avanti. La Russia sembra una tempesta. Sì, la rivoluzione è spietata, sì, distrugge tutto sul suo cammino. Ma questo è l’unico modo per distruggere il mondo passato e aprire la strada a uno nuovo.
A chiudere il poema è l’immagine del Salvatore, che guida le dodici guardie rosse come se fossero apostoli del mondo nuovo, nel cui nome si compiranno grandi cose.
Sull’accoglienza del poema si divisero i critici letterari e gli altri poeti. Alcuni ne furono entusiasti, altri lo respinsero. Anche poeti un tempo vicini a Blok come Z. Gippius, D. Merežkovskij, S. Solov’ëv si espressero negativamente. L’intelligencija antibolscevica decretò un boicottaggio di Blok dopo la pubblicazione di questo suo poema.
Presentiamo l’originale russo e ben due traduzioni in italiano. Tradurre poesia non è facile, ovviamente. Io, per esempio, generico traduttore dal russo, non mi cimento con la poesia, essendo del tutto assente in me una vena poetica. Spesso a tradurre poesia sono dei poeti: talvolta le traduzioni sono poesie anche migliori di quelle originali, ma difficilmente si possono rendere le stesse atmosfere dell’originale. In poesia non si tratta solo di ritmi, strofe, numeri di sillabe, rime e accenti, ma la scelta di una parola può essere per il suono cupo che riporta a un’atmosfera lugubre, o per il colore acceso che riflette un animo gioioso… Sui colori, inoltre: il bianco che in una cultura rappresenta il candore e la verginità, in un’altra cultura è espressione del lutto; pensiamoci, quando leggiamo le traduzioni di poesie. Le parole sono tante cose: parole-suoni, parole-silenzi, parole-fendenti, parole-colori, parole-tormenti, parole-schiaffi, parole-sussurri, parole-macchine, parole-tuoni, parole-baci, parole-incendi…
L.C.
Александр Блок
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Двенадцать
1
Черный вечер.
Белый снег.
Ветер, ветер!
На ногах не стоит человек.
Ветер, ветер —
На всем Божьем свете!
Завивает ветер
Белый снежок.
Под снежком — ледок.
Скользко, тяжко,
Всякий ходок
Скользит — ах, бедняжка!
От здания к зданию
Протянут канат.
На канате — плакат:
«Вся власть Учредительному Собранию!»
Старушка убивается — плачет,
Никак не поймет, что значит,
На что такой плакат,
Такой огромный лоскут?
Сколько бы вышло портянок для ребят,
А всякий — раздет, разут…
Старушка, как курица,
Кой-как перемотнулась через сугроб.
— Ох, Матушка-Заступница!
— Ох, большевики загонят в гроб!
Ветер хлесткий!
Не отстает и мороз!
И буржуй на перекрестке
В воротник упрятал нос.
А это кто? — Длинные волосы
И говорит вполголоса:
— Предатели!
— Погибла Россия!
Должно быть, писатель —
Вития…
А вон и долгополый —
Сторонкой — за сугроб…
Что нынче невеселый,
Товарищ поп?
Помнишь, как бывало
Брюхом шел вперед,
И крестом сияло
Брюхо на народ?
Вон барыня в каракуле
К другой подвернулась:
— Ужь мы плакали, плакали…
Поскользнулась
И — бац — растянулась!
Ай, ай!
Тяни, подымай!
Ветер веселый
И зол, и рад.
Крутит подолы,
Прохожих косит,
Рвет, мнет и носит
Большой плакат:
«Вся власть Учредительному Собранию»…
И слова доносит:
…И у нас было собрание…
…Вот в этом здании…
…Обсудили —
Постановили:
На время — десять, на ночь — двадцать пять…
…И меньше — ни с кого не брать…
…Пойдем спать…
Поздний вечер.
Пустеет улица.
Один бродяга
Сутулится,
Да свищет ветер…
Эй, бедняга!
Подходи —
Поцелуемся…
Хлеба!
Что впереди?
Проходи!
Черное, черное небо.
Злоба, грустная злоба
Кипит в груди…
Черная злоба, святая злоба…
Товарищ! Гляди
В оба!
2
Гуляет ветер, порхает снег.
Идут двенадцать человек.
Винтовок черные ремни,
Кругом — огни, огни, огни…
В зубах — цыгарка, примят картуз,
На спину б надо бубновый туз!
Свобода, свобода,
Эх, эх, без креста!
Тра-та-та!
Холодно, товарищи, холодно!
— А Ванька с Катькой — в кабаке…
— У ей керенки есть в чулке!
— Ванюшка сам теперь богат…
— Был Ванька наш, а стал солдат!
— Ну, Ванька, сукин сын, буржуй,
Мою, попробуй, поцелуй!
Свобода, свобода,
Эх, эх, без креста!
Катька с Ванькой занята —
Чем, чем занята?…
Тра-та-та!
Кругом — огни, огни, огни…
Оплечь — ружейные ремни…
Революцьонный держите шаг!
Неугомонный не дремлет враг!
Товарищ, винтовку держи, не трусь!
Пальнем-ка пулей в Святую Русь —
В кондовую,
В избяную,
В толстозадую!
Эх, эх, без креста!
3
Как пошли наши ребята
В красной гвардии служить —
В красной гвардии служить —
Буйну голову сложить!
Эх ты, горе-горькое,
Сладкое житье!
Рваное пальтишко,
Австрийское ружье!
Мы на горе всем буржуям
Мировой пожар раздуем,
Мировой пожар в крови —
Господи, благослови!
4
Снег крутит, лихач кричит,
Ванька с Катькою летит —
Елекстрический фонарик
На оглобельках…
Ах, ах, пади!…
Он в шинелишке солдатской
С физиономией дурацкой
Крутит, крутит черный ус,
Да покручивает,
Да пошучивает…
Вот так Ванька — он плечист!
Вот так Ванька — он речист!
Катьку-дуру обнимает,
Заговаривает…
Запрокинулась лицом,
Зубки блещут жемчугом…
Ах ты, Катя, моя Катя,
Толстоморденькая…
5
У тебя на шее, Катя,
Шрам не зажил от ножа.
У тебя под грудью, Катя,
Та царапина свежа!
Эх, эх, попляши!
Больно ножки хороши!
В кружевном белье ходила —
Походи-ка, походи!
С офицерами блудила —
Поблуди-ка, поблуди!
Эх, эх, поблуди!
Сердце екнуло в груди!
Помнишь, Катя, офицера —
Не ушел он от ножа…
Аль не вспомнила, холера?
Али память не свежа?
Эх, эх, освежи,
Спать с собою положи!
Гетры серые носила,
Шоколад Миньон жрала,
С юнкерьем гулять ходила —
С солдатьем теперь пошла?
Эх, эх, согреши!
Будет легче для души!
6
…Опять навстречу несется вскачь.
Летит, вопит, орет лихач…
Стой, стой! Андрюха, помогай!
Петруха, сзаду забегай!…
Трах, тарарах-тах-тах-тах-тах!
Вскрутился к небу снежный прах!…
Лихач — и с Ванькой — наутек…
Еще разок! Взводи курок!…
Трах-тарарах! Ты будешь знать,
. . . . . . . . .
Как с девочкой чужой гулять!…
Утек, подлец! Ужо, постой,
Расправлюсь завтра я с тобой!
А Катька где? — Мертва, мертва!
Простреленная голова!
Что Катька, рада? — Ни гу-гу…
Лежи ты, падаль, на снегу!
Революцьонный держите шаг!
Неугомонный не дремлет враг!
7
И опять идут двенадцать,
За плечами — ружьеца.
Лишь у бедного убийцы
Не видать совсем лица…
Все быстрее и быстрее
Уторапливает шаг.
Замотал платок на шее —
Не оправиться никак…
— Что, товарищ, ты не весел?
— Что, дружок, оторопел?
— Что, Петруха, нос повесил,
Или Катьку пожалел?
— Ох, товарищи, родные,
Эту девку я любил…
Ночки черные, хмельные
С этой девкой проводил…
— Из-за удали бедовой
В огневых ее очах,
Из-за родинки пунцовой
Возле правого плеча,
Загубил я, бестолковый,
Загубил я сгоряча… ах!
— Ишь, стервец, завел шарманку,
Что ты, Петька, баба что ль?
— Верно, душу наизнанку
Вздумал вывернуть? Изволь!
— Поддержи свою осанку!
— Над собой держи контроль!
— Не такое нынче время,
Чтобы няньчиться с тобой!
Потяжеле будет бремя
Нам, товарищ дорогой!
И Петруха замедляет
Торопливые шаги…
Он головку вскидавает,
Он опять повеселел…
Эх, Эх!
Позабавиться не грех!
Запирайте етажи,
Нынче будут грабежи!
Отмыкайте погреба —
Гуляет нынче голытьба!
8
Ох ты, горе-горькое!
Скука скучная,
Смертная!
Ужь я времячко
Проведу, проведу…
Ужь я темячко
Почешу, почешу…
Ужь я семячки
Полущу, полущу…
Ужь я ножичком
Полосну, полосну!…
Ты лети, буржуй, воробышком!
Выпью кровушку
За зазнобушку,
Чернобровушку…
Упокой, Господи, душу рабы Твоея…
Скучно!
9
Не слышно шуму городского,
Над невской башней тишина,
И больше нет городового —
Гуляй, ребята, без вина!
Стоит буржуй на перекрестке
И в воротник упрятал нос.
А рядом жмется шерстью жесткой
Поджавший хвост паршивый пес.
Стоит буржуй, как пес голодный,
Стоит безмолвный, как вопрос.
И старый мир, как пес безродный,
Стоит за ним, поджавши хвост.
10
Разыгралась чтой-то вьюга,
Ой, вьюга́, ой, вьюга́!
Не видать совсем друг друга
За четыре за шага!
Снег воронкой завился,
Снег столбушкой поднялся…
— Ох, пурга какая, Спасе!
— Петька! Эй, не завирайся!
От чего тебя упас
Золотой иконостас?
Бессознательный ты, право,
Рассуди, подумай здраво —
Али руки не в крови
Из-за Катькиной любви?
— Шаг держи революцьонный!
Близок враг неугомонный!
Вперед, вперед, вперед,
Рабочий народ!
11
…И идут без имени святого
Все двенадцать — вдаль.
Ко всему готовы,
Ничего не жаль…
Их винтовочки стальные
На незримого врага…
В переулочки глухие,
Где одна пылит пурга…
Да в сугробы пуховые —
Не утянешь сапога…
В очи бьется
Красный флаг.
Раздается
Мерный шаг.
Вот — проснется
Лютый враг…
И вьюга́ пылит им в очи
Дни и ночи
Напролет…
Вперед, вперед,
Рабочий народ!
12
…Вдаль идут державным шагом…
— Кто еще там? Выходи!
Это — ветер с красным флагом
Разыгрался впереди…
Впереди — сугроб холодный,
— Кто в сугробе — выходи!..
Только нищий пес голодный
Ковыляет позади…
— Отвяжись ты, шелудивый,
Я штыком пощекочу!
Старый мир, как пес паршивый,
Провались — поколочу!
…Скалит зубы — волк голодный —
Хвост поджал — не отстает —
Пес холодный — пес безродный…
— Эй, откликнись, кто идет?
— Кто там машет красным флагом?
— Приглядись-ка, эка тьма!
— Кто там ходит беглым шагом,
Хоронясь за все дома?
— Все равно, тебя добуду,
Лучше сдайся мне живьем!
— Эй, товарищ, будет худо,
Выходи, стрелять начнем!
Трах-тах-тах! — И только эхо
Откликается в домах…
Только вьюга долгим смехом
Заливается в снегах…
Трах-тах-тах!
Трах-тах-тах…
…Так идут державным шагом —
Позади — голодный пес,
Впереди — с кровавым флагом,
И за вьюгой невидим,
И от пули невредим,
Нежной поступью надвьюжной,
Снежной россыпью жемчужной,
В белом венчике из роз —
Впереди — Исус Христос.
Январь 1918 г.
Александр Блок
traduzione di Renato Poggioli
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I dodici
1
Cupa sera.
Neve bianca.
La bufera
i viandanti abbatte e sfianca.
La bufera
sulla terra intera!
Turbina il vento
i bianchi fiocchi
e abbarbaglia gli occhi.
Ghiaccio, ghiaccio:
l’uomo sui ginocchi
casca, oh poveraccio!
Da un muro a un portone
una fune si stende.
Sulla fune un telone:
«Tutti i poteri alla Costituente!»
Una vecchietta non sa che vuol dire,
né lo potrà mai capire.
Perché tanti stracci?
Perché quei grandi cartelli?
Meglio farne fasce ché son nudi i nostri ragazzi,
sono scalzi i nostri monelli!
La vecchia come una gallina
razzola nella neve profonda.
«Oh benedetta Madonnina,
i bolscevichi mi mandano alla tomba!»
Il vento è argento vivo
ed il gelo un folletto.
Un borghese nel quadrivio
ficca il naso nel colletto.
Capelli lunghi, mani in croce
un tale dice a bassa voce:
«La Russia muore!
Rinnegati!»
Dev’esser certo un oratore,
un letterato…
Ed ecco sul nevaio
un pop nel suo mantello.
Non ti senti piú gaio,
rispondimi, fratello?
Forse ricordi sempre
quando senza lavoro
ti splendeva sul ventre
il crocifisso d’oro?
Una signora impellicciata
verso un’amica s’è voltata:
«Ho tanto pianto, ho pianto tanto…»
È sdrucciolata,
e pan! s’è tutta spampanata!
Gesú,
tirami su!
L’allegro vento,
freddo e sferzante,
gioca contento
con il viandante,
strappa i mantelli,
porta cartelli
sopra la gente:
«Tutti i poteri alla Costituente!…»
Ma reca anche parole a brandelli:
«…Anche noi s’è fatto adunanza…
…Proprio lassù in qualche stanza…
…Disputammo…
…deliberammo…
Dieci per una, venti a nottata
è la tariffa obbligata…
…Andiamo…»
Buio profondo.
Strada deserta.
Un vagabondo
nella tempesta.
Il vento fischia…
«Oh vagabondo!
vien qua…
Abbracciamoci!»
Pane!
Chi va là?
Via di qua!
Cielo, cielo nero.
L’odio, l’odio fiero
bolle in cuore…
L’odio santo, l’odio nero…
Sta’ in guardia,
compagno, sta’ in guardia!
2
Il vento soffia a mulinello,
marciano dodici in drappello.
Le carabine sulle spalle:
intorno fiamme rosse e gialle.
I berrettacci son da ladri,
sul dorso c’è l’asse di quadri!
Olà, senza croce
è la libertà!
Tra-ta-tà!
Fa freddo, compagni, fa freddo!
«Sai, Nane e Cate sono insieme…»
«Lei nelle calze i soldi tiene!»
«Lui pure è ricco sfondato…»
«Era dei nostri ed è soldato!»
«O Nane, orsú, figlio di cani,
provati: baciale le mani!»
Senza croce, olà,
è la libertà!
Nane e Cate insieme stanno:
dimmi un po’ che mai faranno…
Tra-ta-tà!
Intorno fiamme rosse e gialle:
le carabine sulle spalle…
Tenete il passo rivoluzionario!
Non sonnecchia, no, l’avversario!
Su, compagno, non essere vile!
Contro la Russia punta il fucile –
contro la Santa Russia,
contro la sua putredine,
contro la sua pinguedine!
Senza croce, olà!
3
Oh partirono i ragazzi
a servir l’armata rossa –
a servir l’armata rossa
con la testa nella fossa!
Amarezza amara,
oh, vivere è bello!
Carabina austriaca,
sdruci nel mantello!
Per la rabbia del borghese
bruceremo ogni paese
ed in fiamme andrà la terra:
Dio proteggi questa guerra!
4
Neve, frusta, e squarciagola.
Via con Cate Nane vola.
Una lampada è confitta
nella slitta.
Casca giú!…
Mantellina militare,
connotati da animale,
Nane arriccia i baffi neri,
se li arriccia,
li stropiccia…
Guarda Nane che torace!
Senti un po’ come è loquace!
Bacia Cate sulla bocca,
ciarla con la sciocca…
Getta Cate il capo indietro
e i suoi denti sembran vetro…
Cate, Cate mia,
com’è tondo il tuo musino…
5
Sul tuo collo ancora, o Cate
c’è uno sfregio di coltello;
sul tuo seno ancora, o Cate,
c’è uno sgraffio fresco e bello!
Danza danza, orsú!
Bei piedini hai tu!
Bianchi pizzi tu portavi –
vieni qua con me!
gli ufficiali accompagnavi –
peccherò con te!
Oh peccare insieme
all’anima fa bene!
Ti ricordi l’ufficiale?
Dal coltello non scampò…
Scellerata, quale male
la memoria ti rubò?
Ti ricordi?
Perché non dormi più con me?
Ghette tortora indossavi,
sgranocchiavi dolci rari:
coi cadetti civettavi,
ora vai coi militari…
Su, pecchiamo insieme:
al cuore farà bene!
6
…La slitta corre al suo destino…
Frusta e bestemmia il vetturino…
«Férmati! Andrea, diamogli dietro!
Fermalo! corri! aiutaci, Pietro!»
Tra-tararà-tatà-tatà…
La neve schizza in qua e in là.
«Guarda: ci scappano. Che bile…
Un altro colpo: punta il fucile!»
Tra-tararà… «Voglio insegnarti
. . . . . .
a portar via le donne agli altri!…»
«Vile, tu fuggi! ma domani
ti riavrò nelle mie mani!»
«Ma dov’è Cate? È stramazzata!
Guarda: ha la testa crivellata!»
«Or sei contenta? Perché taci?
Là fra la neve resta e giaci!…»
Tenete il passo rivoluzionario,
ché non sonnecchia l’avversario!
7
Vanno i dodici lontano,
vanno via verso la guerra.
Tiene il volto nella mano
l’omicida e guarda a terra.
Col fucile ad armacollo
fa gran passi sulla via.
Stringe un cencio intorno al collo,
sembra in preda alla follia…
«O compagno, che cos’hai?
Pietro di’: perché rallenti?
Perché a capo basso vai?
Di Catina ti rammenti?»
«O fratelli, ascoltate,
io l’amavo la ragazza!
Quante notti ci ho passate,
notti nere, notti pazze…
Per il fuoco temerario
delle sue pupille gialle, per un neo solitario
nel candore delle spalle,
mi son perso… o sangue rosso…
e salvarmi più non posso!»
«Ora attacchi l’organetto!
Ma sei proprio una comare?
Ci vuoi forse il cuore in petto,
o compagno, arrovesciare?
Forza! march! col capo eretto!
Tienti su da militare!
Credi sia questo il momento
di cullarti, amico bello?
Per noialtri verrà un tempo
più difficile, fratello!»
E gli incerti passi affretta
Pietro allora nel nevaio,
e la testa torna eretta
più di prima e l’occhio gaio.
Olà,
far baldoria non è crudeltà!
Su, sbarrate finestre e porte:
viene il saccheggio e la morte!
Spalancate cantine e granai:
oggi godremo, operai!
8
Amarezza amara,
noia noiosa,
mortale!
E così il mio tempo
passe – passerò…
La mia nuca sempre
gratte – gratterò…
Semi io bel bello
sgrane – sgranerò…
E col mio coltello
colpi – colpirò…
Fuggi, borghese, come un passerotto!
il tuo sangue corrotto
berrò alla gloria d’una
bella ragazza bruna!…
Placa, o Signore, l’anima tua schiava…
Che tedio!
9
Sulla torre del fiume regna calma,
s’è chetato il fragore cittadino.
Non si vedono in giro piú gendarmi:
fate orgia, ragazzi, senza vino!
S’è fermato un borghese nel quadrivio
e il naso dentro il bavero nasconde.
Ai fianchi gli si struscia col suo grigio
pelo rognoso un cane vagabondo.
Come il cane famelico sta muto
il borghese, con aria di domanda.
Sta il vecchio mondo come un can perduto
dietro a lui, con la coda fra le gambe.
10
Oh folleggia l’uragano,
l’ura – l’uragà!
Non si vede piú un cristiano
a due passi in là!
La neve gira a spirale
ed a colonna risale.
«Domineddio, che tempesta!»
«Pietro! perdi ora la testa?
Ti scampò dalla disdetta
mai l’icona benedetta?
Mi diventi un incosciente:
via, ragiona rettamente.
La tua mano ancor macchiata
è del sangue dell’amata!
Tieni il passo rivoluzionario,
ché non sonnecchia l’avversario!»
Avanti, in alto i cuori!
Urrà, lavoratori!
11
…Senza il nome benedetto
vanno vanno ad uno ad uno.
Pronti alla vendetta,
pietà per nessuno…
E le canne son puntate
contro l’ombra del rivale…
nelle strade abbandonate
dove infuria il temporale…
dalle nevi accumulate
non si cava lo stivale…
Vibra il vento
lo stendardo.
Passo lento,
Passo tardo.
Piú violento,
piú gagliardo
il nemico si ridesta…
La tempesta
alza la testa…
Avanti, in alto i cuori!
Urrà, lavoratori!
12
Vanno via con passo lento,
sempre avanti… Chi va là?
È il vessillo che sul vento
fruscia e oscilla in qua e in là…
Dietro ai cumuli in agguato
forse c’è chi sta aspettando…
No, è il cane allampanato
che li segue zoppicando…
«Passa via, vagabondo!
Via rognoso, via, se no…
Come un cane, o vecchio mondo,
passa via, t’abbatterò!»
Mostra i denti come un lupo,
con la coda ritta sta,
cane povero e sparuto…
«Rispondete: chi va là?»
«Chi è che scuote la bandiera?»
«O che buio maledetto!»
«Chi è che va di gran carriera?
chi si fa là parapetto?»
«Su, compagno, alza le mani!
Prender te per noi è un gioco.
Tu cadrai nelle mie mani
vivo o morto! Attenti: fuoco!»
Tratatà!… Ma è solo l’eco
che risponde secco e breve.
La tormenta con un bieco
riso danza fra la neve.
Tratatà!
Tratatà!
…Così vanno nella sera,
ed il cane è ormai laggiù,
ma davanti alla bandiera,
camminando lieve
nel vortice di neve,
di rose inghirlandato
in un nembo imperlato,
avanti marci tu,
non veduto, o Gesù!
Gennaio 1918
Aleksandr Blok
(Traduzione di Renato Poggioli)
(Tratto da: Aleksandr Blok, I dodici (con testo russo a fronte; prefazione di Clara Strada Janovič, traduzione di Renato Poggioli), Torino, Giulio Einaudi editore, 1963, pp. 23-57).
traduzione di Paolo Statuti
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I dodici
1
Buia sera.
Neve bianca.
Che vento!
Le gambe piega.
Che bufera –
Sulla terra intera!
Di neve e vento
Un girotondo.
Ghiaccio è il fondo.
Bufera maledetta!
Ogni passante
Scivola – ah, poveretta!
Tra due case
Una fune si tende.
Sulla fune – un cartello:
“Tutto il potere alla Costituente!”
Una vecchia piange – ahimé,
Non capirà mai perché
C’è quel cartello.
Che spreco con quel telo –
Quante pezze per i piedi dei ragazzi,
Spogliati e scalzi…
La vecchia, come una gallina,
Ha saltato un mucchio di neve.
– Oh, Benedetta Madonnina!
– Coi bolscevichi la vita è breve!
Punge il vento!
Gelo maledetto!
Un borghese al crocevia
Ha il naso nel colletto.
E questo chi è? – Lunghi i capelli
Parla a voce bassa:
– Traditori!
– La Russia al Creatore! –
Forse un letterato –
Un oratore…
E là con la zimarra –
In disparte vi tenete…
Passata è l’allegria,
Compagno – prete?
Ricordi com’era?
Sulla pancia sporgente
La croce splendeva
Per la gente…
Là una dama impellicciata
Verso un’altra s’è voltata:
– Ah, quanti pianti, quanti pianti…
Ma è scivolata
E – paff – che sederata!
Ahi, ahi!
Titatemi su!
Vento allegro,
Spietato e contento.
Rivolta i lembi,
Sferza i passanti,
Strappa, sbatte
Un grande cartello:
“Tutto il potere alla Costituente”…
E le parole porta:
…Da noi c’è stata una riunione…
…In questo androne…
…Abbiam discusso –
Abbiam deciso:
Dieci – per un’ora, venticinque – per la notte…
…Di meno – non accettare…
…Andiamo a riposare…
Tarda sera.
La strada s’è svotata.
Un vagabondo
Ha la schiena piegata,
E sibila il vento…
Ehi, pezzente!
Vieni qua –
Baciamoci…
Pane!
Chi va là?
Passa!
Cielo, cielo nero.
Rabbia, triste rabbia
Bolle in petto…
Rabbia nera, rabbia santa…
Compagno, bada!
Attento!
2
Passeggia il vento, vola la bufera.
Va dei dodici la schiera.
Le nere cinghie dei fucili,
Intorno – fuochi, fuochi, fuochi…
Berretto sgualcito, tra i denti – un mozzicone,
Sembran fuggiti dalla prigione!
Libertà, libertà,
E la croce via di qua!
Tra-ta-ta!
Che freddo, compagni, che freddo fa!
– Vanja e Katja sono insieme…
– Nella calza i soldi tiene!
– Ricco Vanja è diventato…
– Era con noi, adesso è soldato!
– Vanja, figlio di puttana, suvvia,
Prova a baciare la mia!
Libertà, libertà,
E la croce via di qua!
Katja con Vanja è occupata –
Ma che fa, che fa?…
Tra-ta-ta!
Intorno – fuochi, fuochi, fuochi…
A tracolla i fucili…
Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!
Compagno, coraggio, il fucile agguanta!
Spariamo sulla Russia Santa –
Vetusta,
Contadina,
Satolla!
E la croce via di qua!
3
Oh partirono i ragazzi,
Per servir la guardia rossa –
Per servir la guardia rossa –
E finire in una fossa!
E tu, amara sventura,
Vita gentile!
Lacero il cappotto,
Austriaco il fucile!
Per la sorte dei borghesi
Mille fuochi sono accesi,
Fuoco e sangue nel cuore –
Oh, proteggici, Signore!
4
Neve. Grida il vetturino,
Vanja con Katja vicino –
La luce del fanale
Sulle stanghe…
Ah, ah, crepa!…
Nel cappotto militare
Un balordo egli pare,
Torce e alliscia senza sosta
il baffo nero,
E scherza a cuor leggero…
Vanja è così – forte e tenace!
Vanja è così – assai loquace!
La sciocca Katja abbraccia,
E a parlare attacca…
Getta indietro la testolina,
Denti come perline…
Oh, Katja, m’è sempre piaciuta
La tua faccia paffuta…
5
Sul tuo collo, Katja,
Lo sfregio d’un coltello.
Sotto il petto, Katja,
Hai un graffio novello!
Balla un po’, amore mio!
Che gambe, santo Dio!
Biancheria di pizzo portavi –
Portala ancora!
Con gli ufficiali trescavi –
Tresca, tresca anche ora!
Eh, eh, tresca adesso!
Il cuor sobbalza in petto!
L’ufficiale, Katja, rammenti –
Non evitò una coltellata…
L’hai scordato, accidenti?
La memoria s’è offuscata?
Eh, eh, non mentire,
Con te voglio dormire!
Ghette cenere avevi,
Solo dolci raffinati,
Tra i cadetti tu sceglievi –
Ora scegli tra i soldati?
Eh, eh, pecca pure, dai!
Più leggera ti sentirai!
6
Di nuovo passa come furia
Il vetturino: vola, urla, ingiuria…
Fermo! Andrjej, da’ una mano!
Corri dietro a quel marrano!…
Tra-tarara-ta-ta-ta-ta!
Quanta neve s’è levata!…
Scappa Vanja – il bellimbusto…
Alza il cane! Mira giusto!…
Tra-tarara! Or vedrai…
. . . . . . . . .
Le donne altrui più non avrai!…
È scappato! Aspetta, carogna,
Finirai in una fogna!
E Katja dov’è? – Morta ammazzata!
Ha la testa crivellata!
Katja, sei contenta? – Taci…
Come una bestia giaci!…
Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!
7
Va dei dodici la schiera,
Con passo deciso.
Il povero assassino
Nasconde il suo viso…
Più veloce, senza fiato
Corre come un ossesso.
Lo scialle sul collo annodato –
Mai più sarà se stesso…
– Oh, compagno, sei afflitto?
– Hai la faccia smarrita!
– Pjetja, sembri un relitto,
Vorresti Katja in vita?
– Oh, compagni, ricordate,
Quella pupa io l’amavo…
Notti buie, ubriache
Con la pupa io passavo…
– Con lo sguardo provocava,
Eran fuochi i suoi occhi,
Sulla spalla che mostrava
C’era un neo coi fiocchi!
Dietro a lei, povero me,
Mi son perso… ahimé, ahimé!
– Cane, vuoi sonare l’organetto,
Pjetja, sei forse una donnetta?
– O forse vuoi sputare
Tutto ciò che hai nel petto?
– Controllati!
– Sta’ dritto!
– Più nessuno ormai, fratello,
I tuoi mali curerà!
Oggi più grave è il fardello
Che ciascuno porterà!
E Pjetja ha rallentato,
Or più non s’affretta…
La testa ha sollevato,
Or di nuovo sembra lieto…
Eh, eh!
Goder non è peccato!
Serrate ben le porte,
Verran saccheggi e morte!
Aprite la botte –
8
Oh tu, amara sventura!
Noia mesta,
Funesta!
Il tempo
Passerò, passerò…
La testa
Gratterò, gratterò…
I semi
Sguscerò, sguscerò…
Il coltello
Userò, userò!…
Vola, passerotto borghese!
Il sangue voglio bere
Per la mia bella,
Per le ciglia nere…
Pace, Signore, per l’anima della tua schiava…
Noia!
9
Tace la voce della città,
Il gendarme più non cammina,
Tace la torre sulla Nevà –
Non c’è più vino in cantina!
Un borghese sta al bivio,
Cela il naso nel colletto.
Un pelo irsuto lo strofina –
È un mite cane reietto.
Come quel cane è affamato,
Tace, non fa domande.
Come quel cane, il vecchio mondo
Ha la coda tra le gambe.
10
È scoppiata la tempesta,
Ovunque sconquasso!
Non distingui più una testa
A distanza d’un passo!
Di neve un grande anello,
Di neve un mulinello…
– Gesù mio, che bufera!
– Pjetja, parla seriamente!
Da cosa t’ha salvato
Quel santume dorato?
Svegliati!
Libera la tua mente –
Di sangue sei macchiato,
Katja t’ha rovinato!
– Il passo sia rivoluzione!
Il nemico è pronto all’azione!
Avanti, avanti ancora,
Chi lavora!
11
…E vanno senza nome di santo
Dodici fanti.
Decisi sono a tutto,
Senza rimpianti…
D’acciaio l’armamento
Pel nemico nell’ombra…
I vicoli di pianto
La bufera inonda…
Nel soffice manto –
Lo stivale affonda…
Negli occhi ondeggia
Una bandiera.
S’odon passi
Nella sera.
Si desterà
Il feroce nemico…
La tormenta li inghiotte
Giorno e notte
Senza tregua…
Avanti ancora,
Chi lavora!
12
…Vanno con passo gagliardo…
– Esci dalla tua tana! –
Davanti – un rosso stendardo,
Infuria la tramontana…
Davanti – un cumulo gelato,
– Chi va là? Fuori, carogna!…
È solo un cane affamato
Che si gratta la rogna…
– Passa via, cane immondo,
O il mio ferro proverai!
Ti somiglia il vecchio mondo,
Passa via o perirai!
…Mostri i denti per la fame,
La tua coda nascondi,
Solo al mondo, senza pane…
– Chi va là? Ehi, rispondi!
– Chi è che regge lo stendardo?
– Oh, il cielo com’è scuro!
– S’ode un passo codardo,
Si cela dietro un muro.
– Fuggire ora che vale?
Meglio vivo restare!
– Ehi, compagno, finirai male,
Mi costringi a sparare!
Tra-ta-ta! – L’eco soltanto
Dalle case risponde…
La bufera ride intanto
Tra le candide sponde…
Tra-ta-ta!
Tra-ta-ta…
…E vanno con passo gagliardo,
Dietro – un cane affamato,
Davanti – con lo stendardo
Di sangue imbrattato,
Dai proietti risparmiato,
Con passo dolce e lieve
Tra mille perle di neve,
Il capo ornato di cisto –
Chi li guida? – Gesù Cristo.
Gennaio 1918
Aleksandr Blok
(Traduzione di Paolo Statuti)
(Tratto da: https://lombradelleparole.wordpress.com/2014/09/28/aleksandr-blok-1880-1921-i-dodici-a-cura-di-paolo-statuti/).
Pagine di letteratura
di Anton Čechov
Questo racconto di Anton Čechov (1860-1904) risale al 1883. È molto famoso e offre la possibilità di vedere alcune delle caratteristiche dello stile narrativo dello scrittore russo, uno stile asciutto, pulito, che va al sodo e non si perde in descrizioni che lui considera inutili e in particolari superflui. Non amava gli orpelli, è evidente.
Si tratta anche forse del più “gogoliano” tra i suoi racconti, visto l’elemento quasi grottesco che lo caratterizza.
C’è anche altro in questo racconto-aneddoto? Secondo me sì, pur nella sua brevità. Leggere per giudicare.
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Morte di un impiegato
di Anton Čechov
Una magnifica sera un non meno magnifico usciere, Ivan Dmitrič Červjakov, era seduto nella seconda fila di poltrone e seguiva col binocolo Le campane di Corneville. Guardava e si sentiva al colmo della beatitudine. Ma a un tratto… Nei racconti spesso s’incontra questo “a un tratto”. Gli autori han ragione: la vita è così piena d’imprevisti! Ma a tratto il suo viso fece una smorfia, gli occhi si stralunarono, il respiro gli si fermò… egli scostò dagli occhi il binocolo, si chinò e… eccì!!! Aveva starnutito, come vedete.
Starnutire non è vietato ad alcuno e in nessun posto. Starnutiscono i contadini, e i capi di polizia, e a volte perfino i consiglieri segreti. Tutti starnutiscono. Červjakòv non si confuse per nulla, s’asciugò col fazzolettino e, da persona garbata, guardò intorno a sé: non aveva disturbato qualcuno col suo starnuto? Ma qui, sì, gli toccò confondersi. Vide che un vecchietto, seduto davanti a lui, nella prima fila di poltrone, stava asciugandosi accuratamente la calvizie e il collo col guanto e borbottava qualcosa. Nel vecchietto Červjakòv riconobbe il generale civile1 Brizžalov, in servizio al dicastero delle comunicazioni.
“L’ho spruzzato!”, pensò Červjakòv. “Non è il mio superiore, è un estraneo, ma tuttavia è seccante. Bisogna scusarsi”.
Červjakòv tossì, si sporse col busto in avanti e bisbigliò all’orecchio del generale:
«Scusate, eccellenza, vi ho spruzzato… io involontariamente…».
«Non è nulla, non è nulla…».
«Per amor di Dio, scusatemi. Io, vedete… non lo volevo!».
«Ah, sedete, vi prego! Lasciatemi ascoltare!».
Červjakòv rimase impacciato, sorrise scioccamente e riprese a guardar la scena. Guardava, ma ormai beatitudine non ne sentiva più. Cominciò a tormentarlo l’inquietudine. Nell’intervallo egli s’avvicinò a Brizžalov, passeggiò un poco accanto a lui e, vinta la timidezza, mormorò:
«Vi ho spruzzato, eccellenza… Perdonate… Io, vedete… non che volessi…».
«Ah, smettetela… Io ho già dimenticato, e voi ci tornate sempre su!», disse il generale e mosse con impazienza il labbro inferiore.
“Ha dimenticato, e intanto ha la malignità negli occhi”, pensò Červjakòv, gettando occhiate sospettose al generale. “Non vuol nemmeno parlare. Bisognerebbe spiegargli che non desideravo affatto… che questa è una legge di natura, se no penserà ch’io volessi sputare. Se non lo penserà adesso, lo penserà poi!…”.
Giunto a casa, Červjakov riferì alla moglie il suo atto incivile. La moglie, come a lui parve, prese l’accaduto con troppa leggerezza; ella si spaventò soltanto, ma poi, quando apprese che Brizžalov era un “estraneo”, si tranquillò.
«Ma tuttavia passaci, scusati», disse. «Penserà che tu non sappia comportarti in pubblico!».
«Ecco, è proprio questo! Io mi sono scusato, ma lui in un certo modo strano… Una sola parola parola sensata non l’ha detta. E non c’era neppur tempo di discorrere».
Il giorno dopo Červjakòv indossò la divisa di servizio nuova, si fece tagliare i capelli e andò da Brizžalov a spiegare… Entrato nella sala di ricevimento del generale, vide là numerosi postulanti, e in mezzo ai postulanti anche il generale in persona, che già aveva cominciato l’accettazione delle domande. Interrogati alcuni visitatori, il generale alzò gli occhi anche su Červjakòv.
«Ieri, all’Arcadia, se rammentate, eccellenza», prese a esporre l’usciere, «io starnutii e… involontariamente vi spruzzai… Scus…».
«Che bazzecole… Dio sa che è! Voi che cosa desiderate?», si rivolse il generale al postulante successivo.
“Non vuol parlare!”, pensò Červjakòv, impallidendo. “È arrabbiato dunque… No, non posso lasciarla così… Gli spiegherò…”.
Quando il generale finì di conversare con l’ultimo postulante e si diresse verso gli appartamenti interni, Červjakòv fece un passo dietro a lui e prese a mormorare:
«Eccellenza! Se oso incomodare vostra eccellenza, è precisamente per un senso, posso dire, di pentimento!… Non lo feci apposta, voi stesso lo sapete!».
Il generale fece una faccia piagnucolosa e agitò la mano.
«Ma voi vi burlate semplicemente, egregio signore!», diss’egli, scomparendo dietro la porta.
“Che burla c’è mai qui?”, pensò Červjakòv. “Qui non c’è proprio nessuna burla! È generale, ma non può capire! Quand’è così, non starò più a scusarmi con questo fanfarone! Vada al diavolo! Gli scriverò una lettera e non ci andrò più! Com’è vero Dio, non ci andrò più!”.
Così pensava Červjakòv andando a casa. La lettera al generale non la scrisse. Pensò, pensò, ma in nessuna maniera poté concepir quella lettera. Gli toccò il giorno dopo andar in persona a spiegare.
«Ieri venni a incomodare vostra eccellenza», si mise borbottare, quando il generale alzò su di lui due occhi interrogativi, «non già per burlarmi, come vi piacque dire. Io mi scusavo perché, starnutendo, vi avevo spruzzato… e a burlarmi non pensavo nemmeno. Oserei io burlarmi? Se noi ci burlassimo, vorrebbe dire allora che non c’è più alcun rispetto… per le persone…».
«Vattene!», garrì il generale, fattosi d’un tratto livido e tremante.
«Che cosa?», domandò con un bisbiglio Červjakòv, venendo meno dallo sgomento.
«Vattene!», ripeté il generale, pestando i piedi.
Nel ventre di Červjakòv qualcosa si lacerò. Senza veder nulla, senza udir nulla, egli indietreggiò verso la porta, uscì in strada e si trascinò via… Arrivato macchinalmente a casa, senza togliersi la divisa di servizio, si coricò sul divano e… morì.
Anton Čechov
(Tratto da: Anton Čechov, La morte dell’impiegato, in Racconti, trad. di Alfredo Polledro, Milano, BUR Rizzoli, 2023, pp. 31-33).
Note
1 Titolo militare che veniva esteso ai più alti capiservizio delle amministrazioni non militari.
Inserito il 06/09/2024.
🔴 di Barbara Cipriani 🔴
Presentiamo qui un racconto dell’amica Barbara, una delle più attive collaboratrici di questo nostro sito. Buona lettura!
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Diario di una squaw
distopico, ma ci siamo quasi
di Barbara Cipriani
Una donna in divisa da cameriera, in nero con grembiulino e cuffietta bianchi, se ne stava in piedi a fumarsi una sigaretta, da un terrazzino che dava su una corte interna bruttina, di servizio.
Lei, quasi furtiva, nella sua breve pausa dal lavoro, sarebbe stata il soggetto perfetto per una bella foto in bianco e nero.
La scorsi un giorno, da una finestra della scuola dove lavoravo qualche volta quando ancora vivevo nel capoluogo di regione; il palazzo era antico e bellissimo, cinque dei piani erano un albergo di lusso, ma le sue corti sul dietro erano delle quinte anonime e sciatte.
Anch’io fumavo a quel tempo, tra una lezione d’italiano e l’altra, e anch’io quasi di nascosto, all’esterno.
Fumavo proprio come facevano camerieri, cuochi, lavapiatti, signore che pulivano le camere degli alberghi, receptionist, gente che lavorava nelle spa.
Fumavamo dopo aver fornito un servizio agli altri, i miei cofumatori dopo aver pulito il cesso degli “ospiti”, avergli portato lo spritz, la bistecca cottura media, fatto un massaggio shiatsu, una sessione con le pietre energetiche ed esoteriche, un trattamento detox, dopo aver confezionato il loro profumo personalizzato.
Quell’ennesima sigaretta ci faceva male, sì, ma invece di semplice nicotina conteneva la nostra piccola trasgressione, ci sembrava una boccata di libertà, quasi come una sveltina.
Dal canto mio io cercavo in ogni modo di far parlare italiano agli studenti, mi adattavo ai loro argomenti preferiti che li sciogliessero un po’, ascoltavo chiacchiere sgrammaticate dalla mattina alla sera, dovevo prendere per mano, passettino dopo passettino, persone di ogni età che arrivavano da me senza avere la minima idea di che cosa volesse dire apprendere una lingua.
Per molti imparare l’italiano era semplicemente un sogno – astratto però – che avrebbe coronato la loro passione per l’Italia, per poterla possedere ancora meglio.
I soldi, li avevano già fatti o li facevano altrove, al loro Paese. Non li attirava certo l’idea di venir qui a lavorare, ma piuttosto a vivere. Gli piaceva come vivevamo noi, il nostro stile, la nostra vita, dolce.
Dolce? Trovavo che dovevamo essere davvero geniali, se davamo l’impressione di vivere dolcemente, in quest’Italia madre e matrigna insieme.
E fumavo.
* * * * *
Ogni anno la stagione cominciava un po’ prima, ogni anno erano un po’ di più.
Arrivavano in massa, da tutto il mondo: in famiglie, gruppi, tour organizzati per anziani, per donne single e donne e uomini adulterini, in coppia, sposini per farsi le foto, classi scolastiche e corsi universitari di architettura, d’arte, design, moda, organizzatori di eventi, hotel management.
Mentre la temperatura esterna saliva di 5 gradi ogni giorno e le arie condizionate degli interni mi risputavano addosso ancor più caldo, per andare al lavoro dovevo camminare sui marciapiedi stretti e i ponti del centro.
A rallentarmi di continuo il passo, mi trovavo davanti un esercito con lo sguardo perso sulle belle viste o su Google maps: anziani con problemi di deambulazione, con le stampelle o su sedie a rotelle; molte persone obese. E poi i giovani: genitori con 3, 4 bambini piccoli al seguito, passeggini bi- e tri-gemellari, muscolosi maschi con il berretto da baseball, truppe di studentesse statunitensi con i capelli lunghi e bagnati – loro non temono la cervicale e per questo non gli viene.
All’inizio, davanti al vecchio zoppicante per lo stivaletto anatomico, la culona sudata, il babbo con un figlio in braccio, uno per mano e uno in carrozzina, li ammiravo anche: ci vuol coraggio, pensavo. Ma ciò succedeva prima. Prima che arrivassi al punto in cui non sopportavo più nessun essere umano nel cerchio del mio spazio fisico vitale.
Questo turismo “basta un click”, di cui anch’io usufruivo ogni tanto, stava colonizzando e quindi trasformando la città dove ero nata e vissuta da sempre.
Sembrava proprio che fosse arrivato un popolo internazionale, più “sviluppato” di me e che mi stesse prendendo la città.
Piuttosto che più sviluppato, era semplicemente più ricco di me, se la poteva comprare direttamente casa dopo casa e indirettamente, perché ormai dettava legge sul tipo di attività commerciali che chiudevano e che aprivano. È il mercato, bellezza.
Io, invece, nel capoluogo di regione non avevo potuto comprarmi mai niente, nemmeno un campo incolto, quindi niente era mio, non potevo avanzare nessun diritto.
Il mio era un amore senza possesso.
Per quel che stava succedendo non mi avrebbe risarcito mai nessuno, tutto era avvenuto legalmente, pezzetto per pezzetto; niente 40 acri e un mulo.
L’invasione dunque non era giunta affatto dall’immigrazione dei poveri, come aveva gridato la Lega Nord prima di diventare solo Lega.
Su uno dei manifesti leghisti di qualche anno prima compariva un nativo americano con copricapo di penne con su scritto:
“Loro non hanno potuto mettere regole all’immigrazione. Ora vivono nelle riserve”.
Non avevano capito niente. Stranieri sì, ma di tutt’altre latitudini e più chiari di pelle.
Anche io mi sentivo come una nativa americana in una riserva sempre più stretta.
La mia terra era diventata un mezzo inferno di
afa
e braccia
e gambe
e pance
e gelati
e selfie
e biciclette e monopattini contromano di chi portava la biancheria negli alloggi,
rimbalzi quando volevi prenotare,
quando avevi bisogno di un taxi per correre in ospedale,
di “sciacquoni, sciacquoni, forza cessi”, cantava Gaber.
Esaurito,
tutto esaurito,
non ce n’è più per te,
arrivi tardi,
quegli altri hanno prenotato tanti mesi fa,
da migliaia e migliaia di chilometri di distanza,
da casa loro.
La mia riserva era fatta di qualche strada in collina o in periferia, angoli dove ancora vivevamo, fino a quando l’onda non si fosse espansa e non inglobasse anche quelli.
Nella riserva c’erano rari preziosi bar, caffè, locali, trattorie dove ancora si serviva roba buona a prezzi normali.
C’era poi una riserva indiana temporale: se uscivo la mattina presto potevo di nuovo semplicemente camminare e rivedere la città senza dovermi solo concentrare a come schivare gli altri.
C’era calma e silenzio per un po’, poi cominciavano ad arrivare camion e camioncini a consegnare la merce e dopo poco arrivavano loro, dopo la prima doccia e la colazione internazionale.
Non erano certo pionieri, era solo che sui social avevano visto foto – con buoni filtri – del capoluogo e non potevano farlo mancare al proprio carniere.
* * * * *
E poi passò la legge 610 che consisteva di due passaggi: dopo un censimento degli immobili residenziali del centro storico e quartieri adiacenti, ai proprietari che non potevano dimostrare di viverci, fu imposto di ristrutturare secondo canoni precisi obbligatori: installazione dell’impianto di aria condizionata e messa a norma di tutti gli altri impianti, ascensore, abbattimento di ogni barriera architettonica, cambio di tutti gli infissi e del tetto se superavano i vent’anni.
Dopo aver speso decine di migliaia di euro per adeguarsi a questi alti standard di comfort, a quel punto scattava un aut aut senza appello: o affittare o vendere.
Erano quasi riusciti a far passare la 610 per un provvedimento che finalmente si prendesse carico del problema abitativo in città, della permanenza di troppe case sfitte, mentre giovani coppie, anziani sfrattati, studenti fuori sede facevano inutilmente, per mesi, il giro delle agenzie e delle bacheche di annunci on line alla ricerca di un affitto che si potessero permettere.
La fuffa propagandistica che doveva servire a indorare la pillola era ad opera di un social media manager del partito del sindaco, un giovane che avrebbe potuto farsi strada in futuro.
Ma si capì subito che questa legge rappresentava invece il colpo di mannaia, il taglio del cordone ombelicale che avrebbe allontanato il 90% dei cittadini. Era il regalo definitivo e perfetto ai colonizzatori; quegli standard a cui adeguarsi erano esattamente i loro standard.
Si stava rendendo il capoluogo un posto senza anima.
Anche volendosi mettere per un attimo – a dire il vero, con un certo sforzo – nei panni dei colonizzatori stessi: dopo la fatica e il costo di quel viaggio, dopo le sale d’attesa, gli aerei, il sudore e il jet lag, ma in che razza di posto si ritrovavano? Sì, le pietre c’erano ancora, ma mancava la gente del posto, la vita italiana che in teoria gli piaceva tanto.
Assomigliava sempre di più al posto da cui venivano, in un mondo omologato che non racchiudeva più tanti altri piccoli mondi differenti e unici.
E così l’affitto per un bilocale di 40 m² salì a 4000 € al mese.
* * * * *
Ci incazzammo davvero e formammo un comitato di 200 famiglie di residenti, affittuari e anche qualche proprietario.
Nonostante la rabbia, alla prima partecipatissima assemblea qualcuno ancora non aveva perso il buon umore e fece una proposta provocatoria, anche se del tutto irrealizzabile.
L’ideatore si chiamava Tommaso, che prese il microfono e che con un mezzo sorrisetto canzonatorio, tipico di quella città, lesse agli astanti la sua trovata: al momento della prenotazione di un volo o di un alloggio nel capoluogo, il turista, lo studente nordamericano e compagnia bella, per poter proseguire con l’ acquisto, doveva obbligatoriamente sottoporsi ad un quiz composto di solo 3 domande.
Tommaso aveva pensato a tutto: la risposta era “aperta”, ma doveva essere considerata accettabile dall’ app I.A. predisposta dal comitato perché si potesse procedere con la domanda successiva e non rimaner bloccati.
Le domande erano:
1) Per che cosa il capoluogo è famoso nel mondo?
2) A quale periodo storico-culturale è legata la fama e lo splendore del capoluogo?
3) In che secoli il Rinascimento è collocato, approssimativamente, dagli storici dell’Arte?
Dopo settimane di angoscia il pubblico esplose in un grande applauso liberatorio e un’ovazione in piedi.
Due minuti dopo, però, tutti sapevamo perfettamente, compreso Tommaso, che con i maledetti social le risposte giuste al quiz si sarebbero diffuse al massimo in un’ora di tempo inficiando del tutto il nostro obbiettivo di trovare strategie di resistenza alla colonizzazione.
* * * * *
Il comitato poi, più concretamente, provò le vie legali, vinse qualche ricorso. Le trattative furono estenuanti e i loro tempi biblici facevano intanto ridurre sempre più il numero dei resistenti e ingrossare le file di chi cominciava l’esodo lontano dal capoluogo; dai 200 nuclei familiari iniziali si passò a circa la metà.
Finalmente, con l’aiuto di un politico onesto capitato lì per caso e che poi avrebbe avuto breve carriera, si ottenne un accordo con le maggiori piattaforme di booking e agenzie immobiliari: al momento della prenotazione on line dell’attico, dell’appartamentino con vista su, del quattro-vani ristrutturato in centro, compariva una schermata con su scritto, in inglese obviously:
“Con questa tua prenotazione, potresti impedire a un residente italiano, a una famiglia, a un anziano di poter continuare a vivere nella sua città e quindi costringerlo a lasciarla e cercar casa altrove. Sei sicuro di voler procedere?”.
Si sperava nell’efficacia di questo espediente che gioca con il senso di colpa o se vogliamo, come precisò una membro cattolica del comitato, con la responsabilità individuale.
L’avevamo imparato davanti agli sportelli bancomat, quando andavamo a prelevare un ennesimo centone per fare la spesa e andare il sabato in pizzeria con la famiglia. Prima di darti i tuoi soldi, ecco apparire la domanda : “VUOI DONARE?”.
Sì, le prime volte avevamo avuto un attimo di esitazione, ci erano scorsi nella mente veloci i nostri sacrifici per far quadrare i conti familiari in quel periodo – che poi non era un periodo, ma più o meno una costante, una coperta sempre troppo corta. Infine avevamo digitato “NO”, dopo quel brevissimo senso di colpa o di responsabilità che fosse, inascoltato però, per non aver aiutato con la nostra donazione la nuova tragica emergenza. Durava sempre meno ogni volta, fino a non legger nemmeno più a chi, nel caso, avremmo dovuto donare.
Sembrava un primo successo della lotta, ma poi anche gli stranieri si rivelarono simili a noi davanti allo sportello bancomat: secondo l’algoritmo, il 90,6 per cento di quelli pronti a cliccare e prenotare ignorava immediatamente l’avviso. Del restante 9,4, il 7,1 riprendeva la procedura dopo un’interruzione con un range temporale che andava da un minimo di 5 minuti fino a qualche ora; e finalmente rimaneva lo zoccolo duro del 2,3 per cento su cui avevamo fatto breccia e che annullava proprio quella prenotazione, rivolgendosi a sistemazioni alternative. Non era granché, ma sempre più efficace delle campagne contro il fumo, con le loro foto oscene su tabacco e sigarette:
pornografia sanitaria e macabra, data in mano proprio a chi è corso in tabaccheria a rifornirsi e che finalmente può farsene subito una.
Ma il 2,3 per cento di colonizzatori in meno non faceva quasi nessuna differenza e la grande maggioranza di noi dovette sradicarsi e trasferirsi.
* * * * *
Qui, in questo paesotto nella periferia della periferia, dove ho trovato un affitto temporaneo che posso permettermi, non ci sono tutt’intorno dolci colline o qualcos’altro che mi piaccia. Per arrivarci infatti si lascia il capoluogo, si passa alla piana, che a volte si allaga, alla zona industriale e ai capannoni; ci hanno poi piazzato outlet e centri commerciali.
Quindi, a parte il fresco dell’aria condizionata delle mall e la soddisfazione del tutto passeggera di essersi accattati un nuovo set di sei bicchieri, un altro tappetino carino, un altro vestitino, un altro articolo di bassa qualità ma superconveniente, fabbricato da lontana manodopera a bassissimo costo per ditte de-localizzate, per il resto questo paese non offre nulla, è anonimo e deprimente.
I locali del paesotto tengono le tapparelle abbassate a tutte le ore e in tutte le stagioni, non chiedetemi perché.
Con i numerosi membri della comunità cinese non c’è verso di scambiare una parola.
Per arrivare al capoluogo, nonostante ci dividano solo 14 chilometri, con i mezzi ci metto un’ora e mezzo.
Non c’è e non c’è mai stata una biblioteca pubblica, una libreria, un cinema o un teatro sono un sogno.
No, io qui non ci posso restare.
Non so dove andrò, ma prima o poi troverò una casa che sentirò di nuovo mia.
Barbara Cipriani
Inserito il 01/07/2024.
Antonio La Penna (1925-2024).
Fonte della foto: https://www.quinewspisa.it/firenze-e-morto-la-penna-filologo-e-docente-alla-normale.htm
Il 9 aprile 2024 ci ha lasciati Antonio La Penna, insigne latinista e filologo classico, intellettuale originale impegnato in battaglie culturali e civili, marxista libero da appartenenze politiche e partitiche. Vogliamo rendergli omaggio proponendo all’attenzione del lettore tre contributi: il ricordo della nostra Maria Beatrice Di Castri, sua allieva alla Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Firenze; un saggio che lo studioso Michele Feo, docente di Letteratura e Filologia medievale e umanistica, ha dedicato a La Penna recensendo sull’ottima rivista «Il Ponte» una sua raccolta di riflessioni su cultura e politica (Aforismi ed autoschediasmi), occasione per analizzare le vedute di un intellettuale che guarda oltre gli orizzonti della filologia e della cultura classiche e si impegna nel presente; infine, riproponiamo la recensione di Carlo Franco su «Alias Domenica» a un volume di Antonio La Penna di recente pubblicazione (Filologia e studi classici in Italia fra Ottocento e Novecento), una raccolta di articoli e interventi sulla storia della filologia e degli studi classici degli ultimi due secoli.
di Maria Beatrice Di Castri
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“Signorina, non legga così in fretta… Che ha fame? Ma che òre sòno?”.
“Mezzogiorno e un quarto”.
“In effetti, c’ha anche raggiòne, ma legga più piano”.
A leggere i distici di Marziale come una mitragliatrice ero io, entrata al primo esame di latino con un terrore panico, dopo averlo rimandato a febbraio perché a ottobre, ascoltando altri esami di colleghi, mi ero resa conto che i miei appunti erano troppo lacunosi. Così mi ero fatta prestare quelli del mio compagno Fabrizio, completi, diligenti, chiari, e li avevo ricopiati, con qualche integrazione, tamburellando le parole sulla cara vecchia Olivetti. Quegli appunti, fotocopiati, avrebbero poi fatto il giro della facoltà… E nel risistemarli mi ero resa conto della densità dei contenuti, dell’intelligenza critica e dell’acribia filologica con cui i testi latini erano stati attraversati in quel corso, nonostante le frasi un po’ biascicate e non sempre così chiare. Per l’esame avevo studiato tutto, sapevo a memoria il numero dei versi dei componimenti dell’Appendix vergiliana.
Il professore a cui quello sforzo era rivolto era Antonio La Penna, figura eccezionale nel panorama culturale italiano. Perché la sua Cultura, con la “C” maiuscola, era ricerca rigorosa e strumento per creare connessioni e interpretare il mondo. Un intellettuale a tutto tondo, non un erudito in “belle lettere”.
Latinista di fama mondiale, da sempre attento ai problemi della scuola, e impegnato anche nell’editoria scolastica oltre che nelle pubblicazioni accademiche, militante marxista critico, dalle posizioni mai banali né scontate. Dal carattere burbero e schivo, e certo non dotato di un eloquio mediatico, lascia un vuoto enorme, insieme a tanti ricordi, anche aneddotici, della sua figura. Tra i fiumi di parole che potrei appuntare, e che altri scriveranno molto meglio di me, voglio solo citare un altro piccolo ricordo personale. Di La Penna avevo sentito parlare fin dal primo anno di superiori, che allora si chiamava ancora con dizione vetusta “quarta ginnasio”, perché la mia docente di lettere, al liceo classico di Feltre (altra Italia, rispetto a Firenze o Pisa, quel Nord-Est dove gli Irpini come lui erano rubricati nella poco lusinghiera categoria di “terroni”) rimpiangeva che non fosse più stampata la grammatica latina da lui curata, Sermo et litterae, la sola, a detta della mia professoressa, che avesse un approccio storico-descrittivo (non ottusamente normativo e regolista) allo studio del latino. E da lì copiava alla lavagna le forme arcaiche delle declinazioni, a partire da «stella-stellai» (parola ben più attestata di «rosa» che ancora imperversa nelle grammatiche).
Così, sempre per suggestioni, ricordo le sue riflessioni sulla scuola alla fine degli anni Novanta, raccolte nel suo aureo libello dal titolo Sulla scuola: La Penna, così disincantato e amareggiato di fronte all’utopia di un umanesimo di massa per il quale si era tanto battuto nei decenni precedenti, denunciava con forza il “panaziendalismo”, vera e propria ideologia, che si andava insinuando sempre di più.
Penso a quanto avrebbe avuto su questo, e su molto altro, ancora da dire. Ma si sa, la vita umana non è eterna…
11 aprile 2024
Maria Beatrice Di Castri
(Tratto dalla pagina Facebook dell'autrice).
Inserito il 14/04/2024.
di Michele Feo
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Aforismi e autoschediasmi - Pagine stravaganti di Antonio La Penna
di Michele Feo
[...] Un elegante ottavo piccolo di pagine 300, pubblicato in questi mesi dalla Società Editrice Fiorentina, arricchisce l’imponente bibliografia del nostro Antonio La Penna, uno dei massimi intellettuali italiani del Novecento, cui auguriamo che tanti anni ancora si aggiungano ai suoi fertili e lucidi ottanta. Una bibliografia imponente, di cui quella resa nota dagli allievi in coda alla sua raccolta di saggi Da Lucrezio a Persio, Firenze 1995, è solo una parte, perché lì sono taciuti interventi di battaglia apparsi in giornali e riviste politiche, brevi note, poesie, libri per le scuole (tutti belli, ma alcuni straordinari per ampiezza di visione), e perché da allora è seguito un altro decennio di vivida produzione. Il nuovo libro si intitola Aforismi e autoschediasmi. I vocabolari d’uso definiscono l’aforisma come una «massima breve e concettosa»; il buon vecchio Rocci traduce autoschediasmós come «discorso improvvisato», e autoschediastés come «chi fa una cosa senza essersi preparato», nientemeno «acciarpatore». Ora, basta sfogliare le pagine per constatare che tutte e due i generi preannunciati dal titolo sono alquanto smentiti dai fatti. Gli aforismi di La Penna, sapidi, precisi e assassini, sono raramente brevi, definitori ed epigrammatici: più spesso prendono la forma di un ragionamento, che si conclude con una frecciata luminosa, amara o avvelenata, anche divertita e divertente. E gli autoschediasmi, tutt’altro che improvvisati e acciarpati, sono stati magari scritti di getto, ma sono senza ombra di dubbio risultati di vaste letture, di lunga riflessione, si distendono in nitida esposizione di problemi complessi, assumono la forma di piccoli saggi. E insomma, è vero che il titolo è azzeccato e che il lettore troverà nel libro aforismi e autoschediasmi, ma più dichiarativo è il sottotitolo: Riflessioni sparse su cultura e politica degli ultimi cinquant’anni (1958-2004). Queste Riflessioni sparse sono un po’ un diario intellettuale, hanno qualcosa della raffinata e dotta stravaganza di Giorgio Pasquali, qualcosa delle Pensées sur la religion et sur quelques autres sujets di Blaise Pascal e qualcosa dello Zibaldone di pensieri di Giacomo Leopardi, se non fosse che gli Aforismi e autoschediasmi sono, come Pensée e Zibaldone non sono, ancorati alla storia e alla cronaca, e molto più delle pasqualiane Pagine stravaganti sono anarchici e formalmente disordinati. Leggiamo alcuni aforismi epigrammatici. Si devono gustare nel loro rapido e improvviso lampeggiare. Ma possono stagliarsi all’interno di un pensiero più ampio. In ogni caso commentarli sarebbe come spiegare le barzellette:
«La democrazia può vivere come un fiume, non come uno stagno»;
«La vita è in gran parte fedeltà alla maschera, cioè all’abitudine»;
«Il reale è razionale, e il razionale coincide con la ragione del più forte»;
«“Strumenti vocali”: così Aristotele definiva gli schiavi. La definizione va bene anche per i mezzi busti televisivi. La differenza, molto rilevante, è che gli schiavi antichi non percepivano stipendio, i mezzi busti, invece, ricevono lautissimi compensi»;
«Abbiamo i fascisti al governo, eppure i treni si ostinano ad arrivare in ritardo».
Negli aforismi La Penna non approfitta della parresia che gli consente il genere per bollare o colorare piccantemente uomini e situazioni, che pure lo meriterebbero, con l’eletto eloquio che molto fiorisce sulle bocche più o meno dorate di donzelli e donzelle televisive, magari di una «bellissima signora con prole». Per liberarmi subito di questa necessaria notazione stilistica informerò che solo due termini attinti a quel lessico fanno, più che moderata, rara apparizione nel libro: e sono il nome proprio della materia scatologica invocato a qualificare situazioni politico-culturali non precisamente esaltanti; e il nome proprio di nostro venerabile deretano. Citerò, per rallegrare il lettore, un aforisma che ospita questo secondo termine: è il primo in assoluto della serie ed è datato 1958:
«Quando Nietzsche ci ricordò che tutti gli uomini hanno il culo, fu una grande scoperta. Ma da allora in poi troppi intellettuali sono andati in giro mettendo in mostra il proprio culo».
Uno di questi aforismi, famoso, ha avuto anche una tradizione orale. È tanto forte, che si trova ripetuto due volte con minime variazioni:
«La storia è fatta dai gangster e scritta dai conformisti».
La prima volta il pensiero appare nel 1973; nella ricomparsa nel 2000, a proposito delle guerre dei Balcani, i conformisti, prima imprecisati, prendono sembianze di «professori, intellettuali di corte, giornalisti servili ecc.».
L’aforisma è una sentenza, c’è nella sua natura una dose positiva di provocatorietà e di forza di convincimento; ma non ci si può nascondere che in essa si annidino i rischi della semplificazione e dell’arroganza. La Penna lo sa e dopo averci condotto per tutto il libro entro i meandri di questo appassionato esercizio intellettuale si congeda con un aforisma sui paradossi, dicendoci che forse o purtroppo tutto è un gioco: «Sono ben disposto ad ammettere che talvolta i paradossi hanno una funzione positiva di stimolo, intellettuale e retorico; ma non raramente sono manifestazioni di istrionismo. Lo stesso, pressappoco, si può dire degli aforismi».
Si può leggere questo libro, aprendolo a caso, curiosando sui titoletti, come si rovista su una bancarella di antiquariato, senza sapere esattamente cosa si cerca e se davvero si cerca qualcosa: e questa lettura ripaga con un sottile piacere. Se il libro avesse gli indici tematici, oltre quelli dei nomi, cosa che raccomanderei per una eventuale ristampa, lo si potrebbe leggere cercando gli argomenti. Ma se lo si legge in fila, come si deve, sono 46 anni di storia italiana che scorrono come in un documentario e una voce narrante ce li commenta con ricordi e giudizi, con riflessioni, con lucidità di analisi e con passione polemica. Le prime immagini appartengono a smarrimenti autobiografici. Sono il ricordo della vita dura dei genitori e il dolore della morte del fratello: «mi sento a volte come il superstite di un naufragio», annota nel 1958, all’età di trentatré anni. Ma è la dimensione pubblica che prende subito il sopravvento: la politica del Partito Socialista Italiano, il centralismo democratico del PCI, le lotte di liberazione del Terzo Mondo e la forza morale di eroi come Lumumba, le finzioni dell’impegno intellettuale, il cosiddetto miracolo economico, il trasformismo male perenne della politica italiana, la scomparsa di Togliatti. Poi, a partire dal 1966 e fino al 1971, vengono le pagine più alte. È l’epoca delle grandi speranze politiche e del maggiore impegno filosofico: La Penna non vuole perdere l’appuntamento con la storia. Ma non è un prepararsi opportunistico a gestire alcunché, al governo o nel sottogoverno, in una improbabile presa di potere del proletariato. L’unica istituzione alla quale La Penna resta sempre e tenacemente attaccato è la scuola, nella quale per altro non ha svolto niente altro che le mansioni di professore, da giovanissimo (in cattedra a 30 anni) alla operosa vecchiaia. Il quinquennio 1966-1971 è anche uno dei più vivi della produzione scientifica di questo classicista: sono gli anni di Virgilio e la crisi del mondo antico (1966), di Sallustio e la “rivoluzione” romana (1968), di Properzio ovvero l’integrazione difficile (1970), dell’edizione einaudiana di Fedro, che affermano definitivamente il suo alto prestigio e il suo magistero indiscusso negli studi di letteratura latina, già apparso chiaro nel 1963 con Orazio e l’ideologia del principato. Dunque La Penna si misura coi problemi radicali del materialismo, del rapporto fra attività scientifica specialistica e unità del sapere, dell’uguaglianza e della libertà. Sullo sfondo passano le immagini stantie di una università attardata e incapace di percepire le spinte del nuovo che vengono dalla società, il vento impetuoso della rivoluzione studentesca, la «rivoluzione culturale» cinese con le guardie rosse e il libretto di Mao, e di converso le ambizioni-frustrazioni del centro-sinistra, il bigottismo e il trasformismo dei partiti di sinistra, compreso il più grande e più forte tra essi, il rifugiarsi della cultura nei formalismi e nell’evasione pseudo-scientifica; e poi il termidoro, la palude. La fine ingloriosa del generoso tentativo di riforma di Fiorentino Sullo evoca immagini di bruta animalità: «la fioca ragione resta soffocata fra i barriti dei pachidermi e i ruggiti furenti dei giovani leoni»; e duole, nell’emigrato da Bisaccia in quel di Avellino, la ferita della eterna questione meridionale; si affaccia un concetto che oggi ha trovato la parola comunemente accettata, globalizzazione, ma che in La Penna ha bisogno ancora di una perifrasi, ossia «il processo di unificazione del mondo nella servitù». Negli anni che seguono (con un inquietante vuoto per gli anni 1974-1977) i problemi della pace, della politica, dell’imperialismo, della giustizia sociale, della religione, dell’illuminismo, dell’arte restano centrali, ma sempre più si fanno avanti quelli che potremmo chiamare della vita individuale e del costume: per esempio il fastidio dell’arrivo della posta a casa, la nefasta morale della vita come missione, il suicidio, l’ipocrisia, l’invasione del turpiloquio, il dilagare di mendicanti e barboni, la lenta senectus, la perdita di tempo davanti alla televisione, la morte liberatrice dall’ingiustizia del mondo, il Natale desacralizzato, le prostitute e il sex appeal, l’ecologismo, i falsi eretici e i nuovi politici, la simplicitas, l’eros e il matrimonio, il sonno, e quello struggente rimpianto: «Se fossi nato in riva al mare…, se da ragazzo avessi conosciuto e coltivato la musica…», mentre intorno cade il socialismo reale e Gorbačëv va per il mondo «portando in giro il proprio fantasma», ma cade anche il senso critico, esplodono i fanatismi, l’imperialismo è bellicosamente all’attacco e l’università rimbambisce. È un’epoca di desolazione e sconforto: «Chi subisce l’ingiustizia rinuncia anche alla protesta, sentendone la vanità e temendo di rendersi ridicolo». «È forte la tentazione di straniarsi completamente dalla vita pubblica, di rifugiarsi nel proprio lavoro fine a se stesso, negli affetti familiari, nei piaceri quotidiani (che – scrive in un momento di tristezza – per me non hanno, ormai, alcun sapore)». Ma vengono in superficie anche gusto e piaceri antichi, come l’amore per i boschi (p. 185), l’ammirazione per l’artista che lavora solo per il culto della bellezza, la lettura quotidiana come terapia dell’anima (lezione di Gide), lo stupore davanti al satiro danzante. I grandi temi del libro sono, come ho accennato, quelli del materialismo e della dialettica storica, della società socialista e della democrazia, della libertà e dell’uguaglianza, della filosofia, dell’unità del sapere, anzi del sapere con fondamenti, del sapere non qualunque, della ragione illuministica, della solidarietà e della religione, dell’umanesimo e dello storicismo, della pace, e – da non porre affatto in posizione marginale – l’estetica del piacere. Comincerò da quest’ultima. Sono forse un estetizzante? si chiede La Penna a p. 102. La risposta è decisamente no.
«Ma» – e segue una sorta di classifica dei piaceri – «tra i piaceri della vita … pongo quello dell’arte in un posto molto elevato, anzi nel più elevato; e lo scopo ultimo del progresso sociale dovrebbe essere quella liberazione dal bisogno che permettesse il godimento dell’arte. … Ritengo che le case comode, le automobili, le vacanze al mare diano piaceri mediocri: tutte queste comodità rendono la vita più facile, più agevole, non veramente più bella; confesserò che distinguo nettamente fra i piaceri, le soddisfazioni di bisogni che rendono la vita possibile, e i piaceri che fanno sentire la vita come degna di essere vissuta. E fra questi piaceri il più profondo e il meno effimero è quello dato dall’arte, a cui è in qualche modo affine quello suscitato dagli spettacoli naturali; vengono poi quelli dati dall’amore e dall’amicizia: quasi tutti gli altri sono mediocri, tali che per essi non varrebbe la pena di vivere».
Consento, ma mi meraviglio che manchi il piacere della ricerca, che seppure spesso è pervaso da ansie e tormenti, riesce a donare momenti di gioia, che intender non li può chi non li prova. Come egli stesso dichiara in una delle note più recenti, La Penna ha militato fin dalla giovinezza per 25 anni nel Partito Comunista Italiano, spesso ai margini e in parziale dissenso.
«Non mi pento, – egli dice – perché il comunismo in Italia ha dato un grande contributo alla difesa della libertà, alla crescita della democrazia, al progresso economico dei lavoratori. Non ho condiviso gli errori più gravi del PCI: non ho mai scambiato il regime staliniano con una democrazia popolare o socialista o comunista, anzi, anche prima di conoscerne tutti gli orrori, l’ho sempre considerato come il dominio oppressivo di una burocrazia privilegiata; non ho mai collocato nell’area democratica il centralismo democratico, che il PCI considerava un dogma».
Quale sia stata la partecipazione alla vita di base dell’organizzazione non so, ma probabilmente fu scarsa. Serrato invece fu sempre il dialogo, vigile la tensione e vivo lo scontro intellettuale, come anche queste pagine testimoniano. L’adesione al comunismo non fu solo scelta di classe, uno stare dalla parte degli operai e dei contadini, fu scelta di campo filosofica, nella convinzione che «il marxismo fosse ancora il tentativo meno illusorio di capire unitariamente le molteplici, varie manifestazioni umane».
Ma è un’adesione perennemente inquieta: nel marxismo sente ingombrante il nutrimento alle fonti dell’idealismo tedesco, mette in guardia dal teleologismo e dal provvidenzialismo hegeliano, e più si sforza di valorizzare le radici che affondano nel materialismo settecentesco e nell’economia classica. La ritornante riflessione sul materialismo prende forma stabile nella definizione di una concezione del mondo pessimistica che è «negazione di ogni trascendenza, negazione di ogni ascetismo, limitazione della conoscenza nei confini dell’esperienza, attaccamento ad una morale che non annulli l’utilità e il piacere». Che la stazione di arrivo di questa lunga militanza dovesse essere quella di un intellettuale ‘disorganico’ era in germe. Il distacco maturò, per lui come per altri, dopo il fallimento, o cinico affossamento, della rivoluzione studentesca: è preannunciato e motivato lucidamente in un pensiero del 1969, l’anno della scissione del «Manifesto» e della strage di Stato. Che la posizione di ‘disorganicità’ comporti alla fine qualche vantaggio, come quello di poter dire invidiosi veri, altrimenti indicibili, non è dubbio: «proclamare ad alta voce ciò che gli altri non osano dire, svelare ciò che gli altri nascondono, o cercano di nascondere». Ma più che un privilegio, è un compito. E non di rado comporta svantaggi, sempre qualche sofferenza. Un’idea inculcata negli anni Sessanta nelle menti dei militanti di base, con tetre coloriture fra zdanoviane e mafiose, era che si stesse meglio nell’errore col partito che nella verità da soli. Nella sapiente presentazione agli Aforismi e autoschediasmi Massimo Mugnai ha messo a confronto il materialismo di La Penna con quello di Sebastiano Timpanaro, assegnando un punto in più a quello di La Penna, «più avvertito dal punto di vista filosofico e meno dogmatico». A me piace ricordare, in questi tempi in cui molto e opportunamente si rimedita la lezione di Timpanaro, che i due studiosi – i cui rapporti, scrive Antonio Rotondò, dopo una lunga e feconda stagione ebbero ad esaurirsi con disappunto e rammarico di molti – si trovarono in consonanza anche nell’approdo dell’impegno politico alla ‘disorganicità’. Accanto al materialismo e al socialismo La Penna si serve di un’altra alta torre di osservazione: è quella dell’antichità classica. Semplicemente bellissime sono le pagine su Deifobo e il tributo poetico di Virgilio a coloro che sono esclusi dalla gloria; sul Satiricon di Federico Fellini e l’attrazione esercitata dal «mondo barocco, variopinto, orgiastico e insieme fatiscente» dell’Impero; su Quintiliano e il fascino del nemico («come si attacchino a noi i vizi che condanniamo nei nostri avversari»); sull’ancestrale morale esopica e la sua presenza nel mondo contemporaneo, nella versione della rassegnazione e in quella rivoluzionaria di Mao, sull’intellettuale demostenico e la resistenza alla «forza immensa, potentemente organizzata» che pretende di unificare il mondo sotto il suo dominio. Queste osservazioni potrebbero aprire una discussione sull’Umanesimo, verso il quale si appuntano a tratti gli strali di La Penna. Vorrei qui solo ricordare un saggio di una importanza capitale, che tutti dovrebbero leggere, Noi e l’antico, scritto come introduzione a un Dizionario della civiltà classica, Milano 1993, e ristampato nel già ricordato volume Da Lucrezio a Persio. Lì, in dialogo con uno studioso polacco dei primi del Novecento, Tadeusz Zieliński, La Penna ebbe a formulare un’aurea legge: «Non norma, ma germe»: … nel cercare e definire orientamenti validi nella cultura e nella vita, nella letteratura, nelle altre arti, nella religione, la filosofia, la politica, non dobbiamo rivolgerci alla cultura classica per trovarvi delle regole ancora valide, ma, se vogliamo capire buona parte dei problemi fondamentali che la cultura e la vita ci pongono, dobbiamo partire dalle risposte che ad essi diedero gli antichi, perché buona parte dei nostri gusti e dei nostri concetti partono di là e nessuna comprensione, che non voglia restare alla superficie, può prescindere dalle origini. Ecco, volendo molto semplificare i problemi, io ritengo che l’Umanesimo oggi sia sostanzialmente questo, non certo un insieme di norme, né la pretesa arrogante della centralità dell’uomo, né il mito della sua onnipotenza creatrice. Anzi, sempre più appare che la vera lezione dell’Umanesimo non sia la ricerca di una divinizzazione dell’uomo, ma il senso acuto del suo limite e insieme la instancabile operosità all’insegna di un metodo che così fu definito mirabilmente da Delio Cantimori nel 1956 (ora in Studi di storia, Torino 1959): ricerca del vero criticamente accertato mediante studio spregiudicato dei testi e della realtà; coscienza del limite della possibilità di questa ricerca, ma allo stesso tempo della insopprimibilità di essa una volta acquisitane la consapevolezza, e della necessità di far valere questo metodo e questo criterio come principio fondamentale della attività culturale in ogni suo aspetto, anche se apparentemente dannoso a questo o a quello degli dèi: consapevolezza del valore e della necessità dell’attività intellettuale disinteressata anche se impegnata.
Non è questo il luogo per cercare il principio di unità che lega i vari pezzi della filosofia di La Penna. Che del resto non è un filosofo di professione e non una sola volta esplicita il fastidio per la filosofia come oppio degli intellettuali, per quella filosofia che pretende di riempire arbitrariamente gli spazi vuoti della scienza, consolare e donare illusioni. Ma, proprio seguendo il filo stesso dei ragionamenti di La Penna, ci si può chiedere in quale necessità logica è scritto che il materialismo e il pessimismo debbano uscire dall’egoismo e non arrestarsi invece ai limiti, soddisfatti o non soddisfatti, di personali templa serena. La Penna non è uomo che eluda i problemi e scavalchi le contraddizioni. Una delle pagine più nobili di questo libro illuministico è quella sulla tentazione illuministica. La pagina fa seguito a una riflessione sulla forza dei miti: «È possibile», si chiede La Penna davanti al fenomeno della ‘rivoluzione culturale’ cinese, «che un pensiero così lucidamente razionalistico e critico, di così potente impronta illuministica come il marxismo, non possa muovere le masse se non diventando un mito, e una delle forme peggiori del mito, che conferisce qualità soprannaturali ad un uomo, per quanto eccezionalmente dotato?». E ancora: «è capace la sola ragione di produrre energie morali tanto diffuse da cambiare in meglio la vita di una società?». Sono domande tormentose alle quali La Penna finisce per rispondere con un appello a energie che non sono solo quelle della ragione: «… la forza che spinge ad uscire dall’egoismo illuministico, ad espandere e propagare la luce della ragione, è un sentimento di solidarietà umana, che esige la libertà effettiva e la giustizia per tutti gli uomini, che esige non si usino mai gli altri come strumenti incoscienti, anche se per un fine giusto. Questo sentimento è vivo, in una certa misura, anche in certe religioni, specialmente nel cristianesimo genuino. Il fine più alto della filosofia è unire nelle masse la luce della ragione con quel sentimento depurato da ogni mito».
Libertà e giustizia: anche questo è un tema ritornante, quasi ossessivamente, ritornante perché continuamente insidiato da filisteismi e mistificazioni. Ma per La Penna la questione è chiara: la libertà vera, nonché attuarsi, non progredisce nemmeno senza uguaglianza; le disuguaglianze limitano la libertà; il povero è meno libero del ricco; e la spinta verso l’uguaglianza non si può sopprimere. Da ciò anche l’ammirazione per la mente lucida di Norberto Bobbio, che ha posto questo problema come centrale. Quanto amaramente questo principio sia in contraddizione col desiderio di pace La Penna sa bene, se della pace dà una terribile definizione di sapore tacitiano: «Per pace s’intende un assetto in cui i popoli economicamente meno sviluppati accettino il dominio economico e la tutela politica dei popoli più potenti e più ricchi». È una constatazione che apre un dilemma fra la tutela e la guerra, dilemma che non si scioglie. E questo mi offre il destro per l’ultima considerazione. Nell’analisi La Penna non fa mai sconti, non rimette a nessuno i suoi peccati, non nasconde alcuna verità, anche la più scomoda. Anche stilisticamente l’argomentazione ha un che della dialettica tomistica con l’esposizione degli elementi a favore e contro. Si deve apprezzare questa probità intellettuale che non forza mai realtà e logica, che non affretta le conclusioni. Non è forse un caso che un pensiero del 1985 sia stato estratto dalla successione cronologica e posto alla fine del libro. Si intitola «Piani inclinati»: non abbiamo raggiunto l’unità del sapere, ma abbiamo tante isole su ciascuna delle quali lavoriamo con concetti limitati e provvisori, non abbiamo più speranza di una società escatologicamente perfetta, ma possiamo mirare ad «equilibri più avanzati». È un piano inclinato, sul quale – aggiungo io – occorre stare in equilibrio. E si può concludere proprio riconoscendo a La Penna, grande maestro di umanità in un’età crudele e generosa, una qualità che egli riconobbe al suo maestro Giorgio Pasquali, l’equilibrio: equilibrio tra etica e scienza, tra letteratura e vita, tra antichità e contemporaneità, tra filologia e poesia, tra i piaceri e i dolori della vita.
Michele Feo
(Recensione del volume: Antonio La Penna, Aforismi e autoschediasmi. Riflessioni sparse su cultura e politica degli ultimi cinquant’anni (1958-2004), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2005, apparsa sulla rivista «Il Ponte», LXI, n° 7 [luglio 2005], pp. 148-156 e riproposta sulla pagina Facebook dell’autore il 10 aprile 2024).
Inserito il 14/04/2024.
Da «Alias Domenica»
di Carlo Franco
Della Porta Editore ordina in un grosso volume (primo di due) saggi e articoli del latinista Antonio La Penna su storia e funzione degli studi classici in Italia, dall’Ottocento ai giorni nostri.
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La cultura classica tra Germania, fascismo e ideologie anni Settanta
di Carlo Franco
Più lunghe cadono le ombre sugli studi classici italiani, e più rari si fanno i libri importanti, in un paese privo di memorie ma vivace di risentimenti. Vi è ancora chi s’impegna a preservare il senso della cultura: lo prova la riproposta, a cura di Stefano Grazzini e Giovanni Niccoli, di una serie di scritti di Antonio La Penna relativi a Filologia e studi classici in Italia tra Ottocento e Novecento (Della Porta Editori, pp. XI-566, euro 32,00). Dopo questo, incentrato su Orientamenti, istituzioni, temi, un secondo volume, su Maestri e metodi, è in preparazione. Sono pagine scritte lungo un cinquantennio, soprattutto negli anni Settanta e Ottanta, che il metodo di ricerca riconduce in unità, con molta naturalezza: i saggi non sono disposti in ordine cronologico, ma tematico (e riproposti con pochi ritocchi editoriali). L’approccio di La Penna è rimasto alquanto coerente nei decenni, sì che il lettore non avverte sbalzi di toni e di idee. Complementari studi inquadrano la storia e la funzione degli studi classici in Italia, dall’Unità alla Grande guerra europea e poi fino alla metà del Novecento: un percorso incentrato sugli studi filologico-letteari, con prevalenza del latino.
Si parte dall’Ottocento, mostrando come la filologia tedesca insegnò la «diffidenza» verso i dati della tradizione. L’apporto critico talvolta portò allo scetticismo (la cosiddetta ars nesciendi), ma ebbe importanza enorme. In Italia, la filologia e poi il positivismo agirono sul classicismo della tradizione, spesso ‘pretesca’. Il paradigma antico innervò cosi talune istanze risorgimentali, e più tardi sorresse il nazionalismo di età umbertina (e poi, per quella via, anche il fascismo). II rapporto tra la cultura italiana e la Methode filologica tedesca è tema cruciale, che compare più volte nel volume. Con il declino del classicismo settecentesco e della cultura antiquaria, l’erudizione italiana era ridotta a poche voci, con i limiti sperimentati da Niebuhr o Leopardi nella Roma della Restaurazione. La rinascita degli studi avvenne alla scuola della filologia classica tedesca. Essa determinò un grande progresso tecnico che, pur con eccessi, portò I’Italia entro la fine del secolo a conquistare una linea di ricerca indipendente: la produzione nostrana però non sempre ottenne (al tempo e nemmeno dopo) riconoscimento internazionale adeguato, per effetto di disorganizzazione e discontinuità di iniziative.
Un denso saggio ripercorre il dibattito sul valore della poesia cortigiana, attraverso i giudizi espressi tra Germania e Italia nel XIX e XX secolo: la condanna della «Musa appigionata» trascinava con sé quella di larga parte della letteratura latina, colpevole di essere secondaria e imitativa: ne fecero le spese, dopo gli allori settecenteschi, soprattutto Virgilio e Orazio. In Italia, dopo che Alfieri e Foscolo avevano denunciato i rischi del mecenatismo, l’idealismo e il nazionalismo difesero la qualità (e poi l’originalità) della produzione latina. Nel caso di Giovenale, i temi delle satire furono esaminati in modi diversi nei due paesi: soprattutto in Italia, il poeta apparve una voce di libertà e opposizione al dispotismo, e in tali termini ne parlarono figure influenti come Carducci e Marchesi (cui pure era chiaro che dietro l’aggressività del poeta satirico stava una posizione conservatrice). Il confronto tra il «metodo scientifico» e la «retorica umanistica» si ripropose più volte, con cicliche polemiche contro le ‘tedescherie’, accusate di aridità e di insensibilità ai valori estetici. Rispetto a tali contese, un equilibrio ideale di metodo filologico e ricerca viene riconosciuto nella figura di Giorgio Pasquali (1885-1952), di cui La Penna conobbe il magistero universitario.
Rilevanti casi di studio vengono dalla cultura e dall’editoria di Firenze, che a partire dall’Ottocento fu, insieme a Torino, il centro della ricerca filologica italiana. La «Toscanina», già granducale (e moderata), seppe contribuire alla cultura nazionale: lo provano la presenza dell’antichità nella «Antologia» del Vieusseux, le edizioni di classici greci e latini, stampate per lungo tempo da Barbera, Le Monnier e Sansoni, e gli studi letterari (pagine oggi dimenticate di Atto Vannucci o di Gaetano Trezza contengono osservazioni significative sulla letteratura latina). Era una cultura ancora di dimensioni locali (per qualcuno il fiorentino era «la più plautina delle lingue moderne»), ma seppe a lungo contribuire alla costruzione di una italianità, comunque definita, attraverso i temi dell’antico: gli studi classici avevano un fondamento nazionale, che il tecnicismo filologico ha spesso trascurato. Da Firenze vennero anche importanti manuali e moltissimi commenti per la scuola e l’università: tale produzione fiorì per decenni e coinvolse «talvolta studiosi, talvolta mestieranti più o meno abili». Estremo frutto di quella stagione sono le preziose antologie che La Penna dedicò a Orazio (1969) e Virgilio (1971).
Anche la facoltà letteraria di Firenze è oggetto di studio, attraverso i grandissimi che vi operarono dall’Unità in poi (soprattutto Girolamo Vitelli, Pasquali, Giacomo Devoto, Bruno Migliorini). La Penna ricorda accanto a loro anche quelli per i quali l’insegnamento era «dignitosa routine», e nota quanto pesò (non solo a Firenze) la frattura della Seconda guerra mondiale, che lasciò vari studiosi stanchi e scientificamente esausti. Nei decenni successivi, invece, le università non furono sempre in grado di venire incontro a nuove urgenze culturali (e politiche). Vi è un ripensamento anche delle tendenze recenti nella ricerca e nella scuola (tema su cui La Penna già scrisse Sulla scuola, Laterza 1999). Negli anni Cinquanta vi era fiducia nella svolta che lo storicismo e la filologia avrebbero apportato alla cultura italiana, profondamente segnata dal fascismo e dall’idealismo: non sarebbe prevalsa nemmeno la lettura strutturalista, colpevole di essere astorica e capace di cogliere nei testi elementi «della facciata o del guscio».
Invece di quella palingenesi, subentrò dagli anni Sessanta una crisi degli studi umanistici, di fatto mai ricomposta, che ha condotto verso la corrente dissoluzione. La Penna credeva fermamente nel valore del liceo classico, tanto da ritenere lo scientifico un «doppione scialbo e incoerente». Agli dèi è parso altrimenti, né egli poteva immaginare come il classico sarebbe stato smantellato nel secolo presente, complici sinistra e destra. Quanto alla filologia, nel Novecento aveva saputo affermarsi come pensiero critico, alimentandosi delle sollecitazioni del materialismo e dello strutturalismo, ma senza riuscire a liberare gli studi classici dal legame con prospettive di conservazione (o addirittura di «reazione sociale»). Al principio di questo secolo, La Penna poteva mostrare fiducia nel livello dell’alta ricerca, mentre incerto gli appariva il destino della cultura storico-letteraria, travolta dalle «spinte della cultura di massa» e dalle disastrose riforme dell’insegnamento. La crisi si è oggi approfondita, per compressione di risorse, di motivazione, di competenze: improbabile che ritornino spazi per lavori che richiedono tempo e studio, non il rispetto di criteri quantitativi o la ricerca di facile popolarità.
Le pagine qui riproposte furono pubblicate in sedi autorevoli, ma che hanno forse limitato finora la circolazione e l’efficacia di queste riflessioni: ciò vale sia per i profili storici, sia per i temi che hanno conosciuto, poi, ulteriori ripensamenti. La Penna contribuì, negli anni Settanta, alla nascente riflessione degli antichisti sull’età dell’imperialismo e del fascismo. Il tema, oggi indagatissimo, torna in un saggio (1999) relativo alla rivista «Roma» (1923-1944), esempio dello stretto e documentato legame tra nazionalismo cattolico e fascismo: la «romanità» fascista predilesse l’età imperiale, con un approccio nazionalista e avverso al paganesimo e al «meticciato». Il periodico emanava dall’Istituto di Studi Romani: vi collaboravano anche alcuni studiosi seri, ma quelle pagine servono a capire le idee del fascismo, non la cultura antica. Oggi l’interesse verso quella fase del classicismo italiano è ampio, ma in precedenza tale lettura «politica» degli studi non era usuale. Nel 1964, discutendo di un latinista tedesco alle prese con concetti chiave della romanità (pietas, imperium e altri), La Penna rilevava i limiti di approccio e notava il conservatorismo politico estremo: ma senza dire esplicitamente che Hans Drexler (vivente al tempo) era stato un convinto e attivissimo nazista. È questo uno degli scarti «sia d’impostazione che d’interpretazione» rispetto alla data di stesura dei saggi ristampati: ma anche qui l’analisi di La Penna regge bene. La fedeltà allo storicismo tempera le istanze ideologiche (più evidenti negli anni Settanta) attraverso sguardo fermo, informazione solida, documentazione ampia. I giudizi sono talora severi, liberi da carità municipali e da omaggi immotivati, ma con riserve importanti su studiosi culturalmente lontani o non abbastanza «filologi» (Aldo Ferrabino, Armando Plebe, Augusto Rostagni; ne busca persino Concetto Marchesi, come editore di testi): è proficuo il dialogo con Sebastiano Timpanaro, più raro quello con Treves o Momigliano. Quando sarà pubblicata anche la seconda valva del dittico, risulterà ancora più chiaro il senso di questi contributi sulla funzione della cultura classica italiana. Se questo paese ritroverà un giorno il bisogno di pensare a sé, dopo l’esplosione verso la storia globale (che segue agende allogene), e dopo l’involuzione verso idee retrive di «nazione», la storia e la filologia potrebbero essere un solido punto di ripartenza.
Se non è, già ora, troppo tardi.
Carlo Franco
(Tratto da: Carlo Franco, La cultura classica tra Germania, fascismo e ideologie anni settanta, in «Alias Domenica», anno XIV, n. 12, 24 marzo 2024).
Inserito il 14/04/2024.
Francesco Del Casino, Antonio Gramsci.
Autrice della foto: Nelly Dietzel.
Dalla rivista online «tottusinpari.it»
Francesco Del Casino è un amico e compagno. Quando lo conobbi a casa d’amici comuni mi sorpresi nello scoprire che avevo di fronte l’iniziatore della tradizione dei murales del paese barbaricino di Orgosolo (Nuoro), dove si era trasferito in gioventù per insegnare Educazione Artistica nelle locali scuole medie. Erano i murales resi famosi in tutt’Italia a suo tempo dagli “Intervalli” della RAI. Da allora la sua carriera artistica si è sviluppata senza interruzione fino a raggiungere un traguardo che, per un senese, rappresenta la massima aspirazione: nel 2003 ha avuto l’onore di dipingere il drappellone del Palio di Siena del 2 luglio (vinto per pura coincidenza dalla mia contrada, la Selva).
Presentiamo un’intervista che l’artista senese ha concesso a una rivista sarda in occasione di una mostra personale di disegni e sculture su Antonio Gramsci svoltasi a Nuoro qualche anno fa.
Leandro Casini
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Nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci, al “MancaSpazio” di Nuoro le opere di Francesco Del Casino dedicate al filosofo, politico e pensatore sardo
La sua mostra al “MancaSpazio” con oltre 100 opere tutte dedicate al filosofo, politico e pensatore sardo ha avuto una grande eco, sia nell’Isola che a livello nazionale.
Il catalogo con i testi di Franca Zoccoli, Tomaso Montanari, Antonello Cuccu e Chiara Manca sta viaggiando in tutto il mondo e così le opere di Del Casino.
Con oltre 700 ingressi in appena tre settimane, la mostra è sicuramente fra le più importanti realizzate da “MancaSpazio”. Fondamentale è stata la presenza dei giovani, dalle scuole e in autonomia, che hanno scoperto e riscoperto la figura di Gramsci grazie alle opere di Francesco Del Casino.
Citando Gramsci, proprio ai più giovani vogliamo dire “Istruitevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra intelligenza. Agitatevi, perché avremo bisogno di tutto il vostro entusiasmo. Organizzatevi, perché avremo bisogno di tutta la vostra forza”.
Quando hai iniziato a disegnare Antonio Gramsci?
Non me lo ricordo più sicuramente. Nel 2018 avevo già lavorato abbastanza su questo tema perché ho realizzato la mostra alle “Stanze della memoria” di Siena e il catalogo Gramsciart. Questo è stato il tentativo di provare a fare un ritratto di Gramsci, inteso come persona, perché non volevo rappresentarlo retoricamente, come il leader storico del comunismo, cosa che avevo già fatto a più riprese negli anni 70/80, nei primi murali e negli striscioni da manifestazione.
Il primo Gramsci, l’hai dipinto su un muro di Orgosolo quindi?
La via Gramsci di Orgosolo è stata dipinta in circa un mese, insieme ai ragazzi che abitavano in zona, il tutto rientrava in un progetto approvato dal Consiglio Scolastico in cui si tentò di far studiare storia partendo dai nomi delle vie. Logicamente tutto ricadde su di me e la cosa non si sviluppò come avrebbe dovuto e si limitò a sei o sette vie: G.M. Angyoi, Garibaldi, Cadorna, Congiargiu, Deledda, Piazza del popolo (con le foto di Pratobello) e Piazza caduti in guerra.
Quando ti sei avvicinato agli scritti di Gramsci e alla sua storia per la prima volta?
Quando arrivai in Sardegna, nel 1965, conoscevo Gramsci solo per il nome della Piazza dedicatagli a Siena e qualche striminzita notizia biografica. Arrivato a Orgosolo, invece, notai che Gramsci era molto conosciuto (fra quelli che diventarono i miei amici) e sicuramente in quei primi anni lessi le Lettere dal carcere. Appena uscì il libro di Peppino Fiori Vita di Antonio Gramsci, che ebbe un grande successo, lo lessi immediatamente, credo che la mia copia (Ed. Laterza) me l’abbia regalata lo stesso Peppino che capitava periodicamente ad Orgosolo.
Poi tutti ci innamorammo del Che, che come tutti gli eroi, era giovane e bello e il povero Nino rimase un po’ in disparte. Nel 1970-’71 rilessi con più attenzione La questione meridionale e mi accorsi che se tanti di noi lo avessero letto in precedenza, si sarebbe commesso qualche errore politico di meno. In quegli anni uscirono due volumi con gli scritti politici di Gramsci del periodo dell’«Ordine Nuovo» e della formazione del PCI fino all’arresto del ’26: fu una lettura per me molto importante, però, per il momento politico che io vivevo, mi fece commettere una serie di errori di dogmatismo che mi portarono ad aderire ad un partitino marxista-leninista e a sprecare due o tre anni della mia vita politica.
La tua arte è “popolare”, le tue opere sono sempre per la comunità, sui muri esterni delle case; come ti sei rapportato con il collezionismo privato e una mostra in una galleria d’arte?
Fu fra il ’75 e il ’76 che ripresi a dipingere in modo saltuario e poi negli anni ’80 a recuperare il mio modo di dipingere e a lavorare in modo continuativo e sistematico. Dal novembre ’68 al ’76 avevo smesso improvvisamente di dipingere e senza nemmeno accorgermene, come tanti, ero diventato un militante a tempo pieno, senza nessun rimpianto per la pittura.
In quegli anni cercai di regalare a destra e manca tutti i quadri che avevo dipinto fino ad allora, non sempre con successo. Credo che molti lavori di quel periodo siano andati distrutti perché non si adattavano con l’arredamento delle case o perché erano troppo grandi e impegnativi.
Il mio rapporto con le gallerie d’arte è stato sempre sporadico e molto conflittuale, intorno all’80 credo di aver fatto qualche mostra sia a Nuoro che in continente, ma sempre in luoghi strani: chiostri di una antica chiesa, sale di qualche Palazzo Comunale, ma quasi mai in una galleria d’arte. In questi anni ho fatto una mostra collettiva alla galleria Il Portico, insieme a D. Asproni, V. Floris e T. Cau e una personale da Ruiu in corso Garibaldi, a Nuoro. Qualche mese prima ne aveva fatta una Nivola e lì ho fatto il grande errore di non fare un piccolo debito e comprarmi una sua tela. Peccato. Tutte le volte che la vedo al Museo Man me ne pento.
Nel ’92 circa, aiutato da mia nipote Luisa, che faceva parte di una cooperativa culturale di Orgosolo, feci una grande mostra in una vecchia casa del paese con cortile annesso: ebbe un ottimo successo di vendite e da quel momento divenni un pittore che vendeva e non solo regalava. In questi ultimi anni, sotto la spinta di alcuni amici, ho fatto varie mostre, alcune anche ben organizzate ma sempre fuori dal sistema delle gallerie, anche perché, di gallerie, non ce ne erano più.
Su quali opere stai lavorando ora? Vorresti dedicare altri progetti a Gramsci?
La figura di Nino ormai è come quella di Ligabue (in altri tempi), mi riappare all’improvviso mentre sto dipingendo altro. Ora ho lavorato un po’ su un quadro di Velasquez, Bacco, e ogni tanto mi diverto a fare delle nature morte dal vero con al centro uno scheletro di testa di cinghiale.
Vorrei fare un grande murale ispirato alla Zattera della Medusa di Géricault sul muro di un sottopasso, ma lo sto rimandando di mese in mese. Attualmente sto lavorando un po’ a ruota libera. Forse l’unica cosa buona che ho fatto è stata la serie di disegni per la mostra da “MancaSpazio”, non tanto per i risultati singoli, ma perché ho scoperto che il disegno può essere un qualche cosa fine a sé stesso, compiuto, e non solo un progetto per un quadro, un murale o una scultura. Il disegno mi dà maggiore libertà di inventiva.
27 aprile 2021
Chiara Manca
(Tratto da: Chiara Manca, Nel giorno dell’anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci, al “MancaSpazio” di Nuoro le opere di Francesco Del Casino dedicate al filosofo, politico e pensatore sardo, in: http://www.tottusinpari.it/2021/04/27/nel-giorno-dellanniversario-della-scomparsa-di-antonio-gramsci-al-mancaspazio-di-nuoro-le-opere-di-francesco-del-casino-dedicate-al-filosofo-politico-e-pensatore-sardo/).
Inserito il 06/03/2024.
Francesco Del Casino, Drappellone del Palio del 2 luglio 2003, Museo della contrada della Selva.
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Francesco Del Casino a Orgosolo.
Autore della foto: Andrea Pagliantini.
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Francesco Del Casino a Orgosolo.
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Francesco Del Casino a Nuoro.
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San Gavino Monreale.
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San Gavino Monreale.
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Aleksandr Herzen (1812-1870).
Fonte dell’immagine: https://dzen.ru/a/X8tTwXAthFoTpf7v
Perché ci spiazza Aleksandr Herzen? Perché in genere qui in Occidente non ci aspettiamo un intellettuale russo degno di essere preso in seria considerazione. Un pregiudizio condiviso in parte anche da Marx, che lo considerava uno slavofilo solo perché rifiutava il percorso borghese intrapreso dalle società europee del tempo, salvo poi rivalutarlo in vecchiaia riconsiderando in chiave aggiornata lo sviluppo delle comunità collettivistiche contadine tradizionali della Russia profonda.
Aleksandr Herzen (Aleksandr Ivanovič Gerzen, Mosca, 1812 – Parigi, 1870) non è molto conosciuto da noi, come del resto accade a molte cose russe e slave in questa parte d’Europa che si considera – sempre più a torto – centro culturale e morale del mondo.
Cerchiamo, nel nostro piccolo, di rilanciarne alcuni spunti tratti da due articoli pubblicati a grande distanza di tempo l’uno dall’altro.
Era il 1962 quando Piergiorgio Bellocchio, animatore della sorprendente rivista culturale «Quaderni piacentini» (sorprendente soprattutto perché riuscì dalla provincia ad avere respiro e rilievo nazionale e internazionale), annunciò l’uscita per Feltrinelli della prima parte dell’opera principale di Aleksandr Herzen, Il passato e i pensieri. E propose al lettore un profilo del grande pensatore rivoluzionario russo esiliato dallo zar.
È invece di recente uscita in Italia la prima traduzione di un romanzo giovanile di Herzen finora qui inedito: Di chi è la colpa?; ne parla Alessandro Piperno su un numero de «La Lettura» di novembre 2023.
di Piergiorgio Bellocchio
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Attualità di Herzen
di Piergiorgio Bellocchio
«Tutto è scritto con le lacrime, col sangue: arde e brucia». Così Turgheniev a proposito delle memorie di Herzen Il passato e i pensieri. In quest’opera di meravigliosa schiettezza e vivacità Herzen senza seguire un preciso filo conduttore alterna i ricordi autobiografici con incisivi ritratti di contemporanei, aneddoti, note di costume, descrizioni della vita politica e sociale dell’Europa dell’Ottocento: «Non rifuggo affatto dalle digressioni – scrive Herzen – né dagli episodi, perché questo è l’andamento naturale delle conversazioni e della vita stessa».
Alexander Ivanovich Herzen nasce a Mosca nel 1812, figlio naturale di un ricchissimo aristocratico e di una tedesca. Frequenta a Mosca la Facoltà di Fisica e Matematica interessandosi anche di filosofia, di politica e del socialismo utopistico di Saint Simon. Grazie al suo temperamento geniale, ardente e versatile esercita un profondo influsso sui suoi coetanei: Dietro le sembianze austere dello scettico e del satirico, sotto la scorza di una natura poco cerimoniosa e assai franca, si nascondeva il cuore di un fanciullo. Il suo era un fascino strano ed aspro, come aspra era la sua delicatezza, e queste qualità le dedicava soprattutto ai principianti, a coloro che erano alla ricerca di qualcosa, che stavano sperimentando le loro forze. Per loro il suo consiglio era fonte di forza e di fiducia. Egli li rendeva partecipi delle sue idee più intime, il che non gli impediva di applicare in pieno, nel contempo, le sue forze distruttive ed analitiche e di sottoporre queste stesse persone a esperimenti psicologici estremamente dolorosi». Detesta chi non si compromette, chi resta fuori dal gioco, dichiara apertamente la sua faziosità: «So che certi concetti non sono graditi nella buona società, più o meno come avviene per una persona uscita di prigione o squalificata per motivi vergognosi. So che la parzialità non è vista di buon occhio. Tuttavia, nessuno ha mai detto nulla che valesse la pena di essere detta, se non quando è stato profondamente e appassionatamente parziale».
Nel 1834 viene arrestato perché ritenuto pericoloso per la sua «mentalità rivoluzionaria». Seguono lunghi anni di esilio: «La consapevolezza di una persecuzione palese mantiene vivo il desiderio di opporsi, e il maggior pericolo abitua alla tenacia e modella il comportamento. Tutto questo occupa, distrae, irrita, fa arrabbiare, e il prigioniero o il deportato spesso conosce degli attacchi di furore, mentre la gente in libertà, sperduta in un ambiente banale e pesante, vive ore estenuanti di una disperazione regolare che lascia sfiniti».
Solo nel 1842 gli è concesso di ritornare a Mosca. Ritrova gli amici (Bielinskij, Bakunin, Ciadaiev ecc.), studia Hegel («l’algebra della rivoluzione») e Feuerbach, inizia la sua attività pubblicistica.
È già violentemente ostile ad ogni idealismo astratto e umanitario: «Se solo gli uomini – scriverà più tardi – invece di voler liberare l’umanità, cercassero di liberare se stessi, renderebbero un grande servizio alla causa della libertà umana».
Nel 1847 Herzen, che ha ereditato dal padre un notevole patrimonio, lascia per sempre la Russia dove non gli è possibile svolgere quell’attività di agitazione e di risveglio delle coscienze cui si sentiva destinato. Giunge a Parigi mentre si sta preparando la rivoluzione di Febbraio, da Parigi prosegue per l’Italia dove assiste ai moti del ’48 per ritornare in Francia alla notizia della proclamazione della Repubblica. Vi resta fino all’estate del ’49 assistendo alle lotte che si concludono con il crollo del governo popolare: ne resta profondamente ferito e ne porterà le cicatrici per tutta la vita: è lo schianto di tutte le sue speranze.
«Io vedo l’immancabile perdizione dell’Europa, e non desidero nulla di ciò che esiste, non credo a nulla qui, ad eccezione di un piccolo gruppo di uomini, di un piccolo numero di idee e dell’impossibilità di fermare il fenomeno». La polizia francese lo costringe a lasciare la Francia sospettandolo per i suoi rapporti con i rivoluzionari. È un periodo di terribili sventure personali: nel giro di due anni perde la madre e un figlio in un naufragio e poco dopo la giovane moglie. Dopo una breve sosta in Svizzera si stabilisce a Londra. Di nuovo riprende a lottare, a cercare di diffondere le sue idee: «Nuove rivoluzioni scoppieranno e il sangue scorrerà di nuovo a fiumi. Che ne verrà da questo sangue? Chi lo può sapere? Ma venga pure ciò che vuole, l’essenziale è che in questo incendio di follia, di odio, di vendetta, di ricatto e di contesa andrà in rovina il mondo che soffoca l’uomo nuovo, impedendogli di vivere, e non permette la realizzazione dell’avvenire. E perciò viva il caos, viva la distruzione, viva la morte! Largo all’avvenire! Noi vogliamo essere i boia del passato!».
Il periodo londinese che va dal 1852 al 1857 è fervidissimo. Herzen organizza una tipografia russa indipendente, stampando a sue spese l’almanacco «La stella polare» e la rivista «La campana», il cui bellissimo motto era «vivos voco».
Ritiene necessario che la Russia a differenza dell’Europa segua la via del popolo non quella della nazione ed eviti il periodo borghese dell’evoluzione occidentale: ha un odio profondo per la borghesia che gli sembra formata da un esercito di tanti Figaro divenuti benestanti e non più ribelli.
In vivaci e taglienti articoli Herzen, rivelandosi grandissimo giornalista, chiede l’abolizione della servitù della gleba e delle pene corporali, l’istituzione del giudizio pubblico, del tribunale dei giurati, l’autonomia dei comuni e delle provincie, l’abolizione della censura. Tutto ciò che è vivo e attuale è al centro del suo interesse. Le due riviste, proibitissime in Russia, vi entrano clandestinamente e godono grandissima popolarità, costituendo la principale forza progressista e rivoluzionaria. Herzen, uomo profondamente attaccato alla vita e gran conoscitore degli uomini, della loro complessità e fragilità, insiste nei suoi sarcastici attacchi agli utopisti (liberali, socialisti, mazziniani che siano) che, tutti presi dalla costruzione del futuro, della futura società ideale, rinnegano il presente, la vita che stanno vivendo, la possibile felicità dell’oggi:
«Gli uomini vogliono possedere anche l’avvenire… Non bisogna farsi irretire da categorie che non possono cogliere il fluire della vita. Qual è questa meta che andavate inseguendo? Questa meta permanente? Un programma o un ordinamento e da chi concepito?… Io preferisco pensare alla vita, e quindi alla storia, come ad una meta raggiunta, anziché ad un mezzo per ottenere qualcosa d’altro. Un giorno Luis Blanc mi disse: “La vita umana è un grande dovere sociale. L’uomo deve sempre sacrificarsi per la società”. “Perché?” domandai all’improvviso. “Come perché?” disse Blanc “lo scopo ultimo e la missione dell’uomo non è forse il benessere della società?”. “Oh, ma non sarà mai raggiunto se tutti si sacrificano e nessuno gode”. “Stai giocando con le parole”. “È solo la confessione mentale di un barbaro” dissi. “Lo scopo della vita di un bambino sta veramente nel crescere e diventare più grande? No, sta invece nei suoi giochi, nel suo sentirsi felice, nell’essere un bambino; seguiamo l’altro filo del ragionamento, allora il solo scopo della vita è la morte”».
L’importanza e l’influenza di Herzen si affievolirono sotto Alessandro II succeduto a Nicola I: molte delle riforme da lui auspicate si erano attuate, altre peccavano di astrattezza o avevano perduta la loro attualità rivoluzionaria, inoltre la sua difesa energica della rivolta polacca gli alienò non poche simpatie. Infine nuovi capi guidavano ora la lotta in Russia ad un livello molto più alto. Ed Herzen parlando dei terroristi del ’60 scrive: «È colpa nostra. Li abbiamo messi al mondo noi con i nostri vaniloqui degli anni passati. Questi uomini vengono a rivendicare il mondo contro di noi… sono la sifilide delle nostre passioni rivoluzionarie… La nuova generazione dirà alla vecchia: “Voi eravate ipocriti, noi siamo cinici, voi parlavate da moralisti, noi parleremo da canaglie; voi eravate affabili con i superiori e crudeli con i subalterni, noi saremo crudeli con tutti; voi vi inchinavate senza avere il senso del rispetto, noi ci faremo avanti ad urti e spintoni senza chiedere scusa”».
Herzen muore a Parigi nel 1870. Il pensiero ardente e la grande passione morale gli rimasero vivi fino all’ultimo, né sono rare le folgoranti intuizioni («L’operaio di tutti i Paesi è un futuro borghese»), ma egli si sente ormai estraneo, un uomo superato («ti guardano con una specie di pietà, come un pazzoide»). Il dramma spirituale di Herzen – scriverà Lenin – fu il risultato e il riflesso dell’epoca storica ed universale in cui il rivoluzionarismo della democrazia borghese stava già morendo (in Europa) mentre lo spirito rivoluzionario del proletariato socialista non era ancora giunto a maturazione». Scriverà Tolstoi nel 1905: «La nostra intelligencija è caduta così in basso che non è più in grado di capire Herzen. Egli attende i suoi lettori nel futuro. Lancia i suoi pensieri alti sopra la testa della folla attuale a coloro che saranno capaci di intenderlo».
Di A. I. Herzen è recentemente uscita presso Feltrinelli la prima metà (fino al 1847) di Il passato e i pensieri. Anni fa Einaudi aveva pubblicato con lo stesso titolo una scelta di brani di Herzen.
Piergiorgio Bellocchio
(Tratto da: Piergiorgio Bellocchio, Attualità di Herzen, in «Quaderni Piacentini», n. 6, dicembre 1962).
Inserito l’11/02/2024.
(Milano, Mondadori, 2023)
recensione di Alessandro Piperno
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Leggete Herzen, un grande russo
recensione di Alessandro Piperno
È con qualche imbarazzo e non senza impertinenza che stamattina mi sono messo a scrivere. Tali sentimenti (solo in apparenza antitetici) sono figli del plagio incauto e involontario da me compiuto quache tempo fa intitolando un romanzo: Di chỉ è la colpa. Si dà il caso che il libro di cui vi sto per parlare abbia pressappoco lo stesso titolo: a distinguerlo dal mio c’è solo uno striminzito punto interrogativo. Sia detto a mia parziale discolpa, all’epoca ignoravo non tanto chi fosse Aleksandr Herzen, ma che avesse intitolato il suo romanzo di esordio: Di chi è la colpa?
Del resto, gran parte della fama di Herzen, più che alle sue imprese di romanziere, è legata alle vicende politiche che lo resero inviso al regime oscurantista di Nicola I. Una controversia, quella con lo zar e la sua polizia segreta, da cui Herzen, come del resto la maggior parte dei suoi sodali, uscì con le ossa rotte: prima il confino, poi l’esilio imperituro. Anche per questo, forse, la fortuna letteraria di Herzen è affidata al capolavoro della maturità: Il passato e i pensieri. Un’autobiografia di un migliaio e passa di pagine che per sincerità, eleganza e ferocia è comparabile alle imprese prese dei grandi memorialisti francesi. Non sorprende che tra i fervidi ammiratori di Herzen, e del suo monumentale memoir, spicchi un intellettuale dal gusto esemplare come Isaiah Berlin. «È strano», scrive Berlin, «che questo straordinario scrittore, in vita celebre personalità europea, stimato amico di Michelet, Mazzini, Garibaldi e Victor Hugo, a lungo venerato nel suo Paese non solo come rivoluzionario, ma come uno dei più grandi uomini di lettere, sia tuttora poco più di un nome in Occidente. Il piacere che si ricava dalla sua prosa per la maggior parte ancora non tradotta rende ciò una strana e ingiustificata perdita». Vien da chiedersi, a questo punto, quanto a tale misconoscimento (ahimè, perdurante) non abbia contribuito, per l’appunto, la sua fama di rivoluzionario.
La passione politica di Herzen è di quelle travolgenti che indirizzano la vita di chi la professa in un vicolo cieco. La sua fame di giustizia si manifesta precocemente. Rampollo di una famiglia altolocata, provvista di mezzi e di ottime relazioni, Herzen vive il fallimento della rivolta decabrista sfociata nel sangue come il classico trauma adolescenziale da cui è impossibile riaversi. È lui stesso a confessarlo nelle prime pagine de Il passato e i pensieri: «I racconti dell’insurrezione, sul processo, l’orrore che regnava a Mosca m’impressionarono profondamente: mi si stava rivelando un mondo nuovo, che gradualmente diventò il centro di tutta la mia vita morale; non so bene come avvenisse ma, pur comprendendo solo confusamente di che cosa si trattasse, cominciai a sentire che non ero dalla parte della mitraglia e della vittoria, della prigione e delle catene. L’esecuzione di Pestel’ e dei suoi compagni destò definitivamente la mia anima dal suo sonno infantile». Ciò spiega, forse in parte, perché l’avventura di Herzen narratore si sia esaurita con la pubblicazione del suo primo e per l’appunto unico romanzo: Di chi è la colpa? Ma ciò soprattutto spiega perché fino ad oggi nessun editore italiano avesse sentito l’esigenza di tradurlo.
* * *
Una lunga negligenza che rende la traduzione appena realizzata dallo slavista Mirco Gallenzi, per la collana degli Oscar Mondadori, un autentico evento editoriale. Benché si tratti di un’edizione economica, il volume si avvale di una cospicua utilissima introduzione in cui Gallenzi dà conto, come meglio non potrebbe, del «caso Herzen». È encomiabile che di primo acchito il prefatore si soffermi sul mirabile risultato artistico raggiunto dal romanzo di Herzen. Un riconoscimento dovuto, che colloca l’autore appena trentenne tra i grandi scrittori del suo tempo.
È utile ricordare che il progresso operato dalla letteratura russa, in quello scorcio di decenni drammatici, non ha eguali in nessun’altra nazione, neppure nella Francia del Grand Siècle che se non altro, a dispetto della Russia di Puškin, poteva avvalersi di una solida tradizione alle spalle. Da profano, mi sono spesso domandato se tale miracolo non dipenda dalla peculiare conformazione della società russa, così in bilico tra patriarcato feudale e smania di rinnovamento. Di fatto, non c’è grande scrittore russo del XIX secolo che non abbia creduto con ardore messianico nel potere palingenetico dell’arte. A ricordarcelo, con la solita geniale causticità, è stato Vladimir Nabokov, durante una delle sue famose lezioni: «Il veleno ideologico, il messaggio – per usare un termine inventato da riformisti cialtroni –, cominciò a contagiare il romanzo russo a metà del secolo scorso, e a metà di questo lo aveva ucciso del tutto». Pur non essendo uno slavista, e quindi non potendo contare su un orizzonte di conoscenze abbastanza vasto, mi è difficile non sottoscrivere la constatazione di Nabokov. Con l’eccezione forse del divino Puškin e del sobrio e ombroso Čechov, non c’è genio russo dell’Ottocento che abbia resistito all’impulso irresistibile di usare la letteratura come un veicolo di ammaestramento delle masse. Un proposito che di solito, almeno in ambito artistico, non paga, ma che in questo caso (ribadisco: è un miracolo) ha prodotto opere d’arte immortali come Le anime morte, Guerra e pace e I fratelli Karamazov. Sarebbe ingeneroso e fuorviante, date le circostanze, porre Di chi è la colpa? – il primo e unico romanzo di questo aristocratico dilettante – al livello di siffatti capolavori. Eppure…
* * *
Eppure bastano i primi capitoli dedicati al ritratto del d proprietario terriero Aleksej Abramovič Negrov, della sua spregevole consorte, Glafira L’vovna, e del loro piccolo crudele mondo antico, per capire che ci troviamo in presenza di un misconosciuto capolavoro che tra gli altri meriti ha quello di dialogare con le opere dei massimi scrittori russi del suo tempo. Ecco a voi Negrov: «Severo, irascibile, duro a parole e spesso crudele nei fatti, non si poteva dire che fosse una persona malvagia per natura. Scrutando i marcati lineamenti del suo volto, non del tutto sommersi dalla carne in eccesso, le folte sopracciglia nere e gli occhi scintillanti, era possibile supporre che la vita avesse soffocato in lui più di una potenzialità».
Sin dalle prime battute, appare chiaro che Herzen appartiene alla fattispecie di narratori provvisti dalla natura del talento di cesellare personaggi. Il piglio giocoso e satirico con cui lo fa ricorda parecchio il suo coetaneo Gončarov, ma per certi versi anche l’appena più vecchio e comunque inarrivabile Gogoľ. E a pensarci bene, non è questo il solo tratto gogoliano. C’è dell’altro. Herzen ama perdersi in divagazioni. Apre parentesi, solo in apparenza pretestuose, capaci di arricchire il quadro di mille dettagli deliziosi. Il Narratore onnisciente non fa che intromettersi con commenti inopportuni in cui dà conto dei propri gusti e delle proprie idiosincrasie. «Se fosse possibile, compilerei un dizionario biografico, in ordine alfabetico, di tutti quelli – per esempio – che si radono la barba, tanto per iniziare; per brevità si potrebbe omettere la descrizione delle vite di studiosi, letterati, artisti, eroi militari, statisti, in generale di tutti gli uomini dediti al pubblico interesse, perché la loro è un’esistenza monotona e noiosa: successi, genialità, persecuzioni, applausi, vita tra le pareti dello studio oppure fuori di casa, morte nel mezzo del cammino, povertà durante la vecchiaia… non c’è niente di individuale nella loro vita, essa appartiene per intero all’epoca».
È difficile capire a quale categoria narrativa appartenga Di chi è la colpa? Romanzo sociale? Romanzo a tesi? Romanzo psicologico alla Benjamin Constant? Storia d’amore? Apologo morale? A un certo punto ci viene offerto persino il diario amoroso di una giovane donna. Il montaggio è talmente libero, moderno e spregiudicato che ogni tanto il Narratore anonimo sente l’esigenza di intervenire per creare degli accordi plausibili tra una parte e l’altra.
Herzen, inoltre, ha una quanto mai spiccata capacità di pennellare paesaggi bucolici, un lirismo agreste degno del miglior Turgenev: «L’aria era fresca, satura di un particolare odore intrinseco. La nebbia di rugiada con le sue volute pesanti e bianchicce si ritirava, lasciando dietro di sé milioni di gocce scintillanti. La luce purpurea e le insolite ombre conferivano un’aura di novità, di strana grazia agli alberi, alle isbe dei contadini, a tutto l’ambiente circostante. Gli uccelli cantavano con voci diverse, il cielo era terso».
Ma Di chi è la colpa? non è solo un romanzo di personaggi, divagazioni e paesaggi, ma anche di struttura. Il congegno narrativo, allestito con rara sapienza, ha una sorprendente coerenza interna. Il ménage à trois che coinvolge i tre eroi positivi (e infelici) del romanzo – il romantico precettore Kručiferskij, la svagata bellissima Ljubon’ka (figlia illegittima di Negrov) e il dandy byroniano Bel’tov – sembra ricalcar il modello della passione impossibile dell’Onegin puškiniano e della sua adorabile Tatiana.
Spero solo che questa selva di assonanze da me maldestramente enumerate, a puro scopo esemplificativo, non risultino fuorvianti al lettore. In realtà, in questo romanzo non c’è nulla di fatuamente derivativo. Esso è tutto fuorché il divertissement di un letterato colto e disinvolto, animato dal desiderio di omaggiare (o parodiare) le prodezze dei suoi grandi contemporanei. Non c’è paragrafo, infatti, che non riveli una griffe inconfondibilmente herzeniana. Il tono della prosa, destinato a raggiungere una pienezza meravigliosa ne Il passato e i pensieri, ha una grazia agra, ironica e dolente che, per il poco che ne so, non ha eguali tra i suoi contemporanei.
L’essenza del romanzo è tutta nel rovello morale posto da quel titolo che più di centocinquant’anni dopo gli avrei involontariamente copiato. Di chi è la colpa? – si chiede il Narratore nelle ultime strazianti pagine del romanzo. Chi bisogna accusare se una donna onesta come Ljubon’ka si è innamorata dell’irresistibile Bel’tov esponendo il suo povero sposo all’ennesima frustrazione? A chi addebitare la responsabilità per una società così intrinsecamente gretta, ingiusta e crudele? Un mondo in cui i signori la fanno franca, perché intanto ci si può sempre rifare sugli umili e sui servi. Herzen (è lui il Narratore anonimo) non ha risposte. Né crede di poterle ottenere dalla letteratura. E questo sì che lo distingue dai massimi scrittori russi del suo tempo.
Alessandro Piperno
(Tratto da: Alessandro Piperno, Leggete Herzen, un grande russo, in «La Lettura», 26 novembre 2023).
Inserito l’11/02/2024.
Aleksandr Herzen (1812-1870).
Fonte della foto: https://static.ilmanifesto.it/2024/02/copertina-portrait-of-alexander-herzen-1812-1870-meisterdrucke-664972.jpg
Pagine di letteratura
di Aleksandr Herzen
Nelle pagine che presentiamo, che compongono il capitolo iniziale dell’autobiografia Il passato e i pensieri, Aleksandr Herzen dà un primo assaggio delle differenze che lui nota tra la cultura occidentale, succube della meschinità borghese, e quella progressista russa. Egli si sofferma però principalmente sul ricordo degli anni compresi tra la giovinezza e la maturità, sugli amici e i compagni di studi e di attività rivoluzionaria, sul carattere dei loro ritrovi goderecci e al tempo stesso intensamente proficui per la loro formazione culturale e politica.
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Da Il passato e i pensieri
Noi
di Aleksandr Herzen
Eravamo già assai lontani dalla nostra fanciullezza, nel 1842 io compii trent’anni; sapevamo anche troppo bene dove ci conducesse la nostra attività, ma tiravamo innanzi. Non sconsideratamente ma meditatamente proseguivamo per la nostra strada col passo moderato ed eguale che l’esperienza e la vita di famiglia ci avevano insegnato. Ciò non significava che fossimo invecchiati, no, nello stesso tempo eravamo anche giovani, e per questo, parlando ad una cattedra universitaria, stampando articoli o pubblicando un giornale, ci esponevamo ogni giorno ad essere arrestati, licenziati, deportati.
Un simile gruppo di uomini d’ingegno, evoluti, versatili e integri, non l’ho incontrato mai in seguito, né tra le superne vette del mondo politico né tra gli alti papaveri della letteratura e della nobiltà. Eppure ho viaggiato molto, ho vissuto dovunque e con tanta gente; la rivoluzione mi ha spinto verso quelle regioni progredite oltre le quali non vi è nulla; eppure, in coscienza, debbo ripetere quanto ho detto più sopra.
La personalità finita e conchiusa dell’uomo d’Occidente che ci meraviglia sulle prime per la sua specializzazione in un secondo tempo ci meraviglia per la sua unilateralità. Egli è sempre contento di sé e la sua sicumera ci offende. Non dimentica mai le sue mire personali; in generale si trova in una situazione di soggezione e i suoi costumi si debbono adattare ad un ambiente meschino.
Non credo che in Europa la gente sia sempre stata così; l’uomo di Occidente non è nel suo stato normale: è in un periodo di muta. Le rivoluzioni infelici sono rientrate in lui, nessuna di esse lo ha trasformato, ognuna ha lasciato delle tracce e gli ha confuso le idee, mentre l’onda della storia portava sulla scena, secondo l’ordine naturale, lo stato melmoso della borghesia che ha coperto la classe fossile dell’aristocrazia ed ha affogato i germogli popolari. Il borghesume è incompatibile col nostro carattere, e di ciò ringraziamo Iddio!
Dipende forse dalla nostra dissolutezza, dal difetto di posatezza morale e di un’attività definita, oppure dell’immaturità della nostra cultura o dal carattere aristocratico dell’educazione; comunque sia, nella vita noi siamo più artisti da un lato, e dall’altro siamo assai più semplici degli uomini d’Occidente; non abbiamo le loro specializzazioni, ma in compenso siamo più versatili. Da noi ci s’imbatte di rado in personalità sviluppate, ma esse sono sviluppate rigogliosamente, in ogni direzione, senza spalliere né siepi. In Occidente la faccenda è assai diversa.
Anche con le persone più simpatiche c’è un momento in cui il discorso giunge a dei contrasti tali che non c’è più nulla di comune ed è impossibile far opera di persuasione. Di fronte a questa cocciuta persistenza, a questa involontaria incomprensione, ti sembra di picchiare la testa contro il limitare d’un mondo compiuto.
I nostri dissensi teoretici, al contrario, introducevano un interesse più vitale, il bisogno d’uno scambio attivo, mantenevano gli spiriti più desti, spingevano innanzi; in quegli attriti noi ci accrescevamo l’uno dall’altro ed eravamo effettivamente più forti grazie a quel «composito» della cooperazione che Proudhon ha così ben definito parlando del lavoro meccanico.
Io mi soffermo con amore su quel tempo di lavoro affiatato, di forza piena e alta, di concorde procedere e di coraggiosa lotta; su quegli anni in cui fummo giovani per l’ultima volta!…
Il nostro piccolo gruppo si riuniva di frequente, ora dall’uno ora dall’altro, più spesso in casa mia. Insieme alle conversazioni, agli scherzi, alla cena e al vino si svolgeva un efficacissimo e rapidissimo scambio d’idee, di notizie, di cognizioni; ognuno riferiva quel che aveva letto e sentito, le discussioni generalizzavano le vedute e ciò che il singolo aveva elaborato diveniva patrimonio di tutti. In nessun campo del sapere, in nessuna letteratura, in nessun’arte vi erano manifestazioni significative che non capitassero sott’occhio a qualcuno di noi e non fossero subito trasmesse a tutti gli altri.
Ma era per l’appunto il carattere delle nostre riunioni che i pedanti ottusi ed i pesanti maestrucoli non comprendevano. Essi vedevano la carne e le bottiglie, ma non vedevano altro. Far baldoria si addice alla pienezza di vita, gli uomini sobrii sono di solito gente arida ed egoista. Noi non eravamo dei frati, vivevamo tutti i lati della vita, e sedendo a tavola progredivamo ed operavamo non meno di quei lavoratori da quaresima che zappano il cortile di servizio della scienza. Come se fosse oggi vedo tutta la tavolata, vedo B. che strizza gli occhietti, già di per sé cinesi, e disserta filosoficamente sul godimento panteistico di mangiare un tacchino coi tartufi e di ascoltare Beethoven.
Io non lascerò offendere né voi, amici miei, né quel tempo sereno e magnifico; ripenso ad esso più che con affetto, direi quasi con invidia. Noi non eravamo simili ai monaci emaciati dello Zurbaran, non piangevamo sui peccati di questo mondo, simpatizzavano soltanto con le sue sofferenze e, con un sorriso, eravamo pronti a tutto, senza rattristare gli altri col pregustare il nostro futuro sacrificio. I penitenti eternamente aggrondati mi riescono sempre sospetti; se non fingono, vuol dire che hanno il cervello o lo stomaco disturbato.
Hai ragione, amico, hai ragione…
Sì, hai ragione, Botkin, hai assai più ragione di Platone, tu che un giorno ci insegnasti non nei giardini né sotto i porticati, ma ad una tavolata di amici, che l’uomo può trovare un godimento panteistico contemplando la danza delle onde marine, come quella delle ragazze spagnole, ascoltando le romanze di Schubert come odorando il profumo del tacchino coi tartufi.
Non invano abbandonasti il tuo Morosejka, a Parigi imparasti a venerare l’arte culinaria e dalle sponde del Guadalquivir recasti la religione non dei piedini, soltanto, ma dei sublimi polpacci dispotici, soberana pantorrilla!…
Aleksandr Herzen
(Tratto da: Aleksandr Herzen, Passato e pensieri, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1970, pp. 35-39).
Inserito l’11/02/2024.
Paolo Volponi (1924- 1994).
Fonte della foto: https://www.latinacittaaperta.info/2022/04/22/poesie-a-margine-da-poesie-giovanili-di-paolo-volponi/
Dal sito «naufraghi.ch»
di Paolo Di Stefano
La scrittura furiosa e dissonante di un grande autore del Novecento, ad un secolo dalla nascita.
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Ricordando Paolo Volponi
La scrittura furiosa e dissonante di un grande autore del Novecento, ad un secolo dalla nascita
di Paolo Di Stefano
Sono passati quasi trent’anni dalla morte di Paolo Volponi, sono cent’anni dalla sua nascita il 6 febbraio, e più corre il tempo più sembra incredibile che sia potuto esistere uno scrittore capace di pubblicare, tra il 1962 e il 1991, romanzi come Memoriale, Corporale, Sipario ducale, Le mosche del capitale e infine La strada per Roma. Di scriverli trovando più di un lettore capace di lasciarsi trascinare dall’impetuoso coraggio sperimentale e utopico dell’autore. Mettete un libro che comincia così: «Il mio pensiero e la mia materia, le lacerazioni che si producono all’interno, nel tracciato della mia macchina e nell’accensione dei diversi commutatori, mi tengono anche vicino alle cose e ai fatti che camminano intorno a me, nella mia casa e nella mia campagna e in questo pezzo di terra marchigiana dalla parte dell’Appennino, che viene chiamato la parrocchia di San Savino». È l’incipit de La macchina mondiale, il secondo libro di Volponi, uscito nel 1965. Dove il giovane contadino Anteo Crocioni è un visionario che immagina il mondo come smisurato organismo meccanico dai confini inconoscibili.
Sembra di essere dentro una distopia filmata da Kubrick: che sarà mai quella macchina e di che commutatori si sta parlando? E di quali lacerazioni? Sono squarci interiori della coscienza? E cosa sono quelle cose e quei fatti dotati di gambe? Quei misteriosi fatti animati che ci camminano intorno? Bastano poche righe per capire che ci troviamo di fronte a uno scrittore «diverso», in cui coesistono varie spinte, naturali (intravediamo il suo paesaggio marchigiano) e irreali, realistiche e poetico-allucinatorie, meccanismi in apparenza materiali che diventano mostri del pensiero, ossessioni angosciose che incalzano da tutte le parti. In verità quelle opposte tensioni non convivono pacificamente: il carattere unico della prosa di Volponi è il suo farsi luogo di contrasto mentre racconta il contrasto, spazio dello scontro nel raccontare lo scontro: l’incarnazione in verbis del mondo e dei suoi rapporti di forza. Disse Volponi a proposito della Macchina: «Cominciando a scrivere questo libro, il mio pensiero, l’ingranaggio dei miei istinti, è toccato da tanti fatti vicini, reali e irreali, come da una polvere, anche se il mio disegno è di arrivare molto più avanti, lontano da me e dalle mie circostanze».
Un errore per difetto sarebbe, come spesso avviene, limitare Volponi al narratore politico della società industriale vissuta dall’interno come dirigente-intellettuale, per un ventennio a Ivrea a fianco di Adriano Olivetti e poi brevemente alla Fiat, da cui fu allontanato in seguito alle sue dichiarazioni in favore del Partito comunista. È vero che Volponi racconta con la forza di nessun altro l’alienazione della modernità capitalistica, ma dalla specola della fabbrica il suo discorso si apre all’umanità tout court, l’umanità nel suo rapporto con un potere cinico e solo apparentemente razionale. Il paradosso è che la possibilità di rivolta (coraggiosa e spesso fallimentare) è data a tanti suoi personaggi dalla patologia nevrotica e dal delirio, dalla loro potenzialità stravolgente e visionaria che li allontana dal sopruso dei simili e li avvicina alle cose e alla natura messe in scena come interlocutori attivi e umanizzati.
In questa prospettiva la letteratura, proponendosi a sua volta come dissonanza e deformazione, possiede una superiore capacità conoscitiva e dunque etica pur tenendosi sempre lontanissima da tentazioni didascaliche. Del resto, Volponi non ha mai voluto semplificare la complessità: la sua opera anzi si presenta spesso olimpicamente (forse anche provocatoriamente) avversa a ogni banalizzazione stilistica e sintattica, affronta il caos del mondo politico-industriale con una violenza espressiva che non fa sconti al lettore. Persino un libro come Il sipario ducale, che quando uscì nel 1975 apparve ai più come un romanzo «tradizionale» nel confronto con il caotico e paranoico flusso di coscienza joyciano-céliniano di Corporale (1974), all’orecchio del lettore di oggi, abituato a intrecci piani e linguaggi confortevoli spacciati per alta letteratura, può risultare «disturbante». Ambientato a Urbino, colloca nei giorni successivi all’esplosione di Piazza Fontana una storia parallela: quella di una coppia di anarchici antiunitari, il vecchio professor Subissoni e la sua compagna spagnola Vivés, magnifico personaggio femminile, e la grottesca vicenda di un giovane nobiluomo, gigante-bambino (bamboccione?) che aspira a diventare signore della città.
In quel doppio delirio in terza persona troviamo tutto Volponi, le tinte aspre della narrazione dirompente mescolate con la riflessione saggistica di carattere storico-civile, la satira, il sarcasmo, la farneticazione, l’indignazione e l’invettiva pasoliniana sulla televisione («quell’occhio-mente di Ciclope aperto sul tempo e sulla vita»), gli excursus nell’amata pittura cinque-secentesca (Bronzino su tutti), il gusto per gli elenchi, le aperture liriche (i «succhi dell’espressività poetica» che secondo Giovanni Raboni irrorano la prosa volponiana). E come d’abitudine, i tormenti psicologici e ideologici dei personaggi trovano conforto nella solidarietà della natura, degli animali, degli oggetti, nell’anima simbiotica delle cose, gli alberi che salutano, i bicchieri che guardano interrogativi, le porte che sorridono, la neve che consola.
Il coraggio dell’utopia è il titolo di un convegno che nel 1996 riunì a Urbino diversi amici e studiosi per fare il punto sul narratore, sul poeta (splendido libro è Con testo a fronte), sul saggista (collaborò anche per anni al «Corriere»), sull’uomo d’industria e sul politico che nel 1983 fu eletto senatore nelle file del Pci e nel 1991 ha aderito al movimento di Rifondazione comunista. Come scrisse Massimo Raffaeli, presentando il volume che raccoglieva quegli interventi, si voleva riassumere, con quelle due parole, una personalità complessa e in parte anche indecifrabile: «il coraggio di una vocazione che poteva tradurre l’etica in rigorose istanze civili e l’utopia di chi leggendo i conflitti della realtà nazionale sapeva poi mutarli in istanze incandescenti, in occasioni di dibattito e proposta».
Uno degli apici della letteratura del secolo scorso è Le mosche del capitale (1989), che affronta la parabola (autobiografica) di Bruno Saraccini, un dirigente industriale democratico che si batte contro l’ottusità degli uomini di potere (le «mosche» del titolo): il libro suscitò polemiche, quasi si trattasse di un pamphlet sull’attualità, ma come sempre in Volponi lo sguardo feroce contro la contemporaneità stringente diventa, per forza di stile, di contaminazione e di furore espressionistico (intriso di furore ideologico), allegoria di un fallimento ben più ampio, il naufragio di un’idea di società civile fondata sull’eguaglianza della polis, sul lavoro, sull’armonia con l’ambiente. Un umanesimo laborioso uscito sconfitto invece dall’irruzione della tecnica computeristica e dell’intelligenza artificiale che non libera l’essere umano ma lo rende ancora più schiavo e alienato.
A proposito di incipit. Al lettore resistente si consiglia di aprire Le mosche del capitale e mettersi alle spalle di Sarracini per guardare dall’alto, con lui, la collina della grande città industriale. Ecco cosa vedrà in quella notte di febbraio senza luna, serena e piena di fantasmi:
«Dormono tutti o quasi, e anche coloro che sono svegli giacciono smemorati e persi: fermi uomini animali edifici; perfino le vie i quartieri i prati in fondo, le ultime periferie ancora fuori della città, i campi agricoli intorno ai fossati e alle sponde del fiume; anche il fiume da quella parte è invisibile, coperto dalla notte se non dal sonno. Buie anche le grandi antenne delle radiocomunicazioni e dei radar della collina. È un rumore del sonno quello di un tram notturno che striscia tra gli edifici del centro. Gli uomini le famiglie i custodi i soldati le guardie gli ufficiali gli studenti dormono, ma dormono anche gli operai: e non si sentono nemmeno quelli dei turni di notte, nemmeno quelli dei turni di guardia di ronda tra le schiere dei reparti o sotto le volte dei magazzini. Quasi tutti dormono sotto l’effetto del Valium, del Tavor e del Roipnol.
Ma dormono anche gli impianti, i forni, le condutture, dormono i nastri trasportatori delle scale mobili che depositano le pozioni chimiche nelle vasche della verniciatura o nei lavelli delle tempere. Dorme la stazione ferroviaria, dormono anche le farmacie notturne, le porte e le anticamere del pronto soccorso, dormono le banche: gli sportelli le scrivanie i cassetti le poste pneumatiche le grandi casseforti i locali blindati; dormono l’oro l’argento i titoli industriali; dormono le cambiali i certificati mobiliari i buoni del tesoro. Dormono i garzoni con le mani sul grembiule o dentro i sacchi di segatura. Dormono le prostitute i ladri gli sfruttatori le bande organizzate, i sardi e i calabresi; dormono i preti i poeti gli editori i giornalisti, dormono gli intellettuali; quanto caffè, alcool, fumo tra quelle ore. E mentre tutti dormono il valore aumenta, si accumula secondo per secondo all’aperto o dentro gli edifici.
Dormono i calcolatori, ma non perdono il conto nei loro programmi. È un problema di ordine, efficienza, produzione».
Tanti i motivi per leggere e rileggere Volponi, per amare uno dei grandi narratori-poeti-trasfiguratori-fustigatori della modernità.
Paolo Di Stefano
(Tratto da: Paolo Di Stefano, Ricordando Paolo Volponi, in: https://naufraghi.ch/ricordando-paolo-volponi/).
Inserito il 06/02/2024.
Franco Fortini (1917-1994).
Fonte della foto: https://fortini.unil.ch/
Presentiamo L’internazionale di Franco Fortini, nella versione che il poeta rielaborò nel 1994, poco prima di morire.
Noi siamo gli ultimi del mondo.
Ma questo mondo non ci avrà.
Noi lo distruggeremo a fondo.
Spezzeremo la società.
Nelle fabbriche il capitale
come macchine ci usò.
Nelle scuole la morale
di chi comanda ci insegnò…
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L’internazionale
Noi siamo gli ultimi del mondo.
Ma questo mondo non ci avrà.
Noi lo distruggeremo a fondo.
Spezzeremo la società.
Nelle fabbriche il capitale
come macchine ci usò.
Nelle scuole la morale
di chi comanda ci insegnò.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l’Internazionale
un’altra umanità.
Questa lotta che uguale
l’uomo all’uomo farà,
è l’Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
Noi siamo gli ultimi di un tempo
che nel suo male sparirà.
Qui l’avvenire è già presente
chi ha compagni non morirà.
Al profitto e al suo volere
tutto l’uomo si tradì,
ma la Comune avrà il potere.
Dov’era il no faremo il sì.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l’Internazionale
un’altra umanità.
Questa lotta che uguale
l’uomo all’uomo farà,
è l’Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
E tra di noi divideremo
lavoro, amore, libertà.
E insieme ci riprenderemo
la parola e la verità.
Guarda in viso, tienili a memoria
chi ci uccise, chi mentì.
Compagno, porta la tua storia
alla certezza che ci unì.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l’Internazionale
un’altra umanità.
Questa lotta che uguale
l’uomo all’uomo farà,
è l’Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
Noi non vogliam sperare niente,
il nostro sogno è la realtà.
Da continente a continente
questa terra ci basterà.
Classi e secoli ci han straziato
fra chi sfruttava e chi servì:
compagno, esci dal passato
verso il compagno che ne uscì.
Questo pugno che sale
questo canto che va
è l’Internazionale
un’altra umanità.
Questa lotta che uguale
l’uomo all’uomo farà,
è l’Internazionale.
Fu vinta e vincerà.
Franco Fortini
Hasan Atiya Al Nassar (1954-2017).
Autore della foto: Derno Ricci (2001).
Fonte della foto: http://www.lamacchinasognante.com/wp-content/uploads/2019/09/Foto-Hasan.jpg
A quel tempo Hasan era sempre con noi, a Lettere, in piazza Brunelleschi: faceva parte del collettivo Studenti di sinistra, era stato anche eletto come rappresentante studentesco nel consiglio di Facoltà. Lo vedevi entrare nel chiostro sempre con il suo zaino in spalla, uno zaino pieno di libri e fotocopie, riviste e giornali, un vaso di Pandora da cui tirava fuori ogni giorno qualcosa di nuovo e di inedito, versi che rievocavano terre lontane, mesopotamiche, dolori remoti e futuri, composti di guerre e distruzioni, un fratello assassinato dal regime di Saddam Hussein e l’esilio forzato in questa Firenze che lo aveva accolto come un figlio, da padre Ernesto Balducci a tutti noi che gli volevamo bene. E lui dispensava sorrisi, intrisi di tristezza, certo, ma sorrisi veri. Poi è andata come è andata, ora non c’è più, scomparso qualche Natale fa, ma c’è ancora, per noi tanti che gli vogliamo bene.
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Rovina
Rovina al Nord
Rovina al Sud:
è la Morte che entra
segretamente
nelle vesti del desiderio,
è l’ombra che cresce
ribelle…
Il regno dei morti
si muove verso una valle
luminosa,
così la Rivolta
si affratella alla Virtù
e la povertà al bastone.
Adesso è arrivata
la quiete
ad uccidere il sogno
dei giorni affamati;
era l’ultimo
battito che gridava
nel sangue
(Voglio una Patria, voglio
un albero sotto al quale
possano distendersi gli
uomini randagi).
Hasan Atiya Al Nassar
(Tratto da: Hasan Atiya Al Nassar, Roghi sull’acqua babilonese, Firenze, Edizioni DEA, 2003, p. 20).
Inserito il 25/12/2023.
di Mahmoud Darwish
Mahmoud Darwish (1941-2008) nacque in Alta Galilea, nel villaggio di Al-Birwa, distrutto nel 1948 durante la prima guerra arabo-israeliana. La sua famiglia cercò rifugio in Libano e un anno dopo riuscì a rientrare clandestinamente nella propria terra, che però trovò confiscata e annessa allo Stato d’Israele. Il piccolo Mahmoud così fin da bambino si ritrovò a vivere nella propria terra come “ospite illegale”.
In gioventù fu più volte arrestato per la sua condizione di clandestino ma anche per letture pubbliche di poesie considerate sovversive dallo Stato d’Israele. Trasferitosi ad Haifa, a 19 anni si iscrisse all’Università, ma non riuscì a terminare gli studi per i continui arresti. Sempre a 19 anni pubblicò la sua prima raccolta di poesie, significativamente intitolata Uccelli senza ali. A metà anni Sessanta entrò nel Partito Comunista di Israele.
Nel 1970 andò a studiare in Unione Sovietica, all’Università Statale di Mosca, e poi si trasferì in Egitto. Essendo nel frattempo divenuto membro dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, lo Stato d’Israele gli negò il diritto di far ritorno sul suolo patrio. Cominciò così una vita che lo vide in esilio tra Il Cairo, Beirut, Amman, Tunisi, Cipro, Parigi…
Nel 1983 ricevé a Mosca il Premio internazionale Lenin “Per il consolidamento della pace tra i popoli”, l’alternativa sovietica al Premio Nobel per la Pace.
Nell’ambito dell’OLP assunse spesso posizioni molto dure, tanto da dimettersi dal Comitato Esecutivo nel 1993 in dissenso con Yasser Arafat che aveva firmato gli accordi di Oslo con Israele.
Eletto nel Consiglio legislativo palestinese dei Territori occupati, nel 2007 condannò con forza gli scontri tra le organizzazioni politiche Al-Fatah (parte integrante dell’OLP) e Hamas, vedendo come una sconfitta la divisione del popolo palestinese, indebolito di fronte alla potenza oppressiva dello Stato d’Israele.
Nel 2008 si spense negli Stati Uniti dopo un’operazione al cuore. Il suo corpo venne in seguito trasferito a Ramallah. È stato il solo palestinese a cui l’Autorità Nazionale di Palestina ha tributato i funerali di Stato dopo Arafat.
La poesia che presentiamo, Carta d’identità, può aiutare a far capire il punto di vista degli oppressi e dei senza patria in questa drammatica fase storica delle terre di Palestina.
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Carta d’identità
Ricordate!
Sono un arabo
E la mia carta d’identità è la numero cinquantamila
Ho otto bambini
E il nono arriverà dopo l’estate.
V’irriterete?
Ricordate!
Sono un arabo,
impiegato con gli operai nella cava
Ho otto bambini
Dalle rocce
Ricavo il pane,
I vestiti e I libri.
Non chiedo la carità alle vostre porte
Né mi umilio ai gradini della vostra camera
Perciò, sarete irritati?
Ricordate!
Sono un arabo,
Ho un nome senza titoli
E resto paziente nella terra
La cui gente è irritata.
Le mie radici
furono usurpate prima della nascita del tempo
prima dell’apertura delle ere
prima dei pini, e degli alberi d’olivo
E prima che crescesse l’erba.
Mio padre… viene dalla stirpe dell’aratro,
Non da un ceto privilegiato
e mio nonno, era un contadino
né ben cresciuto, né ben nato!
Mi ha insegnato l’orgoglio del sole
prima di insegnarmi a leggere,
e la mia casa è come la guardiola di un sorvegliante
fatta di vimini e paglia:
siete soddisfatti del mio stato?
Ho un nome senza titolo!
Ricordate!
Sono un arabo.
E voi avete rubato gli orti dei miei antenati
E la terra che coltivavo
Insieme ai miei figli,
Senza lasciarci nulla
se non queste rocce,
E lo Stato prenderà anche queste,
Come si mormora.
Perciò!
Segnatelo in cima alla vostra prima pagina:
Non odio la gente
Né ho mai abusato di alcuno
ma se divento affamato
La carne dell’usurpatore diverrà il mio cibo.
Attenzione...Guardatevi!
dalla mia collera
E dalla mia fame!
Mahmoud Darwish
(Tratto da: http://oggipalestina.blogspot.com/p/poesie-di.html).
Inserito il 19/10/2023.
Yasser Arafat, Mahmoud Darwish, George Habash (Siria, 1980).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/6/68/Arafat_Darwish_Habash.jpg
Fonte dell’immagine: https://admiraldom.com/blog/pervaya-oborona-sevastopolya
Pagine di letteratura
di Lev Tolstoj
Nelle pagine che presentiamo, tratte dal secondo dei Racconti di Sebastopoli, possiamo percepire da vicino il dramma dell’attesa della morte da parte di due ufficiali che vengono raggiunti da un colpo di mortaio. E come la morte, il caso, il destino o chissà cos’altro ancora sceglie chi deve fermarsi e chi può andare avanti nella battaglia e nella vita… Pagine di alta letteratura, pagine di Lev Nikolaevič Tolstoj.
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Vita e morte nel dramma della guerra
Un brano dai Racconti di Sebastopoli di Lev Tolstoj
Quando, nel 1853, scoppiò la guerra di Crimea, che vide schierate Turchia, Francia, Inghilterra e Piemonte contro la Russia, il venticinquenne conte Lev Nikolaevič Tolstoj si trovava in servizio militare con il fratello Nikolaj nel Caucaso, dove l’esercito imperiale era impegnato a conquistare quei territori montuosi contro le popolazioni locali decise a difendere le proprie terre.
A quel tempo aveva già pubblicato alcuni racconti che lo fecero individuare come una promessa della letteratura russa. Chiese, insistendo, di essere trasferito nelle zone della prima guerra europea moderna, e col grado di sottotenente arrivò prima nella Bucarest occupata dai russi, poi, nel novembre 1954, a Sebastopoli, assediata dalle truppe e dalla flotta degli Alleati occidentali della Turchia.
I suoi diari si riempirono di appunti, descrizioni, racconti di soldati e ufficiali.
La città, dopo un’eroica difesa, cadde il 9 settembre 1855, e nella sconfitta dell’Impero zarista ebbero un ruolo non secondario le armi avanzate degli eserciti occidentali, come i fucili a retrocarica che i francesi avevano e i russi no: la presa di Sebastopoli costò alla Francia 95.000 uomini, all’Inghilterra 20.000, al Piemonte 2.000, e dall’altra parte furono 110.000 i militari persi dalla Russia.
Ritiratosi da Sebastopoli insieme alle truppe russe e con tre medaglie sul petto (Ordine di Sant’Anna, Difesa di Sebastopoli e Guerra 1853-1856), Tolstoj si rivelò essere, in pratica, il primo corrispondente di guerra della Russia: infatti, tra la fine 1855 e il 1856, egli pubblicò sulla rivista «Sovremennik» («Il Contemporaneo») i suoi tre Racconti di Sebastopoli, riuniti in seguito in un volume. In essi parlò di vita e di morte, descrisse luoghi e soldati, destini e sogni di nobili e plebei, ma soprattutto si dedicò all’analisi psicologica degli uomini impegnati in un’attività che egli cominciò, da quel momento, ad avversare visceralmente; proprio da questi racconti iniziò il percorso spirituale che lo avrebbe portato in seguito a elaborare le sue teorie sulla “non resistenza al male mediante la violenza”, sul ripudio della guerra vista come una follia umana da guarire mediante l’amore. Egli fu, infatti, un vero precursore della teoria della non violenza, e proprio a lui si sarebbe in seguito ispirato il Mahatma Gandhi.
Nelle pagine che presentiamo, tratte dal secondo racconto, Sebastopoli nel maggio dell’anno 1855, possiamo percepire da vicino il dramma dell’attesa della morte da parte di due ufficiali che vengono raggiunti da un colpo di mortaio. E come la morte, il caso, il destino o chissà cos’altro ancora sceglie chi deve fermarsi e chi può andare avanti nella battaglia e nella vita… Pagine di alta letteratura, pagine di Lev Tolstoj.
Sebastopoli nel maggio dell’anno 1855
[…] Appena Praskuchin, che camminava a fianco di Michajlov, si era separato da Kalugin e, avvicinandosi a un luogo meno pericoloso, già cominciava a sentirsi rivivere, aveva veduto un lampo brillare vivido dietro di lui e udito il grido di una sentinella: «Mortaio!», e le parole di uno dei soldati che camminavano dietro: «Viene giù proprio sul bastione!».
Michajlov si era voltato a guardare. Il punto luminoso della bomba sembrava si fosse fermato allo zenit e in una posizione tale che non si poteva assolutamente prevederne la direzione ulteriore. Ma questo durò solo un istante: la bomba con velocità crescente, e avvicinandosi sempre più, tanto che si vedevan già le scintille del tubo e si udiva il sibilo fatale, scendeva direttamente in mezzo al battaglione.
– A terra! – gridò una voce.
Michajlov e Praskuchin si gettarono a terra. Praskuchin, socchiudendo gli occhi, udì soltanto che la bomba aveva picchiato sulla terra dura, in un punto molto vicino. Passò un secondo che parve un’ora: la bomba non scoppiava. Praskuchin si spaventò al pensiero di essersi forse dimostrato pauroso per nulla: forse la bomba era caduta lontano e gli era parso soltanto di udirne il fischio lì presso. Aperse gli occhi e vide con piacere che Michajlov giaceva immobile sul terreno, proprio vicino ai suoi piedi. Ma a questo punto i suoi occhi s’incontrarono per un attimo col tubo luminoso della bomba che girava rapidamente alla distanza di un aršin1 da lui.
Un terrore freddo, un terrore che escludeva ogni altro pensiero e sentimento, s’impadroni di tutto il suo essere. Egli si coperse il volto con le mani.
Passò ancora un secondo: un secondo durante il quale tutto un mondo di sentimenti, di pensieri, di speranze e di ricordi balenò nella sua mente.
«Chi ucciderà: me o Michajlov, o tutti e due insieme? E se ucciderà me, dove mi colpirà? Se al capo, allora sarà tutto finito; ma se in una gamba, me la taglieranno, e io chiederò che mi diano assolutamente il cloroformio; e potrò ancora rimaner vivo. Ma forse ucciderà soltanto Michajlov: allora racconterò che camminavamo insieme, che l’hanno ucciso e mi ha spruzzato di sangue. No, è più vicino a me… ucciderà me!».
Allora si ricordò dei dodici rubli che doveva a Michajlov, si ricordò anche di un altro debito contratto a Pietroburgo che da un pezzo avrebbe dovuto pagare; il motivo zigano che aveva cantato la sera prima gli venne in mente. Una donna che aveva amato gli apparve nella fantasia con una cuffia ornata di nastri lilla; un uomo da cui era stato offeso cinque anni addietro, e al quale non aveva fatto pagare l’offesa, gli tornò alla memoria, sebbene, insieme e indissolubilmente unito con questo e con mille altri ricordi, il pensiero della realtà – l’attesa della morte – non lo abbandonasse un istante. «Del resto, può darsi che non scoppi», pensò, e con disperata risolutezza voleva aprire gli occhi. Ma in quell’istante, ancora attraverso le palpebre chiuse, i suoi occhi furono colpiti da una fiammata rossa; con uno schianto terribile qualche cosa lo urtò in mezzo al petto; egli corse via senza saper dove, inciampò nella sciabola che gli era venuta tra i piedi e cadde su un fanco.
«Dio sia lodato! Sono soltanto contuso», fu il suo primo pensiero, e voleva toccarsi il petto con le mani, ma le mani gli sembravano legate e una specie di morsa gli stringeva la testa. Nei suoi occhi balenavan dei soldati ed egli inconsciamente li contava. «Uno, due, tre soldati; ed ecco un ufficiale avvolto nel cappotto», pensava. Poi un lampo brillò nei suoi occhi, ed egli pensò con che arma avessero tirato: con un mortaio o con un cannone? Doveva essere stato con un cannone. Ed ecco, hanno ancora sparato; ecco ancora dei soldati: cinque, sei, sette soldati gli passavano sempre accanto. A un tratto ebbe paura che lo schiacciassero. Voleva gridare che era contuso; ma la bocca era così secca che la lingua gli si incollava al palato e una sete terribile lo tormentava. Sentiva qualche cosa di bagnato vicino al petto: questa sensazione di umido gli ricordava l’acqua e avrebbe perfin voluto bere quel liquido di cui era bagnato. «Certamente mi sono scorticato a sangue nel cadere», pensò e, cedendo sempre più alla paura che i soldati che continuavano a balenargli accanto lo schiacciassero, raccolse tutte le sue forze e volle gridare: «Portatemi via!», ma invece emise un gemito così orrendo che, nel sentirlo, provò paura. Poi dei fuochi rossi gli saltellarono negli occhi e gli parve che i soldati gli ponessero addosso delle pietre; i fuochi saltellavano sempre più radi e le pietre che gli ammucchiavano addosso lo schiacciavano sempre più. Fece uno sforzo per scostare quei sassi, si distese, e ormai non vedeva, non udiva, non pensava e non sentiva più. Era stato ucciso sul posto da una scheggia in mezzo al petto.
* * *
Michajlov, vedendo la bomba, si era gettato a terra al pari di Praskuchin, e pensò e sentì infinite cose nei due secondi che la bomba rimase a terra prima di scoppiare. Egli pregava mentalmente Dio e continuava a ripetere: «Sia fatta la Tua volontà! Ma perché ho preso servizio militare», pensava nello stesso tempo, «e sono anche passato in fanteria per prendere parte alla campagna? Non sarebbe stato meglio per me rimanere nel reggimento di ulani, nella città di T., e passare il tempo con la mia amica Nataša? Ed ecco ora quel che mi capita». E cominciò a contare: uno, due, tre, quattro, almanaccando che, se la bomba fosse scoppiata a un numero pari, egli sarebbe rimasto in vita, se a un numero dispari, sarebbe stato ucciso. «Tutto è finito: sono morto», pensò quando la bomba esplose (non si rese conto se fosse un numero pari o dispari), e sentì un colpo e un acuto dolore alla testa. «Signore, perdona i miei peccati!», proferì, giungendo le mani, si sollevò e cadde supino, privo di sensi.
La sua prima sensazione, quando rinvenne, fu quella del sangue che gli colava dal naso e del dolore alla testa, fattosi già molto più lieve. «È l’anima che se ne va», pensò. «Che ci sarà lassù? Signore, accogli in pace l’anima mia. È strano però», rifletté, «che, morendo, io oda così chiaramente i passi dei soldati e il rumore degli spari».
– Qua una barella… ehi!… hanno ucciso il comandante di compagnia! – gridò sul suo capo una voce che involontariamente egli riconobbe per quella del tamburino Ignat’ev.
Qualcuno lo prese per le spalle. Egli si provò ad aprir gli occhi e vide sulla sua testa il cielo azzurro cupo, gruppi di stelle e due bombe che volavano sopra di lui, inseguendosi a vicenda; vide Ignat’ev, soldati con barelle e fucili, lo scavo della trincea e a un tratto ebbe la certezza di non essere ancora all’altro mondo.
Era stato ferito leggermente al capo da una pietra. La sua prima impressione fu quasi di rimpianto: si era così bene e così tranquillamente preparato al suo passaggio nell’al di là che il ritorno alla realtà, con le bombe, le trincee e il sangue, gli produsse un effetto sgradevole; la seconda impressione fu di gioia incosciente per essere vivo, e la terza un desiderio di andarsene al più presto dal bastione. Il tamburino fasciò la testa del suo comandante con un fazzoletto e, presolo sotto braccio, lo condusse all’ambulanza. […]
Lev Nikolaevič Tolstoj
(Tratto da: Lev Nikolaevič Tolstoj, I racconti di Sebastopoli (traduzione di Giovanni Faccioli), Milano, RCS Rizzoli Libri, 1987, pp. 68-72).
Note
1 Misura russa corrispondente a 0,711 m.
Inserito il 01/10/2023.
Filippo Tommaso Marinetti (1876-1944) e Antonio Gramsci (1891-1937).
Il futurismo italiano ebbe un grande impatto sulla letteratura e sull’arte italiane degli anni 10 del Novecento. Esso non mancò di influenzare anche altre avanguardie europee, fra cui ovviamente i futuristi russi. Non è quindi un caso se due importanti interventi di Antonio Gramsci sul futurismo presero spunto dall’interesse suscitato in Russia dalle tesi provocatorie e innovative di Filippo Tommaso Marinetti, interesse dimostrato anche da parte di personalità eminenti della politica e della cultura rivoluzionaria, Anatolij Lunačarskij e Lev Trockij.
I due scritti di Gramsci che presentiamo sono: Marinetti rivoluzionario?, pubblicato non firmato su «L’Ordine Nuovo» del 5 gennaio 1921, e Una lettera a Lev Trockij sul futurismo italiano del 1922; il dirigente bolscevico si era rivolto al compagno del Partito Comunista d’Italia – allora a Mosca come membro del Comitato esecutivo dell’Internazionale Comunista – perché stava preparando una raccolta di scritti sul tema Letteratura e rivoluzione.
Nei due documenti Gramsci esprime, da un lato, una valutazione positiva del ruolo del futurismo per quanto riguarda la sua capacità di scardinare e distruggere dall’interno della borghesia le tradizioni accademiche in campo letterario e artistico: un ruolo che non esita a definire rivoluzionario, anche in senso marxista. Dall’altro lato, egli non manca di sottolineare gli aspetti fortemente reazionari in campo politico degli esponenti maggiori del futurismo italiano, interventisti nella Grande Guerra e confluiti in buona parte nel fascismo negli anni turbolenti del dopoguerra.
di Antonio Gramsci
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Marinetti rivoluzionario?
È avvenuto questo fatto inaudito, enorme, colossale, la cui divulgazione minaccia di annientare del tutto il prestigio e il credito dell’Internazionale comunista: a Mosca, durante il II Congresso, il compagno Lunaciarskij ha detto, in un suo discorso ai delegati italiani (discorso, si badi, pronunciato in italiano, anzi in un italiano correttissimo, cosa per cui ogni sospetto di dubbia interpretazione deve essere a priori scartato) che in Italia esiste un intellettuale rivoluzionario e che egli è Filippo Tommaso Marinetti. I filistei del movimento operaio sono oltremodo scandalizzati; è certo ormai che alle ingiurie di: «bergsoniani, volontaristi, pragmatisti, spiritualisti», si aggiungerà l’ingiuria più sanguinosa di «futuristi! Marinettiani»! Poiché una tale sorte ci attende, vediamo di elevarci fino all’autocoscienza di questa nuova nostra posizione intellettuale.
Molti gruppi di operai hanno visto simpaticamente (prima della guerra europea) il futurismo. Molto spesso è avvenuto (prima della guerra) che dei gruppi di operai difendessero i futuristi dalle aggressioni di cricche di «letterati» e di «artisti» di carriera. Fissato questo punto, fatta questa constatazione storica, viene spontanea la domanda: «In quest’atteggiamento degli operai era l’intuizione (eccoci all’intuizione: bergsoniani, bergsoniani!) di una necessità non soddisfatta nel campo proletario?». Dobbiamo rispondere: «Sì. La classe operaia rivoluzionaria aveva e ha la coscienza di dover fondare un nuovo Stato, di dover elaborare col suo tenace e paziente lavoro una nuova struttura economica, di dover fondare una nuova civiltà». È relativamente facile delineare, già fin d’oggi, la configurazione del nuovo Stato e della nuova struttura economica. Si è persuasi che in questo campo, assolutamente pratico, per un certo periodo di tempo non si potrà far altro che esercitare un potere ferreo sull’organizzazione esistente, sull’organizzazione costruita dalla borghesia: da questa persuasione nasce lo stimolo alla lotta per la conquista del potere e nasce la formula con cui Lenin ha caratterizzato lo Stato operaio: «Lo Stato operaio non può essere, per un certo tempo, altro che uno Stato borghese senza la borghesia»1.
Il campo della lotta per la creazione di una nuova civiltà è invece assolutamente misterioso, assolutamente caratterizzato dall’imprevedibile e dall’impensato. Una fabbrica, passata dal potere capitalista al potere operaio, continuerà a produrre le stesse cose materiali che oggi produce. Ma in qual modo e in quali forme nasceranno le opere di poesia, del dramma, del romanzo, della musica, della pittura, del costume, del linguaggio? Non è una fabbrica materiale quella che produce queste opere: essa non può essere riorganizzata da un potere operaio secondo un piano, non può esserne fissata la produzione per la soddisfazione di bisogni immediati controllabili e fissabili dalla statistica. In questo campo nulla è prevedibile che non sia questa ipotesi generale: esisterà una cultura (una civiltà) proletaria, totalmente diversa da quella borghese; anche in questo campo verranno spezzate le distinzioni di classe, verrà spezzato il carrierismo borghese; esisterà una poesia, un romanzo, un teatro, un costume, una lingua, una pittura, una musica caratteristici della civiltà proletaria, fioritura e ornamento dell’organizzazione sociale proletaria. Cosa resta a fare? Niente altro che distruggere la presente forma di civiltà. In questo campo «distruggere» non ha lo stesso significato che nel campo economico: distruggere non significa privare l’umanità di prodotti materiali necessari alla sua sussistenza e al suo sviluppo; significa distruggere gerarchie spirituali, pregiudizi, idoli, tradizioni irrigidite, significa non aver paura delle novità e delle audacie, non aver paura dei mostri, non credere che il mondo caschi se un operaio fa errori di grammatica, se una poesia zoppica, se un quadro assomiglia a un cartellone, se la gioventù fa tanto di naso alla senilità accademica e rimbambita. I futuristi hanno svolto questo compito nel campo della cultura borghese: hanno distrutto, distrutto, distrutto, senza preoccuparsi se le nuove creazioni, prodotte dalla loro attività, fossero nel complesso un’opera superiore a quella distrutta: hanno avuto fiducia in se stessi, nella foga delle energie giovani, hanno avuto la concezione netta e chiara che l’epoca nostra, l’epoca della grande industria, della grande città operaia, della vita intensa e tumultuosa, doveva avere nuove forme di arte, di filosofia, di costume, di linguaggio: hanno avuto questa concezione nettamente rivoluzionaria, assolutamente marxista, quando i socialisti non si occupavano neppure lontanamente di simile questione, quando i socialisti certamente non avevano una concezione altrettanto precisa nel campo della politica e dell’economia, quando i socialisti si sarebbero spaventati (e si vede dallo spavento attuale di molti di essi) al pensiero che bisognava spezzare la macchina del potere borghese nello Stato e nella fabbrica. I futuristi, nel loro campo, nel campo della cultura, sono rivoluzionari; in questo campo, come opera creativa, è probabile che la classe operaia non riuscirà per molto tempo a fare di più di quanto hanno fatto i futuristi: quando sostenevano i futuristi, i gruppi di operai dimostravano di non spaventarsi della distruzione, sicuri di potere, essi operai, fare poesia, pittura, dramma, come i futuristi; questi operai sostenevano la storicità, la possibilità di una cultura proletaria, creata dagli operai stessi.
Antonio Gramsci*
* Articolo non firmato, ma di Antonio Gramsci, in «L’Ordine Nuovo», 5 gennaio 1921.
(Tratto da: Antonio Gramsci, Scritti politici (a cura di Paolo Spriano), Roma, Editori Riuniti, 1967 (III ed. 1979), pp. 395-397).
Note
1 Cfr. Stato e rivoluzione, in Lenin, Opere scelte, Roma, 1965, p. 928.
Inserito il 19/09/2023.
di Antonio Gramsci
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Da una lettera di Lev Trockij a Gramsci
«Caro compagno, non potrebbe comunicarmi qual è il ruolo del Futurismo in Italia? Quale fu la posizione di Marinetti e della sua scuola durante la guerra? Quale è la loro posizione adesso? Si è conservato il gruppo di Marinetti? Qual è il suo [di Gramsci, ndr] atteggiamento verso il futurismo? Quale l’atteggiamento di D’Annunzio…?».
(Da una lettera di Lev Trockij a Gramsci del 30 agosto 1922).
Una lettera del compagno Gramsci sul futurismo italiano
Ecco le risposte alle domande che Lei mi ha posto sul movimento futurista italiano.
Il movimento futurista in Italia dopo la guerra ha perso completamente le sue proprietà caratteristiche. Marinetti presta scarsissima attività al movimento. Si è sposato e preferisce consacrare la sua energia alla moglie. Attualmente al movimento futurista prendono parte monarchici, comunisti, repubblicani, fascisti. A Milano è stato fondato di recente un settimanale politico dal titolo «Il Principe», il quale sostiene o cerca di sostenere le stesse teorie che predicava per l’Italia Machiavelli nel Cinquecento, cioè che la lotta che divide i partiti locali e porta la nazione al caos può essere eliminata da un monarca assoluto, da un nuovo Cesare Borgia, che decapiti tutti i dirigenti dei partiti in lotta. La rivista è diretta da due futuristi: Bruno Corra e Enrico Settimelli. Marinetti, benché nel 1920 sia stato arrestato a Roma durante una manifestazione patriottica per un discorso assai energico contro il re, collabora a questo settimanale.
Gli elementi più significativi del futurismo del periodo prebellico si sono trasformati in fascisti, ad eccezione di Giovanni Papini, il quale è diventato cattolico e ha scritto una storia di Cristo. Durante la guerra i futuristi sono stati i più tenaci banditori della «guerra fino alla vittoria finale» e dell’imperialismo. Soltanto un fascista, Aldo Palazzeschi, si è dichiarato contro la guerra. Egli ha rotto col movimento e, pur essendo uno degli scrittori più interessanti, ha finito per tacere come letterato. Marinetti, che nell’insieme ha sempre esaltato la guerra, ha pubblicato un manifesto nel quale vuole dimostrare che la guerra è l’unico mezzo per l’igiene del mondo. Egli ha preso parte alla guerra come capitano di un reparto di autoblindo, e il suo ultimo libro L’alcova d’acciaio è un inno entusiasta alle autoblindo in guerra. Marinetti ha scritto un opuscolo Oltre il comunismo, nel quale espone le proprie dottrine politiche, se si possono chiamare dottrine le fantasie di quest’uomo, talora ingegnose, strane sempre. Prima della mia partenza la Sezione torinese del Proletkul’t ha invitato Marinetti a una mostra della pittura futurista perché all’inaugurazione ne spiegasse il significato agli operai membri dell’organizzazione. Marinetti ha accettato di buon grado l’invito e, dopo aver visitato la mostra con gli operai, ha espresso la sua soddisfazione per essersi potuto convincere che in fatto d’arte futurista gli operai hanno molta più sensibilità della borghesia. Prima della guerra il futurismo era molto popolare tra gli operai. La rivista «Lacerba», che tirava ventimila copie, per i quattro quinti era diffusa tra gli operai. Durante le numerose manifestazioni d’arte futurista, nei teatri delle maggiori città italiane gli operai prendevano le difese dei futuristi contro i giovani – semiaristocrazia e borghesia – che si azzuffavano con loro.
Il gruppo futurista di Marinetti non esiste più. La vecchia rivista di Marinetti «Poesia» è ora diretta da un certo Mario Dessy, un uomo senza alcun significato intellettuale e organizzativo. Nell’Italia meridionale, soprattutto in Sicilia, escono numerose rivistine futuriste, alle quali Marinetti invia articoli; ma si tratta di riviste edite da studentucoli, che scambiano l’ignoranza della grammatica italiana per futurismo. La cellula più forte tra i futuristi è quella dei pittori. A Roma esiste una galleria permanente di pittura futurista, organizzata da un fotografo fallito, un certo Anton Giulio Bragaglia, agente cinematografico e impresario teatrale. Tra i pittori futuristi il più noto è Giorgio1 Balla. D’Annunzio pubblicamente non ha mai preso posizione sul futurismo. Bisogna tener presente che il futurismo, alla sua nascita, aveva uno spiccato carattere antidannunziano: uno dei primi libri di Marinetti recava il titolo Les dieux s’en vont, et d’Annunzio reste. Benché durante la guerra i programmi politici di Marinetti e D’Annunzio coincidessero in tutto, i futuristi sono rimasti antidannunziani. Essi non hanno mostrato quasi alcun interesse per il movimento di Fiume, benché più tardi abbiano preso parte alle dimostrazioni.
Si può dire che dopo la conclusione della pace il movimento futurista ha perso completamente la sua immagine caratteristica e si è disperso nelle varie correnti, che si sono create e organizzate dopo la svolta dell’epoca della guerra. I giovani intellettuali sono diventati quasi tutti reazionari. Gli operai, che nel futurismo vedevano gli elementi di una lotta contro la vecchia cultura accademica italiana immobile e lontana dalle masse popolari, adesso devono lottare con le armi in pugno per la propria libertà e poco s’interessano delle vecchie polemiche. Nei grandi centri industriali il programma del Proletkul’t, che mira a risvegliare lo spirito creativo degli operai nel campo della letteratura e dell’arte, assorbe l’energia di chi ha ancora la voglia e il tempo di occuparsi di questi problemi.
Mosca, 8 settembre 1922
Antonio Gramsci
(Tratto da: Lev Trockij, Letteratura e rivoluzione, Torino, Einaudi, 1973, pp. 141-143).
Note
1 Nell’originale «Giogio». Evidente errore: il nome di Balla è Giacomo.
Inserito il 19/09/2023.
La figura dello scrittore rivoluzionario tedesco Franz Jung viene indagata in un saggio della nostra amica Monica Lumachi (Rivolta e disincanto. Franz Jung e l’avanguardia tedesca, Roma, Editoriale Artemide, 2011), che gentilmente ci concede la possibilità di riprodurre alcune parti.
«Il nome di Franz Jung (1888-1963), rivoluzionario, scrittore, drammaturgo, giornalista e saggista, anzi Pamphletist, come egli si definisce, è poco noto in Italia, nonostante la sua parabola intellettuale all’insegna della rivolta non abbia mancato fino a oggi di catturare l’interesse di artisti e intellettuali soprattutto in Germania» (dalla quarta di copertina del volume).
Effettivamente Franz Jung è talmente ignorato in Italia che ad oggi (agosto 2023) non si è meritato nemmeno una voce sulla versione italiana di Wikipedia; ecco allora che il saggio di Lumachi acquista ancora più valore, perché contribuisce a gettare luce su un autore e sulle vicende letterarie di un periodo cruciale per la storia della Germania: gli anni della Prima guerra mondiale e quelli successivi, caratterizzati dal sorgere delle avanguardie artistiche e dalla crescita dello spirito di rivolta, che conduce all’insurrezione spartachista e alla sua repressione da parte della neonata Repubblica di Weimar.
Dunque Jung tra letteratura e impegno politico: in quel decennio egli fu prima espressionista, poi dadaista, poi scrittore proletario (proprio sull’onda di quel Proletkul’t sovietico teorizzato dal filosofo marxista “eretico” Aleksandr Bogdanov, cui dedicheremo altri articoli), e per la militanza attiva nelle file comuniste godette in varie occasioni e per più mesi dell’ospitalità delle patrie galere.
Riproduciamo, dal prezioso volume di Monica Lumachi, il secondo capitolo, dedicato al rapporto di Jung con il dadaismo tedesco, e l’inizio del terzo, nel quale si affronta la breve ma intensa stagione di produzione letteraria militante e agit-prop.
L.C.
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Franz Jung fra Dada e Spartakus
di Monica Lumachi
Prima parte
«Fuori i coltelli!». La stagione dadaista
Gli anni che vedono la fine del [primo] conflitto mondiale e la breve parentesi rivoluzionaria segnano anche, come noto, la breve esperienza del movimento dada in Germania, che si distingue per una tendenza più strettamente politico-sociale rispetto alle istanze estetico-filosofiche del cabaret zurighese animato da Hugo Ball. Nel passaggio dall’oasi cosmopolita e pacifista svizzera alla capitale guglielmina il fenomeno dada segna infatti una ripresa intensificata delle battaglia contro il deutscher Spießer, il borghese benpensante, e la sua estetica filistea, così come riassunto nel pamphlet di Raoul Hausmann Il borghesuccio tedesco si arrabbia [Der deutsche Spießer ärgert sich]. Il dissenso nei confronti di un’arte borghese si estende però adesso anche al suo côté impegnato, ovvero alla letteratura umanitaristica degli esponenti di una Gesinnungsästhetik [visione estetica] fiduciosa nella forza della parola portatrice di verità contro la retorica nazionalista e guerrafondaia. L’eloquenza ironica del carnevale verbale dadaista si pone in effetti al di fuori di questo orizzonte: i coltivatori del nonsense ribadiscono piuttosto il messaggio nietzscheano della morte di Dio, la fine di ogni “senso”, il vuoto che risuona dagli involucri dei “valori” e delle forme e la mancanza di fondamenti, l’abisso che si spalanca all’uomo dall’esercizio spietato della conoscenza. Negativismo, dunque, e dilettantismo antisublime distinguono il dadaismo come pura prassi della «fabbricazione del nulla»1.
A uno sguardo più ravvicinato, peraltro, il movimento dadaista in Germania si rivela come una somma di personalità, di schieramenti e di realizzazioni eterogenee. Inoltre è da considerare il fatto che dada viene introdotto a Berlino con un’operazione che, per riprendere un paragone di Luigi forte, si profila come «un intervento di chirurgia estetica per ringiovanire il movimento»2. Un intervento in cui è insito il rischio che l’attentato demistificatore al cuore delle forme artistiche e delle strutture ideologiche (a cominciare dal linguaggio) si imbalsami a sua volta in gesto esteriore.
Tutto ciò è da tenere presente nel valutare la breve ma immediata recezione degli impulsi del dada da parte di Franz Jung, il quale è coinvolto, o anzi, come vogliono alcuni critici, si impone come figura chiave e motore del movimento a Berlino in un personale momento di crisi che si proietta […] nella negazione assoluta delle pagine di Saltar via dal mondo [Sprung aus der Welt]3, ma che viene a coincidere, in apparente contraddizione, con l’impegno del suo autore nelle attività spartachiste4.
Da parte sua, Jung rileggerà retrospettivamente la propria esperienza dadaista in modo ambivalente; da un lato prendendo le distanze dal gruppo e criticando ogni operazione di resurrezione museale di dada, ma ribadendo al tempo stesso la propria adesione a una più vasta “coscienza” dadaista. Interpellato al riguardo nel 1960 da Georges Hugnet, intenzionato a redigere un Dictionnaie du Dadaisme, Jung dichiarerà:
Nel momento in cui il movimento dada propriamente detto giungeva allo zenit della propria esplosione artistica, io già non ne facevo più parte. Ecco perché in fondo non mi si può inserire tra i dadaisti. Ma tutto ciò non mi impedisce di identificarmi in dada, oggi come allora.5
Distanza e vicinanza con il movimento dadaista possono essere viste d’altronde come paradigmatiche della fisionomia intellettuale di Jung. Se l’iconoclastia dada ben corrisponde alla sua radicale volontà di Zerstörung [distruzione], allo stesso tempo l’esigenza insopprimibile di una pars construens, di una dimensione progettuale, spinge lo scrittore verso una dimensione più spiccatamente politica, verso un impegno rivoluzionario che non vede sufficientemente realizzato nel movimento dadaista.
L’inizio “ufficiale” di dada a Berlino può essere fissato con il ritorno da Zurigo nella capitale da parte di Richard Huelsenbeck nella primavera del 1917. Vale la pena ricordare che tra i collaboratori del cabaret zurighese Huelsenbeck aveva rappresentato il ruolo del dinamitardo, del fautore del gesto aggressivo, di una concezione dell’artista-Dioniso propugnatore dell’ebbrezza della distruzione e dell’esaltazione del valore vitale della lotta. E questi sono in parte gli stessi motivi culturali a cui Jung va attingendo per una resa dei conti con il modello di vita cristocentrico e con l’ideale comunionistico. Non è un caso che nell’ultimo quaderno della rivista “Die freie Straße” [“La libera strada”] con cui all’inizio del 1917 egli chiude il progetto di una riformistica Vorarbeit [lavoro preliminare], tornino a prevalere le suggestioni della lettura di Stirner, compiuta durante gli arresti a Spandau contemporaneamente a quella di Nietzsche e della Imitatio Christi di Tommaso da Kempis. L’anarchismo individualistico dell’Unico permette infatti di cancellare in nome della propria unicità il senso di colpa che affligge il fallito messia dello spirito umanitario: liberato dalle pastoie di una morale “altruistica”, il singolo può tornare a godere l’ebbrezza della riaffermazione di sé. Se dunque nel diario del 1915 Jung aveva annotato
Stirner: la critica dell’amore filantropico. / Verso la fine irrompe un meraviglioso e vittorioso sentimento di gioia. “Io però ti dico, non hai mai visto un peccatore, lo hai soltanto sognato”.6
nell’ultimo quaderno della Vorarbeit del 1917 si legge:
Cosa significa, in fondo, dichiarare di amare l’Uomo. Al massimo, una nuova religione. Ma io me ne infischio della fratellanza, della comunione e di tutti questi estremi rigurgiti di una secolare tiritera ufficiale. […] Solo la guerra: Uno contro Tutti – solo questa è vera esperienza.7
E non manca l’accento sulla valenza vitale della contraddizione e della rivolta («La necessità della contraddizione […], la necessità per il singolo individuo di essere rivoluzionario»8), così come il leit-motiv della risata che accompagna il gesto blasfemo del dinamitardo, «che sorride con scherno di fronte alla distruzione»9.
Questo atteggiamento predispone Jung a recepire le proposte di vitalistico rinvigorimento di e attraverso dada che giungono da Richard Huelsenbeck, il quale proprio grazie all’intervento di Jung trova a Berlino un forum e una cassa di risonanza nella rivista “Die Neue Jugend” [“La nuova gioventù”]. Le testimonianze dei protagonisti del dada berlinese concordano nel ribadire il considerevole influsso esercitato sui giovani collaboratori del foglio letterario (rilevato dal 1916 dallo studente Wieland Herzfelde) dal più anziano revolteur Franz Jung. Così scrive, ad esempio, George Grosz nella sua autobiografia:
Quando Wieland [Herzfelde] dovette ripartire per il fronte, entrò a far parte della redazione una nuova persona: il poeta e il “violento” Franz Jung. […] Jung era una figura rimbaudiana, una spericolata personalità di avventuriero, che non si fermava di fronte a nulla.10
L’ascetico e severo autore di Immolazione [Opferung]11 che tanto aveva colpito la poetessa Lasker-Schüler veste dunque adesso i panni dell’avventuriero, del Gewaltmensch che gira armato di revolver nei locali della rivista; egli emana per Hannah Höch un fascino diabolico, per Herzfelde rappresenta addirittura il seducente «Mefisto tra di noi»12, che non esita a dichiararsi fratello di quel Rasputin che aveva segnato gli ultimi giorni della Russia zarista. Un’oscillazione, questa, dal monaco al “demonio” che conferma una volta di più la matrice decadente in cui si radica tanto la nostalgia religiosa di purificazione e ascesi di molto espressionismo quanto il culto del maudit che ancora grava su molto dadaismo.
Sta di fatto che con la presenza di Jung si registra una drastica impennata dei toni della rivista, che di contro ai propositi iniziali, miranti ad una ennesima «fusione degli spiriti», come si leggeva nel proclama che ne aveva annunciato l’uscita13, radicalizza invece l’attacco a tutto campo. Nel maggio 1917, a seguito dell’uscita del primo numero della nuova edizione settimanale, fa seguito una scissione all’interno della redazione. Così racconta il suo collaboratore George Grosz in una lettera del 1917:
Herzfelde è soldato (esercito) sul fronte occidentale; suo fratello Hellmuth fa qui il postino! A seguito dell’uscita dell’edizione settimanale (Hongkong Times!), si è verificata una notevole scissione all’interno della redazione – Lord Däubler, J. R. Becher e L. Schüler sono per così dire all’opposizione (non però dal punto di vista personale, umano).14
Prima ancora che se ne faccia plateale portavoce lo speciale “inviato” da Zurigo Richard Huelsenbeck, è infatti proprio Franz Jung a inaugurare dalle colonne di questa nuova “Neue Jugend” – da lui ricordata poi come «la prima rivista dada in Germania»15 – la campagna contro il surriscaldato clima ideologico-culturale dell’umanitarismo messianico; un aspetto, questo, destinato ad avere una funzione determinante per l’identità del movimento in Germania. Jung pubblica infatti sulla rivista una replica anonima a un articolo di Ludwig Rubiner, uscito su “Die Aktion” con il titolo Lotta con l’angelo [Kampf mit dem Engel], in cui lo scrittore tornava a declinare i postulati della Menschenliebe, dell’amore e della fratellanza universale. Il pezzo di Rubiner è ironicamente lodato dal recensore come l’appello di «un uomo che vuole regalarsi umanità e rendere umano il mondo»; un’azione nobile quanto inadeguata di fronte allo «stato di guerra» (come si intitola la replica di Jung, peraltro pubblicata anonima) in cui vessa l’intera umanità, che esige una ben diversa consapevolezza, oltre che un nuovo imperativo:
[…] Cominciano adesso gli scontri tra noi e coloro che ancora tre anni fa si sentivano fratelli, compagni, sodali, uomini. […] tutto ciò che resta della generazione dei Rubiner deve essere distrutto, nella consapevolezza del suo giungere troppo tardi: a che serve ancora tutto ciò?16
Il recensore conclude rimandando a un prossimo documento la rottura con le superate posizioni dell’umanitarismo rubineriano:
Nel numero mensile di questa rivista […], con una nostra risposta all’appello di Rubiner, si interromperà ogni rapporto di mediazione con questa generazione.17
E la risposta della «nuova generazione», il Manifesto stilato e letto da Huelsenbeck l’anno successivo in occasione della prima, turbolenta soirée dadaista dell’aprile del 1918, si sarebbe incentrata infatti sull’attacco anti-espressionista, con un risentimento ben oltre i toni della glossa junghiana18.
Per l’ex-azionista Jung l’abiura dei postulati espressionisti, la revoca del pathos delle «cose a venire»19 e dell’idealismo umanitaristico è dettata, come visto, da una sorta di tribunale interiore, dalla dolorosa constatazione di una mancanza, di un difetto psicologico e antropologico che trova espressione tanto nella confessione di totale perdita di controllo dell’Io quanto nello sbandierato individualismo filostirneriano; nell’estremo soggettivismo anarcoide che il dadaista recupera da Stirner, infatti, si nasconde una ennesima strategia per sconfinare dal proprio limitato e problematico Io e ritrovare una relazione con l’Altro. Vale la pena ricordare al riguardo quanto osserva Kafka a proposito di una conferenza di Huelsenbeck sul dadaismo:
Non Da Da, ma Tu Tu, […] nostalgia per l’espansione, l’estensione del proprio minuscolo Io, per una comunione.20
Ciò che Kafka esemplarmente percepisce è quanto l’estremismo del non-senso di dada sia mosso da un nichilismo di tipo «strumentale»21. Attraverso la posizione anti-estetica, anti-etica e anti-metafisica, il voluto orientamento verso il polo della negazione, è possibile infatti ritrovare un paradossale momento affermativo, quello del Sì al No. La radicalità del gesto distruttivo e protestatario appare come l’estrema probabilità di sperimentare una coincidentia oppositorum: il bello nel brutto, il bene nel male (per Jung, il processo per cui «noi siamo malvagi, perché non riusciamo a figurarci il bene, e diventiamo buoni perché siamo cattivi»22), il tutto nel niente: e dunque una nuova trascendenza. In questa prospettiva, l’esternazione paradossale e insensata di dada assume la valenza di un esorcismo liberatorio dall’incubo paralizzante del nulla che incombe sul mondo e sull’uomo. Raoul Hausmann domanda nel 1919:
Che cos’è dada? Una forma d’arte? Una filosofia? Una politica? Un’assicurazione contro gli incendi? O una religione di stato? Forse dada è energia pura? Oppure (e la mano fa il gesto di indicare): nulla assoluto, ovvero tutto?23
E in questo senso anche il gesto della provocazione antiborghese si rivela una manifestazione ex negativo del bisogno di una più intensa comunione e comunicazione.
In Franz Jung questo sentimento si articola nel principio dell’antagonismo, della contraddizione permanente:
Innescare il circolo della contraddizione, contraddire anche se stessi. Finalmente, dire sempre no e poi no! In modo che tutti dicano no.24
In questo estremismo della negazione permanente, fin contro se stessi, torna così a spuntare l’istanza anarco-socialista di apertura a un’autentica relazione interpersonale; un elemento che avvicina Jung, più che all’aristocratismo estetizzante di Huelsenbeck, alla «dadasofia» di Raoul Hausmann (già lettore entusiasta della Vorarbeit), intrisa di vitalismo e di psicoanalisi grossiana:
Con urgenza si fa avanti l’esigenza di un’esistenza fatta di nuove relazioni, di un nuovo comprendere […] l’esigenza di distruggere un essere rigido, il potere di leggi estranee sull’uomo.25
E da questa collaborazione a tre – Jung, Hausmann, Huelsenbeck – nascono di fatto i primi atti ufficiali del dadaismo berlinese. Oltre a partecipare alla soirée dadaista del 12 aprile 1918 (al riguardo annota Hausmann sul diario: «Abbiamo fondato il Club Dada»26) e a firmarne il manifesto redatto da Huelsenbeck, Jung mette a disposizione per la promozione del club, dopo la chiusura di “Neue Jugend” da parte della censura, la testata della “Freie Straße”, che riappare nel giugno del 1918 con un numero speciale dedicato a Club Dada curato da Huelsenbeck, Jung e Hausmann. Tuttavia, la collaborazione di Jung con gli amici dadaisti si arresta qui, e già in occasione della seconda serata del Club Dada Hausmann registra: «Jung non fa niente»27.
Fin dal momento della proclamazione del Club Dada Jung va pensando infatti a un nuovo raggruppamento artistico-politico da chiamare, piuttosto, La Montagna [Der Berg]28. Questo particolare rimanda a quella componente politica più specificamente “giacobina” che, sull’onda degli eventi nella Russia rivoluzionaria, costituisce per così dire l’ultimo ingrediente del dadaismo berlinese. Come riassume Seth Taylor, l’adesione di molti letterati alla sinistra comunista tedesca segna in effetti lo sbocco di quel «nietzscheanesimo di sinistra» caratteristico delle avanguardie artistiche degli anni Dieci29. Nella polemica contro lo slancio idealistico di cui anche Jung si fa portavoce si innesta cioè a questo punto, al di là della retorica generazionale e della permanente, vitalistica aspirazione al “ringiovanimento”, la convinzione materialistica che il riscatto dell’Umano non possa prescindere dalla trasformazione delle strutture sociali e dei rapporti di produzione, dalla obiettiva realtà di classe di questa umanità.
(1/2. Segue)
Monica Lumachi
(Tratto da: Monica Lumachi, Rivolta e disincanto. Franz Jung e l’avanguardia tedesca, Roma, Editoriale Artemide, 2011, pp. 51-56).
Note
1 Particolare attenzione alla compagine berlinese di dada è dedicata da Eberhard Roters, Fabricatio nihili oder Die Herstellung von Nichts, Berlin 1990.
2 Luigi Forte, Dada o la metamorfosi del gioco, in Id., Le forme del dissenso, Milano 1987, pp. 57-74.
3 Il romanzo Sprung aus der Welt fu scritto nel 1917 e pubblicato l’anno successivo. Secondo le parole di Monica Lumachi, Jung vi «compie un drastico bilancio autobiografico, in cui insieme a quel tratto radicalmente pessimista della sua natura trova voce anche una spietata autocritica. Alla speranza di un “rifugio” nella dimensione intima dell’amore torna a sovrapporsi adesso un’angoscia più antica: la percezione di un’irreparabile frattura interiore e di una generale incomunicabilità, radicate nel fondo violento della vita e della natura umana. […] La vicenda [del romanzo] si incentra sul microcosmo conflittuale costituito dalla coppia per presentare una sequenza di concitate scene da un matrimonio fallito, [fino a] concludersi con un emblematico suicidio» (Monica Lumachi, Rivolta e disincanto. Franz Jung e l’avanguardia tedesca, Roma, Editoriale Artemide, 2011, p. 37) [ndr].
4 Secondo Fritz Mierau, Jung è «la testa pensante più importante del dada berlinese» (Fritz Mierau, Das Verschwinden von Franz Jung. Stationen einer Biographie, Hamburg 1998, p. 10). Sul ruolo e sull’importanza di Jung nell’ambito del dadaismo berlinese si veda anche: Hannes Bergius, Das Lachen Dadas. Die Berliner Dadaisten und ihre Aktionen, Gießen 1989, pp. 66-99; Dieter Lehner, Individualanarchismus und Dadaismus. Stirnerrezeption und Dichterexistenz, Frankfurt 1988, pp. 153-161. Vale infine la pena ricordare che Sloterdijk apre il primo capitolo del suo studio sulla «ragione cinica», in cui dedica un ampio spazio al dadaismo, con una citazione di Franz Jung (cfr. Peter Sloterdijk, Critica della ragione cinica, Milano 1992, p. 33).
5 Franz Jung, Werke, hrsg. von Lutz Schulenburg, 12 Bde, Hamburg 1981-1997, Bd. 9/2, Abschied von der Zeit, 1997, p. 692. La lettera di Jung è riportata anche in Georges Hugnet, Dictionnaire du Dadaisme, Parigi 1976, pp. 158-160.
6 Franz Jung, Werke, cit., Spandauer Tagebuch April-Juni 1915, Supplementband 1984, p. 28.
7 Id., Werke, cit., Bd. 1/1, Feinde ringsum. Prosa und Ausfätze 1912-1963, Bd. 1/1 (1912-1930), 1981, pp. 159-163.
8 Ibid., p. 165.
9 Ibid., p. 170.
10 George Grosz, Ein kleines Ja und ein großes Nein. Sein Leben von ihm selbst erzählt, Reinbek 1995, p. 183 e p. 129.
11 «Romanzo redatto di getto da Jung in prigione nella primavera del 1915. […] Il romanzo, radicato nello spirito “missionario” degli anni di guerra, per la sua perfetta rispondenza a un sentire diffuso e a un’aspirazione condivisa, segnerà la notorietà di Jung quale autore espressionista. Il nichilista “disperato” […], il rivoluzionario che era giunto a salutare l’implosione di tutti i sistemi di valori tradizionali, lo Zivilisationskritiker [critico della civiltà] che aveva inteso dare una spinta decisiva alle vacillanti fondamenta della sicurezza borghese, lamenta ora lo sbriciolarsi dei grandi contenitori di ideali e lo sgretolarsi dei legami interumani. […]. E tuttavia, in questo come in tutte le coeve pagine di Jung trova espressione al tempo stesso la visione di diverse, intense relazioni tra gli uomini, capaci di riconnettere i singoli “frammenti” individuali in un tessuto unitario, e con essa il rilancio dell’utopia della comunità» (Monica Lumachi, Rivolta e disincanto, cit., pp. 30-31) [ndr].
12 Cfr. Wieland Herzfelde, Zur Sache, Berlin-Weimar 1976, p. 347 e Hannah Höch, Hannah Höch. Ihr Werk, ihr Leben, ihre Freunde, Berlin 1989, p. 21. Cfr. anche Franz Jung, Rasputin, in “Neue Jugend”, 11/12, 1917, ora in Id., Werke, cit., Bd. 1/1, Feinde ringsum, cit., pp. 176-177.
13 “Prospekt Neue Jugend”, 7, 1916, cit. in Paul Raabe (Hrsg.), Expressionismus. Literatur und Kunst 1910-1923, Stuttgart 1960.
14 George Grosz a Otto Schmalhausen, 30.06.1917, in Fritz Mierau, Das Verschwinden, cit., p. 113. La lettera rappresenta una testimonianza originale rispetto alla distanza con cui Grosz nell’autobiografia tratta tutta l’impresa della “Neue Jugend”.
15 Così Jung nella ricostruzione della propria esperienza dadaista a Georges Hugnet (Franz Jung, Werke, cit., Bd. 9/2, Abschied von der Zeit, 1997, p. 693).
16 Id., Kriegszustand, in “Die Neue Jugend”, 1, maggio 1917, p. 1, ora in Fritz Mierau, Das Verschwinden, cit., p. 117.
17 Ibid.
18 Cfr. Luigi Forte, La poesia dadaista tedesca, Torino 1976.
19 Così si intitolava il celebre scritto di Walther Rathenau, Von kommenden Dingen (Berlin 1917), stroncato dal recensore Jung su “Die Neue Jugend” del maggio 1917 in un articolo dal titolo Religion der Verschwendung [Religione dello spreco].
20 Gustav Janouch, Gespräche mit Kafka. Aufzeichmungen und Erinnerungen, Frankfurt am M. und Hamburg 1968, p. 221.
21 Sul «nichilismo strumentale» (instrumenteller Nihilismus) e non «fondamentale» del dadaismo cfr. Werner Spies, Max Ernst - die Welt der Collage, Köln 1988, p. 39.
22 Franz Jung, Werke, cit., Bd. 11, Briefe und Prospekte. Dokumente eines Lebenskonzeptes, 1988, p. 38.
23 Raoul Hausmann, DER DADA, 2, 1919, cit. in Eberhard Roters, Fabricatio nihili, cit., p. 142.
24 Franz Jung, Werke, cit., Bd. 1/1, Feinde ringsum, cit., p. 160.
25 Raoul Hausmann, Menschen - Leben - Erleben, (1918), cit. in Hannes Bergius, Das Lachen Dadas, cit., p. 123.
26 Eva Züchner (Hrsg.), Scharfrichter der bürgerlichen Seele. Hausmann in Berlin 1900-1933, Berlin 1998, p. 71.
27 Ibid.
28 Cfr. Franz Jung, Werke, cit., Bd. 1/1, Feinde ringsum, cit., p. 22. Cfr. anche Hannes Bergius, Das Lachen Dadas, cit., p. 25.
29 Cfr. Seth Taylor, Left-wing Nietzscheans, Berlin-New York 1990, in particolare l’ultimo capitolo.
Inserito il 29/08/2023.
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Franz Jung fra Dada e Spartakus
di Monica Lumachi
Seconda parte
Con la fine della guerra e il crollo della Germania imperiale si verificherà come noto una vasta partecipazione al dibattito politico da parte delle avanguardie artistiche e letterarie, che si sentono chiamate a nuova responsabilità e che accettano di assumere compiti di primo piano all’interno delle organizzazioni politiche impegnate a dettare i tratti della nuova compagine statale: basti ricordare le iniziative del “lavoratore dello Spirito” Kurt Hiller, l’impegno nel partito socialista indipendente da parte di Döblin oppure il ruolo di Rubiner, di Landauer o del funzionario comunista Toller nella Monaco rivoluzionaria; oppure infine, il coinvolgimento dei dadaisti berlinesi nell’insurrezione spartachista. Tra questi è anche Jung, il quale la notte del 9 novembre 1918 occupa per ventiquattro ore un’agenzia di stampa studiando un sistema per organizzare lo scambio di informazioni tra gli insorti, e nelle successive giornate del gennaio 1919 tiene comizi e assume incarichi per conto della KPD fino a quando, coinvolto in scontri armati, finisce agli arresti. Un anno più tardi egli sarà tra il gruppo espulso dal partito comunista e fondatore della KAPD, rappresentante di un comunismo consiliare e favorevole all’azione diretta, di cui farà parte tra l’altro anche il mentore di tutta la generazione rivoluzionaria d’anteguerra e editore della “Aktion”, Franz Pfemfert.
Questi dati invitano a chiedersi le ragioni del fascino esercitato dalla sinistra radicalrivoluzionaria tedesca (Luxemburg e Liebknecht) su molta dell’avanguardia artistica e letteraria, vicina in precedenza all’anarchismo di Bakunin. Come rileva Furio Jesi, l’idea spartachista di rivoluzione permanente reca in sé, oltre al principio spontaneistico, l’idea di poter sospendere in ogni momento il tempo storico, di spezzare la gabbia spazio-temporale, squarciare le coordinate del reale verso una dimensione completamente “altra”. In altre parole, l’attimo rivoluzionario non prepara e non costruisce nessun domani lungo la cronologia della storia, ma esplode nel presente, nell’auspicio che si realizzi l’agognata sospensione di tale tempo storico, che è poi quello della borghesia30. E dunque, quanto accade nelle strade di Berlino nei giorni della rivoluzione appare insomma a molti intellettuali come l’evento che promette, per riprendere l’espressione di Jung, di «saltare via dal mondo». Al riguardo scrive Walter Fähnders:
All’interno di processi rivoluzionari sempre più radicali, quali quelli che hanno luogo in Germania tra il 1918 e il 1919, balenano momenti di una prassi artistica e politica che apre, o almeno pare per un attimo far lampeggiare agli occhi dell’intellighenzia, la possibilità di una rivoluzione totale del mondo e della vita.31
La qualità della rivoluzione è quella di un mutamento totale di stato del singolo e della collettività; e l’incitazione alla rivolta contiene la promessa che questa esperienza sia sempre “possibile”. Nella misura in cui il movimento politico si nutre di un simile pensiero (in cui, nuovamente, non è difficile rintracciare il tratto mistico di cui dicevamo), esso si predispone a catturare l’adesione delle avanguardie artistiche, che auspicano un’analoga trasformazione o meglio una vera e propria “transustanziazione” dei materiali del reale e il recupero di una dimensione profonda dei linguaggi artistici.
Ed è secondo questa fenomenologia totalizzante della rivoluzione che Jung ribadirà ancora molti decenni più tardi la propria adesione al dadaismo, intendendo quest’ultimo come parte di un più vasto dissenso nei confronti dell’esistente. Nell’autobiografia che andrà scrivendo in quegli anni tale adesione è implicita nella metafora del ripetuto alzarsi in volo alla ricerca di un varco da parte del Torpedokäfer, il coleottero-siluro; creatura immaginaria metà insetto metà macchina che sembra uscita da una composizione di Max Ernst, e sulla cui natura sarà importante ritornare.
Per restare invece nel quadro del movimento dadaista berlinese, la politicizzazione ha come effetto immediato quello di orientare l’intenzione “distruttiva” in direzione della satira. Insieme al momento della posa scandalistica – quell’épatez le bourgeois! di stampo ancora decadente –, si distingue infatti nelle iniziative dadaiste anche un tratto ironico, irriverente, fantasiosamente grottesco, con cui viene portata avanti per esempio la denuncia del perpetuarsi di un’ideologia autoritaria nelle neonate strutture repubblicane. Allo stesso modo, l’interesse per la pubblicità e le tecniche di comunicazione di massa (giornalismo, radio, cinema) è la spia di un progressivo spostamento d’accento sulla dimensione comunicativa del linguaggio rispetto alla preponderanza con cui si era posta fino a quel momento la questione dell’espressione.
È in questo complesso e multiforme momento di transizione che si situano le «cronache” che Jung redige come contributo alle boutades della “Neue Jugend”, «beffardi commenti di attualità in stile telegrafico, ironicamente intitolati “Cronache”, […] che mi piacevano davvero»32, come ricorda Herzfelde. Sull’esempio della ricetta poetica proposta da Tzara, il “cronista” Jung mescola informazioni ufficiali a notizie immaginarie, slogan pseudopubblicitari e, non ultimo, ai cliché di quella letteratura empatica dell’anima che era stata anche la propria; il tutto parodiando il ritmo simultaneo e indifferenziato dei comunicati d’agenzia. Le competenze del giornalista economico e dell’esperto di borsa Jung vengono rifunzionalizzate in prospettiva straniante – tramite il procedimento di frammentazione – per evidenziare la relatività di autenticità e fantasia e illuminare i meccanismo di manipolazione dell’opinione pubblica33. Non solo: alla tirannia delle leggi del mercato, alla mercificazione di ogni ambito dell’esistenza, inclusa la produzione artistica, lo pseudocronista risponde con il bluff di chi finge di stare al gioco mentre consegna, invece, articoli “avariati”, cronache assurde quanto inutilizzabili che incitano a un attacco contro le convenzioni linguistiche e le menzogne ideologiche. È insomma la parola d’ordine di «Fuori i coltelli!!!», come si chiude uno di questi pezzi:
Cronaca. Freidrich Adler condannato a morte, proteste da Stoccolma contro il rincaro internazionale – la vita vale sempre meno, generi alimentari in Cornerstimmung. Fonti Reuter affermano che in terra di Ovambo gli Ovambo muoiono di fame, niente bufale – negli European Dominions non muore nessuno! Che muoiano di fame – rincaro!!! Spinoza mandato al macero per bisogno di carta per telegrammi diplomatici – Liberia, Pseudoliberia – Molière sgocciola in Sternheim (fonte: Zukunft del 25.5.1917), manovre di accerchiamento contro Wallner a Vienna, sete! – è uscito il nuovo libro edizioni Die Aktion. L’arrivo della primavera fibrilla di sessualità, febbre da fieno. Amoretto, o la la! Buttarsi nella mischia! Assassinio di luce!! – le nostre anime sono così dolenti. Follia omicida… Fuori i coltelli!!!34
In un altro collage pubblicato sul numero speciale della “Freie Straße” dedicato al Club dada, mentre riformula in tono beffardo il motivo del vitalistico «ringiovanimento» (ironizzando con un gioco di parole sul proprio cognome, «jünger. Jung. Franz Jung»35), l’ex studente di musica paragona invece l’effetto estetico-politico auspicato dell’operazione dadaista alla diffusione di massa dei ritmi ragtime, parodia e apoteosi cabarettistica del borghesissimo pianoforte.
Il topos dell’attacco al pubblico borghese nella duplice valenza politica e poetica viene tematizzato da Jung anche in una serie di brevi pezzi in prosa. Nel racconto Babek, pubblicato nel 1918 su “Die Aktion” e ispirato alla vicenda storica di una rivolta di schiavi nell’antico Islam, si trovano ribadite in chiave “militante” le riflessioni narratologiche della voce narrante di Saltar via dal mondo e il rifiuto programmatico del genere del romanzo borghese. L’autore esordisce con l’insulto ai lettori («Non ho bisogno di lettori. Perché vi odio tutti!»36), e il rifiuto di seguire una trama lineare e teleologica, a cui oppone la libertà di evocare possibili e diversi scenari, variazioni di prospettiva che si fanno beffe dei dati obiettivi e delle aspettative del lettore. E ancora nel pezzo dal titolo Per chiarire [Zur Klärung]37 Jung collega la crisi del genere romanzo al progressivo acuirsi della “miseria tedesca”, che spinge il contestatore dadaista a guardare alla tradizione romantica tedesca, che legge come «il tentativo di liberarsi dall’oppressione concettuale, uno slancio verso la luce, un aprirsi alle culture degli altri popoli»38, fino a consegnare addirittura una galleria degli antenati. Qui, insieme all’amatissimo Eichendorff e al Goethe delle Affinità elettive («insuperato, tecnicamente perfetto»)39, figura anche il Tieck di William Lovell, romanzo a cui Jung attesta una modernissima sensibilità per il «Tempo»40, inteso nel senso di vertiginoso dinamismo e simultaneità del reale41. Ma l’intensità critica, la complessità e la carica dirompente del romanzo romantico sono destinate a venir soffocate, secondo Jung, dal filisteo tedesco, che ne annienta la carica progressiva. Ecco allora la necessità della Zerstörung [distruzione] di una atmosfera «appestata»42, di una società e una cultura ammuffita, in cui è impossibile scrivere un libro «vero»:
Il fiore azzurro non può crescere su un letamaio. […] Un tale libro non si può scrivere in Germania, […] un libro che sia semplice, che dica solo la verità.43
Al più tardi in queste dichiarazioni il terrorista dada si rivela un romantico segreto, che mentre produce i suoi programmatici brandelli di nonsense sogna una scrittura totalizzante, portatrice di significati. E pur senza intendere affrontare qui il complesso capitolo relativo agli echi e alle suggestioni del primo romanticismo sul dada, è certo che l’evocazione del fiore novalisiano da parte di Jung non può non rimandare a quel capolavoro di poesia dadaista che è Anna Blume di Schwitters (1919), e con essa a tutto il filone di un espressionismo cosmico e astratto44. Così è ad esempio per il multitalento Schwitters, nei cui collages ruote e lettere si combinano a suggerire il rumore della macchina metaforica, che nel mondo industriale macina e produce non soltanto formule e frasi stereotipe, ma anche i più piccoli segmenti di materiale linguistico, ma che aspira ad essere un Überwinder, un «oltrepassatore» animato da una nostalgia quasi francescana di riconciliazione con il creato quale quella che trova espressione, ad esempio, nella plastica del Merzbau, sorta di nuova cattedrale edificata con i rifiuti e gli scarti della produzione industriale. Ma questa tensione appartiene anche all’operazione poetica di Hugo Ball, per il quale dada aspira alla riunificazione o “sintesi” dei movimenti artistici di un’epoca altrimenti segnata dalla Zersetzung, dall’atomizzazione e dalla violenza distruttrice, come pure è presente nella didascalia “romantica” hausmanniana (Hausmann e Schwitters, si ricorderà, lavorano insieme), che pensa dinamicamente questa riunificazione45.
Certo, rispetto alla produzione artistica e teorica dei più noti partecipanti al movimento dadaista il contributo di Jung appare – se non altro da un punto di vista quantitativo – relativamente modesto. Della sua posizione marginale rispetto al dadaismo “ufficiale”, del resto, è ben consapevole l’autore, che come visto non tenta neppure di chiamarsi a posteriori tra i suoi protagonisti. Mentre rammenta all’amico Karl Otten la scelta personale di una diversa modalità di “rivolta”, Jung afferma di vedere incarnato il prototipo dell’artista dada nella figura, appunto, di Raoul Hausmann:
Io non ho mai avuto assolutamente niente a che fare con il dada. Quando il dada come movimento cominciò ad apparire anche in Germania, era già cominciata la cosiddetta rivoluzione, e io all’epoca non avevo comunque il tempo di occuparmi di dada. […] Ritengo tra l’altro che il vero tipo del dadaista in Germania sia stato Raoul Hausmann, con cui ero legato da amicizia, ma che dopo il 1918 non ho quasi più rivisto.46
Se dunque a partire dal 1918 la produzione di Jung comprenderà una sempre più nutrita mole di interventi sugli organi di stampa della sinistra radicale, è vero anche che la critica dadaista delle forme e delle modalità della scrittura non manca di lasciare il segno sui lavori che produce nel periodo del suo maggior impegno militante. In questa vera e propria fase di iperproduzione, che vede Jung cimentarsi anche con il genere teatrale agit-prop, si lasciano individuare due aspetti, spesso in contrasto tra loro. Indubbiamente l’autore continua a coltivare il sogno di una riconquistata autenticità e immediatezza della scrittura, approdando così a un’ennesima “mimesi espressiva” – per riprendere una efficace espressione di Paolo Chiarini utile a chiarire i limiti della svolta in direzione di un nuovo realismo da parte del letterato espressionista47. Insieme, però, è possibile cogliere in questa produzione, in cui i confini tra narrativa e saggio si fanno sempre più labili, anche una riflessione sulle modalità della comunicazione letteraria nella società di massa, all’incrocio con il dibattito che anima la cultura degli anni Venti.
Letteratura e rivoluzione
Nel settembre del 1920, a seguito della spettacolare vicenda del peschereccio “espropriato” per recarsi alla riunione del Comintern quale inviato della KAPD, Franz Jung è agli arresti48. Dal viaggio in Russia, durato circa tre mesi, aveva tratto spunto per il resoconto Viaggio in Russia [Reise in Russland], uno tra i primi documenti relativi alle impressioni di un intellettuale tedesco nel paese dell’esperimento socialista, pubblicato immediatamente dopo il rientro in Germania49. Nei mesi trascorsi in prigione Jung scrive di getto i racconti Joe Frank illustra il mondo [Joe Frank illustriert die Welt], La settimana rossa [Die rote Woche], Proletari [Proletarier] e Pace del lavoro [Arbeitsfriede]; inoltre il romanzo La conquista delle macchine [Die Eroberung der Maschinen], il saggio in due parti La tecnica della felicità [Die Technik des Glücks] e due pièce teatrali, I canachi [Die Kanaker] e Per quanto ancora? [Wie lange noch?], subito messe in scena a Berlino dal Proletarisches Theater di Piscator. Infine, prepara una introduzione all’edizione degli scritti di Otto Gross (morto a Berlino pochi mesi prima), che peraltro non verrà realizzata.
La cosiddetta narrativa «proletario-rivoluzionaria» di Jung consente di illuminare alcuni aspetti di una stagione complessa e ambivalente che vede, come puntualizza Aldo Venturelli, l’accelerazione dei tempi dell’incontro dell’intellettuale con la politica50. Va detto subito però che il profilo del rivoluzionario Franz Jung non si lascia inquadrare nei termini del geistiger Arbeiter – il «lavoratore dello Spirito», secondo la definizione di Kurt Hiller – che affianca il proprio lavoro di letterato a quello dei militanti politici, nel solco di un Espressionismo o di un Attivismo quale quello rappresentato, ad esempio, da Ludwig Rubiner o dallo stesso Hiller51. La breve ma intensa esperienza dell’insurrezione spartachista porta infatti Jung a concepire come un tutto unico la battaglia per una riappropriazione politica ed estetica della realtà. Accanto alle pagine della “furiosa” epica rivoluzionaria di Jung stanno una serie di azioni spettacolari, di impegni organizzativi e di iniziative di lotta politica, culminanti, all’indomani della fine del fuoco rivoluzionario in Germania, con la decisione di dare il proprio contributo alla ricostruzione economica della nuova Russia in qualità di economista e esperto di finanza.
Nelle prose che Jung scrive in questa stagione di forte coinvolgimento e impegno politico si palesa evidentemente il passaggio dell’intellettuale «nel cerchio di chi era in basso e chi lottava»52. Così, il fulcro tematico della scrittura di Jung si sposta dallo psicogramma del conflitto con l’Altro alla rappresentazione dello scontro sociale in atto; verso una forma di Zeitliteratur [letteratura del tempo] in cui sembra avvenire la riscoperta della realtà oggettiva, sachlich ([completa] nel senso dei fatti, delle cose e delle cause), e il reintegro di un mondo esterno percepito finora come puro incubo, allucinazione, proiezione di una interiorità alienata. Come risulta anche dai titoli, si affronta prima di tutto la battaglia del movimento operaio, sia in uno scenario internazionale (l’America di Joe Frank illustra il mondo) che specificamente tedesco, per il quale Jung attinge a episodi della più recente attualità vissuti spesso di persona: dalle giornate berlinesi del novembre 1918 (in Proletari) agli scontri nella Ruhr nella primavera del 1920 (ne La settimana rossa), fino all’insurrezione del marzo 1920 nelle regioni minerarie della Germania centrale narrata ne La conquista delle macchine.
Contemporaneamente all’interesse documentario, tuttavia, Jung riflette sulla possibilità – in particolare nella forma romanzo – di una scrittura “rivoluzionaria” nel contesto di un generale e più vasto progetto di trasformazione sociale. Questo determina la forte componente teorica delle sue pagine, intese anche quale contributo alla discussione sul rapporto tra arte e rivoluzione: discussione che nell’immediato dopoguerra, sull’onda delle esperienze sovietiche, infiamma gli intellettuali tedeschi.
In altre parole, se i nuovi scritti di Jung mirano in prima battuta a diffondere e propagandare l’ideale politico («dall’iniziale analisi delle relazioni interpersonali giungere a educare quello che allora si chiamava ancora proletariato a una concezione e a una fede collettivista», come Jung descrive a decenni di distanza tale svolta)53, a fianco dell’intento propagandistico e educativo si rintraccia anche una forte volontà di ricerca sperimentale, il desiderio di non scindere l’ideale sociale dall’utopia di una disalienazione linguistica, dalla visione di un comunismo come comunicazione totale.
Ecco allora che nelle prose agit-prop del militante Jung compaiono momenti di una riflessione sulla lingua e sulla prassi della letteratura in cui si affronta la questione della tecnica della comunicazione letteraria in una società definitivamente segnata dall’industrializzazione e dalla massificazione. Di fronte a quello che si annuncia come vero spartiacque della cultura weimariana, ovvero il confronto dell’artista e dell’arte con l’industria e con la produzione di e per la massa (fenomeni visti ora come alienanti e distruttivi, ora come “giusta nemesi”), Jung si collocherà fin da subito sul polo dell’entusiastica affermazione di un’arte collettiva, auspicando una fuga in avanti della cultura verso il superamento dell’individualismo, del soggettivismo e della psicologia.
Lo scarto tra interessanti intuizioni e vecchi stilemi che caratterizzano le pagine di Jung rivela tuttavia come tale entusiasmo “futurista” – al polo opposto rispetto al negativismo articolato in Saltar via dal mondo – continui ad attingere al persistente fondo anarco-vitalistico dei maestri di una intera generazione di intellettuali tedeschi (Nietzsche, Landauer e, tramite questi, Kropotkin) e alla fede nell’onnipotenza della “azione diretta” in ambito estetico oltre che etico-politico. […]
(2/2. Fine)
Monica Lumachi
(Tratto da: Monica Lumachi, Rivolta e disincanto. Franz Jung e l’avanguardia tedesca, Roma, Editoriale Artemide, 2011, pp. 56-67).
Note
30 Cfr. Furio Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, Torino 2000, in particolare il cap. I e le considerazioni a p. 56.
31 Walter Fahnders, Zwischen ästhetischer und politischer Avantgarde - Franz Jung und seine “Reise(n) in Russland”, in Deutschland und die russische Revolution 1917-1924, hrsg. von G. Koenen und L. Kopelew, München 1998, pp. 431-461, qui p. 440.
32 Wieland Herzfelde, Zur Sache, cit., p. 347.
33 Franz Mon, Textkollage, in Vom Expressionismus zum Dadaismus, hrsg. von H.-G. Kemper, Taunus 1974, p. 211. Vale la pena ricordare che nel 1915 il “reduce” Jung aveva fondato insieme a un socio le “Industrie- Kurier. Finanz- und Handelsblatt für den Osten”, giornale di notizie economiche e finanziarie. All’inizio del 1919, insieme ad alcuni tra i futuri leader della KAPD, inaugura inoltre un’agenzia di corrispondenza estera.
34 Le cronache anonime dai numeri del settimanale “Neue Jugend” del maggio-giugno 1917, non comprese nell’edizione Nautilus dell’opera di Jung, sono riportate in Fritz Mierau, Das Verschwinden, cit., pp. 90-91.
35 Franz Jung, Werke, cit., Bd. 1/1, Feinde ringsum, cit., p. 191.
36 Ibid., p. 203.
37 Sul diario dei giorni di prigionia si trova un’annotazione a proposito del progetto di scrivere una «storia del romanzo tedesco» (Id., Werke, cit., Spandauer Tagebuch, cit., p. 74).
38 Franz Jung, Werke, cit., Bd. 8, Sprung aus der Welt. Expressionistische Prosa, 1986, p. 296.
39 Ibid., p. 925.
40 Ibid., p. 296.
41 Su Lovell come antesignano dell’avanguardia dei «dilettanti del caos» cfr. Bruno Hillebrand, Ästhetik des Nihilismus, Stuttgart 1991, pp. 20-23 e p. 179.
42 Franz Jung, Werke, cit., Bd. 8, Sprung aus der Welt, cit., p. 296.
43 Ibid.
44 Sul rapporto dada-romanticismo cfr. Claudia Monti, Immagine e magia. A proposito di avanguardia e romanticismo: Hugo Ball e Franz von Baader, in Problemi del romanticismo, a cura di U. Cardinale, vol. 2, Milano 1983, pp. 672-690.
45 Si vedano al riguardo anche le puntuali osservazioni di Camilla Miglio, La stella del “Bauhaus”. L’utopia umanistica di Oskar Schlemmer, in “Studi Germanici”, n. s., XXXV, 2-3, 1997, pp. 327-365.
46 Franz Jung a Karl Otten, 27.1.59, cit. in Fritz Mierau, Das Verschwinden, cit., p. 94.
47 Paolo Chiarini, Piscator, Brecht (e Feuchtwanger), in Il teatro nella repubblica di Weimar, a cura di P. Chiarini, Roma 1984, pp. 81-92, qui p. 88.
48 Nel 1920 Franz Jung viene designato assieme a Jan Appel quale delegato della KAPD, di cui era tra i cofondatori, per partecipare all’Internazionale Comunista in corso a Mosca. Dopo aver “sequestrato” un peschereccio nel porto di Cuxhaven, i due sbarcano a Murmansk il 1° maggio. Di qui proseguono alla volta di Mosca, dove Jung incontrerà Lenin, Bucharin e Radek. In agosto, rientrato a Berlino, Jung riferisce al congresso della KAPD sui colloqui avuti a Mosca, proponendo una mozione per l’adesione del partito al Comintern. Uscitone sconfitto, si ritira dalla dirigenza, e in settembre viene arrestato per il sequestro del peschereccio. La vicenda dello spettacolare viaggio dei due delegati della KAPD è ricostruita puntualmente da Andreas Müller, Meuterei auf der Senator Schröder. Szenen zu einer zeitnahen Legende, in Lutz Schulenburg (Hrsg.), Der Torpedorkäfer. Hommage à Franz Jung, Hamburg 1988. Per quanto riguarda la campagna da parte della stampa di sinistra e liberale contro l’arresto di Jung, cfr. Franz Jung, Werke, cit., Bd. 9/1, Briefe 1913-1963, 1996, p. 52.
49 Sul tema cfr. Bernhard Furler, Augen-Schein: deutschsprachige Reportagen über Sowjetrussland 1917-1939, Frankfurt am M. 1987.
50 Aldo Venturelli, Avanguardia e postmoderno, in La città delle parole. Lo sviluppo del moderno nella letteratura tedesca, a cura di P. Chiarini, A. Venturelli, R. Venuti, Napoli 1993, pp. 195-219, qui p. 208. Di una «accelerazione in ambito estetico» a proposito del dada berlinese parla anche Walter Fähnders, Zwischen ästhetischer und politischer Avantgarde, cit., p. 439.
51 Nella sua ricognizione sulla crisi dell’Espressionismo, così come questo si manifesta nella breve stagione dell’Attivismo hilleriano, Venturelli giunge alla conclusione che la «semplice politicizzazione degli intellettuali non solo non riuscì a esprimersi in forme soddisfacenti, ma spesso li ricondusse a una funzione del tutto subalterna e tradizionale, lontana da ogni forma di sperimentazione spirituale» (Aldo Venturelli, Avanguardia e postmoderno, cit., p. 208).
52 Franco Fortini, Verifica dei poteri, Torino 1989, p. 112.
53 Franz Jung a Fritz Raddatz, 1.12.1962, in Franz Jung, Werke, cit., Bd. 9/1, Briefe 1913-1963, cit., p. 1086.
Inserito il 29/08/2023.
Elsa Triolet e Louis Aragon.
Fonte della foto: https://www.lefigaro.fr/livres/louis-aragon-et-elsa-triolet-un-amour-eternel-et-intranquille-20200802
(1897-1982)
(1942)
Sono così profondi i tuoi occhi che piegandomi a bere
Ho visto tutti i soli venire a rimirarsi
Tutti gli afflitti gettarvisi per suicidarsi
Sono così profondi i tuoi occhi che smetto di ricordare…
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Gli occhi di Elsa
Sono così profondi i tuoi occhi che piegandomi a bere
Ho visto tutti i soli venire a rimirarsi
Tutti gli afflitti gettarvisi per suicidarsi
Sono così profondi i tuoi occhi che smetto di ricordare
All'ombra degli uccelli è turbato l'oceano
Poi gli occhi tuoi che mutano col tempo che sale
L'estate taglia agli alberi la nube sul grembiale
Il cielo non è mai blu come lo è sul grano
I venti invano scacciano dell'azzurro le sciagure
Più chiari di lui i tuoi occhi se una lacrima vi è brillata
Gli occhi tuoi ingelosiscono il cielo della schiarita
Mai il vetro fu più blu che nelle sue rotture
Madre dei sette dolori tu bagliore liquefatto
Sette spade han trafitto il prisma dei colori
Il giorno è lancinante più di tutti i dolori
L'iride forata di nero più blu di essere in lutto
Gli occhi tuoi nel dolore aprono breccia doppia
Per cui si riproduce il miracolo dei Re
Che videro col cuore fremente tutti e tre
Il manto di Maria appeso sulla greppia
Basta una sola bocca al Maggio delle parole
Per tutte le canzoni e tutte le afflizioni
E' poco un firmamento con le stelle a milioni
I tuoi occhi e i loro segreti gemelli son quello che ci vuole
Il bimbo affascinato dalle immagini belle
Spalanca i suoi occhi non così a dismisura
Come quando li fai grandi non so sei sincera
Si direbbe che la pioggia apra selvagge corolle
Che nella lavanda i bagliori hanno nascosto
Dove insetti disfanno i loro amori violenti
Sono preso nella rete delle stelle filanti
Marinaio che muore in mare in pieno agosto
Ho estratto questo radio dalla plecbenda
Bruciandomi le dita a quel fuoco proibito
O paradiso ritrovato e cento volte perduto
Gli occhi tuoi sono il mio Perù la mia Golconda la mia India
Avviene che una sera d'inverno si spezza
Su scogli che i naufraghi hanno fatto avvampare
Io vedevo brillare al di sopra del mare
Gli occhi di Elsa gli occhi di Elsa gli occhi di Elsa.
1942
Louis Aragon
Les yeux d’Elsa
Tes yeux sont si profonds qu’en me penchant pour boire
J’ai vu tous les soleils y venir se mirer
S’y jeter à mourir tous les désespérés
Tes yeux sont si profonds que j’y perds la mémoire
À l'ombre des oiseaux c’est l’océan troublé
Puis le beau temps soudain se lève et tes yeux changent
L’été taille la nue au tablier des anges
Le ciel n’est jamais bleu comme il l’est sur les blés
Les vents chassent en vain les chagrins de l’azur
Tes yeux plus clairs que lui lorsqu’une larme y luit
Tes yeux rendent jaloux le ciel d’après la pluie
Le verre n’est jamais si bleu qu’à sa brisure
Mère des Sept douleurs ô lumière mouillée
Sept glaives ont percé le prisme des couleurs
Le jour est plus poignant qui point entre les pleurs
L’iris troué de noir plus bleu d’être endeuillé
Tes yeux dans le malheur ouvrent la double brèche
Par où se reproduit le miracle des Rois
Lorsque le coeur battant ils virent tous les trois
Le manteau de Marie accroché dans la crèche
Une bouche suffit au mois de Mai des mots
Pour toutes les chansons et pour tous les hélas
Trop peu d’un firmament pour des millions d’astres
Il leur fallait tes yeux et leurs secrets gémeaux
L’enfant accaparé par les belles images
Écarquille les siens moins démesurément
Quand tu fais les grands yeux je ne sais si tu mens
On dirait que l’averse ouvre des fleurs sauvages
Cachent-ils des éclairs dans cette lavande où
Des insectes défont leurs amours violentes
Je suis pris au filet des étoiles filantes
Comme un marin qui meurt en mer en plein mois d’août
J’ai retiré ce radium de la pechblende
Et j’ai brûlé mes doigts à ce feu défendu
Ô paradis cent fois retrouvé reperdu
Tes yeux sont mon Pérou ma Golconde mes Indes
Il advint qu’un beau soir l’univers se brisa
Sur des récifs que les naufrageurs enflammèrent
Moi je voyais briller au-dessus de la mer
Les yeux d’Elsa les yeux d’Elsa les yeux d’Elsa.
1942
Louis Aragon
Inserito il 18/07/2023.
di Louis Aragon
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Il mio amore
Diranno che ad un uomo non si conviene di parlare del suo amore in pubblico. Risponderò che un uomo non ha niente di superiore, di più puro e di più degno di essere perpetuato del suo amore, che è quella musica stessa di cui parla Porzia, e che è vigliaccheria e debolezza aver timore di mostrarlo a tutti. Vorrei venisse il giorno in cui, guardando nelle tenebre della nostra vita, gli uomini possano vedervi risplendere una fiamma, e quale fiamma potrei alimentare se non quella che è in me? Mio amore, sei tu la mia sola famiglia dichiarata ed io vedo il mondo attraverso i tuoi occhi, sei tu che mi restituisci questo universo sensibile e che mi riconduci ai sentimenti umani. Coloro che, con una stessa bestemmia, negano l’amore e ciò che io amo, fossero pure capaci di schiacciare l’ultima scintilla di questo fuoco di Francia, io elevo di fronte ad essi questo libriccino di carta, questa miseria di parole, questa raccolta di magie perdute; e che importa ciò che ne sarà, se, nel momento dell’odio più profondo, ho mostrato per un istante a questo paese il volto risplendente dell’amore?
Louis Aragon
(Prefazione a Les yeux d’Elsa, Nizza, febbraio 1942)
(Tratto da: Franco Fé, Aragon. La vita, il pensiero, i testi esemplari, Milano, Edizioni Accademia, 1973, pp. 175-176).
Inserito il 18/07/2023.
Il Partito comunista deve indicare o addirittura imporre un indirizzo estetico ai propri militanti artisti e scrittori?
Sembra strano, ma nel 1946, con le macerie delle città francesi ancora fumanti per la guerra, gli intellettuali del Partito comunista francese si scontravano su formalismo e realismo, forma e contenuto, arte impegnata e “arte per l’arte”…
Protagonisti della querelle due nomi importanti del panorama culturale francese: il filosofo Roger Garaudy, allora membro della direzione del PCF, e il poeta Louis Aragon, in precedenza massimo esponente, insieme ad André Breton, del surrealismo, e poi convertito al realismo e al servizio della classe operaia e della rivoluzione sociale e politica.
Dei riflessi italiani di tale polemica abbiamo già dato conto in un’altra sezione del sito (sezione Compagni di strada); qui di seguito diamo i testi tradotti degli interventi dei “duellanti” su riviste vicine al partito, con la parziale retromarcia finale di Garaudy.
di Roger Garaudy
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Artisti senza uniforme
di Roger Garaudy
NON C’È UNA ESTETICA DEL PARTITO COMUNISTA. Ecco, l’abbiamo detto. Dunque non ci tormentiamo più con le dispute del «formalismo» e del «realismo». È «marxista» la ricerca «d’avanguardia» o è «marxista» il «soggetto»? Lo sono l’uno o l’altra o non lo sono né l’uno né l’altra. Se un bimbo sciocco mi chiede: chi conta più, la mamma o il babbo, io non gli rispondo. Ognuno ha la sua funzione. I pittori comunisti non portano un’uniforme; nessun comunista porta un’uniforme. I fascisti sì: portavano tutti la stessa camicia, nera o bruna, e salutavano tutti allo stesso modo. Noi comunisti vogliamo andare verso l’uomo. Quale uomo? Un uomo che non abbia un volto già bell’e fatto, né ad immagine di dio, né ad immagine d’un «duce». Questo volto lo si deve formare, costruire mediante uno sforzo comune, uno sforzo di creazione, d’iniziativa, di responsabilità, di coraggio. Quale esso sarà in definitiva, non lo sappiamo. E anche questo «in definitiva» non ha senso. Un pittore comunista ha il diritto di dipingere come Picasso. Ma ha anche il diritto di dipingere diverso da Picasso. Un comunista ha il diritto di amare tanto l’opera di Picasso, quanto quella dell’«antipicasso». La pittura di Picasso non rappresenta l’estetica del Comunismo, come non la rappresenta quella di Tatzlitsky o di qualsiasi altro. Con questo non voglio dire che il marxismo escluda l’estetica di Picasso o di altri. Il marxismo non è una prigione; è uno strumento per capire il mondo. Si può essere in molti, si può essere milioni a capirlo allo stesso modo e ad esprimerlo differentemente. Chi pretende che noi imponiamo un’uniforme o un fez ai nostri pittori o ai nostri musicisti o ad altri, è un nemico o un imbecille.
La tecnica nucleare non è servita fino ad oggi che a distruggere (e solo fino a un certo punto) l’atollo di Bichini. Perciò la si deve condannare? Mauriac dice di sì, e arriva alla conclusione che l’uomo è maledetto. Il suo è un atteggiamento reazionario. Non è così il nostro. Il fisico che ha inventato la bomba atomica è un grande fisico. Ma può essere un meschino uomo se nella sua scoperta non ha avuto altro di mira che la bomba, e non ha pensato invece all’enorme forza venuta in suo possesso per costruire, non per distruggere, l’umanità.
Così pure un grande talento di pittore, un genio addirittura, può albergare in un uomo meschino. E un grande spirito, un gran cuore d’uomo può nascondersi in un pittore mediocre. Cosa vuol dire questo? Che il cuore, la testa, l’occhio e la mano non vanno bene d’accordo. Sia maledetto il regime sociale che genera tali discordanze. Quello che voglio, che aspetto è l’uomo, l’uomo completo, totale. Nell’attesa però niente di quanto si fa oggi rifiuto e disprezzo. Ogni qualvolta voi aggiungete qualcosa di nuovo alla forma umana, non fosse altro che un mezzo nuovo d’espressione, fate opera divina e ve ne siamo riconoscenti. In una società diversa la vostra tecnica sarà messa al servizio di altre finalità. Quando un respiro umano dà ala ai vostri mezzi tecnici ed essi trovano qualche cosa da esprimere, mi riempio di gioia. Se nelle attuali condizioni sociali non trovate di meglio, per esercitare il vostro virtuosismo, che tre gusci d’uovo in un piatto, non ne faccio una colpa a voi, la faccio alla società nella quale vivete. I vostri mezzi non sono per questo meno poderosi. E se qualcuno di voi rivela qualche barlume di verità e di grandezza, io me ne rallegro. Ma se i suoi mezzi tecnici sono fiacchi, gliene faccio un rimprovero, poiché così compromette una causa grande, anche senza di lui, con delle deficienze che sono esclusivamente sue.
In questa società piena di contraddizioni avviene o che il tecnico supera l’uomo, oppure che l’uomo non ha sufficiente tecnica per esprimersi. Questo divorzio fra tecnica e uomo è proprio dell’epoca. Avremmo il diritto di pretendere che un pittore fosse innanzitutto un uomo e poi che sapesse dipingere. Ma le condizioni sociali dispongono diversamente. Ci sono cuori e intelligenze d’uomo che non avranno mai l’occasione d’appropriarsi il linguaggio della pittura per esprimersi. E ci sono dei pittori che non sono nulla più che un occhio perfetto e una mano maestra. Nell’attesa dell’uomo completo, il quale non potrà nascere che in una società senza classi, bisogna contentarsi di quello che c’è. Il vostro cuore non batte a un ritmo intenso. Per questo dovrei disprezzare la perfezione del vostro occhio o il virtuosismo delle vostre mani? Invece me ne rallegro, anche se il vostro occhio e le vostre mani sono al servizio d’una mente sregolata.
Vorrei che voi artisti, voi creatori foste più umani. Ma lo so: siete gli dèi del caos. Non ve ne faccio una colpa, giacché non è dio che fa il caos e l’ordine. È l’uomo disordinato che crea gli dèi a sua immagine. Perciò dio non è che un uomo orgoglioso e incompleto. Vi prego di ricordarvene.
Questo so (e non dico «questo credo», ma «questo so», tale è la mia certezza): che la Rivoluzione, coordinando insieme, armonizzando e gli occhi e le mani e lo spirito e il cuore, susciterà anche e soprattutto milioni di lettori per il romanziere, milioni di ascoltatori per il musicista, milioni di amatori per il pittore. Vi è indifferente dipingere per dieci uomini o per dieci milioni? Questo è il dono maggiore che potete aspettarvi da noi. La storia del teatro non è la storia del suo pubblico? E tutte le arti non sono suscitate e trasformate dal pubblico che le reclama e le aspetta?
Ma anche in questo non aspettatevi miracoli. Noi non crediamo ai miracoli. È probabile che una Francia comunista crei una pittura più bella di quella della Russia Sovietica, giacché in Francia le tradizioni della pittura sono più forti. Creerà forse una musica meno buona, giacché le sue recenti tradizioni musicali sembrano inferiori a quelle della Russia. Comunque una Rivoluzione non distrugge, ma completa, porta a maturazione; rifà un popolo, una nazione, ma non fa miracoli.
E ancora una parola: questo comunista, voi direte, parla in prima persona, dice «io», mentre noi aspettiamo la «linea» ufficiale, l’ortodossia. Cari amici: anche un altro vi parlerà in prima persona, dirà «io». È proibito ai comunisti parlare in prima persona? Solo i nemici e gli imbecilli (e spesso sono tutt’uno) vi diranno che per noi l’«io» è una «finzione grammaticale». Ebbene, non è così, e bisogna che quelli si rassegnino. Ognuno dirà «io» senza ortodossia estetica, e nessuno mai si permetterà in questo campo di dirvi l’ultima parola. L’ultima parola in questo caso è questa: che non esiste un’ultima parola. Al lavoro dunque, e con tutta libertà.
Roger Garaudy
(Tratto, con lievi correzioni, da: Roger Garaudy, Non esiste un’estetica del Partito Comunista, in «Il Politecnico», n. 33-34, settembre-dicembre 1946; la rivista di Elio Vittorini riprese con questo titolo e tradusse sul proprio numero 33-34 del 1946 l’articolo di Garaudy Artistes sans uniforme, uscito sul n. 9/1946 della rivista di arti plastiche «Arts de France»).
Inserito il 16/07/2023.
di Louis Aragon
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L’arte, “zona libera”?
di Louis Aragon
Artisti senza uniforme: è il titolo di un articolo di Roger Garaudy sull’eccellente rivista «Arts de France», n° 9, e si tratta di un bel titolo e di un tema che è utile affrontare. Non ci stupiamo certo del brillante polemista Roger Garaudy, che ha sempre una felice vena espressiva quando parla di cose che conosce bene, per esempio di questioni religiose. Qui si tratta del diritto che hanno gli artisti a esprimersi in modi diversi, anche se comunisti: «chi pretende che noi imponiamo un’uniforme o un fez ai nostri pittori o ai nostri musicisti o ad altri, è un nemico o un imbecille?». Questo è sicuro. Bisogna essere in cattiva fede o degli stupidi per pretendere che sia altrimenti. Ma il diritto alla diversità non è il diritto all’errore, ed è questo che commette tuttavia Roger Garaudy nel suo articolo.
Siamo giusti. Alla fine del suo articolo riconosce: «…questo comunista, voi direte, parla in prima persona, dice «io», mentre noi aspettiamo la «linea» ufficiale, l’ortodossia. Cari amici: anche un altro vi parlerà in prima persona, dirà «io»…». In questo modo Garaudy presenta il suo articolo come espressione della propria fantasia personale, e ha ragione. Eppure il suo articolo inizia in modo più dogmatico.
«NON C’È UNA ESTETICA DEL PARTITO COMUNISTA. Ecco, l’abbiamo detto. Dunque non ci tormentiamo più con le dispute sul «formalismo» e sul «realismo». È «marxista» la ricerca «d’avanguardia» o è «marxista» il «soggetto»? Lo sono l’uno o l’altra o non lo sono né l’uno né l’altra…».
Di chi è questo aforisma vergato in lettere capitali, da dove inizia Roger Garaudy? Da Roger Garaudy. Ciò infatti l’ha detto lui stesso in un articolo apparso qualche settimana fa. Assomiglia molto a un’affermazione autorevole, e molti crederanno che questa sia una posizione ufficiale (se non hanno letto le precauzioni prese tardivamente dall’autore per avvisarci che parlava solo a titolo personale). È detto così, ma forse si tratta di una materia su cui riflettere, di cui discutere. Infine, anche se accettiamo questo punto di partenza, se il partito comunista non ha una estetica, a me pare (e anch’io parlo solo a titolo personale) estremamente dubbio che se ne possa dedurre che tutte le estetiche sono buone.
Tuttavia Roger Garaudy respinge uno dopo l’altro il realismo e il formalismo, muniti delle stesse virgolette sprezzanti. Mette sullo stesso piano le ricerche d’avanguardia (suppongo che intenda le ricerche formali) e il soggetto dell’opera d’arte (suppongo che intenda la necessità per l’artista di un contenuto per la sua opera). Ci dev’essere di sicuro qualche errore: se tutte le estetiche sono buone, com’è che Garaudy ha attaccato a più riprese l’esistenzialismo con una foga che non sarò io a biasimare? Un comunista può1 essere surrealista in senso stretto? In generale, bisogna trattare alla stessa stregua la ricerca della verità nell’arte e la menzogna posta come base dell’arte?
Mi si dirà che si può essere comunista e credere in Dio. È vero. Ma ciò non implica l’eclettismo del partito in materia filosofica. Un comunista può in privato credere in Dio, ma il materialismo non smetterà per questo di essere la posizione «ufficiale» del partito. È imporre ai propri membri di portare il «fez»? È proprio singolare quel liberalismo che pretenda di restringere i diritti del partito a pronunciarsi su un argomento, fosse anche l’estetica; che pretenda di stabilire la neutralità del partito su un argomento come l’estetica. È questo che vuol dire Garaudy?
Temo di sì: poiché, dopo aver rovesciato sul sistema capitalista la discordanza che può esserci tra il cuore o lo spirito di un uomo e il suo genio come pittore, aggiunge: «Quello che aspetto è l’uomo, l’uomo completo, totale. Nell’attesa però niente di quanto si fa oggi rifiuto e disprezzo», e più oltre: «Nell’attesa dell’uomo completo, il quale non potrà nascere che in una società senza classi, bisogna contentarsi di quello che c’è…».
In altre parole, se l’arte spesso non è come Garaudy o voi o io desideravamo, va rimproverato solo il capitalismo, mentre l’artista può tranquillamente continuare a dipingere qualsiasi cosa in qualsiasi modo, Garaudy e voi e io gli batteremo sempre le mani, respingendo ogni critica finché non ci sarà in Francia una società senza classi. Chi è che non capisce che, se prendessimo tutto questo alla lettera, ciò significherebbe semplicemente l’abbandono del punto di vista della lotta di classe? Che cos’è «quello che c’è» se non proprio il capitalismo? Non faccio fatica a credere a Garaudy quando afferma che questa non è né la posizione ufficiale né l’ortodossia!
Mi si obietterà che lui propone questa neutralità solo nel campo dell’estetica. Lo capisco: e vedo anche che ci sono persone che sono prontissime ad applaudire la creazione di questo giardinetto, di questa oasi in cui si possono fare delle bestialità del tutto impunemente. Mi dispiace che Garaudy dia loro in questo modo (in realtà solo a titolo personale) un’approvazione che quella gente considererà come l’approvazione del partito stesso per legittimare la fuga nell’arte, l’intangibilità dell’arte, la cultura di tutti i veleni e delle ideologie della classe dominante, sotto il manto dell’eclettismo.
Tutto questo va troppo di moda, anche tra gli stessi artisti e scrittori membri del partito. Basta leggere le pubblicazioni che parlano di questioni intellettuali in cui hanno voce anche i comunisti per vedere che questione va oltre il singolo articolo di Roger Garaudy e una opinione del tutto personale che egli possa esprimere. Questo liberalismo estetico e questo eclettismo estetico esprimono in realtà una malattia molto diffusa e che sembra contagiare con Garaudy anche quelli che ne parevano più distanti.
Esiste una scusa periodicamente utilizzata da queste persone che vogliono assolutamente provare che il loro eclettismo è «marxista». Marx, dicono, ammirava molto Balzac, che era monarchico. Non è questa forse la prova che l’estetica e la politica sono due campi separati? Ebbene, no. Marx ammirava Balzac realista, non Balzac monarchico, e sfido chiunque a mostrarmi un punto in cui Marx dichiara di ammirare quei libri di Balzac che hanno un carattere mistico, per esempio.
Mi si dirà che dunque è questo il dente su cui la lingua mi batte: il rifiuto di scegliere tra formalismo e realismo. Certo. Io da parte mia non la pretesa di sapere sempre che cosa è «marxista» e che cosa non lo è. Ma, difendendo il marxismo, credo di servire quella causa che è la causa della verità. Mi sembra impossibile che un partito che si richiama al marxismo accetti una posizione di indifferenza di fronte alla verità. Il realismo a me pare la concezione che nell’arte e nella letteratura risponde al materialismo storico: è possibile che io mi sbagli, ma è possibile anche che quelli che si inalberano quando si pronuncia la parola realismo non sappiano di cosa sto parlando. Io non credo che sostituire della macchina fotografica all’uomo sia un progresso artistico. Il realismo contiene necessariamente la sua parte di interpretazione della realtà. E non è neanche la preferenza per la sporcizia e la cupezza, benché ci siano realmente delle cose cupe e sporche. Io non considero realisti quegli artisti che alla realtà sostituiscono la convenzione della realtà. Al contrario, presso artisti e scrittori che non sono considerati realisti, sono sempre pronto a salutare la realtà ritrovata, che sorge laddove non ce l’aspettavamo più, con quella forza irreprimibile che non troviamo nelle opere accademiche. Il realismo può anche mescolarsi in Balzac con idee mistiche, con il monarchismo; in Hugo o in Picasso può mescolarsi con altri principi. Tutto sta nel riconoscerlo e nel sapere che cosa si ammira. Per rimanere su Picasso, poco tempo fa criticato in modo abbastanza superficiale da Roger Garaudy, diventa oggi un asso nella manica della sua argomentazione per provare la libertà di scelta per i comunisti tra formalismo e realismo.
Se un comunista non ama la pittura di Picasso non commette alcun crimine. Siamo d’accordo, è inutile sfondare porte aperte. Ma se un comunista ama la pittura di Picasso, spero che sappia il perché; ed è anche suo diritto scegliere che cosa amare all’interno della produzione di Picasso.
La paura di passare per uno che indossa un’uniforme fa sì che certe persone, vestendosi di tutti i colori, non si accorgano di indossare tutte la stessa livrea, quella di Arlecchino, buon servo dei suoi padroni, e che il loro bastone, invece di colpire i veri nemici della libertà, si rivolga contro l’unica libertà che abbia valore: quella di dire la verità.
La verità non si dà per decreto, e Garaudy può anche concludere il suo articolo con questo incoraggiamento: «Al lavoro dunque, e con tutta libertà»; è una frase vuota, poiché la libertà si conquista solo con la lotta in ogni istante, la difesa delle nostre concezioni, una critica implacabile di tutto ciò che contrabbanda tra noi l’ideologia tirannica dei nostri padroni; e sia ben inteso che se non bisogna dare alla parola realismo il senso fotografico che molti le attribuiscono, se per parte mia difendo spesso artisti e scrittori, tutt’altro che realisti, proprio per quella parte di realtà che si riflette nella loro opera, voglio dire qui, parlando solo a titolo personale, che il partito comunista ha un’estetica, e che questa estetica si chiama realismo.2
ARAGON
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Louis Aragon, L’art, “zone libre”?, in «Les Lettres françaises», 6e Année, N. 136, 29 novembre 1946).
Note
1 Io chiedo: può, è possibile per lui essere surrealista? Non chiedo se ciò gli è permesso.
2 Il presente articolo era già scritto quando è apparso, su «Action», un editoriale di Pierre Hervé dal titolo Non esiste l’estetica comunista. Si noterà che questo titolo aggrava e altera la formula di Garaudy, che si era limitato a dire che non c’era una estetica del partito comunista. Non mi sembra qui necessario analizzare l’articolo di Hervé, in genere meglio ispirato, che si limita ad approvare senza riserve la tesi di Garaudy, di cui non cita le frasi più discutibili. Tuttavia, due giorni dopo la dichiarazione di Maurice Thorez al «Times» in cui afferma la diversità delle vie nazionali dei partiti comunisti, esprimendo con ciò una verità che non è un’innovazione o l’espressione di una di quelle «svolte» che sia ama tanto scoprire nella politica comunista, succede che Hervé sembra poggiare la propria tesi su questa dichiarazione quando scrive: «Il partito comunista dell’URSS ha una politica. Ha la sua missione e le sue responsabilità. Noi, comunisti francesi, abbiamo la nostra politica. Noi giudichiamo letterati e artisti, senza dubbio, in funzione della nostra concezione generale del mondo, ma, nell’immediato, in funzione della nostra politica». È bene dire che le similitudini, del tutto apparenti, tra queste due dichiarazioni, quella di Maurice Thorez e quella di Pierre Hervé, non devono trarre in inganno il lettore: l’indipendenza del partito comunista francese rispetto al partito bolscevico non ha bisogno di essere giustificata nel campo dell’arte; non c’è ragione che noi ci opponiamo a tutto quello che in URSS viene considerato giusto. Quando un russo dice che a mezzogiorno è giorno, noi ci metteremo a gridare che a mezzogiorno è notte? Infine, chi è che non vede che questa opposizione tra «la nostra concezione generale del mondo» e «la nostra politica… nell’immediato» è arrischiata e inquietante? Giudicheremo criminale nella «nostra concezione generale del mondo» ciò che incoraggeremo «nell’immediato»? Si tratta di una posizione opportunista che non può, in nessun caso, prendere come base la dichiarazione di Thorez, espressione di una verità e «nell’immediato» e nella «nostra concezione generale del mondo».
Inserito il 16/07/2023.
di Roger Garaudy
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Nessuna polemica sulla libertà
di Roger Garaudy
Non c’è nessuna polemica sulla libertà. E gioisco senza riserve per l’articolo di Aragon sull’Arte, zona libera; egli condanno tutto ciò che noi combattiamo. Non si tratta di una polemica, ma di contributi che si susseguono per una ricerca che ci accomuna.
Riportando la questione dal piano personale a quello dei problemi, partiamo dai principi di Aragon, che sono i miei stessi principi, che ho formulato ne Il comunismo e la rinascita della cultura francese, per definire con chiarezza almeno quattro nozioni: quelle di «libertà», di «estetica», di «formalismo» e di «realismo».
La libertà non si rivendica nel vuoto, in astratto. Essa non si costruisce sul nulla. La libertà non è il diritto all’errore. Non è l’assurda possibilità di andare controcorrente rispetto alla storia. La libertà comincia ad avere senso solo per l’uomo che partecipa coscientemente al movimento progressivo della storia. Aragon dice in modo eccelso che noi difendiamo «la sola libertà che valga: quella di dire la verità». La libertà comincia partendo solo da lì: al di qua non ci sono che degli erranti, i meno liberi tra gli uomini.
Per tutti coloro che partecipano a questo movimento progressivo della storia, che inscrivono in esso ogni loro pensiero e ogni loro atto, la vita acquista un senso e uno stile nuovi. L’eroe è colui che subordina la propria vita al trionfo di queste forze in ascesa della storia. E l’arte, che è prima di tutto la coscienza eroica di un’epoca, è dominata da questo tipo di eroi. L’artista non è solo un testimone, ma un militante. Al centro della sua opera c’è una concezione dell’uomo. E nessun artista può dirsi comunista se non scorge questo volto nuovo dell’uomo e dell’eroe che, in questi anni di battaglie e sacrifici, noi migliaia di volte abbiamo visto morire, e anche vivere.
Amare questa realtà che sta nascendo, lavorare per la sua realizzazione, è il primo e indispensabile passo di un artista. Solo a colui che ha compiuto questo passo parliamo di libertà, perché solo per lui essa avrà un contenuto e un senso.
A degli amici pittori che riconoscevano con me questi fondamenti della libertà io potevo dire, su «Arts de France», che il partito comunista non esclude a priori nessuna forma di espressione di questa realtà. Ricordando che il marxismo è uno strumento che ci permette di capire il mondo, aggiungevo, per evitare ogni confusione: «Possiamo essere migliaia a capire il mondo allo stesso modo e ad esprimerlo in modo diverso». I nostri pittori cercano in varie direzioni questi mezzi d’espressione, e siccome alcuni sembravano temere che noi ponessimo dei limiti stretti a tali ricerche, ci tenevamo a rassicurarli. Ci scontravamo con questa credenza assurda ma dura a morire che diventando comunista un pittore è tenuto a trattare determinati soggetti e con una determinata tecnica. Certuni tacciavano di «formalismo» ogni interpretazione artistica della realtà, altri identificavano il «realismo» con un naturalismo fotografico. Adottando il linguaggio improprio dei miei interlocutori ho avuto il torto – lo riconosco molto volentieri – di dare una risposta mal formulata a una domanda mal posta. Se ho dato l’impressione di respingere uno dietro l’altro il formalismo e il realismo, ringrazio Aragon di avermi aiutato ad autocriticarmi.
Noi non possiamo scegliere una estetica, una sola; non si tratta di affermare la nostra «neutralità sul piano estetico» e men che meno di proclamare che «l’artista può tranquillamente continuare a dipingere qualsiasi cosa in qualsiasi modo».
L’essenziale per noi – ripetiamolo – è la concezione dell’uomo. Il modo di esprimere l’uomo è con tutta evidenza legato alla concezione che ne abbiamo. Ogni estetica è quindi legata a una concezione dell’uomo, così come una tecnica deriva dallo scopo che le assegniamo.
Dire che in questo ambito il campo delle ricerche non è chiuso non è come dire che «tutte le estetiche sono buone». Per esempio prendiamo posizione contro ogni estetica che sia fondata sulla credenza in una «bellezza in sé», strettamente legata a una metafisica idealista e direttamente opposta alla nostra concezione dell’uomo.
Allo stesso tempo giudichiamo e condanniamo la teoria dell’«arte per l’arte». Assegnare un valore assoluto alle ricerche formali indipendentemente dalla realtà che esse esprimono significa porre l’artista in un vicolo cieco e destinarlo all’impotenza. Il formalismo dell’arte per l’arte, dell’arte senza contenuto umano, è un’evasione. E questa evasione ha un significato classista. Predicare la diserzione di fronte alle lotte progressive della storia è affare di coloro che temono l’avvenire. In ogni epoca le classi decadenti, condannate dalla storia, hanno cercato di alterare o fuggire una realtà il cui sviluppo rappresentava per esse un pericolo: mistificazioni ellenizzanti, bizantinismo, preziosismo, surrealismo sono lì a testimoniare questo orrore di fronte al reale che coglie le forze del passato quando l’avvenire nascente le minaccia.
Il formalismo è reazionario nel senso più completo del termine: esso esprime il desiderio di andare controcorrente rispetto alla storia. Per escluderlo scrivevo su «Arts de France»: «Abbiamo tutto il diritto di pensare che un pittore prima di tutto è un uomo, e poi che sa dipingere».
Il significato di realismo è più complesso. Dichiararci «realisti» non basta, poiché il formalismo oggi ha abbastanza vergogna di se stesso che i suoi adepti mascherati si dichiarano anch’essi «realisti». Le peggiori sofisticazioni della realtà colpiscono il realismo.
Il realismo implica sempre un giudizio sulla realtà: anche quello fotografico comporta una scelta, quella di quel preciso frammento del reale. E anche quando pretende di essere obiettivo, esso rappresenta per forza di cose un’accettazione o un rifiuto della realtà che descrive. Due decisioni preliminari definiscono ogni tipo di realismo: la decisione di scegliere un determinato aspetto della realtà e la decisione di adottare nel suoi confronti un atteggiamento di vicinanza o di avversione.
Ognuno ha i propri criteri per collocare l’uomo, il proprio metro per misurarlo. Il cattolico conduce l’uomo al cospetto del suo Dio e lo giudica secondo le unità di misura che gli sono proprie: il peccato e la grazia. È così che procedono un Mauriac o un Bernanons in nome di quello che essi chiamano «realismo cristiano». Non dico che la loro espressione sia valida; constato soltanto che essa esiste e che dobbiamo darle la giusta collocazione. «Grazie a un certo dono d’atmosfera – scrive Mauriac nel suo «Journal» –cerco di rendere sensibile, tangibile, odoroso l’universo cattolico del male. A quel peccatore di cui i teologi che danno un’idea astratta io do corpo e carne». Il «pregiudizio» esistenzialista è meno confessato e meno dogmatico, ma non è meno evidente: una determinata concezione dell’uomo viene proiettata sul reale e l’esistenzialista conduce in questa rete individui di un certo tipo. La descrive minuziosamente e dichiara serio, come Sartre un giorno ha dichiarato: «Il mondo è così!». È vero: l’uomo è «così» là dove andate a pescarlo, tra il Café de Flore e il crocevia Raspail-Montparnasse. La vostra rete cattura solo questo genere di selvaggina. L’uomo vi viene giudicato in funzione di una libertà informe e senza contenuto: quella degli avventurieri di Malraux o dei relitti di Sartre.
Non diciamo affatto che questo aspetto della realtà debba essere escluso dall’opera d’arte; constatiamo soltanto che invece di suscitare la rivolta contro un tale aspetto marcescente della realtà, l’esistenzialista viene a patti con ciò che essa ha di più sordido.
Il nostro realismo ristabilisce la totalità del contesto umano. Porta l’uomo di fronte a un’epoca con i suoi bisogni, di fronte a una classe con i suoi interessi, il suo ideale e la sua missione storica.
La nostra solidarietà verso tutto ciò che sta nascendo, si sta sviluppando e sta crescendo, contro tutto ciò che si disgrega e muore, ci ispira quell’ottimismo ragionevole, quella fiducia virile nel domani e quel vigore militante che caratterizzano l’equilibrio e il carattere sano delle epoche migliori. Di fronte ai falsi profeti dello scetticismo, dell’angoscia e della disperazione, il nostro realismo è quello dell’affermazione, della costruzione e della gioia.
È questo il realismo che amiamo in Aragon quando penetra nei «quartieri bene» con una frusta di corde, quando suona per i francesi in battaglia la Diana francese, quando François la Colère vive e racconta le nostre certezze e i nostri disprezzi, i nostri dolori e le nostre speranze, quando, di fronte ai maurrassiani1 che lo fischiano alla Sorbona, tiene loro testa in nome del popolo, delle sue tradizioni, delle sue lotte. Ecco perché tra noi non può sorgere una polemica sulla libertà: è la stessa libertà che conquistiamo ogni giorno, insieme, caro Aragon, e contro gli stessi nemici.
Roger Garaudy
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Roger Garaudy, Il n’y a pas de querelle de la liberté, in «Les Lettres françaises», 6e Année, N. 138, 13 dicembre 1946).
Note
1 Il maurrassismo fu una dottrina politica di tendenza nazionalista, antisemita, sciovinista, monarchica, antiliberale e anticomunista elaborata da Charles Maurras (1868-1952) e che costituiva la base ideologica del movimento politico Action Française, fondato nel 1899 [ndr].
Inserito il 16/07/2023.
Franz Kafka (1883-1924).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/93/Kafka1906.jpg
Leggendo l’odierna edizione (n. 26, 5-11 luglio 2023) del giornale letterario russo «Literaturnaja gazeta» mi è saltato all’occhio questo articolo dedicato al 140° anniversario della nascita di Franz Kafka, uno dei pilastri della letteratura mondiale. L’autore del brevissimo saggio parla di Kafka ma anche di noi, delle nostre debolezze di uomini e dei nostri disastri di popoli, e parla da un luogo che è proiettato davvero in una realtà kafkiana: Sebastopoli, Crimea, Ucr…? Rus…?
Ecco, leggiamo Kafka attraverso la lente di Platon Besedin, uno scrittore di lingua russa proveniente da una città contesa tra due nazioni slave, e percepiremo tutta l’assurdità del nostro esistere su questo pianeta disperato.
Leandro Casini
di Platon Besedin
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Un secolo all’insegna dell’assurdo
3 luglio 2023: 140 anni dalla nascita di Franz Kafka
E nel 2024 ricorreranno i 100 anni dalla sua morte. Sì, questo secolo l’abbiamo vissuto sotto il segno di Kafka. Lui è giunto al lettore dopo l’attacco chimico vicino a Ypres ed è diventato ancor più significativo dopo la seconda guerra mondiale.
Theodor Adorno scrive: «Dopo Auschwitz ogni poesia è impossibile». Ed è vero, è possibile parlare di cose elevate dopo che tutte quelle persone sono state arse nei forni crematori? Ma cos’è in fondo la guerra se non una follia kafkiana?
Orwell, Huxley, Zamjatin hanno descritto il lato esteriore della distopia: come è strutturata amministrativamente, economicamente, politicamente, socialmente. Franz Kafka ha mostrato la distopia interiore dell’indivduo: il suo essere prigioniero della confusione, della paura, della solitudine. E, come ha notato Hesse, il problema principale di Kafka è il conflitto tra il desiderio appassionato di comprendere il senso della vita e il dubbio su qualsiasi tentativo di darle un senso. Ma in fin dei conti questo diventa anche il nostro problema.
Tra i predecessori di Kafka, Borges nomina Kierkegaard. Timore e tremore è un’opera fondamentale al centro della quale c’è la storia di Abramo e Isacco. Anche Kafka a volte prende come base alcune storie bibliche, anche se poi le cambia al punto da non poterle più riconoscere. Il processo è uno sguardo al passato, all’Apocalisse di san Giovanni, ma è anche un ponte verso il futuro, verso gli esperimenti di David Lynch.
Negando l’immortalità e la religiosità, Kafka in realtà cercava Dio in modo stravagante. Lo cercava non attraverso delle trame edificanti o tramite delle qualità come la bontà e la bellezza, ma, come scrive Camus, attraverso i volti vuoti e deformi della Sua indifferenza, della Sua ingiustizia e del Suo odio. Il testo di Kafka è una specie di Urlo di Edvard Munch, però in prosa.
Dostoevskij diceva che non c’è niente di più fantastico della realtà che ci circonda. Kafka porta questa frase all’estremo e, come osserva il critico Komarov, mostra che l’assurdità esistenziale che è alla base della vita non è affatto innocua: condanna l’individuo all’incubo materializzato della disperazione. E infatti, entrando in un’istituzione statale, non ci imbattiamo forse anche noi nel Castello kafkiano? Non ci sentiamo anche noi come agrimensori che vagano tra gabinetti e uffici? Chi siamo noi davanti al volto granitico di un sistema spietato? Degli imputati come Josef K.?
Ecco che anche il commesso viaggiatore Gregor Samsa, diventato un insetto (con tutta evidenza uno scarafaggio), è l’immagine viva di quanto sia facile perdere l’essenza umana e di quanto sia importante lottare per la propria personalità e identità. Anzi, spesso, schiavizzati da mammona, ci trasformiamo davvero in insetti. Ma Samsa è uomo dentro, e le persone intorno a lui lo sono soltanto esteriormente. Certo, lo scarafaggio provoca disgusto, ma allo stesso tempo è sempre accanto a noi. Solo di una cosa Kafka non ha tenuto conto in questo racconto intitolato La metamorfosi: molte persone del futuro non hanno affatto paura degli insetti, di vivere come parassiti.
Perché al mondo è stato tolto il nucleo vitale. «Dio è morto», e gli europei lo hanno sostituito o con un superuomo, o con un’essenza universale, o con un’installazione, o con un algoritmo onnipotente. L’opera di Kafka è una reazione al mondo senza Dio, quando gli uomini si uccidono a vicenda perché non possono fare a meno di uccidere. E col passare del tempo – e lo si mostra nel film di Haneke Funny Games – iniziano a uccidere perché semplicemente piace loro, li diverte. E per uccisione qui si deve intendere non solo l’eliminazione fisica, ma anche la soppressione morale, psicologica, socio-economica.
Per molto tempo tali problemi sono stati più attuali per l’Europa che per la Russia. L’assurdo russo, come ha notato il critico Kolobrodov, è una costruzione verticale che presuppone un collegamento di ritorno, un legame all’indietro. È sempre il frutto di una coscienza religiosa. Nella tradizione occidentale, invece, il subconscio si proietta orizzontalmente sul mondo materiale circostante. Così è stato, sì, ma fino a un certo momento.
L’attuale esistenza russa si è chiusa sul materiale, sull’orizzontale: ecco perché siamo nella “kafka-realtà”. La trasformazione è avvenuta, siamo prigionieri del Castello. Come evadere e salvarci? Per fortuna Kafka non priva il suo mondo della speranza: al contrario, più evidente è la disperazione, più il mondo esterno opprime, più forte è l’uomo interiore, più forte è la sua speranza. Sì, sembrerebbe assurdo, ma è proprio questa l’essenza e la grandezza di Kafka.
Platon Besedin
scrittore, Sebastopoli
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da P. Besedin, Vek pod znakom absurda, in «Literaturnaja gazeta», n. 26, 5-11 luglio 2023; https://lgz.ru/article/-26-6891-05-07-2023/vek-pod-znakom-absurda/).
Inserito il 05/07/2023.
Anni Settanta. Altri tempi, tempi in cui il dibattito si svolgeva tra giganti del pensiero e della letteratura, della linguistica e della filosofia. E i giornali, le riviste, le aule delle università si confrontavano sul tema del giorno senza tregua, senza dar segni di stanchezza, colpo su colpo.
Fermento politico, impegno culturale, vivacità d’idee, spessore teorico: tutto questo emerge dal dibattito di cui oggi presentiamo il contesto e un testo fondamentale. Il contesto lo traiamo da una ricca ricostruzione di Valerio Valentini: Pier Paolo Pasolini è al centro di attacchi da più parti per alcune sue dichiarazioni e poesie in cui il poeta manifesta un certo rimpianto per la cultura contadina del passato, soprattutto per sottolineare il rifiuto della moderna società dei consumi, alienatrice e omologatrice, distruttrice di ogni cultura. Il testo invece, una Lettera aperta di Pasolini a Italo Calvino, lo riprendiamo direttamente dall’edizione del 7 luglio 1974 di «Paese Sera», giornale di area PCI che in quegli anni offriva ampio spazio agli intellettuali di sinistra.
Pier Paolo Pasolini e Italo Calvino.
Fonte della foto:
https://www.ilprimoamore.com/pasolini-contro-calvino-nuova-edizione/
Dal sito quattrocentoquattro.com
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Pasolini, Calvino e gli altri: una polemica
Il 23 dicembre 1973, meno di un mese dopo il varo delle politiche di austerità da parte del governo Rumor, «l’Unità» organizza una tavola rotonda alla quale partecipano Giorgio Napolitano, Luciano Lama, Paolo Rossi e Giorgio Ruffolo, per discutere di Sviluppo economico e modelli di vita. Da parte di Ruffolo giungono critiche aspre contro «possibili interpretazioni regressive che si tende ad avallare quando si parla di un nuovo modo di sviluppo»: interpretazioni «mistico-reazionarie, che ad ogni crisi dell’umanità ripropongono lo spauracchio di un’apocalisse». Sulle stesse posizioni si colloca Rossi, che dapprima condanna tutti quegli «ingredienti della rivolta neoromantica contro la scienza» che stanno «riemergendo nella cultura italiana anche in quest’occasione di crisi», e poi ribadisce la propria contrarietà a tutta «una serie di prediche sul ritorno alla natura incontaminata, sull’opportunità di un ridimensionamento radicale della tecnologia»1.
Nessuno lo nomina, ma è chiaro che uno dei principali destinatari di quelle critiche è Pier Paolo Pasolini. Il quale, sentendosi evidentemente chiamato in causa, invia a «Paese Sera» cinque poesie2, il cui tema è il rimpianto per la povera, ma dignitosa, condizione dell’Italia rurale, ormai distrutta dagli abomini dello sviluppo. Il 5 gennaio del 1974 il quotidiano pubblica, dopo alcuni indugi e qualche iniziale riluttanza, i cinque componimenti, accompagnati da una lunga nota redazionale anonima – in realtà scritta da Gianni Rodari – che sottolinea la validità artistica di quei testi in quanto, appunto, poesie, ma la sostanziale insostenibilità delle tesi politiche che vi sono contenute3. La stroncatura più radicale a quei testi arriva il 13 gennaio da Valerio Riva, che sulle colonne de «L’Espresso» prima li definisce «fregnacce di un poeta», e poi liquida l’intera ideologia pasoliniana come una serie di «farneticazioni di un’Arcadia che non è mai esistita sul serio»4.
Sulla stessa rivista, pochi mesi dopo, è Lucio Coletti, nel corso della tavola rotonda organizzata da «L’Espresso» il 23 giugno, È nato un bimbo: c’è un fascista in più, a muovere accuse analoghe a Pasolini, affermando che quest’ultimo «ha solo nostalgia dell’Italia rustica e paesana», cioè di «un mito letterario che non serve a niente». È «un rimpianto di una “belle époque” che non è mai esistita»5.
Che è poi quello che a Pasolini rinfaccia Italo Calvino, in un’intervista concessa a «Il Messaggero» il 18 giugno 1974, nell’ambito del dibattito sulla vittoria del “no” al referendum e sulla presunta mutazione antropologica degli Italiani.
Non condivido il rimpianto di Pasolini per la sua Italietta contadina […]. Questa critica del presente che si volta indietro non porta a niente […]. Quei valori dell’Italietta contadina e paleocapitalistica comportavano aspetti detestabili per noi che la vivevamo in condizioni in qualche modo privilegiate; figuriamoci cos’erano per milioni di persone che erano contadini davvero e ne portavano tutto il peso. È strano dire queste cose in polemica con Pasolini, che le sa benissimo, ma lui […] ha finito per idealizzare un’immagine della nostra società che, se possiamo rallegrarci di qualche cosa, è di aver contribuito poco o tanto a farla scomparire.6
E la mitizzazione pasoliniana delle masse proletarie dell’Italia rurale è il bersaglio delle critiche anche di Maurizio Ferrara, su «l’Unità» del 12 giugno 1974:
Forse Pasolini, queste masse le amava di più come erano trent’anni fa, quando in una loro intatta purezza (tutta da dimostrare) contavano indubbiamente meno della metà di quanto contano oggi, per inquinate dai “caroselli” che siano?7
Quanto Pasolini scrive sulla mutazione antropologica degli Italiani costituisce, a giudizio di Ferrara, «un anelito che richiama le voglie della migliore intellettualità reazionaria fissata in un rimpianto oscuro per l’età dell’oro perduta», e nelle sue analisi si riscontra «una carica evidente di estetismo insoddisfatto, di un manicheismo intellettualistico», che non tiene conto del fatto che «qualsiasi età dell’oro – se mai ne è esistita una – è improponibile. E che, quindi, l’epoca migliore per fare politica non era quella, sognata, dei conti che tornavano sempre ma, piuttosto, quella in cui è dato vivere e nella quale, sfumati gli schemi delle mitologie […] la cosa fondamentale è vivere e lottare con gli occhi aperti». Cosa, però, che Pasolini non può fare, dal momento che «non si vive ad occhi aperti guardandosi indietro»: ciò costituisce «un gesto allarmante, di totale deprezzamento della dimensione politica, a vantaggio di una sorta di stato di necessità della disperazione esistenziale». Vaneggiamenti, insomma, quelli di Pasolini, dovuti al «tormento per l’usura della ragione» tipico di chi «assiste, e anche partecipa, allo scontro politico e sociale pretendendone effetti non politici ma estetici» e addirittura «guarda alla lotta politica e di classe con occhio mitologico»8.
Sia le critiche di Ferrara, sia quelle di Calvino, sono più che comprensibili: nel momento in cui la maggioranza del popolo italiano ha dimostrato di credere in ideali laici e non più bigotti, guardare al passato con un senso di vaga nostalgia è un atteggiamento che appare non degno di un intellettuale che si prefigga di contribuire al progresso sociale. Non è un caso che entrambi ricorrano all’immagine di un uomo con la testa rivolta indietro per descrivere il modo in cui lo scrittore corsaro analizza quanto accade intorno a lui9.
La replica di Pier Paolo Pasolini a queste critiche arriva l’8 luglio, nella lettera aperta indirizzata proprio a Italo Calvino. «L’“Italietta” – ribatte innanzitutto Pasolini – è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo?». Quello che Pasolini dice di rimpiangere è piuttosto «l’universo contadino», «pre-nazionale e pre-industriale», che è «un universo transnazionale» il quale «addirittura non riconosce le nazioni» in quanto «avanzo di una civiltà precedente». Quanto poi ad un’altra accusa che gli è stata rivolta, secondo la quale la sua nostalgia per l’Italia perduta gli annebbierebbe la lucidità nell’analizzare l’Italia presente, Pasolini chiarisce che quel suo rimpianto non gli impedisce affatto di esercitare la sua critica «sul mondo attuale così com’è». È, al contrario, proprio perché egli sceglie di vivere «solo stoicamente» nella società attuale, che riesce a riscontrare quella che è la caratteristica discriminante della nuova epoca rispetto a qualunque altra epoca passata: e cioè una «ansiosa volontà di uniformarsi» che non opera più soltanto, come è sempre stato, all’interno dei confini delle classi sociali e nel rispetto dei particolarismi culturali, ma che agisce «secondo un codice interclassista»10. L’Italia che Pasolini rimpiange è dunque quella in cui nessuno si sentiva costretto ad abiurare la propria cultura per ottenere di vedersi accettato nell’unica classe sociale che il Potere dei consumi è disposto ad ammettere: la borghesia. L’Italia, cioè, «della gente povera e vera che si batteva per abbattere» il padrone «senza diventare quel padrone»11.
Se, tuttavia, questo suo rimpianto diventa oggetto di pesanti accuse – di revisionismo, di apologia del fascismo, di reazionarismo – lo si deve anche al modo in cui Pasolini descrive l’Italia di cui dichiara di aver nostalgia. Egli non rinuncia, infatti, a proporne immagini vaghe e poetiche, volutamente mitizzate; oppure si rifà ad esperienze e ricordi del tutto personali per arrivare a dimostrare la superiorità di quel mondo ormai perduto. Il tutto, tra l’altro, unito ad una innegabile voluttà nel portare le proprie argomentazioni fino ad esiti estremi per poter provocare lo scandalo di interlocutori e rivali. Come accade il 9 dicembre 1973, sulle colonne del «Corriere della Sera»:
Nessun centralismo fascista è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello, reazionario e monumentale, che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava ad ottenere la loro adesione a parole. Oggi, al contrario, l’adesione ai modelli imposti dal Centro, è totale e incondizionata […]. Si può dunque affermare che la “tolleranza” della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere, è la peggiore delle repressioni della storia umana.12
È evidente come Pasolini, nel condannare la dilagante omologazione non dei costumi esteriori, ma delle coscienze fin nella loro più profonda intimità, arriva a sminuire le atrocità vissute, nel corso del ventennio fascista, dalle masse del popolo italiano, che vengono di nuovo viste sotto una luce eccessivamente idilliaca.
Tutto ciò offre a Edoardo Sanguineti la possibilità di ironizzare, su «Paese Sera» del 27 dicembre, in maniera feroce sulle convinzioni di Pasolini.
Com’era verde, però, la nostra valle! E com’erano carini i sottoproletari di una volta! Io me li ricordo benissimo, pittoreschi e straccioni, che con la selezione naturale venivano su come tante querce. […] Ah, i nostri ragazzi di Vita, che bella Vita violenta che si facevano.13
Il sarcasmo di Sanguineti investe anche l’ipotesi pasolinana secondo cui i giovani proletari, fino a qualche anno prima, «erano fieri del proprio modello popolare di analfabeti in possesso del mistero della realtà», mentre ora, vergognandosi della propria ignoranza, «hanno cominciato a disprezzare anche la cultura»14.
Brutti tempi, quando i sottoproletari si infilano la cattiva strada che li può portare, un giorno o l’altro, non so, a leggere Vico, a leggere Gramsci. Perduta la splendida «rozzezza» di un tempo, si sono messi anche a fare gli «studenti», i maleducati […].
Insomma, per me, a dirla schietta, mi andava benissimo il Fascismo. Era centralista anche quello, va bene, ma almeno non funzionava, e gli «antichi modelli» prosperavano come non mai […].15
In maniera piuttosto aspra Sanguineti declassa il discorso di Pasolini a semplice «nostalgia del fascismo» e a rimpianto dell’«analfabeta felice». Egli si insinua nelle crepe che l’estremismo retorico di Pasolini lascia aperte nel suo articolo del «Corriere» rendendolo, in alcuni punti e a prima vista, troppo radicale e sentenzioso per essere condiviso. E allargando quelle crepe, Sanguineti mostra l’apparente fragilità dell’intera ideologia dell’avversario.
Ma da dove nasce questo senso di nostalgia di Pasolini nei confronti dell’Italia arcaica? E soprattutto: perché Pasolini arriva a rimpiangerla, secondo quanto sostengono i suoi avversari, fino al punto di ridimensionarne ingiustizie e storture, esponendosi così a facili critiche?
Premesso che l’amore di cui Pasolini ama le masse proletarie è in gran parte sinceramente istintivo, dunque non razionalmente spiegabile, credo che a determinare questo sentimento di straordinaria vicinanza contribuiscano anche motivi più concreti.
Innanzitutto, Pier Paolo Pasolini, nella disperata tensione a ritagliarsi uno spazio importante nel panorama intellettuale degli anni ’50, si scopre un analista acuto di quelle masse, in parte per la sua non comune capacità di osservazione, in parte per la sua morbosa curiosità antropologica che lo spinge a frequentare ambienti solitamente rifuggiti da scrittori e registi. Nel corso di pochi anni – quelli che vanno dalla pubblicazione di Ragazzi di vita (1955) alla produzione di Accattone (1961) – Pasolini diventa una sorta di autorità in materia di “analisi del sottoproletariato”. Un’autorità discussa e spesso criticata, ma indubbiamente un’autorità. Non è da escludere, dunque, che il narcisismo che affligge Pasolini lo porti a riversare su quelle classi sociali un amore che è anche il riverbero di un autocompiacimento: si affeziona a certe tipologie umane in virtù del fatto che esse costituiscono il soggetto delle sue opere artistiche, grazie alle quali è divenuto famoso, sia in Italia sia all’estero.
In secondo luogo, come un’intera “micro-sezione” della prima parte delle Lettere luterane16 sta a testimoniare, Pasolini è riconoscente al sottoproletariato rurale per avergli rivelato l’esistenza di «altri mondi», oltre a quello che lui, nei primi anni della sua vita, riteneva fosse l’unico mondo esistente, «così cosmicamente assoluto»: il mondo piccolo-borghese17. Ed è proprio questa consapevolezza, che Pasolini è convinto d’aver maturato con maggiore precocità e radicalità rispetto ad altri intellettuali, che gli ha permesso di distaccarsi dalla schiera di quelli che lui definisce «i teppisti del conformismo», ovvero quegli scrittori che «oppongono al vero scandalo della ricerca libera e critica, il falso scandalo di una cultura stabilita», ponendo, più o meno volontariamente, «l’universo conformista cui essi appartengono per nascita» come l’unico universo esistente18. Non ritengo perciò condivisibile l’affermazione espressa su «L’Unità» del 6 marzo 1995 da Sanguineti, secondo cui «Pasolini è scrittore antiborghese perché in lui c’è una volontà di martirio che lo porta a voler espiare una colpa assoluta e a trasformare in rito negativo la propria colpevolezza di borghese»19. Pasolini, infatti, quel senso di colpa non lo avverte affatto: la sua appartenenza alla borghesia è vissuta in maniera tutto sommato pacifica, poiché il suo orgoglio di intellettuale che sa “rompere le barriere” di classe e sospingersi nel mondo sottoproletario inibisce in lui qualunque istinto al martirio. E difatti Pasolini benedice più volte il suo «amore tradizionale e non ortodosso per il popolo» che gli ha permesso di vivere «fuori dall’inferno cui per nascita, censo e cultura» era «destinato»20.
Quest’amore di Pasolini per l’Italia «prima della scomparsa delle lucciole» non deve però ingannare: quella era la stessa Italia che presentava, anche agli occhi dello scrittore bolognese, delle storture assolutamente tragiche. Tant’è che quando Calvino gli rimprovera di rimpiangere l’Italietta, Pasolini afferma: «per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni»21, esprimendo un disagio nei confronti di quella società che è tangibile, e che emerge chiaramente, tra l’altro, dai dialoghi che Pasolini intrattiene nel 1960 con i lettori di «Vie Nuove».
Se dunque, a distanza di qualche anno, quell’Italia risplende nelle memorie dell’articolista del «Corriere della Sera» come una società così idillica, il motivo che fa assumere all’«universo “popolare”» descritto da Pasolini «caratteri più arcaici del vero»22, non può essere un banale rimpianto figlio della nostalgia. Le ragioni sono più complesse.
Di fronte all’avvento del neocapitalismo e di tutte le mutazioni, antropologiche e socio-economiche, che esso comporta, Pasolini si sente inorridito. Forse perché riesce ad arguire con particolare perspicacia le conseguenze peggiori a cui l’affermarsi di quel nuovo Potere condurrà, egli è irremovibile nel condannarne ogni aspetto. Nel far questo non accetta alcun invito alla moderazione, neppure laddove dei distinguo apparirebbero doverosi. Pasolini è consapevole di questo suo estremismo – se confessa a Calvino: «naturalmente queste mia “visione” della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze»23 – ma non se ne cura. Il suo rifiuto così totale per la “nuova epoca” deve esprimersi in maniera altrettanto drastica e definitiva. È per questo che Pasolini traccia un’immaginaria linea di demarcazione, ben netta: da un lato sta l’Italia arcaica e rurale, dall’altro l’Italia assoggettata alle logiche del neocapitalismo. E tanto più quella attuale deve apparire mostruosa agli occhi dei lettori, per poter essere compresa in tutto il suo orrore, tanto più quella precedente deve assurgere a modello. La mitizzazione dell’Italia arcaica e contadina è dunque funzionale a rendere più efficace la critica alla società contemporanea. Di fronte a quest’esigenza, Pasolini si sforza di ignorare tutte le deformità del passato: di volta in volta le sottovaluta, le declassa a semplici segni del tempo, le dilava fino a farle scolorire. E spesso arriva anche a nobilitarle e a contrapporle agli obbrobri, quelli sempre estremizzati, del presente; noncurante, anzi forse desideroso, delle eventuali critiche che quelle sue affermazioni così radicali si attirano.
Come quando, recensendo il libro di Sandro Penna Un po’ di febbre, esordisce con un’affermazione volutamente provocatoria: «Che paese meraviglioso era l’Italia durante il periodo del fascismo e subito dopo! La vita era come la si era conosciuta da bambini, e per venti trent’anni non è più cambiata». E da lì ha inizio un panegirico, dai tratti bozzettistici e surreali al contempo, sull’aspetto «profondo e bello» delle città e degli uomini di una volta, che non rifiuta neppure di lodare l’emarginazione e la subalternità cui erano relegate le donne e la «qualità meravigliosa» dei ladri di allora, i quali «non erano mai volgari». Naturalmente, quando si arriva al confronto con la situazione attuale, tutto diventa «laido e pervaso da un mostruoso senso di colpa»24.
L’ambiguità è evidente, ma va contestualizzata all’interno di quella che credo si possa definire la “poetica dell’urgenza” che è del Pasolini corsaro e luterano, e che si manifesta in una prosa dogmatica e sentenziosa, unita ad una foga retorica travolgente. Urgenza che non consiste, tuttavia, nel voler bloccare la storia, portare indietro le lancette del tempo e ripartire da un punto stabilito, come talvolta, leggendo gli Scritti corsari e le Lettere luterane, si è indotti a pensare. Nel Pasolini che scrive sulle colonne del «Corriere della Sera» c’è un’urgenza più autentica che non quella di condannare e distruggere, e cioè quella di spiegare agli Italiani la trasformazione cui essi stanno andando incontro, affinché la vivano, visto che ormai la vivono sulla propria pelle, «consapevolmente» e non, come invece accade, «esistenzialmente».
Tutto ciò appare più che mai evidente negli articoli in cui Pasolini denuncia la necessità di portare alla sbarra del tribunale i «gerarchi DC». Quella che lui ricerca, attraverso l’istituzione di un processo penale ai loro danni, non è soltanto una legittima richiesta di giustizia per gli abominevoli errori commessi dal regime democristiano negli ultimi vent’anni; Pasolini vuole piuttosto rendere consapevoli i cittadini italiani che ormai il vero potere non è più detenuto dal «nulla ideologico mafioso»25 che è la DC, ed è per questo che i suoi dirigenti possono sfilare ammanettati in un’aula di tribunale.
Cosa verrebbe rivelato alla coscienza dei cittadini da tale Processo […]?
Verrebbe rivelato […] qualcosa di essenziale per la loro esistenza, cioè questo: i potenti democristiani che ci hanno governato negli ultimi dieci anni non hanno capito che si era storicamente esaurita la forma del potere che essi avevano servilmente servito nei vent’anni precedenti […] e che la nuova forma di potere non sapeva più (e non sa più) che farsene di loro.
Questa “millenaristica” verità è dunque essenziale per capire […] che è finita l’epoca, appunto millenaria, di un “certo” potere ed è cominciata l’epoca di un certo “altro” potere.26
L’urgenza ultima di Pasolini è, in definitiva, quella di convincere le parti migliori e per certi versi ancora sane dell’Italia – molti suoi colleghi intellettuali, una parte dei «giovani iscritti, ma proprio iscritti, al PCI», il PCI medesimo, non a caso definito «un paese pulito in un paese sporco», una parte del mondo cattolico, con cui il rapporto è però molto più problematico – ad opporsi alla deriva capitalistica e a proporre un nuovo modello sociale, che abbia come obiettivo il “progresso” e non lo “sviluppo”, come punti di riferimento valori “umanistici” e non “consumistici”, come dottrine politiche fondanti quelle “marxiste” e non quelle “neocapitaliste”. Chi accusa Pasolini di desiderare una restaurazione, chi riscontra nel suo pensiero una «nostalgia di un passato anche tinto di nero»27, dimentica che mai si potrebbe considerare Pasolini come un reazionario, proprio perché è lui stesso il primo a sapere che non c’è nulla da restaurare: c’è semmai da andare a ricercare, tra le macerie di un passato ormai distrutto dalla storia, quei valori che possono offrirsi come una valida base d’appoggio per costruire una nuova società. Pasolini sapeva, come ha evidenziato Fortini, che la realtà da lui tante volte rimpianta «non era mai esistita», e che essa piuttosto «era “davanti”, da conquistare, non da recuperare»28.
(22 agosto 2015)
Valerio Valentini
(Tratto da: https://quattrocentoquattro.wordpress.com/2014/03/10/pasolini-al-corriere-della-sera-3-quello-che-rimpiango/#1).
Note
1 Sviluppo economico e modelli di vita, in «l’Unità», 23 dicembre 1973.
2 Si tratta di: Significato del rimpianto, Poesia popolare, Appunto per una poesia in lappone, La recessione, Appunto per una poesia in terrone. Ora in Pier Paolo Pasolini, La nuova gioventù, Torino, Einaudi, 2002.
3 Viene da chiedersi se non abbia in realtà ragione Alfonso Berardinelli, quando afferma, a proposito della poesia di Pasolini, che è del tutto impossibile valutarla «da un punto di vista puramente formale», giacché di un autore che dichiara «di volersi liberare dello stile a vantaggio del messaggio e del contenuto» risulterebbe quantomeno inopportuno giudicare i versi a prescindere dalle convinzioni ideologiche che essi esprimono. Cfr. Berardinelli, Alfonso, Tra il libro e la vita, Torino, Bollati Boringhieri, 1990, p. 58.
4 Riva, Valerio, Com’era verde la mia borgata, in «L’Espresso», 13 gennaio 1974.
5 È nato un bimbo: c’è un fascista in più, in «L’Espresso», 23 giugno 1974.
6 Guarini, Ruggero, Quelli che dicono «no», in «Il Messaggero», 18 giugno 1974.
7 Ferrara, Maurizio, I pasticci dell’esteta, in «l’Unità», 12 giugno 1974.
8 Ibidem.
9 Pasolini, a sua volta, rivolgerà la stessa accusa ai suoi colleghi, «la bella truppa di intellettuali» tutti simili a «quelle marionette che fanno tanto ridere i bambini perché hanno il corpo voltato da una parte e la testa dalla parte opposta». Sono parole riferite da Pasolini il 1° novembre 1975 a Furio Colombo, in un’intervista ora in Pasolini, Pier Paolo, Saggi sulla politica e sulla società, a cura di Walter Siti e Silvia De Laude, Milano, Mondadori, 1999, p. 1727.
10 Pasolini, Pier Paolo, Scritti corsari, Milano, Garzanti, 2008, pp. 51-55.
11 Dalla stessa intervista a Colombo, in id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1727.
12 Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 22.
13 Sanguineti, Edoardo, La bisaccia del mendicante, in «Paese Sera», 27 dicembre 1973.
14 Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 24.
15 Sanguineti, La bisaccia del mendicante, cit.
16 Consistente negli articoli pubblicati su «Il Mondo» tra il 10 aprile e il 1° maggio 1975.
17 Pasolini, Pier Paolo, Lettere luterane, Torino, Einaudi, 2003, pp. 35-36.
18 Pasolini, Pier Paolo, Descrizioni di descrizioni, Milano, Garzanti, 2006, pp. 263-264.
19 Golino, Enzo, Tra lucciole e Palazzo, Palermo, Sellerio, 1995.
20 Pasolini, Liberty in borghese, in Id., Saggi sulla politica e sulla società, cit., p. 1242.
21 Id., Scritti corsari, cit, p. 51.
22 Fortini, Franco, Attraverso Pasolini, Torino, Einaudi, 1993.
23 Pasolini, Scritti corsari, cit., p. 54.
24 Ivi, p. 143.
25 Id., Lettere luterane, cit, p. 78.
26 Ivi, pp. 115-116.
27 Casalegno, Carlo, Chi è peggiore?, in «Panorama», 7 novembre 1974.
28 Fortini, Attraverso Pasolini, cit., p. 145.
Inserito il 26/06/2023.
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Lettera aperta a Italo Calvino
Pasolini: quello che rimpiango
Un articolo di Pier Paolo Pasolini sullo status ideologico del Paese dopo il referendum, apparso nel «Corriere della Sera» del 10 giugno, ha aperto una polemica che è tuttora viva sui giornali italiani e alla quale anche «Paese Sera» ha contribuito con la partecipazione di illustri collaboratori. Lo stesso Pier Paolo Pasolini, con questa lettera aperta a Italo Calvino, risponde su alcuni temi emersi dal dibattito.
Caro Calvino,
Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’«età dell’oro», tu dici che rimpiango l’«Italietta»: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio.
Ciò che io rimpiango (se si può parlare di rimpianto) l’ho detto chiaramente, sia pure in versi («Paese Sera», 5.1.1974). Che degli altri abbiano fatto finta di non capire è naturale. Ma mi meraviglio che non abbia voluto capire tu (che non hai ragioni per farlo). Io rimpiangere l’«Italietta»? Ma allora tu non hai letto un solo verso delle Ceneri di Gramsci o di Calderòn, non hai letto una sola riga dei miei romanzi, non hai visto una sola inquadratura dei miei films, non sai niente di me! Perché tutto ciò che io ho fatto e sono, esclude per sua natura che io possa rimpiangere l’Italietta. A meno che tu non mi consideri radicalmente cambiato: cosa che fa parte della psicologia miracolistica degli italiani, ma che appunto per questo non mi par degna di te.
L’«Italietta» è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. Questo un giovane può non saperlo. Ma tu no. Può darsi che io abbia avuto quel minimo di dignità che mi ha permesso di nascondere l’angoscia di chi per anni e anni si attendeva ogni giorno l’arrivo di una citazione del Tribunale e aveva terrore di guardare nelle edicole per non leggere nei giornali atroci notizie scandalose sulla sua persona. Ma se tutto questo posso dimenticarlo io, non devi però dimenticarlo tu…
D’altra parte questa «Italietta», per quel che mi riguarda, non è finita. Il linciaggio continua. Magari adesso a organizzarlo sarà «L’Espresso», vedi la noterella introduttiva («L’Espresso», 23.6.1974) ad alcuni interventi sulla mia tesi («Corriere della sera», 10.6.1974): noterella in cui si ghigna per un titolo non dato da me, si estrapola lepidamente dal mio testo, naturalmente travisandolo orrendamente, e infine si getta su me il sospetto che io sia una specie di nuovo Plebe1: operazione di cui finora avrei creduto capaci solo i teppisti del «Borghese».
Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio. L’ordine in cui elenco questi mondi riguarda l’importanza della mia esperienza personale, non la loro importanza oggettiva. Fino a pochi anni fa questo era il mondo preborghese, il mondo della classe dominata. Era solo per mere ragioni nazionali, o, meglio, statali, che esso faceva parte del territorio dell’Italietta. Al di fuori di questa pure e semplice formalità, tale mondo non coincideva affatto con l’Italia: non ci era soluzione di continuità tra un contadino friulano, un ladro napoletano, e anche, ancora, un operaio lombardo, da una parte, un contadino greco o arabo, un ladro di Alessandria o Rio de Janeiro, un operaio catalano o jugoslavo. L’universo contadino (cui appartengono le culture sottoproletarie urbane, e, appunto fino a pochi anni fa, quelle delle minoranze operaie – ché erano minoranze, come in Russia nel ’17) è un universo transnazionale: che addirittura non riconosce le nazioni. Esso è l’avanzo di una civiltà precedente (o di un cumulo di civiltà precedenti tutte molto analoghe fra loro), e la classe dominante (nazionalista) modellava tale avanzo secondo i propri interessi e i propri fini politici (per un lucano – penso a De Martino – la nazione a lui estranea, era prima lo Stato Borbonico, poi l’Italia piemontese, poi l’Italia fascista, poi l’Italia attuale, senza soluzione di continuità).
È questo illimitato mondo contadino prenazionale e preindustriale, sopravvissuto fino a solo pochi anni fa, che io rimpiango (non per nulla dimoro il più a lungo possibile nei paesi del Terzo Mondo, dove esso sopravvive ancora, benché il Terzo Mondo stia anch’esso entrando nell’orbita del cosiddetto Sviluppo).
Gli uomini di questo universo non vivevano un’età dell’oro, come non erano coinvolti, se non formalmente, con l’Italietta. Essi vivevano quella che Chilanti ha chiamato l’età del pane. Erano cioè consumatori di beni estremamente necessari. Ed era questo, forse, che rendeva estremamente necessaria la loro povera e precaria vita. Mentre è chiaro che i beni superflui rendono superflua la vita (tanto per essere estremamente elementari, e concludere con questo argomento).
Che io rimpianga o non rimpianga questo universo contadino, resta comunque affar mio. Ciò non mi impedisce affatto di esercitare sul mondo attuale così com’è la mia critica: anzi, tanto più lucidamente quanto più ne sono staccato, e quanto più accetto solo stoicamente di viverci.
Ho detto, e lo ripeto, che l’acculturazione del Centro consumistico e omologatore ha distrutto le varie culture del Terzo Mondo (parlo ancora su scala mondiale, e mi riferisco per es. anche alle culture del Terzo Mondo, cui del resto le culture contadine italiane sono profondamente analoghe): il modello culturale offerto agli italiani (e a tutti gli uomini del globo, del resto) è unico. La conformazione a tale modello si ha prima di tutto nel vissuto, nell’esistenziale: e quindi nel corpo e nel comportamento. È qui che si vivono i valori, non ancora espressi, della nuova cultura della civiltà dei consumi, cioè del nuovo e del più repressivo totalitarismo che si sia mai visto. Dal punto di vista del linguaggio verbale, si ha la riduzione di tutta la lingua a lingua comunicativa, con un enorme impoverimento dell’espressività. I dialetti (gli idiomi materni!) sono allontanati nel tempo e nello spazio: i figli son costretti a non parlarli più perché vivono a Torino, a Milano o in Germania. Là dove si parlano ancora, essi hanno totalmente perso ogni loro potenzialità inventiva. Nessun ragazzo delle borgate romane sarebbe più in grado, per esempio, di capire il gergo dei miei romanzi di dieci-quindici anni fa: e, ironia della sorte!, sarebbe costretto a consultare l’annesso glossario come un buon borghese del Nord!
Naturalmente questa mia «visione» della nuova realtà culturale italiana è radicale: riguarda il fenomeno come fenomeno globale, non le sue eccezioni, le sue resistenze, le sue sopravvivenze.
Quando parlo di omologazione di tutti i giovani, per cui, dal suo corpo, dal suo comportamento e dalla sua ideologia inconscia e reale (l’edonismo consumistico) un giovane fascista non può più essere distinto da tutti gli altri giovani, enuncio un fenomeno generale. So benissimo che ci sono dei giovani che si distinguono. Ma si tratta di giovani appartenenti alla nostra stessa élite, e condannati a essere ancora più infelici di noi (e quindi probabilmente anche migliori). Questo lo dico per un’allusione («Paese Sera», 21.6.1974) di Tullio De Mauro, che, dopo essersi dimenticato di invitarmi a un convegno linguistico di Bressanone, mi rimprovera di non esservi stato presente: là, egli dice, avrei visto alcune decine di giovani che avrebbero contraddetto le mie tesi. Cioè come a dire che se alcune decine di giovani usano il termine «euristica» ciò significa che l’uso di tale termine è praticato da cinquanta milioni di Italiani.
Tu dirai: gli uomini sono sempre stati conformisti (tutti uguali uno all’altro) e ci sono sempre state delle élites. Io ti rispondo: sì, gli uomini sono sempre stati conformisti e il più possibile uguali l’uno all’altro, ma secondo la loro classe sociale. E, all’interno di tale distinzione di classe, secondo le loro particolari e concrete condizioni culturali (regionali). Oggi invece (e qui cade la «mutazione» antropologica) gli uomini sono conformisti e tutti uguali uno all’altro secondo un codice interclassista (studente uguale operaio, operaio del Nord uguale operaio del Sud): almeno potenzialmente, nell’ansiosa volontà di uniformarsi.
Infine, caro Calvino, vorrei farti notare urla cosa. Non da moralista, ma da analista. Nella tua affrettata risposta alle mie tesi, sul «Messaggero» (18 giugno 1974) ti è scappata una frase doppiamente infelice. Si tratta della frase: «I giovani fascisti di oggi non li conosco e spero di non aver occasione di conoscerli». Ma: 1) certamente non avrai mai tale occasione, anche perché se nello scompartimento di un treno, nella coda a un negozio, per strada, in un salotto, tu dovessi incontrare dei giovani fascisti, non li riconosceresti; 2) augurarsi di non incontrare mai dei giovani fascisti è una bestemmia, perché, al contrario, noi dovremmo far di tutto per individuarli e per incontrarli. Essi non sono i fatali e predestinati rappresentanti del Male: non sono nati per essere fascisti. Nessuno – quando sono diventati adolescenti e sono stati in grado di scegliere, secondo chissà quali ragioni e necessità – ha posto loro razzisticamente il marchio di fascisti. È una atroce forma di disperazione e nevrosi che spinge un giovane a una simile scelta; e forse sarebbe bastata una sola piccola diversa esperienza nella sua vita (specie a scuola), un solo semplice incontro, perché il suo destino fosse diverso.
Pier Paolo Pasolini
(Tratto da «Paese Sera», 8 luglio 1974, p. 8).
Note
1 Armando Plebe (1927-2017). Filosofo marxista, negli anni Settanta, in contrapposizione con la contestazione sessantottina, ruppe con il marxismo e divenne un esponente di punta dell’intellettualità anticomunista. In politica, dopo due anni di appartenenza al Partito Socialdemocratico di Giuseppe Saragat, passò all’estrema destra aderendo al Movimento Sociale Italiano, di cui fu in seguito deputato. Nel 1977 fece parte del gruppo scissionista di Democrazia Nazionale [ndr].
Inserito il 26/06/2023.
Primo Levi (1919-1987).
Fonte della foto: https://biografieonline.it/img/bio/Primo_Levi_0.jpg
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Voi che vivete sicuri
nelle vostre tiepide case,
voi che trovate tornando a sera
il cibo caldo e visi amici:
Considerate se questo è un uomo
che lavora nel fango
che non conosce pace
che lotta per mezzo pane
che muore per un si o per un no.
Considerate se questa è una donna,
senza capelli e senza nome
senza più forza di ricordare
vuoti gli occhi e freddo il grembo
come una rana d'inverno.
Meditate che questo è stato:
vi comando queste parole.
Scolpitele nel vostro cuore
stando in casa andando per via,
coricandovi, alzandovi.
Ripetetele ai vostri figli.
O vi si sfaccia la casa,
la malattia vi impedisca,
i vostri nati torcano il viso da voi.
Primo Levi
Lo scrittore resistente: rivolta e collera in lui convissero sempre con l’attenzione e l’approfondimento delle ragioni morali, del significato da dare alla partecipazione alla attività clandestina e alla lotta a morte contro il nazifascismo.
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Il “prezzo delle parole” e la decenza: Albert Camus
“Non potete dire che la cosa non vi riguarda. Perché la cosa vi riguarda eccome”. Sono parole che ricordano quelle di Fabrizio De André nella sua celebre canzone sul maggio del ‘68 francese (“anche se vi credete assolti siete lo stesso coinvolti”) e invece sono quelle scritte nel marzo 1944 da Albert Camus come redattore della rivista clandestina «Combat», organo dell’omonimo movimento della Resistenza francese, in occasione dell’ennesimo eccidio di partigiani. Nei suoi appelli contro la passività, l’opportunismo e la rassegnazione c’è molto del clima descritto ne La Peste. Il protagonista, il Dottor Rieux (chiaramente un alter-ego dello stesso Camus), insieme ad un ristretto gruppo di suoi collaboratori, senza il conforto di una fede ultraterrena o la certezza in un futuro migliore, decide di restare al suo posto. Senza proclami e pose da eroe, Rieux decide infatti di fare in fondo il suo dovere di medico di fronte all’epidemia che colpisce la sonnacchiosa città di Orano nella costa algerina.
Tra il 1943 e il 1944 proprio gli articoli per «Combat» si alternano alla redazione del romanzo, uscito nel ’47 ma la cui lunga gestazione redazionale era cominciata alla fine del ’41 in una fase in cui le sorti del conflitto sembravano volgere a favore delle forze dell’Asse. Potente allegoria del nazismo e della guerra mondiale (oltre che più generalmente del “male” individuale e collettivo) il romanzo consacrò Camus come uno dei massimi scrittori del suo tempo, segnalandolo anche al pubblico internazionale, ed è sicuramente tra i testi che lo spingeranno verso la conquista del Premio Nobel per la letteratura nel 1957.
Sia gli articoli sia il romanzo, come giustamente aveva rilevato su «Patria Indipendente» Wladimiro Settimelli, sono sempre sorretti e animati da uno stile che mescola ironia e serietà, razionalità e commozione, con un costante appello all’“onore” individuale e nazionale, inteso prima di tutto come consapevolezza della propria dignità e del proprio ruolo sociale come intellettuale. E su questo aspetto della responsabilità personale, della scelta morale ancora prima che politica, Camus insisterà frequentemente evidenziando come proprio nella tragedia della guerra fosse data la possibilità del riscatto: “Anche se molti scrittori non hanno fatto molto per la Resistenza, noi diremo, al contrario, che la Resistenza ha fatto molto per loro: ha loro insegnato le prix des mots. Rischiare la propria vita, per poco che possa valere, per fare stampare un articolo, una poesia, un dialogo, questo significa apprendere il vero prezzo delle parole. […] Ciò è vero al punto che solo quelli che non hanno rischiato nulla hanno abusato della parola”.
L’influsso di questo tipo di cultura militante negli ambienti intellettuali europei del secondo dopoguerra in Europa sarà assai significativo, intrecciandosi in Francia e in Italia con l’accentuazione del tema dell’“impegno” . Non è un caso che Norberto Bobbio, a dieci anni dalla Liberazione, abbia citato proprio Camus per ricordare come “[…] troppo spesso gli uomini di cultura sono rimasti fuori del circo come se lo spettacolo non li riguardasse. Qualche volta sono entrati, ma si sono seduti sulla gradinata a far da spettatori. E se qualche segno di partecipazione hanno dato, è stato quasi sempre per far l’elogio del leone che ha sempre ragione; e se qualche parola hanno rivolto alla vittima è per spiegarle che il suo destino era quello di farsi mangiare. Oggi non più. Oggi, dice Camus, gli uomini di cultura devono rendersi conto che il loro posto non è più sulla gradinata ma dentro l’arena. Essi sanno che se la vittima soccombe anch’essi saranno divorati. Sono, come si ripete oggi, impegnati. Impegnati a far sì che nel futuro vi siano meno vittime e meno leoni”.
Lo stato d’animo di rivolta e di collera di fronte all’ingiustizia e alla violenza perpetrati dagli occupanti nazisti e dai collaborazionisti francesi era stata la molla che aveva spinto Camus ad impegnarsi direttamente nella rete clandestina di «Combat», mettendo a frutto le competenze già maturate come redattore di «Alger républicain» alla fine degli anni Trenta del Novecento. Rivolta e collera che però in lui convissero sempre con l’attenzione e l’approfondimento delle ragioni morali, del significato da dare alla partecipazione alla attività clandestina e alla lotta a morte contro il nazifascismo. Temi che espresse magistralmente ne Les Lettres à un ami allemand uscite nel corso della seconda metà del 1943 per Gallimard, lo stesso editore che l’anno prima aveva stampato Lo straniero e Il mito di Sisifo, due pietre miliari della sua produzione narrativa e filosofica: “Non è cosa da poco battersi disprezzando la guerra [aveva perso il padre nella battaglia della Marna], accettare di perdere tutto mantenendo il gusto della felicità, correre verso la distruzione con in mente una cultura superiore […] abbiamo dovuto sconfiggere il nostro gusto dell’uomo, l’immagine che ci facevamo di un destino pacifico, la nostra profonda convinzione che nessuna guerra sia pagante, là dove ogni mutilazione dell’uomo è irreparabile […] noi lottiamo per quella sfumatura che separa il sacrificio dalla mistica, l’energia dalla violenza, la forza dalla crudeltà, per quella sfumatura ancora più lieve che separa il falso dal vero, e l’uomo nel quale noi confidiamo dagli stanchi dei che voi adorate”.
“Un eroe del nostro tempo”, cioè del XXI secolo, cosi il grande storico inglese Tony Judt definiva Albert Camus nel 2001, nella prefazione ad una edizione inglese de La Peste, redatta a pochi mesi dall’attentato alle Twin Towers. Forse una definizione del genere non sarebbe istintivamente piaciuta allo scrittore franco-algerino, così schivo e lontano da ogni spirito celebrativo. Judt però coglieva sicuramente nel segno quando, proprio parlando del Dottor Rieux e dei suoi compagni, notava che sono “persone ordinarie che fanno cose straordinarie per semplice decenza”: una sobria e penetrante definizione che rimanda al nocciolo duro, al “fresco significato” (ancora Judt) che può assumere oggi il capolavoro di Camus contro i relativismi e lo stanco disincanto contemporaneo. Non è un caso che quando si trova costretto a dover giustificare il proprio comportamento Rieux non trova che la parola “decenza” a descriverlo. “Decenza” intesa come consapevolezza che il proprio stare al mondo, senza negarsi momenti di felicità, implica prendere posizione, condividere la sorte dei propri simili e attivarsi contro i “flagelli” naturali e politici. Ma il tema della scelta morale intransigente, della lotta cruenta in Camus non prescinde mai anzi è strettamente legato ad un sentimento di compassione in senso forte per la condizione umana, al suo carattere vulnerabile di fronte alla malattia fisica e morale, alle debolezze e ai compromessi a cui è costantemente sottoposta.
Su questo atteggiamento influivano forse almeno in parte anche le sue assai modeste origini sociali (al contrario di altri esponenti dell’intellighenzia di sinistra francese come Sartre): Camus era infatti cresciuto nel quartiere povero di Belcourt ad Algeri e aveva conosciuto in prima persona la vita delle classi popolari. Anche il precario stato di salute e la tubercolosi che lo accompagnerà tutta la vita (interrotta prematuramente in un incidente stradale nel 1960) lo renderà particolarmente attento e partecipe alle debolezze umane fisiche e morali.
Alla fine il nucleo fondamentale, quello che resta a distanza di 70 anni e oltre le stagioni politiche, è proprio l’appello alla coscienza individuale e insieme alla responsabilità sociale senza proclami condividendo fino in fondo valori tanto più sostanziali e profondi quanto più si riferiscono all’essere umano come “l’altro”, come “il prossimo”: sollecitato da una situazione esterna avversa, l’uomo scopre di essere accomunato agli altri uomini dall’esistenza di sentimenti e aspirazioni simili, a cominciare dal desiderio di reagire alla disperazione e alla morte.
Come aveva già notato acutamente Tony Judt, il richiamo aspro e commosso a un impegno che non deve mai venire meno contro la “peste” nazifascista trova nel memorabile finale del romanzo uno dei momenti più alti e solenni e non smette di mandare un messaggio che proprio oggi non può lasciarci indifferenti: “Fra le grida sempre più forti e sempre più estese […] Rieux si decise a redigere il resoconto che qui si conclude, per non essere tra coloro che tacciono, per testimoniare a favore degli appestati, per lasciare almeno un ricordo dell’ingiustizia e delle violenze che erano state fatte loro, e per dire semplicemente quel che si impara durante i flagelli, che ci sono negli uomini più cose da ammirare che da disprezzare. Ma sapeva tuttavia che questa non poteva essere la cronaca di una vittoria definitiva. Poteva soltanto essere la testimonianza di quel che si era dovuto fare, e che contro il terrore e la sua arma instancabile forse avrebbero ancora dovuto fare nonostante le lacerazioni personali, tutti gli uomini che, non potendo essere dei santi e rifiutando di accettare i flagelli, si sforzano tuttavia di essere dei medici. Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell’esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva quel che la folla ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, sventura o insegnamento agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi per mandarli a morire in una città felice”.
Paolo Mencarelli*
* Ricercatore dell’Istituto storico della Resistenza in Toscana.
(Tratto da «Patria Indipendente», n. 59, 7 dicembre 2018).
Bibliografia, i testi citati
- A. Camus, Questa lotta vi riguarda. Corrispondenze per Combat 1944-1947, a cura di J. Lévi-Valensi, Bompiani, 2010
- W. Settimelli, Il partigiano Camus fa ancora paura alla destra francese, in «Patria indipendente», luglio 2013
- T. Judt, Prefazione a A. Camus, The Plague, in www.theguardian.com/books/2001/nov/17/albertcamus, The Guardian, 17 nov. 2001
- A. Camus, La peste, Bompiani, 2017
- N. Bobbio, Ecco perché la resistenza non finisce mai [1955] (ripubblicato su La Stampa 23 Aprile 2015 http://www.libertaegiustizia.it/2015/04/23/ecco-perche-la-resistenza-non-finisce-mai/
Inserito il 05/06/2023.
Albert Camus.
Fonte della foto: https://www.patriaindipendente.it/wp-content/uploads/2018/12/Albert-Camus.jpg
Marina Cvetaeva nel 1917.
Fonte della foto: https://ru.wikipedia.org/wiki
(1892-1941)
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Mi piace
di Marina Cvetaeva
Mi piace che non di me siete malato,
Mi piace che non di voi sono malata,
Che mai la pesante sfera terrestre
Verrà a mancare sotto i nostri piedi.
Mi piace poter essere buffa,
Sconveniente, e non giocare con le parole,
E non arrossire di un’ondata soffocante
Sfiorandoci appena con le maniche.
Mi piace pure che davanti a me
Tranquillo abbracciate un’altra,
E che non mi augurate di bruciare
All’inferno se non voi, ma un altro io bacio.
Che il mio dolce nome, mio tenero, non
Pronunciate di giorno né di notte invano…
Che mai nel silenzio della chiesa
Canteranno per noi: Alleluja!
Vi ringrazio col cuore e con la mano
Perché voi, pur senza saperlo,
Mi amate così tanto: per la mia quiete notturna,
Per la rarità degli incontri all’ora del tramonto,
Per le nostre mancate passeggiate al chiaro di luna,
Per il sole che non splende su di noi,
Perché siete malato – ahimè – non di me,
Perché sono malata – ahimè – non di voi.
(1915)
Marina Cvetaeva (1892-1941) è una delle maggiori poetesse russe di tutti i tempi.
Mi è capitato per caso di tradurre questa poesia per lo spezzone di un film sovietico da mettere su Youtube (https://youtu.be/-yrkPXmEhpo), e il contenuto mi ha incuriosio subito. Marina Cvetaeva in questi versi si rivolge a un uomo che la ama ma che è già impegnato: lei è evidentemente attratta da lui, ma sa che si tratta di un amore impossibile e pone di conseguenza dei limiti invalicabili al loro rapporto.
Chi era quest’uomo? Si trattava del fidanzato, e poi marito, della sorella minore di Marina, Anastasija. La stessa Anastasija nel 1980 ha rivelato al pubblico questa storia.
Nel 1915 entrambe le sorelle avevano un matrimonio infelice alle spalle, e dall’anno precedente Marina aveva intrecciato una relazione sentimentale con la poetessa e traduttrice Sofija Parnok.
Nell’autunno 1915 Anastasija conobbe l’ingegnere chimico Mavrikij Minc, il quale, dopo un intero giorno passato insieme a lei, le chiese di sposarlo. Nel momento in cui Mavrikij fu presentato alla sorella Marina, i due non riuscirono a nascondere le reciproche simpatie, tanto che si diffusero anche i dubbi tra conoscenti e amici su chi fosse innamorato di chi nella famiglia delle sorelle Cvetaevy. Il matrimonio tra Anastasija e Mavrikij mise in chiaro la situazione, e Marina con la sua poesia volle in modo elegante e dolce ammettere il sentimento di tenerezza per il cognato ma sancire al tempo stesso l’impossibilità di una loro relazione sentimentale.
Il matrimonio tra Anastasija e Mavrikij si rivelò estremamente sfortunato: nel maggio 1917 Mavrikij morì di peritonite, e nel luglio dello stesso anno scomparve anche il figlio Alëša, nato dalla loro unione.
Sulle ulteriori tragedie pubbliche e private delle sorelle Cvetaevy si può leggere ovunque in Internet, non mi soffermo.
Ritorno invece alla storia della poesia Mi piace, che, indipendentemente dalle sorti della sua autrice, come ogni opera d’arte prende vita e va per la sua strada.
La poesia, rimasta nell’intimità dei diari della poetessa per anni e anni, fu pubblicata in una raccolta di versi di Marina Cvetaeva solo nel 1965, cioè 24 anni dopo la sua morte. La raccolta suscitò grande interesse in patria e all’estero, e divenne presto una rarità bibliografica. I pochi esemplari del libro passavano di mano in mano, le poesie che vi erano contenute venivano trascritte e imparate a memoria da migliaia di persone che ammiravano l’opera della grande poetessa.
Nel 1975 El’dar Rjazanov decise di inserire una parte della poesia in forma di canzone all’interno del suo film L’ironia del destino, ovvero Buona sauna!, trasmesso per la prima volta in tv il 1° gennaio 1976 (fu visto da 100 milioni di spettatori; tale fu il suo successo, che il 7 febbraio la televisione sovietica fu costretta a ritrasmetterlo a causa delle insistenti richieste del pubblico).
I versi della Cvetaeva erano perfettamente appropriati per i due protagonisti del film, che percepivano un’attrazione reciproca nonostante il fatto che entrambi avessero già delle relazioni sentimentali più o meno definite.
Il regista chiese al compositore Mikael Tariverdiev di comporre la colonna sonora del film e di musicare anche i versi della Cvetaeva. L’incisione della canzone venne poi affidata alla cantante Alla Pugačëva, che prestò la sua voce all’attrice polacca Barbara Brylska che nel film sembra cantarla.
Nella canzone vengono utilizzate solo la prima e l’ultima strofa della poesia di Marina Cvetaeva. Non è chiaro il motivo? Nella strofa centrale si parla delle fiamme dell’inferno, si parla di “alleluja” cantati in chiesa: immagini e parole che nella società sovietica erano “fuori moda”, superate e anche, per così dire, sconsigliate. Perché dar modo alla censura di intervenire se si può prevenire?
L.C.
Inserito il 06/05/2023.
di Dmitrij Bykov
Il poeta, critico e storico della letteratura Dmitrij Bykov tratteggia le caratteristiche dei romanzi più famosi di Jurij Trifonov, secondo noi il maggior esponente della letteratura sovietica degli anni Settanta, i cui libri ebbero una discreta diffusione anche in Italia.
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Jurij Trifonov. I romanzi del “ciclo moscovita”
di Dmitrij Bykov
Con Jurij Valentinovič Trifonov (1925-1981) si apre il capitolo degli anni Settanta, secondo me il decennio più interessante della storia della letteratura sovietica. Un decennio, da un lato, di stagnazione, estremamente cupo, poco promettente, quando sembrava che l’Unione Sovietica sarebbe morta per sempre, come una specie di Venezia socialista; dall’altro lato, però, mai – qui sono pronto a rispondere delle mie parole, – mai, né negli anni Venti, né negli anni Sessanta, così tante persone brillantemente dotate hanno operato contemporaneamente nella cultura sovietica. Per la prima volta si ebbe un cambiamento qualitativo nello sviluppo culturale del lettore, dell’ascoltatore, dello spettatore sovietico, e nello sviluppo della cultura sovietica in generale. La stragrande maggioranza dei residenti urbani e un numero significativo di residenti rurali cominciavano a costituire l’intelligencija.
Questo fenomeno, che Solženicyn chiamava «periodo dell’istruzione generalizzata», rappresentava in realtà la formazione di una classe sovietica completamente nuova, e questa classe istruita era la più intelligente, la più interessante, la più promettente della storia sovietica. Negli anni ’80 essa è stata erosa e, in una certa misura, probabilmente distrutta. Se dobbiamo davvero rimpiangere qualcosa nell’esperienza sovietica, allora dobbiamo rimpiangere più di tutto questo genere di persone.
Dunque, iniziamo gli anni Settanta con Trifonov. Nel 1969 fu pubblicato Lo scambio (Obmen), nel 1970 uscirono per la prima volta Conclusioni provvisorie (Predvaritel’nye itogi) e la raccolta di racconti Giochi al tramonto (Igry v sumerkach): devo dire – e me ne assumo la responsabilità – che questa è la migliore raccolta di racconti uscita negli anni Settanta. Nel 1971 è il momento di Lungo addio (Dolgoe proščanie), poi quasi contemporaneamente La casa sul lungofiume (Dom na naberežnoj), Un’altra vita (Drugaja žizn'), il romanzo incompiuto, o meglio, finito poco prima di morire, Il tempo e il luogo (Vremja i mesto); poi Il vecchio (Starik), un libro del 1979 che ha prodotto, forse, la rivoluzione più significativa nella storia e nella prosa sovietiche. In generale, Trifonov è il più importante esponente della cultura degli anni Settanta.
«A quei tempi, una ventina d’anni fa, qui c’era un mare di lillà. Dove c’è adesso la macelleria c’era una piccola palizzata gialla di stile campagnolo – tutto qui aveva sapore di campagna e la gente che ci abitava si sentiva in villeggiatura –, e al di sopra della palizzata si ammassavano i lillà. Le loro forme opulente non riuscivano a contenersi nei limiti dello steccato e riversavano sulla strada la loro carne tripudiante. Per quanto i passanti arraffassero, pizzicassero, spezzassero, tirassero i rami, questi conservavano la loro femminea rotondità e ogni primavera inebriavano di fiori e di profumo la misera viuzza polverosa. Al momento della fioritura la massa dei cespugli spumosi assomigliava a una città. Una vecchia città del meridione in riva al mare con le vie intagliate nella roccia, le case appiccicate le une alle altre, una città con monasteri e con scale di pietra tortuose, dove all’ombra, sui gradini, siedono vecchiette che vendono cofanetti di conchiglie. Una vecchia città all’ora del crepuscolo.
Ma tutto questo appartiene a un lontano passato. Ora al posto dei lillà c’è una casa di sette piani con una macelleria. Allora, ai tempi dei lillà, gli abitanti della casa del piccolo steccato giallo per comperare la carne dovevano fare un lungo viaggio in tram fino al mercato di Vagan’kovo. Adesso sarebbe molto più comodo per loro fare la spesa, ma purtroppo non abitano più qui».
È con questi due favolosi, musicali paragrafi che inizia il romanzo breve Lungo addio; forse Lungo addio è una delle diagnosi più accurate fatte alla società sovietica in quel momento. Non dimentichiamo che in quello stesso periodo Kira Muratova girò il film Lunghi addii, giaciuto a lungo sugli scaffali1. In generale, i titoli dei racconti e romanzi moscoviti di Trifonov formano proprio una catena di diagnosi: Lo scambio, Conclusioni provvisorie, Lungo addio, Un’altra vita. Un’altra vita è probabilmente la definizione più accurata e la storia migliore, perché questo è un periodo di lungo congedo dall’utopia sovietica, dalla vita sovietica, l’inizio di un’altra vita appunto, di cui non si sa ancora nulla: non è chiaro come potersi sistemare in un’altra vita, né come descriverla.
Certo, Trifonov non era un bytovik, un narratore di scene di vita quotidiana, sebbene questa etichetta, che lo faceva sempre infuriare, gli fosse stata impressa fin dall’inizio. Egli fu un cronista dei tempi in cui la vita di tutti i giorni, la routine, aveva soppiantato la vita vera, e quindi fu costretto a parlare della routine, ma sempre conservando nella sua mente il ricordo della vita vera.
Il percorso creativo di Trifonov, la sua biografia, sono molto complessi. Era nato nel 1925 nella famiglia di Valentin Trifonov, rivoluzionario all’inizio molto influente, poi comandante rosso, partecipante attivo alla guerra civile. Un comandante di successo e di talento, cosa che già allora Stalin non poteva perdonargli. Venne represso. I Trifonov vivevano in una casa sul lungofiume, e da qui prese il nome il suo famoso romanzo. Tutti subirono le repressioni: la madre andò in esilio, la nonna si salvò per miracolo, costretta a fuggire da Mosca. Trifonov fu evacuato nel 1941 e tornò a Mosca nel 1943. Entrò all’Istituto letterario all’età di diciassette anni, e vi ottenne ottimi risultati. Lo terminò presentando come opera di laurea il racconto Gli studenti (Studenty), pubblicato nel 1951 e subito divenuto un successo.
Nonostante il fatto che il padre di Trifonov avesse subito le repressioni, Stalin non ebbe niente da ridire, sebbene Fadeev avesse sollevato la questione. Stalin ripeté una delle sue frasi preferite: “Il figlio non è responsabile delle colpe del padre”. Stalin insisté affinché il racconto Gli studenti, pubblicato sul «Novyj Mir», ricevesse il Premio Stalin di secondo grado. Trifonov ammise in seguito di provare vergogna per quel racconto, e ha coltivato per tutta la vita il sogno di riscriverlo da capo a fondo. In un certo senso questo sogno si è avverato, perché lo ha riscritto ne La casa sul lungofiume, cambiandone del tutto i toni. Da eroe positivo, così pieno di ideali, delatore, smascheratore del nemico di classe, persona retta, coerente fino alla nausea, verso il finale lo ha trasformato in un disgustoso conformista, ed eroi positivi sono diventati altri, completamente diversi da lui. Il più positivo di tutti è diventato Leva Karas’, che, tra l’altro, aveva un prototipo del tutto reale, rappresentante di questa brillante generazione prebellica, un compagno di classe di Trifonov. I migliori sono diventati… come dire, forse si può dire che i migliori sono morti, ed è per questo che La casa sul lungofiume è anche un epitaffio. Sono sopravvissuti i peggiori, e lui non ce la fa più a distinguersi da questi peggiori.
Gli studenti, pur eseguito in assoluta conformità con i canoni del realismo socialista, era tuttavia un libro vivace, scritto molto bene e con professionalità. E, oltre al premio, portò a Trifonov un breve momento di gloria già prima del disgelo. L’opera venne discussa, nelle biblioteche si svolsero incontri creativi e dibattiti. In un certo senso, preparò le tempestose discussioni pubbliche sui romanzi La battaglia è in marcia di Nikolaeva e Non di solo pane di Dudincev. Fu praticamente il primo a sollevare delle questioni morali. È vero, in una società brutta, in un ambiente brutto, tali questioni erano brutte, ma comunque il libro costrinse almeno a una sorta di dibattito polemico.
Dopo di che seguì un periodo molto lungo di scoperta di sé. Trifonov scrisse un breve ciclo di racconti sull’esplorazione dell’Asia centrale, sul deserto, il romanzo L’appagamento della sete (Utopenie žaždy), che lui stesso considerò un fallimento, sebbene questo romanzo, in generale, per gli standard sovietici, fosse ben scritto, pressappoco al livello di Tempo, avanti! di Valentin Kataev; e del resto quello era lo scopo che si era prefissato. Solo nella seconda metà degli anni Sessanta, molto lentamente – non senza ragione Tvardovskij2 lo definì “pesante, difficile da maneggiare” –, molto lentamente, e principalmente attraverso i racconti, Trifonov iniziò a tentare un proprio stile letterario.
Fu proprio questa maniera, e non qualche rivelazione sociale, nemmeno alcune intuizioni esistenziali, fu proprio questo modo di scrivere che fece di Trifonov lo scrittore numero uno negli anni Settanta, perché nella letteratura sovietica la forma è ancora più importante del contenuto. Si parla di più della forma, il contenuto è per forza di cose abbastanza uniformato, non si può dire nulla al riguardo. Tuttavia Trifonov, per la grazia e per l’incredibile densità della sua scrittura, per l’enorme numero di sottotesti, riferimenti e rinvii ad altre opere, ha trasformato la sua letteratura in un dialogo incredibilmente vivace e ricco con il lettore. Il lettore afferra di continuo nuove palle che gli vengono lanciate.
Nel racconto Giochi al crepuscolo, dove con l’ausilio di una gran quantità di accenni, sottotesti e omissioni, vengono descritte partite di tennis in un villaggio di dacie che viene via via falciato dalle repressioni, ecco, in questo racconto c’è sempre la metafora della costante osservazione della palla, una palla tesa che vola avanti e indietro, e devi colpirla tutto il tempo. Ecco il lettore di Trifonov tutto il tempo nella posizione di un tennista a cui vengono servite palle piuttosto tese e tagliate, insidiose, e deve correre di continuo per il campo per seguire il pensiero dell’autore.
Molti parlano dell’influenza di Hemingway su Trifonov. Certo, appena si parla di sottotesto arriva sempre Hemingway. Ma, in generale, Trifonov è molto lontano dalla pratica di Hemingway. Il sottotesto di Hemingway urla continuamente: “guardami, io sono il sottotesto!”. Trifonov, al contrario, ha il compito di nascondere i suoi accenni il più profondamente possibile in modo che li legga solo chi ha bisogno di leggerli. Dunque, per rimandi, per una sottile rete di allusioni, associazioni, a volte anche sonore, si tesse questa trama che si diffonde su uno spazio immenso. La prosa di Hemingway viene paragonata a un iceberg, in superficie c’è un quinto del blocco, tutto il resto è sott’acqua. La prosa di Trifonov è una rete tessuta così densamente e fittamente che tutto è sott’acqua.
Del resto Trifonov stesso ha ammesso più volte che la principale scuola di prosa per lui era stata la cronaca sportiva, e nient’affatto la lettura degli scrittori occidentali contemporanei. Perché la cronaca sportiva? Perché in essa Trifonov era abituato a risolvere, come lo chiamava lui, un “compito obliquo, indiretto”. Come si risolve questo compito indiretto? Dice che quando descrivi una partita di calcio non devi dare il punteggio, il punteggio lo conoscono già tutti, tutti hanno sentito la radio, qualcuno ha visto la partita alla TV. Ma devi descrivere la sensazione di essere lì, il modo in cui la brezza agita le bandiere e gela le gambe nude dei giocatori, questo è ciò va trasmesso.
E infatti Trifonov agisce sempre come su una tangente, non descrive l’evento, ma l’aura dell’evento, l’atmosfera che lo circonda, ciò che gli accade intorno: conversazioni, pettegolezzi, accenni, ricordi, associazioni. Ad agire è un’enorme rete sparsa in giro; le trame stesse, di regola, non sono molto significative, ciò che importa è ciò come si intrecciano le une con le altre. Egli sceglie situazioni molto precise. Probabilmente, se Trifonov fosse l’incarnazione di qualcuno, allora erediterebbe, ovviamente, la personalità letteraria di Čechov, perché il modo di creare intrecci di Trifonov è quello di Čechov: non è narrazione, è un’alternanza di diversi motivi interconnessi che alla fine creano una sensazione ricca e molto complessa nel lettore, molto ambigua.
Di norma, nella prosa di Trifonov ci sono due o tre strati, e queste due o tre “location” – parlando nella lingua di oggi –, mescolandosi o esistendo in parallelo, danno un mondo incredibilmente denso e riccamente orchestrato, perché più sono le fonti di luce, più grande è il quadro che ti si presenta davanti. Trifonov ha sempre questi due o tre livelli diversi, e sono essi che creano la sensazione della ricchezza e dell’incomprensibilità del mondo.
Allo stesso tempo, sarebbe ipocrita affermare che Trifonov è uno scrittore puramente estetico e che il compito che si è dato è raccontare la realtà e non trasmettere al lettore un qualche messaggio morale. Il messaggio morale c’è ed è piuttosto complesso, e a molte persone non piace, perché Trifonov non è solo autore di storie sulla contemporaneità che gli hanno dato fama mondiale. Bell lo ha definito il primo scrittore sovietico che ha davvero conquistato questa fama mondiale. E in effetti così è stato, perché in Europa apprezzano, ovviamente, Šolochov o Pasternak, ma i loro libri non erano considerati dagli europei letture indispensabili. Trifonov ha svelato un’Unione Sovietica che in Occidente non era conosciuta. E in termini di popolarità, in Occidente, è l’unico che può essere paragonato a Solženicyn, e alcuni lo hanno posto addirittura su un gradino più in alto rispetto all’autore di Arcipelago Gulag.
Il messaggio morale di Trifonov era che l’Unione Sovietica degli anni Trenta-Quaranta poteva essere terribile, poteva essere mostruosa, ma era un paese che esisteva secondo determinate regole e con un determinato codice morale. Gli anni Settanta sono il periodo in cui questo codice ha cominciato a erodersi, a sgretolarsi.
Puoi amare o odiare i vecchi bolscevichi, puoi, come Okudžava, considerarli moralmente responsabili del terrore, perché, come disse lo stesso Okudžava dei suoi genitori, “sì, erano persone meravigliose, sincere, dallo spirito elevato, ma essi assemblarono la macchina che li ha investiti”. Così disse Okudžava, anticipando quasi letteralmente le parole di Kormil’cev3: “stiamo assemblando una macchina che ci schiaccerà tutti”.
Trifonov la pensava diversamente. Aveva il diritto di pensarlo, perché amava i suoi genitori, e i suoi genitori erano per lui la personificazione dell’uomo nuovo. E i bambini, i compagni di classe, gli amici, i compagni dell’Istituto letterario, i sopravvissuti e i soldati tornati dal fronte appartenevano a una nuova brillante generazione, una generazione di superuomini. Persone come Kamil Ikramov, ad esempio, il suo più caro amico, in un certo qual modo anche persone come Tvardovskij, il più anziano dei suoi amici, presso il quale preferiva pubblicare, questa era per lui una generazione speciale. E non li considerava responsabili del terrore. Al contrario, il terrore di Stalin gli sembrava un ritorno alla monarchia, e queste persone combattevano contro la monarchia. È per questo che i personaggi de I riflessi del rogo, del racconto sul padre, i protagonisti de Il vecchio, persone come Mironov, ecco, proprio un magnifico combattente come questo, assolutamente convinto, sono cari a Trifonov. A lui piace la rivoluzione russa. Non può ammetterlo direttamente, ma ama comunque queste persone più della sfacciata piccola borghesia trionfante. E la caratteristica distintiva del filisteismo piccolo-borghese Trifonov la formula ne Lo scambio: non tanto una sordità morale, ma diciamo piuttosto un’imprecisione morale (imprecisione è una parola molto importante per Trifonov) unita alla capacità di ottenere il proprio tornaconto. Questo è ciò che ne Lo scambio viene personificato nell’immagine di Lena.
A volte mi stupisco della… non dirò imprecisione morale, ma di una specie di insensibilità editoriale di Tvardovskij, uomo in genere straordinariamente sensibile, specialmente in poesia; ma Tvardovskij, dopo aver letto Lo scambio, disse a Trifonov: “Ascolti, perché ha bisogno di questo pezzo sul villaggio dei vecchi bolscevichi? Lo rimuova e ne verrà fuori una bella storia familiare”. A cui Trifonov rispose che “se non lo vuole stampare va bene, rimuova l’intero racconto, ma io questo pezzo non lo tolgo”. "Beh, ma come è rigido, lei!”, disse ancora una volta Tvardovskij, e lo pubblicò.
E con questo racconto nella letteratura russo-sovietica è comparso uno scrittore classico, è comparso Trifonov: perché tutto ciò che aveva scritto prima era molto inferiore a Lo scambio. Beh, forse alcuni racconti sono al suo livello, ovviamente il geniale Il vincitore del 1968, i meravigliosi Morte di un piccione, In un autunno di funghi, La città più piccola. Il vincitore, dopo tutto, penso sia il migliore. Ecco, l’apparizione di questa prosa ha segnato l’emergere di un nuovo tipo di eroe, questo è il punto.
Insomma, di cosa parla Lo scambio? La trama è molto semplice: c’è Dmitriev, c’è sua madre Ksenija Fedorovna, c’è sua moglie Lena, si odiano fortemente come sempre accade. Ecco che Dmitriev scopre che sua madre è gravemente malata. Si precipita dai dottori, cercando di ottenere delle medicine. Se vi ricordate, ottenere qualcosa era uno dei temi principali non solo della letteratura, ma della vita negli anni Settanta. E per tutto questo tempo, Lena pensa con insistenza e intenzionalmente a come assicurarsi che l’appartamento di sua madre non scompaia, che lo Stato non se lo riprenda. Sebbene lei e la suocera si odino, ha urgente bisogno di trasferirla a casa sua, per via di questo fatto scambiare l’appartamento dove quella vive e allo stesso tempo scambiare il proprio con uno più grande, anche se con un supplemento da pagare. Il risultato è che fanno capire alla madre che è condannata. E solo per un breve periodo ha creduto di avere solo un’ulcera peptica e che tutto si sarebbe risolto. Ma devono eseguire questa operazione di scambio di appartamenti con i Markuševič. In Trifonov tutto è incredibilmente accurato e preciso, financo i nomi.
A proposito, conoscevo anch’io dei Markuševič, oltre tutto molto simili a quelli che ha descritto lui. Quando leggi Trifonov hai la piena sensazione che descriva la tua vita seguendo il filo del suo pensiero. A proposito, Trifonov non descrive gli eventi, lui – ripeto quanto ho già detto – presenta tutto indirettamente, descrive il corso dei pensieri dei personaggi, seguendone il ritmo, il tempo, le interruzioni, e riconoscendo questo pensiero, giustificandosi costantemente di fronte ad esso, cercando sempre alcune mosse segrete e decisive; come diceva Mandel’štam, noi riconosciamo noi stessi, questo è il momento dell’autogiustificazione, il momento dei febbrili tentativi di vedere noi stessi dall’esterno un po’ più decenti di quanto siamo.
Che succede a Dmitriev? Ricorda che una volta era follemente innamorato di sua moglie, ricorda che quello era un periodo di una passione tale da abbuiare la vista. E infatti questa Lena, che ormai ha più di quarant’anni, che è, in generale, un personaggio ovviamente negativo, quando questa Lena chiama, Trifonov sa come trasmetterlo, e si manifesta una specie di desiderio da maschio, emerge del fascino femminile in lei, il fascino di una donna che sa cosa vuole. E devo dirvi che questo tipo di donna si è diffuso in modo colossale nella letteratura degli anni Settanta, questo è il tempo delle donne, il tempo delle donne che prendono il potere. Prendete Mosca non crede alle lacrime, Vecchie mura, Una strana donna. Donne, sì, il tempo dei desideri, se preferite. Perché gli uomini non sono più capaci di altro che della lussuria. Gli uomini sono integrati in una gerarchia verticale e sono abituati a piegarsi in essa, e le donne prendono il potere: è giunto il momento delle strategie femminili.
E Lena, amata tanto appassionatamente da Dmitriev, poco a poco, tramite il letto, con il ricatto sul destino della figlia Nataša, alimentando in lui un complesso di inferiorità – guarda, tutti gli altri ci sono riusciti, e tu non ci sei ancora riuscito –, lo convince finalmente ad andare al villaggio dei vecchi bolscevichi dove vive Ksenija, a parlare con sua madre, a convincerla che è necessario uno scambio, che deve trasferirsi da loro, altrimenti rischiano di perdere l’appartamento. In inf dei conti, a far capire a sua madre che tutto sommato è condannata. E la madre, tra l’altro, in quel momento sta già male, è quasi delirante. E quando Dmitriev inizia a parlarle dello scambio, lei gli dice improvvisamente, quasi come nel sonno, le parole principali della storia: “Perché, dopotutto, tu lo scambio lo hai già fatto. È successo da tanto, solo che non te ne sei accorto”.
Questa è una storia sul fatto che tutti sono già cambiati, ma nessuno se n’è ancora accorto. Un’altra vita: ecco ciò che è più terribile in quel momento. E proprio il romanzo Un’altra vita parla di come, dopo la morte di suo marito Sergej, la protagonista abbia smesso di vivere degli interessi culturali di lui. Era uno storico, un sognatore, un uomo allegro, che comprendeva in modo tragico e preciso il destino della Russia, ma, dopo la sua morte, la vita di lei viene gradualmente risucchiata come in una palude, e questa palude le appare sempre nei suoi incubi. Il sogno più terribile della letteratura russa è descritto da Trifonov, basta leggerlo di notte e avrà il suo effetto. Ecco questo sogno su una palude, una piccola palude e un autobus, e un tronco, su una terribile casa verde nel bosco. Non ve lo racconto, altrimenti vi rovino il piacere di leggerlo.
Ma ecco che questa sensazione di un’altra vita che ci risucchia è dominante in tutte e cinque i romanzi del ciclo moscovita, specialmente ne La casa sul lungofiume, quando il protagonista dell’epoca diventa il trasandato “arraffone” Šulepa, facchino in un mobilificio. In fin dei conti, una volta era con loro, veniva anche lui dalla casa sul lungofiume. E il più emarginato, il più ubriaco, l’ultimo, il più insignificante di loro, oggi ha vinto, perché è colui che può ottenere tutto. E lui stesso lo capisce, fra loro è il più intelligente, e questo è il motivo per cui odia profondamente sé stesso.
Quindi Lo scambio e Conclusioni provvisorie in particolare sono romanzi su come il filisteismo moscovita, no, non solo moscovita… su come il filisteismo piccolo-borghese sovietico abbia gradualmente spostato sulla propria diagonale il senso della vita, su come lo scopo della vita sia cambiato. Il criterio per il successo non è più insito in ciò che hai capito e che hai conquistato, ma in ciò che sei riuscito a ottenere; e questo non è neanche il peggiore dei criteri, perché anche le persone esperte avrebbero potuto riuscire ad ottenere qualcosa. Ma noi stiamo vivendo le conseguenze di quello scambio. Vedete, in fin dei conti la situazione è proseguita negli anni Ottanta, quando questi “arraffoni” sono stati semplicemente legalizzati e sono strisciati fuori da tutte le fessure. Dopo tutto, così è stato negli anni Ottanta, quando i cooperatori illuminati sono apparsi per la prima volta, piuttosto, scusatemi, semplici ladri, ladri e basta; quando il business degli squali ha cominciato a emergere sotto le spoglie del business del Komsomol, negli anni Ottanta e negli anni Novanta Perché tutto questo non è iniziato nel 1985, e Trifonov mostra i meccanismi di come queste persone hanno iniziato gradualmente a salire, hanno saputo arraffare, quelli che Vladimir Orlov nel meraviglioso romanzo Il violinista Danilov chiama “faccendieri del futuro”, questi arraffoni di futuro, questi mascalzoni iniziarono a farsi strada nella società.
E Dmitriev, che per sua natura è completamente diverso (ma Dmitriev è Trifonov, qui c’è un parallelo diretto), inizia a sentire come tutto ciò penetra in lui. Perché dovrebbe essere diverso? Dopotutto, tutti intorno a lui sono già così, tutti i suoi colleghi, che invece di lavorare organizzano costantemente tornei di scacchi o parlano di dove poter trovare quale dottore e dove poter acquistare quali mobili. In che cosa sono migliori di lui? Comincia a sentire che tutto ciò penetra dentro di lui. E la cosa peggiore è che non c’è resistenza in lui contro tutto questo.
Ecco perché Trifonov nello stesso tempo ha scritto il romanzo L’impazienza, un romanzo sulla volontà del popolo, su Kibal’čič: esso esce nella serie più antisovietica, la serie della casa editrice Politizdat «Ardenti rivoluzionari», dove venivano pubblicati Vojnovič, Aksënov, Okudžava, Gladilin, tutti futuri emigranti o dissidenti. Perché? Ma perché queste persone vedevano un sostegno negli “ardenti rivoluzionari”, perché se negli anni Settanta volevano guardarsi indietro, erano pochi gli “ardenti rivoluzionari” che potevano essere visti: Vera Figner, Krasin, Željabov, Kibal’čič, persino Lenin.
Si può parlare a lungo del fatto che il governo sovietico fu mostruosamente crudele all’inizio. Sì, però dette origine a un tipo di persona per la quale la sazietà non era l’unico obiettivo, per la quale il bene dell’umanità non era una frase vuota. E quando Trifonov negli anni Settanta ripensa a quelle persone dice: “Probabilmente, pur con tutto l’orrore, era meglio allora”. Perché dopo questi commissari con gli elmetti polverosi sono venuti i commissari delle librerie jugoslave e dei divani cechi, sono venuti i sacerdoti del magna-magna. E questa è la cosa più spaventosa.
Per inciso, a quel tempo Trifonov non era affatto l’unico a romantizzare gli anni Venti. Forse nemmeno si può affermare che li renda romantici, dice solo che quelle persone possedevano una certa integrità di base, una qualche giustificazione. E coloro che vivono adesso non sono pronti a difendere nulla. Perciò il suo ultimo romanzo, anch’esso con un titolo diagnostico, s’intitola La sparizione (Isčeznovenie). Trifonov ha predetto in modo terribile la scomparsa dell’Unione Sovietica, che poteva essere buona o cattiva, ma in ogni caso era meglio del marciume che la ricopriva, che le si levava contro.
Nello stesso periodo la stessa cosa la scrive uno scrittore di posizioni completamente opposte, il počvennik4 Valentin Rasputin. Buona o cattiva era l’isola di Matera, ma l’acqua che l’ha sommersa è peggio, perché l’isola è pur sempre una specie di vita, l’acqua che l’ha allagata è la morte. E così Lo scambio, Conclusioni provvisorie, Lungo addio sono la cronaca della vita che va sott’acqua, che se ne va sotto il liquame della palude.
Bene, c’è un’ultima cosa da dire qui. Il gusto della prosa di Trifonov è esemplificato più chiaramente che altrove in Un’altra vita, quando la protagonista di notte beve o il Valocordin5 o un tè molto forte. Quello delle forti foglie di tè nero e del Valocordin è un gusto amaro, mentolato, ma al tempo stesso è curativo. Trifonov, che scrive con i suoi periodi lunghi, densi, estesi, che in una frase inserisce più informazioni che nell’intero romanzo di qualche suo contemporaneo, ha proposto un nuovo modus operandi, un approccio completamente nuovo alla prosa.
Coloro tra voi che hanno prestato attenzione al pezzo sui lillà probabilmente avranno capito a quale incipit della letteratura russa, a quale prima frase si riferisce più chiaramente quel testo. Bene, ovviamente a Resurrezione. Perché, ricorda, per quanto le persone, riunendosi a migliaia in un luogo piccolo, abbiano provato a raschiare via l’erba dalla terra e tutto il resto, la primavera è rimasta primavera anche in città. Non importa come abbiano strappato via quei lillà, non importa tutto il resto che è stato fatto… Trifonov è lo scrittore che rende l’odore amaro dei lillà della città. Questo paesaggio urbano non ha nulla a che fare con il testo che si sviluppa poi, beh, è solo che al posto dei lillà ora c’è la macelleria, il negozio “Carne”: anche questa è una metafora molto accurata, franca, diretta. In generale, Trifonov non complica eccessivamente i suoi testi, tutto è sempre chiaro.
Ma ecco che questo lillà, un lillà amaro, sovietico, tardo-sovietico, provinciale, che riempiva la triste strada con la sua rotondità femminile, questo era anche il senso della vita, quell’aria della vita che c’era nell’Unione Sovietica. E dopo è arrivata la macelleria, e sarebbe stato molto conveniente per quelle persone acquistare lì i prodotti. Il guaio è che non ci sono più persone, e questa è la conclusione che rimane al lettore della prosa amara, triste e così perfetta di Trifonov.
Dmitrij Bykov
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Dmitrij Bykov, Sto lekcij s Bykovym [Cento lezioni con Bykov], Telekanal «Dožd'», Russia; la trascrizione della trasmissione di D. Bykov è riportata sul sito: https://alexmagin38.livejournal.com/19028.html il 25/3/2017.
PS. Desidero ringraziare pubblicamente l’amica Oksana Kovalëva per avermi fatto conoscere le opere di Dmitrij Bykov, poeta, valente storico della letteratura e originale critico letterario [nota di L. Casini]).
Note
1 Il film per la regia di Kira Muratova (1934-2018) Lunghi addii (Dolgie provody) fu girato nel 1971 ma venne distribuito in sala soltanto durante la perestrojka, nel 1987 [ndt].
2 Aleksandr Trifonovič Tvardovksij (1910-1971), poeta e narratore sovietico, direttore per lunghi anni dell’autorevole rivista letteraria «Novyj Mir», sulla quale Trifonov pubblicò alcune delle proprie opere [ndt].
3 Il’ja Val’erevič Kormil’cev (1959-2007), poeta, critico musicale e musicista sovietico e russo, autore di testi per il celebre gruppo rock cui appartenne per un certo periodo, i «Nautilus Pompilius» [ndt].
4 Il počvenničestvo (da počva ‘terra, suolo’) è una tendenza letteraria russa dell’Ottocento, in sostanza di ambito slavofilo, contraria al nichilismo, al liberalismo e al marxismo. Ha avuto nel Novecento sovietico una serie di continuatori tra cui i più famosi sono stati A.I. Solženicyn, V.G. Rasputin, V.M. Šukšin [ndt].
5 Si tratta di un sedativo [ndt].
Inserito il 18/04/2023.
Lo studioso Angelo Marco De Iorio ha indagato le corrispondenze letterarie tra Leonardo Sciascia e Albert Camus. Sebbene ci siano molte affinità tra le loro opere narrative, uno dei confronti più interessanti sembra essere quello che riguarda la loro passione per le arti visive. Quando scrivono di pittura e di fotografia, i due autori assumono posizioni apparentemente in contrasto con la loro formazione culturale razionalista, illuminista. A volte sembra di vedere l'immagine come rappresentativa di una realtà diversa da quella percepita dai sensi, quasi, appunto, come una finestra affacciata sul trascendente. Una specie di sconfinamento nel simbolismo.
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L’immagine e oltre. Sciascia e Camus, un confronto
Quietamente ostili lasceremo in primo luogo
venire a noi ogni sorta di cose sconosciute,
nuove […] insomma,
la conclamata moderna “oggettività” è cattivo gusto,
non nobile par excellence.
Friedrich Nietzsche
Nel 1998 Claude Ambroise indicava un percorso: «Altri, e bisogna sperare che non abbiano una mente soltanto filologica, evidenzieranno i rapporti tra l’opera di Camus e quella di Sciascia»1. Anche l’autore di Todo modo e i suoi personaggi, sosteneva il critico, sono uomini in rivolta. La letteratura è lo stilo con il quale difendono polemicamente razionalità e libertà affinché non vengano sacrificate in nome di ideologie o verità precostituite. La loro feroce individualità si tramuta in una sorta di libertarismo che trova sbocco anarchico nella letteratura, campo di infinite possibilità.
Ha certamente ragione Ambroise. Ma per dare seguito alla sua intuizione dovremmo mantenerci in superficie. In effetti l’‘etica della quantità’, ben animata ne Lo straniero di Camus dai gesti di Meursault, sembrerebbe felicemente sposarsi alla ‘superficialità’ di cui parla Sciascia in riferimento a Savinio:
È un fatto spiegabile in termini propriamente ottici. Da una condizione di assoluta chiarezza, serenità e libertà interiore, da una luminosa conoscenza di sé anche in quel che dovrebbe essere o si vorrebbe oscuro, avviene l’ovvio fenomeno per cui la profondità diventa superficialità.2
Intuibile una corrispondenza ideale tra le due ‘filosofie’: «La quantità fa, qualche volta, la qualità […] Un miliardo di ioni e uno ione differiscono non solo per la quantità, ma anche per la qualità. L’analogia è facile a ritrovare nell’esperienza umana»3.
La superficialità sta alla profondità come la quantità alla qualità. In entrambi gli scrittori è, dunque, simile l’approccio a una realtà che si ritiene comprensibile già nella sua manifestazione esteriore. Va inoltre sottolineata l’importanza di un comune sole mitico, capace di far fiorire una sensibilità mediterranea con la quale si può testimoniare la bellezza senza naufragarvi, grazie “alla luce e alla linea’, efficaci strumenti per disegnare la realtà e per illuminare ogni cosa indistintamente. Sono questi i presupposti con i quali Sciascia e Camus possono affermare un’intaccabile fedeltà al fisico e al sensoriale, esaltata nella passione di entrambi per le arti visuali.
Sulla linea di confine tra reale e surreale si svolge, però, quel gioco d’equilibrio che Sciascia risolve grazie alla ragione, la quale niente esclude e anzi concilia: il percepito all’inafferrabile, l’inconsistenza del disegno al materiale4.
«Nessun artista tollera il reale», diceva Nietzsche, ma «nessun artista può far a meno del reale»5, corregge Camus, precisazione quasi ovvia ma che è buona sintesi del pensiero dell’algerino. L’artista è specchio del mondo in quanto traduce la controparte di ciò che esiste e si vede: «Videmus nunc per speculum in aenigmate: tunc autem facie ad faciem». La correzione di Camus rimanda idealmente a Sciascia, che così interpreta la celebre sentenza di San Paolo – XIII, 12 della prima lettera ai Corinti:
Ora noi vediamo per mezzo di uno specchio, in enigma, allora vedremo faccia a faccia. Così noi, secondo San Paolo, oscuramente riflesso nello specchio, vediamo Dio che sta in alto, nei cieli: il mondo allude a lui, esiste perché lui è – ma lui è quello che è (“sono colui che sono”). Ma per Caruso è il mondo che è quello che è, e perché è; e lo specchio lo ripete per quello che è, e perché è – non in allusione, in mistero, in enigma.6
Traspare, dalle parole di Sciascia, la volontà di rimanere ancorato alla sfera sensibile, evitando allusioni al trascendente; ecco perché, nel siciliano così come in Camus, il senso della vista ricopre un ruolo fondamentale nel processo conoscitivo del reale. Già a partire dalle opere giovanili lo spirito felice è per l’algerino quello dell’uomo che sa godere delle figure del mondo, analizzandole con lucidità senza nulla negare in nome di una realtà più grande, sia essa storica o metafisica.
Nei racconti giovanili di Nozze Camus afferma, attraverso il corpo, una totale compenetrazione con la terra. Come si raggiunge la verità? Con l’appagamento dei propri istinti sensoriali, e fondamentale è la vista: «A Tipasa, vedo equivale a credo, e non mi ostino a negare quel che la mia mano può toccare e le mie labbra possono accarezzare»7.
L’importanza dell’atto visivo legittima allora l’analogia tra lo scrittore e il dipingere: ma mentre lo scrivere è un’azione regolata dalla memoria e indirizzata all’avvenire, nel dipingere, i pittori, lavorando sotto la benefica guida del presente, «hanno per sempre cacciato la maledizione dell’anima: a prezzo della speranza. Perché il corpo ignora la speranza»8.
Camus invidia quindi agli artisti il privilegio di farsi «romanzieri del corpo», insensibili al tempo e all’assillo della parola esatta, esaustiva. Nella sua ricerca giovanile, l’Italia è allora la tappa fondamentale nella quale i sensi e il corpo vengono magnificati, ma criticamente messi a confronto con la storia, e quindi con la morte:
Uscendo dal sepolcro, il Cristo risorgente di Piero della Francesca non ha uno sguardo umano. Non ha dipinto in viso nulla di felice ma solo la selvaggia grandezza senza anima che non posso fare a meno di intendere come una decisione di vivere. Perché il saggio esprime poco, come l’idiota.9
Tornatovi nel 1954 per ricercare quella felicità che gli aveva forse fatto conciliare assurdo e vita, Camus annoterà alla fine del ’56: «Non dimenticare l’Italia e la scoperta dell’arte – e della religione rivelata all’improvviso nei suoi rapporti con l’arte»10. Occhio e rappresentazione, quindi: sono questi i luoghi in cui Sciascia e Camus possono avere un intimo confronto e contraddirsi.
Nel 1987 Sciascia realizza a Torino, con Daniela Palazzoli, la mostra fotografica Ignoto a me stesso. Ritratti di scrittori da Edgar Allan Poe a Jorge Luis Borges11, e ne prepara la prefazione al catalogo, Il ritratto fotografico come entelechia. Entelechia, essere nel compimento12: con Aristotele, l’autore spiega l’importanza del ritratto fotografico inteso come captazione istantanea di un uomo e come medium per poterne intuire, dietro l’immagine-icona, la vita. Scrive Sciascia:
Nel ritratto fotografico – almeno in uno, degli uomini di cui conosciamo , sia pure sommariamente la vita, la storia personale, l’opera – si realizza un’attendibilità che non pone o allontana il problema della somiglianza fisica e però restituisce il senso di quella vita, di quella storia, di quell’opera, compiutamente in entelechia.13
Leggendo Camus si avverte una certa affinità:
Non guardiamo più i nostri contemporanei, avidi soltanto di ciò che in essi serve ad orientarsi o a dare norma alla nostra condotta. Al voto preferiamo la sua poesia più volgare. Ma Giotto o Piero della Francesca sanno benissimo che la sensibilità di un uomo non è nulla. E cuore, ne hanno tutti.14
In un volto c’è verità a sufficienza; evitando le approssimazioni insite nel linguaggio, nell’osservazione empatica dei tratti altrui c’è la possibilità di ricevere ‘superficialmente’ indicazioni anche sulla propria identità.
Approfondendo, dunque, l’interesse di Sciascia e Camus per le arti visive, si avverte un’apparente contraddizione con la loro formazione illuministica, mentre la tensione tra fisico e metafisico si fa vibrante. In questo senso pittura e fotografia possono rappresentare un valico tra i due piani, come se la ragione, a un certo punto inerme, seguisse gli indizi sull’esistenza di una realtà non visibile.
La passione per l’arte figurativa è lo specchio della loro inconsapevole o pudicamente taciuta spiritualità? Potremmo rispondere di sì.
I dubbi esistenziali di Camus e la problematica ricerca della verità in Sciascia, partendo da un laicismo settecentesco ed empirico, conducono, in due menti razionali arrivate al limite del logico, all’intuizione di un aspetto alieno. Prima del ‘trascendente’, però, sembrano ritirarsi con pudore.
«Io non credo in Dio, è vero. Ma non per questo sono ateo. Sarei d’accordo con Benjamin Constant nel trovare nell’irreligione qualcosa di volgare e logoro»15, dice Camus; dall’altra parte più volte traspare il fascino esercitato in Sciascia dal cristianesimo, inteso come problema inevitabile.
Si può quindi sostenere che il colloquio più fruttuoso fra i due possa avvenire davanti a un’opera d’arte, a una tela da considerare, talvolta, rappresentazione iconografica di un piano diverso dell’esistente, il cui mistero riesce a percorrere la strada tra materiale e immateriale e a suggerire qualcosa sulla sua creazione.
Viene da pensare, allora, a Florenskij, perfetto esempio di sintesi tra razionalità e fede da intendere come tensione verso una «metafisica concreta», una «teologia del visibile» esprimibile nell’icona, unione di realismo e simbolismo,16 capace di testimoniare la «verità del corpo vivente di Cristo […] allontanando ogni forma di “come se” metaforico»17.
Come la rappresentazione sacra dei volti di Cristo e di Maria nell’iconografia cristiana delle origini era tramite per un contatto col divino, così la pittura e la fotografia per Sciascia e Camus sembrano acquisire un ruolo di mediazione fra l’umano e il trascendente. In particolare ha questo ruolo la fotografia, ultimo gradino di quella lunga scala che partendo dagli acheropiti – ritratti ritenuti autentici del Cristo e della Madonna – arriva appunto al dagherrotipo che cerca, invece, la miglior mimesi possibile. Tra queste opposte ma infine simili concezioni dell’icona, una empirica e l’altra trascendentale, stanno secoli di arte figurativa che, intenta alla progressiva umanizzazione dei tratti sacri, ha subito un costante ‘decadimento’.
«A ciascuno Dio ha concesso una certa misura di fede, cioè una convinzione di cose invisibili»18, dice Florenskij e, in questo senso, una certa misura anche ai nostri due scrittori.
Pavel Florenskij, matematico, filosofo e sacerdote della Chiesa ortodossa, considerato una minaccia per il potere sovietico, venne arrestato nel 1933 e fucilato nel 1937 dalla trojka speciale di Leningrado, in quanto incluso nei dossier dei controrivoluzionari. Scrisse nel 1922 un’opera sull’ermeneutica dell’icona dal titolo Ikonostas (tradotto in Le porte regali), dalla quale si ricava una concezione della rappresentazione del divino che ci aiuta a comprendere qualcosa sulla spiritualità senza futuro, sulla religiosità senza speranza di vita eterna. Per Florenskij le icone non richiedono alcun impegno interpretativo ma solo tutta la volontà insita nel guardare; per loro tramite Dio ricambia il nostro sguardo «come energia che investe il fedele»19.
Quando Sciascia parla del ritratto fotografico come entelechia, sembra laicamente riallacciarsi al senso originario delle icone sacre che, composte attraverso tecniche e materiali appropriati, erano considerate porte percettive capaci di estendere gli spazi sensibili in direzione del sacro.
«La vérité a un visage d’homme».
È questo il commento di Camus al ritratto fotografico di Louis Courel, espresso in La postérité du soleil, opera che si apre e si chiude con le parole del poeta René Char. La postérité è il progetto dei due amici di commentare le fotografie di Henriette Grindat che aveva immortalato i paesaggi de L’Isle-sur-la-Sorgue. Le parole di Camus sembrano voler esprimere esattamente ciò che Sciascia dichiarava sull’entelechia come mistero visibile. Accanto alla foto di Lucien Mathieu, Camus scrive: «D’autres après nous encore recevront sur cette terre le premier soleil, se battront, apprendront l’amour et la mort, consentiront à l’énigme et reviendront chez eux en inconnus. Le don de vie est adorable»20.
Mentre le icone sacre dovevano trasmettere un’immagine a-formale del divino, l’arte pittorica e la fotografia sono attratte dalla forma ma allo stesso tempo cristallizzano in un’immagine atti e gesti che hanno i contorni essenziali della verità e, nell’esaltazione del visibile, richiamano qualcosa di più vasto. Se per lo Sciascia degli ultimi anni questo vasto anelito si traduce anche in pietas verso i giovani e le generazioni future, per Camus è la solidarietà, la comunione tra gli uomini nella serena consapevolezza della morte, ma con la gioia vitale che nell’arte diviene esperienza mistica.
«L’artista si forma in questo rapporto perpetuo fra lui e gli altri, a mezza strada fra la bellezza di cui non può fare a meno e la comunità dalla quale non si può staccare», dice a questo proposito lo scrittore algerino a conclusione della cerimonia per l’assegnazione del Nobel nel 195721.
Il suo ricacciare Dio a una distanza siderale, in uno spazio di totale indifferenza per il destino di sofferenza dell’uomo, non significa affatto negarlo; piuttosto, come nota Montano, sotto la veste della polemica si nasconde l’esigenza di un confronto con un’entità la quale si trova in una «trascendenza talmente remota da essere per gli uomini insignificante»22.
Nell’arte, origine della rivolta, si apre un inaspettato canale comunicativo per rinfacciare a Dio la possibilità di un’«ipotetica soteriologia intramondana»23, di una salvezza da ricercarsi nella potenza ribelle dell’arte e non in un regno promesso dopo la vita, nella chimera dell’eternità24.
«Io ho il senso del sacro e non credo alla vita futura»25, dice sempre Camus. Dal momento che esiste l’assurda sofferenza dell’uomo su questo mondo, perché sperare nel regno ultraterreno della giustizia?
Lo scrittore, al pari di Ivan Karamazov scelto nell’Uomo in rivolta come esempio di ribelle metafisico, combatte l’idea della salvezza e rifiuta di salvarsi da solo, «continuerà a mettere Dio nel torto rifiutando doppiamente la fede come si rifiutano ingiustizia e privilegio»26.
È, come in Sciascia, una questione inerente alla giustizia.
La ricerca sciasciana di verità, specie a partire da Todo modo, è strettamente legata alla ricerca dell’identità che, sempre più scollata dal singolo personaggio e dalle contingenze storiche, subisce – seguendo Renard – processi di «sconnessione»27.
Verità e identità, proprio perché inafferrabili, si confondono l’un l’altra in entità metafisiche. Tutto ciò in Todo modo si concretizza in quella che si può definire, da parte del laico pittore protagonista, ricerca cristologica in opposizione a un cattolicesimo afono dinanzi a questioni sostanziali come salvezza e rivelazione. L’opposizione di Sciascia è a questo cattolicesimo oramai totalmente secolarizzato, che trova nella luciferina intelligenza di don Gaetano, antagonista del pittore, giustificazioni all’ingiustizia; quella di Sciascia è dunque avversione per una Chiesa vista come «degenerazione del cristianesimo nei suoi rapporti col potere»28.
L’interesse cristologico, cioè l’indagine sull’identità di Cristo, è speculare alla domanda su cosa sia l’uomo. Allo stesso modo, come sottolinea Montano, Camus si prodiga a identificare il vero volto di Dio: «Volto inautentico, che si rivela nel fideismo dell’attesa. […] Volto autentico, invece, che si manifesta nel Cristo della passione, di una passione senza resurrezione e senza redenzione, nell’uomo-Cristo e non nel Cristo-Dio, “nell’unico cristo che meritiamo”»29. Ecco perché la morte è l’unico cardine su cui ruotano Camus, con le sue riflessioni lirico-filosofiche, su omicidio e suicidio, e Sciascia che formalizza lo stesso tema nel giallo; l’arte figurativa può rappresentare allora un’alternativa all’idea della perdita, poiché vince tempo e storia nella fissità di un’immagine. Del resto, il significato dell’icona di Florenskij «nella sua intellettualità visibile o intellettuale visibilità è l’incarnazione»30.
Il sentimento religioso dell’algerino, che nelle prime opere si esprime in un entusiasmo panico per le manifestazioni terrestri, successivamente, ne Lo straniero e ne Il mito di Sisifo, fa sì che l’uomo, pur fortemente vitale, avverta il senso dell’assurdo e dell’equivalenza di ogni azione di fronte alla morte. Il problema ricade allora sulla ‘posa’ da tenere: rigettata l’ipotesi suicidio come illogica e al di là della problematicità della rivolta, rimane un’alternativa religiosa sempre sospesa e divenuta, ne La peste, impegno concreto verso il prossimo.
Riguardo a fede e metafisica, Camus e Sciascia risolvono dunque nell’impegno etico il moto abrasivo tra ‘sì e no’; si può attribuire a entrambi ciò che sostiene l’algerino quando si dichiara «pessimista riguardo al destino umano e ottimista riguardo all’uomo», al contrario di un cristianesimo «pessimista riguardo all’uomo e ottimista rispetto al destino umano»31.
L’idea di letteratura praticata da entrambi è potente perché sottrae ombre e imposture al mondo, ma l’omicidio crea squarci insanabili nelle loro pagine. Avvertendo la necessità della rivolta e il problema di darle un limite, non possono che rivolgersi domande sul trascendente e su Dio, ovvero su quell’auspicabile possibilità di neutralizzare l’assurdo della condizione umana, persistente come tentazione razionalmente non rimovibile. Se Florenskij riesce a conciliare scienza, logica e amore per il bello con un discorso percepibile sul divino, i nostri scrittori sembrano intuire qualcosa che dal mondo visibile possa condurre all’invisibile, ma senza mai seguirne la seduzione. Tuttavia la loro è una letteratura della luce, con le diverse fasi di penombra e di buoi che la luce fa percepire, come per Florenskij esiste una «metafisica della luce, caratteristica fondamentale della pittura di icone»32.
Possiamo dire dunque che il confronto tra Sciascia e Camus si rivela fertile. Esso fa emergere sorprendenti affinità ed equivalenza di sensibilità fra i due autori e attesta come il substrato culturale a essi attribuito, fatto di razionalismo ed empirismo, si dimostri a volte un terreno inaridito. La fertilità del confronto infatti non è solo nelle convergenze tra i due ma anche nelle dissonanze e nelle divergenze. Per i Nostri, allora, l’arte visiva può rappresentare una via di fuga e acquisire i contorni ariosi della libertà, di quella invidiabile libertà dai limiti dell’oggettivo e del tangibile che per Nietzsche è il risultato dell’«aver-imparato-a-vedere».
Angelo Marco De Iorio
(Tratto da «Todomodo», Rivista internazionale di studi sciasciani, anno VI, 2016, Firenze, Leo S. Olschki Editore, 2016, pp. 183-192).
Note
1 Claude Ambroise, L’uomo in rivolta, «Panta Sciascia», quadrimestrale, n. 27, a cura di Matteo Collura, Milano, Bompiani, 2009, pp. 237-241: 237.
2 Leonardo Sciascia, Letteratura, in Alberto Savinio, Pittura e letteratura, Parma, Franco Maria Ricci Editore, 1979, pp. 37-41: 40.
3 Albert Camus, Il mito di Sisifo [1942], in Opere, a cura di Roger Grenier, Milano, Bompiani, 2000, pp. 195-335: 255.
4 È la medesima capacità che Sciascia ritrova e ammira nell’opera dell’amico Bruno Caruso, artista col quale condivideva il gusto per la commistione d’immagine e parola: «La linea, dice Alain, è l’invenzione propria del disegno. E ancora: Proprio al disegno, e con questo si oppone tanto alla pittura che alla scultura, è il fare a meno della materia. Caruso in pittura si appropria invece della linea, […] fa sì che il disegno non possa fare a meno della materia che s’appartiene alla pittura. Operazione di ragione anche questa, della ragione che è anche passione»: L. Sciascia, Storia di un’amicizia. Scritti di Leonardo Sciascia sull’opera di Bruno Caruso, premessa di Antonio Di Grado, postfazione di Antonio Motta, Palermo, Kalós, 2009, p. 99.
5 A. Camus, L’uomo in rivolta [1951], in Opere, cit., pp. 617-953: 895.
6 L. Sciascia, Storia di un’amicizia, cit., p. 59.
7 A. Camus, Nozze [1939], in Opere, cit., pp. 53-95: 63.
8 Ivi, p. 86.
9 Id., Il rovescio e il dritto, in Opere, cit., p. 94.
10 Id., Taccuini 1951-1959, Milano, Bompiani, 2004, p. 184.
11 Dal ricordo della Quartina per foto di Valéry: «Se mi trovassi davanti a questa effigie / ignoto a me stesso, ignaro dei miei lineamenti / in tante orrende pieghe d’angoscia e d’energia / leggerei i miei tormenti e mi riconoscerei»: Paul Valéry, Quaderni, vol. I, Milano, Adelphi, 1985, p. 108.
12 «Il movimento è […] l’attuazione o il raggiungimento del fine, vale a dire l’entelechia (= essere nel compimento) della cosa che è quel fine in potenza, per l’aspetto in cui è in potenza»: Marcello Zanatta, Introduzione alla filosofia di Aristotele, Milano, BUR, 2010, p. 169.
13 L. Sciascia, Fatti diversi di storia letteraria e civile [1989], in OB, III, pp. 515-727: 674.
14 A. Camus, Il rovescio e il dritto, in Opere, cit., p. 85.
15 Da un’intervista concessa a Claude Sarraute, La rencontre d’Aòbert Camus et de William Faulkner nous vaudra-t-elle una première tragédie moderne?, «Le Monde», 31 agosto 1956, p. 8.
16 «Andando dalla realtà all’immaginario, il naturalismo offre un’immagine fantastica del reale, un superfluo esemplare della vita quotidiana; l’arte opposta viceversa, il simbolismo, incarna in immagini reali una diversa esperienza, e offrendocele crea una realtà più alta. Lo stesso avviene nella mistica. La legge generale è sempre una: l’anima si inebria del visibile e, perdendolo di vista, si estasia sul piano dell’invisibile»: Pavel A. Florenskij, Le porte regali, Milano, Adelphi, 1981, p. 35.
17 Chiara Cantelli, L’icona come metafisica concreta. Neoplatonismo e magia nella concezione dell’arte di Pavel Florenskij, Palermo, «Aesthetica Preprint», n. 92, 2011, pp. 1-77: 10.
18 P.A. Florenskij, Le porte regali, cit., p. 52.
19 C. Cantelli, L’icona come metafisica concreta, cit., p. 23.
20 «Su questa terra, altri dopo di noi riceveranno ancora il primo sole, lotteranno, conosceranno l’amore e la morte, daranno spazio all’enigma e torneranno a casa da sconosciuti. La vita è un dono adorabile» [traduzione nostra]: A. Camus, La postérité du soleil [1965], in Œuvres complètes, sous la direction de Raymond Gay- Crosier, IV, Parigi, Gallimard, 2008, pp. 669-736: 728.
21 A. Camus, Discorsi in Svezia, in Opere, cit., pp. 1233-1266: 1240.
22 Aniello Montano, Albert Camus. Un uomo in polemica con Dio, Id., Solitudine e solidarietà, Napoli, Bibliopolis, 2006, p. 127.
23 Ibid.
24 «Beninteso, esiste una rivolta metafisica all’inizio del cristianesimo, ma la resurrezione di Cristo, l’annuncio della parusia e il regno di Dio interpretato come una promessa di vita eterna, sono le risposte che la rendono vana»: A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, cit., p. 641.
25 Da un’intervista rilasciata a Jean-Claude Brisville, Camus, Paris, Gallimard, 1959, p. 260.
26 A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, cit., p. 683.
27 Cfr. Philippe Renard, Quand Sciascia rejoint Borges, in Carmelo Spalanca, Da Regalpetra a Parigi. Leonardo Sciascia tra critica italiana e critica francese, Caltanissetta-Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1994, p. 245.
28 Giuseppe Traina, Leonardo Sciascia, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 89.
29 A. Montano, Albert Camus, cit., p. 138.
30 P.A. Florenskij, Le porte regali, cit., p. 173.
31 A. Camus, L’uomo in rivolta, in Opere, cit., pp. 682-683.
32 P.A. Florenskij, Le porte regali, cit., p. 176.
Inserito il 16/02/2023.
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Gor’kij e Majakovskij: due personalità letterarie antagoniste
1
Maksim Gor’kij, pseudonimo di Aleksej Maksimovič Peškov, nacque a Nižnij Novogorod il 28 (16 secondo il vecchio calendario Giuliano) marzo 1868 in una famiglia di umili origini. Rimasto presto orfano, fu cresciuto dalla nonna materna, appassionata narratrice di racconti popolari. Nell’adolescenza e nella giovinezza dovette fare molti lavori, ritrovandosi a vivere nel mondo dei bassifondi della società, tra vagabondi, prostitute e ladri. Ebbe però fin da ragazzino una grande passione per la lettura, e da autodidatta si dedicò anche alla scrittura. Nei suoi primi racconti egli portò il suo mondo di reietti ed emarginati dalla società alla ribalta della scena letteraria:
A vent’anni cominciai a capire che avevo visto, vissuto e sentito molte cose di cui bisognava, anzi era indispensabile raccontare agli uomini. Mi pareva di conoscere e sentire le cose in modo diverso dagli altri; ciò mi turbava e mi predisponeva all’agitazione, alla loquacità. […] In quegli anni mi consideravo già un narratore interessante, mi ascoltavano attentamente gli scaricatori, i fornai, i “vagabondi”, i falegnami, i ferrovieri, i “pellegrini verso i luoghi santi” e in generale gli uomini fra i quali vivevo.1
Le prime pubblicazioni su giornali di provincia riscossero l’attenzione anche di grandi letterati come Lev Tolstoj e Anton Čechov, con i quali non tardò a stringere amicizia. Grazie anche al loro patrocinio, il giovane scrittore divenne noto al largo pubblico russo, e negli ambienti antimonarchici venne preso per uno di loro per quella vena anarchica popolare e dissacrante che caratterizza spesso il popolo dei bassifondi della società.
I suoi racconti prendevano sempre più una piega civile, e la sua influenza crebbe con il crescere delle sue proteste pubbliche contro le sempre più sanguinose repressioni della polizia zarista contro le manifestazioni di lavoratori, studenti, povera gente, culminate nella cosiddetta “domenica di sangue” del gennaio 1905, considerata generalmente come il primo vero tentativo popolare rivoluzionario della Russia.
La repressione zarista portò Gor’kij stesso a provare il carcere della fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo. L’arresto dello scrittore suscitò un moto enorme di proteste nel mondo della cultura.
L’esilio volontario di Gor’kij in Italia, a Capri, servì per rafforzare i legami con il Partito operaio socialdemocratico russo, e in particolare il sostegno, anche finanziario, alla sua ala bolscevica, capeggiata da Vladimir Il’ič Lenin. A Capri Gor’kij organizzò anche una scuola di partito per fare degli operai comunisti russi dei dirigenti rivoluzionari a tutto tondo, formati anche dal punto di vista teorico.
Gor’kij era quindi sempre più uno scrittore impegnato politicamente e civilmente, e la sua influenza anche tra i letterati crebbe via via, prima e dopo la presa del potere da parte del bolscevismo nel 1917.
Egli sostenne con forza la rivoluzione democratico-borghese del febbraio 1917, mentre su quella bolscevica dell’ottobre dello stesso anno ebbe a esprimere forti critiche e dubbi in una serie di articoli per un giornale che aveva lui stesso fondato, la «Novaja žizn’» («La vita nuova»).
Il clima rivoluzionario portò alla ribalta culturale e letteraria della Russia sovietica migliaia di nuovi autori in cerca di sé stessi, avanguardisti e scrittori proletari, costruttivisti, neofuturisti e poputčiki (“compagni di strada”). Gor’kij in quel primo periodo rivoluzionario prese parte solo di passaggio alle dispute sul ruolo che lo scrittore e la letteratura avrebbero potuto o dovuto assumere nella costruzione della nuova società, e cercò in realtà più di svolgere il ruolo di mediatore tra il potere politico-culturale, in cui predominava la figura del suo amico Anatolij Lunačarskij, commissario del popolo alla Cultura, e gli scrittori e i poeti delle generazioni passate, tra cui si annoveravano i simbolisti, gli acmeisti, ecc.; in qualche modo riuscì a salvare dall’esilio o dalla repressione politica molte personalità letterarie cadute in disgrazia.
Non trovandosi a pieno nel clima rivoluzionario della Russia sovietica, nel 1921 si trasferì in Italia, a Sorrento, da dove seguì con sempre maggiore attenzione gli sviluppi politici e culturali del giovane Stato. Fece un primo trionfale ritorno in patria, figliol prodigo, a fine anni Venti, per poi ristabilirsi definitivamente in Russia dal 1932 fino alla fine della sua vita, nel 1936.
Il suo ruolo di principe della letteratura sovietica, promosso da Josif Stalin in persona, gli dette modo di orientare il pensiero estetico-letterario dell’Unione degli scrittori verso il cosiddetto “realismo socialista”.
Il realismo socialista, nella concezione del Gor’kij degli anni Trenta, scriveva di una realtà in divenire, o meglio, della realtà dell’avvenire. Creava cioè una realtà superiore o futura a cui la realtà presente necessariamente tendeva. La funzione della letteratura era quindi di spingere le masse ad agire e lottare per quel futuro radioso che era prospettato dai piani e dai programmi del Partito comunista. Per Gor’kij diventava un modo per rispolverare l’antica e mai sopita idea sull’utilità dell’illusione, nobilitata attraverso la definizione di “mito”: mito, ovvero realtà creata. Diceva Gor’kij nella sua relazione al I Congresso dell’Unione degli scrittori dell’URSS:
Il mito è invenzione. Inventare significa trarre il senso fondamentale dalla somma dei dati reali e incarnarlo in un’immagine: così otteniamo il realismo. Ma se al senso di ciò che è tratto dai dati reali aggiungiamo – inventiamo in più, secondo la logica dell’ipotesi – ciò che è desiderato, ciò che è possibile, e con questo completiamo l’immagine, otteniamo quel romanticismo che sta alla base del mito e che è altamente proficuo in ciò, che serve a suscitare un atteggiamento rivoluzionario verso la realtà, atteggiamento che nella prassi trasforma il mondo.2
Vladimir Vladimirovič Majakovskij nacque nel 1893 a Bagdati, un villaggio nella parte occidentale della Georgia. Definirlo poeta è riduttivo, nonostante la nobiltà del termine: egli fu sì grande poeta, innovatore e avanguardista nel campo della versificazione, ma fu anche eccezionale drammaturgo, sceneggiatore, attore, regista, giornalista, grafico, sperimentatore di tutti i campi dell’arte.
Aderì fin da giovane all’ala bolscevica del Partito operaio socialdemocratico russo, e per il suo attivismo comunista e antizarista finì in carcere per almeno tre volte.
A metà degli anni Dieci del Novecento Majakovskij si fece notare nei club e nei locali delle due capitali, nel corso di serate di declamazioni poetiche scandalose e provocatorie, che non di rado finivano in risse. Sanguigno fino all’esasperazione, lanciava il proprio fisico imponente e la propria voce tonante contro tutti i muri delle certezze borghesi, anche nella vita privata, che lo portò a una convivenza a tre con la sua musa Lilja Brik e il marito di lei, Osip Brik, critico letterario e editore, a sua volta forte sostenitore dell’opera innovativa di Majakovskij. L’ammirazione del pubblico così come di una crescente cerchia di poeti e critici d’avanguardia ne fece il capo indiscusso del futurismo russo, che se aveva in comune con quello italiano il gusto per la velocità, le macchine, il progresso tecnologico, gli si poneva in antitesi dal punto di vista politico-ideologico: qui si esaltava la guerra, lì si voleva la fine della guerra mondiale in atto, qui si sosteneva il fascismo in ascesa, lì si sosteneva il bolscevismo, qui ci si ispirava a Schopenhauer e Nietzsche, l’ a Marx ed Engels…
Nella Rivoluzione dell’ottobre 1917 Majakovskij si riconobbe in pieno e ne fu il cantore per eccellenza, riflettendone lo spirito di rottura con le tradizioni artistiche e culturali e la proiezione verso un futuro di azione, costruzione, entusiastico slancio rivoluzionario. Fondò gruppi e riviste, tra cui il celebre Lef (Levyj front iskusstv, «Fronte di sinistra delle arti»), partecipò attivamente alle discussioni e alle varie “guerre” tra i movimenti letterari rivoluzionari che cercavano di prendere il sopravvento nella determinazione degli indirizzi culturali del nuovo potere sovietico.
Pur restando fino alla fine dei suoi giorni un comunista e rivoluzionario convinto, egli già dai primi anni Venti vide con amarezza il riformarsi di una burocrazia statale che si crogiolava nei propri privilegi, un vizio prerivoluzionario che egli non esitò a denunciare in molte sue liriche e opere teatrali.
La sua produzione letteraria andò avanti fino alla fine, fino al suicidio del 14 aprile 1930 nel suo studio che possedeva nella kommunalka (appartamento collettivo) di vicolo Gendrikov, a Mosca. Al suicidio del poeta e ai misteri che lo circondano dedicheremo altri articoli su questo sito.
Il clima letterario degli anni Dieci
Negli anni a cavallo del 1910 Maksim Gor’kij aveva predicato l’importanza pedagogico-sociale della letteratura, vista inoltre come mezzo di propaganda per l’affermazione di determinate idee. Contemporaneamente in Russia vedevano la luce teorie estetiche specularmente contrarie a una tale concezione: con il sorgere del futurismo e con il successivo fiorire di un approccio critico formale all’opera letteraria si intensificò un processo per cui il testo letterario, la parola poetica, reclamavano la propria autonomia dal contesto storico e sociale, considerato come totalmente estraneo all’ambito letterario e quindi del tutto ininfluente sull’atto creativo. L’opera d’arte veniva vista come un’espressione formale, di cui potevano essere studiati solo la tecnica e i procedimenti usati dall’artista, ma da cui non si sarebbero dovute trarre considerazioni di ordine sociologico (come ritenevano marxisti e positivisti) o di ordine mistico-religioso (come facevano i simbolisti).
In realtà, già i simbolisti tra la fine del XIX e l’inizio del XX sec. avevano dato un enorme impulso all’assolutizzazione del Verbo e agli studi sulla tecnica poetica e sull’arte verbale, ma il fatto di considerare la propria espressione poetica come un medium tra il mondo fenomenico esteriore e un fantomatico mondo noumenico, interiore e più elevato («a realibus ad realiora»3 fu la celebre parola d’ordine lanciata da Vjačeslav Ivanov) fece sì che anche questi “poeti-sacerdoti” fossero scomunicati dalle avanguardistiche correnti futurista e formalista.
Se i poeti, i teorici e i critici dell’avanguardia proclamarono l’autonomia della parola (vista come un «organismo vivente», dotato di proprie caratteristiche grafiche e foniche già di per sé dotate di significato, indipendentemente dall’oggetto che può eventualmente rappresentare), lo fecero però in contrapposizione più che altro alle grandi tradizioni realistica e romantica della letteratura russa, tradizioni alle quali faceva parimenti riferimento Gor’kij tanto con la propria opera, quanto con l’approccio alla storia letteraria.
Considerate le posizioni da cui partiva, sarebbe lecito attendersi da Gor’kij un atteggiamento di perplessità, di fastidio o almeno di bonaria indifferenza verso le provocazioni creative e intellettuali dei giovani poeti e teorici dell’avanguardia, e invece, con una certa sorpresa, dobbiamo registrare un iniziale interesse dello scrittore verso il futurismo. Interesse che non voleva affatto dire condivisione; come avrebbe potuto infatti sottoscrivere ciò che, per esempio, Benedikt Livšic scrisse nel saggio Liberazione della parola (Osvoboždenie slova, apparso a Mosca nel 1913 in una miscellanea futurista dal titolo La luna crepata [Dochlaja luna]) a proposito della libertà della creazione artistica?
Ogni singola parola di un componimento – scriveva Livšic – ci appare doppiamente condizionata, e quindi doppiamente non libera: in primo luogo in quanto il poeta coscientemente cerca e trova nel mondo esterno lo spunto per la sua creazione e in secondo luogo perché, per quanto libera e casuale possa apparire al poeta la scelta di questo o quel modo di esprimere la propria energia poetica, tale scelta sarà sempre determinata da qualche complesso del suo subconscio, a sua volta condizionato dall’insieme delle circostanze esterne.
Se invece per libera creazione si intende quella che ponga il criterio del proprio valore non sul piano del rapporto tra essere e coscienza, ma nel campo della parola autonoma, allora la nostra poesia è l’unica libera, e per la prima volta e solo per merito nostro, né ci importa che sia realistica, naturalistica, o fantastica: effettuato l’avvio, essa non si pone in nessun rapporto col mondo, né è coordinata ad esso, e tutti gli altri punti di eventuale intersezione col mondo debbono essere considerati a priori come illegittimi.4
Effettivamente, come l’eco delle prime apparizioni futuriste russe giunse fino all’isola di Capri, Gor’kij ne diede a V. Korolenko un giudizio estremamente negativo5. Ma al suo rientro in Russia, alla fine del 1913, lo scrittore trovò la scena letteraria delle capitali letteralmente ingombrata dalle vibranti provocazioni dell’avanguardia poetica (di cui egli aveva già seguito – ed apprezzato – gli esempi italiani offerti dal fondatore del movimento futurista Filippo Tommaso Marinetti) e il suo tono sorprendentemente si ammorbidì. I biografi dello scrittore riportano sue parole di interesse rivolte nel 1914 verso la nuova corrente letteraria russa, quando ancora non ne conosceva personalmente i protagonisti6. Il suo primo incontro con i futuristi ebbe luogo durante una delle serate che questi conducevano al caffè pietrogradese “Brodjačaja sobaka” (“Cane randagio”). Così ha ricordato quella sera del febbraio 1915 uno dei poeti che vi si esibirono, Vasilij Kamenskij:
“Cane randagio” era la nostra bettola letteraria di mezzanotte. […]
Nello scantinato del “Cane” ogni notte si raccoglieva la bohème pietrogradese.
C’era anche un palcoscenico dal quale noi declamavamo le nostre poesie.
Alla serata dei futuristi partecipò anche Aleksej Maksimovič Gor’kij.
Al termine dello spettacolo Gor’kij salì sul palcoscenico e, sorridendo, disse come soprappensiero:
– Qualcosa c’è in loro…
Questa frase di Gor’kij, detta nello scantinato del “Cane”, fu accolta da un gioioso scoppio di applausi e andò a passeggio sulle pagine dei giornali.7
Quel «qualcosa c’è in loro…» fu poi dallo stesso Gor’kij esplicitato in un articolo dell’aprile 1915 apparso con diversi tagli di censura sul «Žurnal žurnalov» («La rivista delle riviste»). In esso lo scrittore negava che esistesse un autentico futurismo russo, se per futurismo doveva intendersi quel movimento fondato dal «colorito, dotato artista» Marinetti, che «dà fuoco ai modelli, agli stereotipi dell’antichità italiana»: la differenza sta proprio in ciò, che mentre in Italia si è oppressi dai musei, dalla magnifica architettura del passato, dalle antiche fonti della cultura e del pensiero e «bisogna sgusciar via da questo involucro», in Russia «non c’è il terrore dell’antichità, essa non ci soffoca»8. Dunque, secondo Gor’kij in Russia non c’era il futurismo, ma c’erano «semplicemente Igor’ Severjanin, Majakovskij, Burljuk, V. Kamenskij», e tra questi si avevano «indubbiamente uomini dotati, che in futuro, dopo aver scartato il loglio, [sarebbero giunti] a una certa grandezza»9. Lo scrittore affermava che questi poeti avevano ancora poca esperienza della vita, ma si diceva convinto della loro capacità di mettere giudizio e di cominciare a studiare; scorgeva il loro valore principale nel fatto di essere giovani senza stanchezza che «vogliono una nuova fresca parola», e di portare «l’arte in strada, tra il popolo, tra la folla»10. E anche se i loro modi erano orribili, Gor’kij era disposto a perdonarli, perché si trattava comunque di giovani con un atteggiamento attivo verso la vita:
E tutti loro, – continuava – questo girotondo di persone che schiamazzano, che urlano e che si definiscono per un qualche motivo futuristi, compiranno la loro piccola – e, forse, anche grande! – opera, che evidentemente genererà dei germogli. Che ci sia pure il grido, l’ingiuria, il delirio, purché non ci sia silenzio, il morto, agghiacciante silenzio.
È difficile dire in cosa sfoceranno, ma vogliamo credere che saranno nuove, giovani, fresche voci. Noi li aspettiamo, li vogliamo.
Li ha generati la vita stessa, le nostre condizioni attuali. Essi non sono degli aborti, essi sono dei ragazzi nati al momento giusto.11
La conclusione dell’articolo lanciava una grande speranza sugli sviluppi dei giovani poeti futuristi:
Sebbene i nostri futuristi siano ridicoli e chiassosi – scriveva Gor’kij, – bisogna spalancar loro le porte in modo ampio, poiché si tratta di giovani voci che chiamano ad una vita giovane, nuova.
La nostra gioventù ha vissuto un periodo eccezionale. Prima si è avuta un’epidemia di suicidî che si è portata via molte giovani e dotate vite; il suo posto è stato preso dal problema sessuale, che ha anch’esso distrutto e rovinato per sempre molte centinaia e migliaia di anime.
Ecco adesso una gioventù, penso e voglio credere, venuta al mondo per rinfrescare la densa e semimalata atmosfera della vita. Essa deve buttare via molto ciarpame, molte cose superflue e risanare le proprie anime non completamente sane, e allora, dopo aver raccolto le forze, emergeranno al di sopra della superficie della piatta vita quotidiana e del caos…12
Questo voler credere di Gor’kij nella gioventù avanguardista ha una spiegazione: egli, avversario di quei simbolisti e decadenti che avevano dominato la scena poetica fino ad allora e che secondo lui miravano ad allontanare il lettore dalla realtà, a trasportarlo in mondi iperborei, a depredarlo della speranza in una vita nuova13, attendeva con tutta l’anima l’apparire di nuove generazioni di poeti che avessero la voglia di fare e non di fantasticare, che fossero dominati dalla certezza e non dal dubbio, dall’ottimismo e non dal pessimismo, che avessero insomma, come diceva lui, «un atteggiamento attivo verso la vita», che volessero cioè creare la vita e non subirla. Proprio in alcuni dei futuristi Gor’kij vide tali potenzialità e per questo si schierò dalla loro parte, provocando la sorpresa della critica del tempo. Ma si trattò di speranze non proprio ben riposte, se si deve registrare che i rapporti di Gor’kij con l’avanguardia nel periodo postrivoluzionario furono sempre molto difficili. Infatti i futuristi, agli occhi dello scrittore, non misero da parte il superfluo che avevano accumulato in gioventù, e anche dopo aver raggiunto la fama continuarono con la loro poetica provocatoria e innovativa, convinti sempre più che la nuova situazione rivoluzionaria esigesse nuove forme e nuovi ritmi, dimostrandosi, almeno a parole, ancor più sprezzanti nei confronti delle tradizioni letterarie e delle altre tendenze.
Gor’kij e Majakovskij
Quello del rapporto tra Gor’kij e Majakovskij è stato uno dei temi su cui con maggior zelo la critica ufficiale sovietica si è impegnata a porre i suoi veli censorî. I nomi dei due letterati sono sempre stati posti in tutti i manuali scolastici dell’Unione Sovietica l’uno accanto all’altro come osnovopoložniki socialističeskogo realizma (‘coloro che hanno gettato le basi del realismo socialista’); per decenni si è scritto del loro trovarsi «nello stesso campo letterario»14 e si è alimentato il mito della complementarità delle visioni letterarie dei due scrittori, insorgendo costantemente contro coloro che all’estero ritenevano che non di complementarità si trattasse, bensì di contrapposizione. Un esempio di ciò fu offerto dal biografo e critico di Majakovskij V. Percov, che nel 1968 scrisse:
Nella critica letteraria straniera non di rado si incontrano «ammiratori» di Majakovskij e di Gor’kij e «divulgatori» della loro opera che considerano come proprio compito quello di separare in campi distinti gli iniziatori della letteratura sovietica e di dimostrare che i metodi e le idee di questi due scrittori sono radicalmente diversi. Ciò riguarda non tanto la loro originalità veramente stupefacente, quanto una cosa completamente diversa: senza una qualsivoglia analisi di tale originalità e dell’evoluzione creativa, si pratica il tentativo di contrapporli come artisti, affermando per esempio che Gor’kij è un «tradizionalista», mentre Majakovskij appartiene al novero degli «sperimentatori». Di più, Gor’kij è presentato come il cantore di un nuovo mondo mentre Majakovskij è raffigurato soltanto come un mordace autore satirico.15
Tra gli studiosi stranieri che iniziarono a sfatare le leggende sulle relazioni tra i due scrittori ci fu V. Strada, che su un numero di «Rinascita» del 1967 pubblicò l’articolo Il contrasto tra Gor’kij e Majakovskij, un contrasto dalla «quadruplice radice, personale, estetica, politica ed etica»16. In particolare, scrive Strada che il contrasto estetico, che esisteva tra i due già dagli anni ’10, divenne «determinante dopo la rivoluzione, quando i credi estetico-letterari, radicalizzandosi, si configurarono anche in precisi programmi politico-letterari»17 alternativi tra loro. Crediamo di aver già fornito tutta una serie di indicazioni atte a sostenere la fondatezza di tali affermazioni di Strada, se non altro quando abbiamo affrontato la questione cruciale dell’atteggiamento contrapposto tenuto dai due letterati negli anni 1917-’21 nei confronti del retaggio artistico-culturale prerivoluzionario.
Nel suo articolo del 1915 Sul futurismo russo Gor’kij dedicò uno spazio speciale a Majakovskij, che evidentemente già dal primo impatto distinse dagli altri poeti d’avanguardia come il più dotato e promettente:
Solo di recente – scrisse – li ho visti per la prima volta dal vivo e dal vero e, sapete, i futuristi non sono poi così spaventosi come si dimostrano o come li dipinge la critica.
Ecco, prendete per esempio Majakovskij: è giovane, ha solo vent’anni, è chiassoso, sfrenato, ma in lui nascosto da qualche parte c’è del talento. Egli deve lavorare, studiare, e scriverà dei versi buoni, veri. Ho letto un suo libro di poesie. Qualcosa mi ha colpito. È scritto con parole vere.18
Nell’estate dello stesso anno i due si incontrarono nella dacia di Gor’kij a Mustamjaki, presso Pietrogrado; in quell’occasione il poeta lesse La nuvola in calzoni (Oblako v štanach), provocando le lacrime del padrone di casa (che alle lacrime era facile):
Andai a Mustamjaki – ricordò Majakovskij nella sua autobiografia. – Maksim Gor’kij. Gli lessi qualche brano della Nuvola. Gor’kij, commosso, mi lacrimò nel panciotto. I versi lo sconvolsero. Ne fui quasi orgoglioso. Ben presto si apprese che Gor’kij singhiozzava su ogni panciotto poetico.19
Un simile apprezzamento di Gor’kij per l’opera di un giovane poeta che pure aveva stilato tre anni prima un manifesto iconoclasta in cui veniva anch’egli, Gor’kij, gettato dal «vascello della modernità» è spiegabile: il protagonista del poema poteva attirare l’autore dei bosjackie rasskazy perché forti emergevano anche nell’«io» della Nuvola le spinte individualistiche e superomistiche, tanto da proporre orge a Dio in persona, «ignorante e minuscolo deuccio», e da mettere in fuga gli angeli, «alati lestofanti»20. Non poteva lasciare indifferente Gor’kij quella giovanile vitalità del poeta che emergeva dalla sua opera, la carica attiva, la positiva rabbia distruttrice-creatrice.
La prorompente personalità del giovane Majakovskij provocò un’ottima impressione in Gor’kij, che lo chiamò, vincendo le resistenze dei propri collaboratori, alla sezione letteraria della «Letopis’» prima e della «Novaja žizn’» poi. In questo giornale apparvero alcune poesie del futurista e fu la casa editrice «Parus», diretta da Gor’kij, che stampò nel 1917 il poema La guerra e l’universo (Vojna i mir), così come la raccolta di versi Semplice come un muggito (Prostoe kak myčanie).
L’autobiografia di Majakovskij Io stesso riportava per l’agosto 1917:
Pian piano la Russia si dekerenskizza. S’è perduta ogni stima. Lascio la «Novaja žizn’». Concepisco Mistero buffo [Misterija-Buff].21
Non è chiaro se l’abbandono del giornale di Gor’kij da parte del bolscevico Majakovskij sia stato dettato da ragioni politiche, ma una tale ipotesi è più che plausibile, considerate le prese di posizione dei menscevichi internazionalisti ostili alla politica rivoluzionaria di Lenin. Motivi politici e motivi letterari segnarono il corso successivo della divisione tra i due grandi letterati: l’uno impegnato a «suonare il piffero per la rivoluzione»22 bolscevica, l’altro tenace difensore di una parte della vecchia intelligencija che quella rivoluzione rischiava di annientare; l’uno che si proclamava «bolscevico dell’arte» e si cimentava con ancor più vigore nel proprio futuristico intento di rivoluzionare le forme artistiche, l’altro che si ergeva a guardia dei templi sacri dell’arte del passato che i rivoluzionari dell’«Iskusstvo kommuny» («L’arte della comune») volevano abbattere. Seguendo Lenin, Majakovskij scrisse che «chi oggi non canta con noi è contro di noi»23, e tra il 1917 e il 1921 queste parole del poeta erano oggettivamente rivolte anche contro Gor’kij, tutto preso dalla monumentale opera della «Vsemirnaja literatura» («Letteratura mondiale»), mediante la quale cercava di fondare i nuovi canti della Russia rivoluzionaria sulla base musicale dei «borghesi e aristocratici» classici russi e mondiali.
I proclami e i comportamenti iconoclastici delle avanguardie letterarie e artistiche allarmarono il direttore della «Vsemirnaja» che, in una nota diretta tra la fine del 1920 e l’inizio del 1921 a K. Čukovskij (il quale stava preparando un saggio su Anna Achmatova e Vladimir Majakovskij per la rivista «Dom iskusstv» [«La casa delle arti»]), suonò l’allarme per le spinte «anarchiche» che giungevano dal poeta futurista:
Amare è stupendo, ma elogiare eccessivamente non si deve – scriveva Gor’kij. – Talvolta Kornej Ivanovič elogia eccessivamente la Achmatova e Majakovskij. Ma quanto è opportuno – tatticamente e in generale – elogiare ai nostri giorni l’anarchismo?
Noi, la Russia, gli stiamo andando incontro inesorabilmente e velocemente. E così, vedendo ciò, non si dovrebbe esprimere – perlomeno in un paio di parole, brevemente – che una tale direzione del nostro cammino non è molto piacevole per noi ed è molto dannosa per il futuro del nostro paese?24
Gor’kij respingeva gli impulsi anarchici del poeta, d’altra parte continuando probabilmente ad apprezzarne l’opera. Nello stesso inverno 1920-’21 Majakovskij compose quel poema rivoluzionario 150.000.000 in cui definì lo scrittore una «chioccia» intenta a proteggere la vecchia letteratura; pare che, nonostante questa insolente metafora, Gor’kij abbia considerato positivamente il poema, se sono esatti i ricordi di K. Fedin, che scrisse:
Lontano dalla ristrettezza dei gusti, sempre al di sopra delle scuole, Gor’kij poteva approvare fenomeni che si escludevano a vicenda. Una volta mi ha chiesto con impazienza:
– Ha sentito Majakovskij?… Lo ascolti… Mi ha letto i suoi 150.000.000. Le dirò, ma che personcina!…25
Ma occorre avvertire che i ricordi, scritti per di più in periodo staliniano, vanno presi con le dovute cautele, perché spesso rientravano appieno nell’opera di falsificazione condotta dalla critica ufficiale, opera che gli stessi estensori erano costretti ad avallare, di frequente assoggettandosi ad una sorta di autocensura preventiva.
Già divisi sul piano politico e su quello estetico, nel 1921 Gor’kij e Majakovskij sancirono i contrasti con una rottura personale, quel «qualcosa, / come una zuffa / o un alterco» a cui avrebbe fatto riferimento l’inizio della Lettera in versi del 1927 inviata dal poeta allo scrittore lontano dalla patria. La lite, avvenuta poco prima della partenza di Gor’kij per l’estero, resta a tutt’oggi un mistero. V. Percov ha riportato le voci di «persone a quel tempo vicine ad entrambi» sulla circostanza che «uno dei nemici di Majakovskij cercò di farlo litigare con Gor’kij»26. Un po’ più luce sull’evento l’ha fatto V. Šklovskij, che ha accusato il segretario di Gor’kij, P. Krjučkov, di aver riportato allo scrittore una illazione secondo cui «Majakovskij aveva offeso una donna»27; il teorico dell’Opojaz (Obščestvo izučenija poetičeskogo jazyka [Società per lo studio del linguaggio poetico]) ha anche riferito di essersi reso promotore insieme a O. Brik di un tentativo di riconciliazione, risultato però vano.
I rapporti personali tra i due non sarebbero mai stati ripristinati. L. Spiridonova ha scritto che «essi non ebbero mai più il desiderio di ristabilire i buoni rapporti del passato»28; una tale affermazione sembra però contrastare in parte con quanto riferito da V. Chodasevič sul rifiuto di Gor’kij di «ricevere [il poeta] quando questi andò in Germania nell’autunno 1922»29, dando così l’impressione che Majakovskij volesse effettuare un nuovo tentativo di riavvicinamento.
Dall’estero Gor’kij era perfettamente informato di tutte le nuove opere di Majakovskij, ma oramai il suo atteggiamento negativo nei confronti del poeta appariva viziato da un pregiudizio di ordine personale. Chissà se anch’egli, allora in Germania, si sarà sentito incluso tra quelle Canaglie! (Svoloči!) di cui scrisse nel 1922 Majakovskij:
«Berlino.
L’emigrazione si rianima.
Le bande bianche si rallegrano:
combatteranno meglio contro gli affamati.
Se ne vanno
per Berlino,
arricciandosi i baffetti,
e si vantano:
“Sono un patriota!
Un vero russo!”».
Siate maledetti!
Per voi un eterno «via!».
Col vostro aspetto da Giuda, inviso a tutti,
perseguitati dal suono dell’oro francese,
vagate in terra straniera come l’ebreo errante!
Foreste russe,
radunatevi!
Ognuno scelga il suo più grosso tronco,
così che la loro sagoma
eternamente penzoloni
lì, contro il cielo, dondoli livida.30
E chissà se il poeta pensava anche a Gor’kij, emigrato l’anno precedente e che allora si trovava in una località termale della Germania, tappa d’avvicinamento verso l’Italia. Il tono battagliero di Majakovskij non era congeniale in questa fase allo scrittore, ma nell’avversione per un certo tipo di emigrati i due si trovavano sicuramente dalla stessa parte della barricata.
Una lettera del 1923 fu l’occasione per Gor’kij per dimostrare il proprio fastidio nei confronti del poeta, il cui nome volle affiancare addirittura a quella fonte di ogni turpitudine letteraria che era secondo lui rappresentata da Boris Pil’njak:
La letteratura corrente in Russia – scrisse il 21 giugno a F.A. Braun – è tutta nelle mani di avventurieri come Pil’njak, Majakovskij ecc. Pil’njakovščina è diventato il sostantivo che definisce il teppismo letterario e il commercio verbale.31
In quello stesso periodo Majakovskij dalle colonne del «Lef» conduceva la propria battaglia «contro chi, nutrendo il malvagio intento della restaurazione ideale, ascrive al vecchiume una reale funzione nell’oggi, contro chi predica un’arte aclassista, universalmente umana, contro chi sostituisce alla dialettica dell’attività artistica la metafisica del profeta e del sacerdote»32. Non c’era possibilità d’incontro tra le posizioni estetiche dei due “pilastri” della letteratura sovietica, e il pur effimero accordo tra il Lef e la VAPP in funzione anti-poputčiki fu un accordo anche contro il rilancio dell’influenza di Gor’kij sui destini delle nuove generazioni di scrittori russi.
(1/2. Segue)
Leandro Casini
(Il presente articolo è stato in parte pubblicato in: Leandro Casini, Gor’kij e Majakovskij: due personalità letterarie antagoniste, in AA.VV., Tempo e tempi presso gli slavi, a cura di Stefania Pavan, Firenze, Alinea Editrice, 1999, pp. 7-33).
Note
1 M. Gor’kij, O tom, kak ja učilsja pisat’, in Id., Sobranie sočinenij v 30 tomach, Moskva, 1949-1956, vol. 24, pp. 487-488.
2 Id., Sovetskaja literatura. Doklad na Pervom vsesojuznom s”ezde sovetskich pisatelej. 17 avgusta 1934 goda, in Id., Sobranie sočinenij cit., 27, p. 312.
3 «Dalle cose reali a quelle più reali».
4 B. Livšic, La liberazione della parola, in G. Kraiski, Le poetiche russe del Novecento. Dal simbolismo alla poesia proletaria, Bari, 1968, p. 108.
5 «Ho osservato la letteratura degli “egofuturisti” e la considero prima di tutto insincera, è il freddo calcolo di nichilisti che vogliono ad ogni costo attirare l’attenzione su di sé e masticare per un po’ un boccone – sia pur piccolo! – del dolce pasticcio della gloria» (M. Gor’kij, Pis’mo V.G. Korolenko, in Id., Sobranie sočinenij cit., 29, p. 311).
6 È scritto nel libro del 1947 di B. Bjalik Su Gor’kij (O Gor’kom): «In conversazioni pubblicate in una serie di giornali Gor’kij già allora disse del futurismo: “In esso, nonostante tutta la mostruosità e il disordine di alcune sue manifestazioni, io colgo le note vive del futuro romanticismo”. E Gor’kij già allora dichiarò, dopo aver indicato gli aspetti negativi dei poeti futuristi e degli artisti del gruppo Bubnovyj valet (Il fante di quadri), apparentato ai futuristi: “… eppure in molti di questi nuovi artisti e scrittori c’è qualcosa che mi è simpatico e caro”» (cit. in V. Percov, Majakovskij. Žizn’ i tvorčestvo, 1, Moskva, 1976, p. 401).
7 V. Kamenskij, Il cammino di un entusiasta, Palermo, 1989, pp. 200-201. Ecco di seguito un brano tratto da uno dei giornali (il «Petrogradskij kur’er» [«Il corriere pietrogradese»]) su cui quella frase di Gor’kij «andò a passeggio»:
«C’era Maksim Gor’kij.
La sua apparizione nello scantinato della “Brodjačaja sobaka” fu inaspettata, per lo meno per il pubblico. Ancor più inaspettato fu il suo intervento, il primo intervento pubblico di Gor’kij dopo un intervallo di dieci anni!
Fu una sensazione stupefacente vedere e sentire Gor’kij! Stupefacente perché ogni sua parola sembrava nuova e piena di profondo contenuto, sebbene nella sostanza Aleksej Maksimovič dicesse cose non così nuove: che nei futuristi “qualcosa c’è”; che verso qualsiasi giovane movimento bisogna avere un atteggiamento amorevole e attento, e non scagliarglisi addosso con strida e con fischi; che nel futurismo c’è una protesta contro un fenomeno opprimente tipicamente russo, “la sgradevolezza per la vita”, c’è il coraggio della “creazione della vita”; che l’uomo in ogni manifestazione dello spirito umano è di per sé interessante…
“Qualcosa c’è in loro!”» (cit. in V. Percov, Majakovskij, žizn’ i tvorčestvo cit., p. 316).
8 M. Gor’kij, [O russkom futurizme], in Id., Nesobrannye literaturno-kritičeskie stat’i, Moskva, 1941, p. 72.
9 Ibid., p. 71.
10 Ibid., p. 72.
11 Ibid.
12 Ibid., p. 73.
13 Nella casa editrice cooperativa «Znanie» Gor’kij nel 1904 tese a riunire scrittori di orientamento realista (o neorealista, come vengono definiti dalla maggior parte dei critici) in aperta contrapposizione al campo dei cosiddetti “decadenti”, raccoltisi a loro volta attorno alla rivista «Vesy» («La bilancia»). Alla denuncia di quelli che lui considerava i danni provocati nella vita culturale russa dal decadentismo e dal simbolismo possiamo far risalire la motivazione suprema dei saggi Paul Verlaine e i decadenti (Pol’ Verlen i dekadenty, 1896), La distruzione della personalità e Sul «karamazovismo», nonché la pièce I villeggianti e alcuni racconti. D’altra parte però, Gor’kij non poté non sottolineare l’importante sviluppo impresso alla forma poetica proprio dai simbolisti; scrisse per esempio in una lettera del 1908: «Va da sé che nei Brjusov, nei Blok e negli Ivanov molti elementi mi sono proprio estranei, ma io non sono cieco e non posso non vedere in essi la bellezza a noi tutti necessaria, per tutti valida, preziosa, rara. Oh, diavoli, come potrebbero parlare bene, se non soffrissero di quell’estenuante malattia che è l’ipertrofia dell’Io» (Literaturnoe nasledstvo, 95, Gor’kij i russkaja žurnalistika načala XX veka. Neizdannaja perepiska, Moskva, 1988, p. 953).
14 A. Volkov, M. Gor’kij i literaturnoe dviženie sovetskoj epochi, Moskva, 1958, p. 138.
15 Cit. in Ibid., pp. 138-139.
16 V. Strada, Il contrasto tra Gor’kij e Majakovskij, in Id., Tradizione e rivoluzione nella letteratura russa, Torino, 1980, p. 106.
17 Ibid., p. 107.
18 M. Gor’kij, O russkom futurizme cit., p. 72.
19 V. Majakovskij, Io stesso, in Id., Opere, 1, Roma, 1980, p. CIII.
20 Id., La nuvola in pantaloni, in Id., Opere cit., 5, p. 29.
21 Id., Io stesso cit., p. CIV.
22 Vd. E. Vittorini, Politica e cultura, lettera a Togliatti, in «Il Politecnico», 1947, 35, pp. 105-106.
23 Cit. in L. Spiridonova, Pritjaženie i ottalkivanie. Gor’kij i Majakovskij, in «Ural», 1994, 6, p. 280.
24 Perepiska M. Gor’kogo s K.I. Čukovskim, in AA.VV., Gor’kij i ego epocha. Materialy i issledovanija, vyp. 3, Neizvestnyj Gor’kij, Moskva, 1995, p. 110.
25 K. Fedin, Gor’kij sredi nas, Moskva, 1967, p. 88.
26 V. Percov, Majakovskij, žizn’ i tvorčestvo cit., 3, p. 259.
27 Cit. in V. Strada, Il contrasto tra Gor’kij e Majakovskij cit., p. 106.
28 L. Spiridonova, Pritjaženie i ottalkivanie cit., p. 281.
29 Nota di V. Chodasevič in Pis’ma M. Gor’kogo k V.F. Chodaseviču cit., in «Novyj žurnal», 1952, kn. XXIX, p. 211.
30 V. Majakovskij, Canaglie!, in Id., Opere cit., 1, p. 207.
31 Cit. in N. Primočkina, Pisatel’ i vlast’, Moskva, 1996, p. 203.
32 V. Majakovskij, Chi azzanna il Lef?, in Id., Opere cit., 8, p. 48.
Inserito il 06/02/2023.
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Gor’kij e Majakovskij: due personalità letterarie antagoniste
2
La sfrontata Lettera di Majakovskij a Gor’kij del 1927
Arriviamo dunque al 1927, anno della pubblicazione della «sfrontata» Lettera dello scrittore Vladimir Vladimirovič Majakovskij allo scrittore Aleksej Maksimovič Gor’kij: a modo suo, Majakovskij cercava di ristabilire un contatto con lo scrittore allontanatosi dalla patria lanciandogli un guanto di sfida, invitandolo, lui «Amaro emigrante», a far ritorno laddove si costruiva quel mondo nuovo per il quale il Falco aveva così a lungo lottato; ma il poeta, pur «senza isterismi», rivendicava, non retrocedendo di un passo, tutte le proprie posizioni antipassatiste di fronte al protettore della Tradizione Culturale.
Ecco il testo della “Lettera aperta”33:
Aleksej Maksimovič,
a quanto ricordo,
fra noi
c’è stato qualcosa,
come una zuffa
o un alterco.
Io me ne andai
facendo brillare
i miei calzoni lisi.
Voi foste preso
dalle molle internazionali.
Oggi
non è così.
Canuto è il luccichio delle tempie
e gli sguardi sono schiariti.
Io non m’impaccio
né con la morale
né coi salvatori,
senza ironia,
come scrittore
parlo allo scrittore.
Assai mi rincresce, compagno Gor’kij,
che non vi si veda
nel cantiere dei giorni nostri.
Pensate
che da Capri34,
da una collina,
vi si veda di più?
Voi
e Lunačarskij
siete l’orgoglio di tutti
gli uomini per bene,
ma chi scrive
è uno sfrontato:
ostenta
tutto il giorno
le sue
menzioni d’onore.
Che giova,
di che inorgoglirsi?
Vendono Cemento
su tutte le bancarelle.
Voi
un tale libro l’apprezzate, forse?
Cemento non ne trovi in nessun posto,
ma Gladkov
ha scritto
un tedeum di ringraziamento.
Ti tappi le narici,
arricci il naso
e ti fai un chilometro di pantano.
A proposito,
si dice
che voi abbiate scoperto le reliquie
di quel…
Kalinnikov.
Non basta conoscere
l’arte della scrittura,
dipingere un tramonto
o la fioritura del ramolaccio.
Quando l’anima per il gelo
s’è attaccata alle costole,
provati un po’
a riscaldarla!
La vita del verso
è anch’essa tranquilla.
Perché l’ardore?
Nemmeno
fuoco nascosto
cova nel loro verso
freddo
macilento.
Tutti
quelli che sono in arrivo
rimeggiano impressioni
e stampano
su una rivista
in partenza.
Ma insieme
ai martellatori
di anapesti
fa scuola
il professore Šengeli35.
Qui
non capite semplicemente
se siete al ginnasio,
oppure in una bettola!
Aleksej Maksimovič,
da voi,
in Italia,
avete mai visto
qualcosa
di simile?
La condiscendenza
e l’amorevolezza
d’una serva di nobili,
l’attività
del leccapiatti, del leccarublo
e d’altri consimili “leccatori”
molti le chiamano
“sano
realismo”.
Anche noi siamo realisti,
ma non col muso
puntato in basso sul pascolo;
noi siamo nella nuova
vita futura,
moltiplicata
per l’elettricità
e il comunismo!
Noi siamo i soli,
benché voi lodiate l’abborracciatura,
che caricandoci
gli anni sulle spalle
trasportiamo
la storia della letteratura:
soltanto noi
e i nostri amici.
Noi non lusinghiamo
né l’occhio
né l’orecchio.
Noi
siamo il Lef.
E, senza isterismi,
secondo progetti
sobri
e concreti,
edifichiamo
il mondo di domani.
Nostri amici
sono i poeti della classe operaia.
Non è grande
il loro sapere,
ma l’istinto
ha incastrato
nell’orchestra dissonante
le lettere
dei secoli venturi.
È amaro
per loro pensare
all’Amaro emigrante.
Discolpatevi,
tuonate!
Io lo so:
vi apprezza
il potere
e il partito,
a voi darebbero tutto,
dall’amore alla casa.
I prosatori
starebbero seduti
davanti a voi
sul banco di scuola:
“Insegna!
Comanda!”.
O preferite vivere,
come vive Šaljapin36,
ebbro dei profumati applausi?
Ritorni
ora
un tale artista
fra i rubli russi,
ed io per primo griderò:
“Corri qui,
artista popolare
della repubblica!”.
Aleksej Maksimyč,
da dietro i vostri vetri
vedete
ancora
il planante falco?
Oppure
con voi
ora stringono amicizia
i biacchi striscianti
nel giardino?
Si dice
(spiegazioni correnti!)
che voi
non partireste
a causa della tisi.
Anche voi
in Europa,
ove ogni cittadino
puzza di stagnazione,
di cibo
e di valuta!
Non è forse più pura
l’aria nostra
squarciata due volte
dalla tempesta
di due rivoluzioni!
Lasciare la repubblica
coi suoi pensieri,
con le sue rivolte,
illuminando la calvizie
con l’alba meridionale;
non è forse meglio,
come Feliks Edmundovič37,
farsi squarciare
il cuore
dai tempi?
Qui
il lavoro
è fino alla gola,
e le maniche sono rimboccate,
le bandiere del cielo
sono scarlatte,
i falchi
acciaio nel grido dei motori:
vigilano
che non s’avvicinino le aquile.
Col sangue,
coi fatti,
con queste righe
mai
vendute,
innalzerò
come un razzo rosso
la bandiera d’ottobre,
insultata,
esaltata,
trafitta dai colpi!
Il 23 marzo 1927, anche per rispondere alle numerose critiche cui era stata fatta subito oggetto la sua Lettera, Majakovskij ne spiegò il senso in un dibattito sul tema, sollevato dal critico Vjačeslav Polonskij, “Lef o bluff?” (Lef ili blef?):
«Irriverenza verso Maksim Gor’kij» – disse Majakovskij, citando le accuse che gli erano state rivolte. – «Majakovskij si è espresso con mancanza di rispetto». Io giudico questo fatto in modo semplice. Noi da otto anni stiamo qui, e qual è la nostra condizione letteraria? Abbiamo molte forze letterarie qualificate, molti prosatori? No. Vogliamo vedere Gor’kij nella nostra letteratura? Lo vogliamo. Abbiamo noi il diritto di rimproverargli di essere passato dal canto del falco al canto della biscia? Possiamo noi rialzare la bandiera di chiamata con le nostre proprie forze? Lo possiamo. Questa è la tendenza, queste sono le parole [o la base] della mia poesia su Gor’kij.38
Stando a quanto scrive Percov, «la Lettera a Gor’kij nella esposizione pubblica a cura dell’autore riscosse negli auditorî giovanili un successo non inferiore a quello della poesia A Sergej Esenin [Sergeju Eseninu, 1926]»39, composta in memoria del poeta immagini-sta; non altrettanto successo Majakovskij riscosse tra i critici, tra i quali si distinsero quelli vicini a Gor’kij, come Voronskij e il direttore del «Novyj mir» Polonskij.
Probabilmente fu il direttore della «Krasnaja nov’» il primo ad inviare la propria solidarietà a Sorrento:
<Ma che canaglia Majakovskij? – scrisse Voronskij a Gor’kij il 16 febbraio 1927. – Stia tranquillo che per la Lettera gliele suoneremo ben bene>40. Giorni fa ho spinto, sembra con successo, I.I. Skvorcov, direttore delle «Izvestija», a strigliare Majakovskij. Anch’io, per parte mia, risponderò per le rime.41 <Che sfacciataggine, che bricconeria, che sfrontatezza! Sì, i nostri principî letterari… puah!>42
E la reazione di Gor’kij? Fredda, ostentatamente distaccata, con una certa dose di sufficienza, in questa risposta della fine di febbraio allo stesso Voronskij (questa lettera, proprio per la gravità delle affermazioni di Gor’kij sul conto di Majakovskij, era considerata in periodo sovietico eccezionalmente riservata, il che ne spiega la censura sull’edizione dell’Archivio di A.M. Gor’kij; sulla cartellina che la contiene presso l’Istituto di letteratura mondiale “M. Gor’kij” di Mosca il responsabile dell’archivio dello scrittore aveva vergato con una matita rossa: «Non rilasciare alla sala di lettura. 10.II.’65»):
La Lettera di Majakovskij l’ho letta, ma il senso non l’ho ben colto.43 <Sento ovviamente che nella lettera c’è qualcosa di teppistico, ma non è cosa nuova. Majakovskij è sempre stato un teppista e sembra che tale resterà sino alla fine dei suoi giorni. Per me lui è già da molto tempo “fuori dalla letteratura”.>44
Chuligan (dall’inglese hooligan ‘teppista, vandalo’) non era certo una categoria letteraria, ed infatti Gor’kij poneva Majakovskij «già da molto tempo “fuori dalla letteratura”», forse proprio dal 1921. Poco valore hanno, a nostro modesto avviso, i ricordi degli artisti O. Gzovskaja e V. Gajdarov che, in visita a Sorrento alla fine di dicembre 1925, riportano parole che Gor’kij in quei giorni avrebbe detto loro a proposito del poeta:
«Sì, Majakovskij è un talento! È un vero grande poeta del nostro tempo! È un bene che già lo conosciate e che lo leggiate, ciò vi aiuterà molto nel vostro moto in avanti, nel vostro lavoro».45
Il ritorno in URSS di Gor’kij non segnò alcuna svolta nelle relazioni tra i due scrittori. Il “Falco migratore”, prima di riprendere il posto che gli spettava nell’ambito della letteratura sovietica, si fece precedere da un articolo pubblicato il 1° maggio 1928 dalle «Izvestija», Sugli osannati e i «principianti» (O vozveličennych i «načinajuščich»); in esso rimproverò a una parte dei giovani principianti il fatto di considerarsi anzitempo degli scrittori affermati, citò Lenin sull’importanza di non rinnegare ciò che di valido veniva dalla cultura borghese, stigmatizzò il tono che aveva assunto la rissa tra gruppi letterari. Ma fu la conclusione dell’articolo la parte più polemica: egli vi espose la propria visione sulla costruzione di una nuova cultura fondata sulla religione del lavoro, cui contraddicevano a suo parere alcuni esponenti “eretici” della letteratura sovietica, guarda caso un poeta d’avanguardia e uno proletario:
Se noi veramente vogliamo costruire tra gli uomini dei nuovi rapporti, più «umani», dobbiamo evidentemente cominciare a creare una «nuova cultura» nel nostro ambiente. La nuova cultura comincia dal rispetto per l’uomo lavoratore, dal rispetto per il lavoro.
Non qualsiasi errore o lapsus è un’eresia. Ma ecco dei versi di Majakovskij, citati da Bucharin:
E quando qualcuno mi dice che il lavoro è ecc. ecc.,
come se fregasse rafano su una grattugia arrugginita,
io, con una mano sulla spalla, gli domando soavemente:
«Voi chiedete ancora carte, quando avete un cinque?».46
Ecco, questa è veramente una accanita eresia, perché si tratta di anarchismo piccolo-borghese. E quando Bezymenskij lancia fulmini di legno su un uomo e gli dice:
Tu, amico, del tuono non sei degno
E non sei degno di un pugno…
si tratta a mio avviso di teppismo.47
La poesia di Majakovskij citata da Gor’kij come esempio di eresia, Una buona parola per certi vizi (Teploe slovo koe-kakim porokam), nella quale il poeta aveva esaltato ironicamente l’attività furbesca del giocatore di carte di contro all’indaffararsi monotono del sarto, risaliva al 1915: si tratterà forse di una coincidenza, ma sembra proprio che Gor’kij si sia rimangiato qui i giudizi lusinghieri su Majakovskij espressi in quell’anno, volendo significare che le sue aspettative di allora sul fatto che il giovane ventenne «chiassoso e impetuoso» avrebbe subito un’evoluzione positiva mediante il lavoro e lo studio erano andate completamente deluse. Non solo, ma più in generale questa condanna dimostra che il nuovo papa della letteratura sovietica smetteva i panni dell’eretico che aveva vestito finora e iniziava il proprio pontificato stilando l’enciclica sul culto del lavoro e bollando preventivamente le possibili manifestazioni d’eresia.
Dopo una simile sconfessione era impossibile un incontro tra i due scrittori nei periodi di permanenza di Gor’kij in patria. Majakovskij non si unì al coro di “osanna” che accolse il Falco con migliaia e migliaia di articoli di saluto su tutti quanti gli innumerevoli organi di stampa della sconfinata Unione Sovietica.
Le strade percorse dai due erano divaricate definitivamente, anche in quel campo che possiamo definire “etico-letterario”. Majakovskij, che aveva scandalizzato in gioventù la società borghese e ne aveva sferzato vizi e costumi, riprese quella vocazione negli anni della Nuova politica economica (NEP), stigmatizzando cioè con versi avvelenati le tracce della vita borghese prerivoluzionaria che riprendevano piede nella nuova società ad opera dei cosiddetti nepmany e dei burocrati rossi: dalle sue opere il poeta denunciava i lati negativi dell’attualità sovietica e chiamava a rivoltarsi contro coloro che cercavano di riadattarsi in una vita stagnante e conformista, normalizzata secondo un nuovo ordine piccolo-borghese, ancorché ipocritamente dipinto di rosso48.
Si trattava, per Majakovskij, di un modo per dare una spinta alle forze sane verso la volontà, la passione, l’attività creatrice instancabile, un fine cioè perfettamente identico a quello che si era proposto Gor’kij durante tutta la sua vita. Ma quest’ultimo denunciava l’eccesso di autocritica, la mania dei corrispondenti operai di stampare articoli sui fenomeni negativi della vita sovietica, mentre Majakovskij incitava gli stessi rabkory (‘corrispondenti operai’):
Ehi,
svegliatevi, voi che dormite!
Smaschera
da capo a piedi.
Compagno,
non devi tacere!49
Gor’kij invece pensava che l’incitamento a migliorare sarebbe stato più efficace se fosse venuto dalla costante rappresentazione degli eventi positivi di costruzione della nuova società, che avrebbero spinto all’emulazione nel lavoro. Ciò riguardava la stampa, ma anche la letteratura, che però in Russia aveva secondo lui un vizio d’origine, quello rappresentato dal tono pessimistico, di stampo dostoevskiano. Nel 1924 aveva scritto a Kalinnikov:
La letteratura russa è sufficientemente lugubre; Le anime morte, Il cadavere vivente, La casa dei morti ecc. ecc. – non è già abbastanza? Lei dirà: così è la vita! Che il diavolo se la porti se è così, oltrepassi la realtà, ne inventi un’altra. Lo smascheramento lo lasci all’autore satirico, al pubblicista.50
Nel 1928-’29 lo scrittore avrebbe sconsigliato anche l’autore satirico e il pubblicista dallo smascheramento, come dimostra anche la famosa lettera a Stalin sulla critica e l’autocritica.
A parere di Gor’kij la letteratura russa doveva prendere un nuovo orientamento, quello in direzione dell’ottimismo attivo e attivizzante. In un articolo risalente al 1923, La vocazione dello scrittore e la letteratura russa del nostro tempo (Prizvanie pisatelja i russkaja literatura našego vremeni, pubblicato solo nel 1925, non in patria, ma sulla rivista ungherese «Nyugat»), lo scrittore affrontò la questione dell’invenzione nell’arte, della fiction diremmo oggi. Gor’kij vedeva nell’immaginazione quella forza che aveva permesso all’uomo di spingersi più avanti degli altri esseri viventi, perché «proprio l’immaginazione, stimolando costantemente la ragione e orientandola, ha insegnato agli uomini ad inventare “i castelli in aria”»51, indistruttibili così come la forza dell’invenzione. E, continuava, «il campo in cui più chiaramente e sensibilmente si dà carne e sangue all’invenzione è quello dell’arte, e soprattutto della letteratura»52. Ecco così che Gor’kij riprese quel cavallo di battaglia ideologico che aveva fatto rappresentare dal personaggio dei Bassifondi Luka, il vagabondo che a tutti prospettava la realizzazione dei loro sogni, un modo per ridestare le anime perse alla fiducia nel futuro, all’aspettativa di salvezza. La vocazione (ancora un termine a carattere profondamente religioso) che doveva impossessarsi dello scrittore era dunque quella di servire l’uomo, mostrandolo a se stesso in tutta la sua complessità e in tutta la sua grandezza. Dopo aver a lungo impaurito i lettori, anche mentre questi erano già impauriti dallo scempio della guerra mondiale, gli scrittori avevano ora il compito di rimediare, di dare
libertà all’immaginazione, di introdurre di nuovo l’invenzione nella vita, di mettersi a restaurare i vecchi “castelli in aria” e a costruirne di nuovi. Parlo del tutto seriamente della fantastica resistenza di questi «edifici di sabbia», dell’utilità provata ed evidente della loro costruzione. E sono sicuro che presto gli artisti d’Europa riprenderanno a parlare ad alta voce in un qualche forma nuova dell’amore per l’uomo, dell’umanesimo, della fratellanza delle nazioni, della misteriosa complessità dell’anima dell’uomo, della necessità dell’attenzione e del rispetto nei suoi confronti, della nostra solitudine nell’universo, delle grandi gioie e dell’inesauribile dolore dell’amore, delle maledette incognite della vita, dell’eroico lavoro del pensiero, di tutto ciò che rende l’animo umano più profondo e più vasto, innalzandolo al di sopra della realtà, la quale, in rapporto all’uomo, appare come un cane litigioso che l’uomo stesso ha educato male.
Proprio mediante queste invenzioni si sono umanizzati quegli animali che sono chiamati uomini, e non ci sono altre idee pari al grande fine dell’arte: umanizzare gli uomini.53
La letteratura, secondo Gor’kij, poteva e doveva aiutare l’uomo a vincere il dolore, dalle voci dei poeti bisognava attendersi che ricominciassero a risuonare abbastanza forti, «svegliando ancor più la voglia di felicità, che in sostanza è voglia di una vita veramente umana»54; basta con «i canti tristi e i tenebrosi racconti sui peccati, i crimini e le sventure della vita», e se proprio non se ne può fare a meno, ammetterne «in una dose tale che, come la senape, possa aumentare l’appetito di vivere»55; come «antidoto alla paura poteva servire il riso», il comico, ma «non “il flagello della satira”, dato che […] di flagelli e di scorpioni ce ne sono già abbastanza»56.
La ricetta gorkiana era quella di innalzarsi sulla realtà, guardare ad essa con ottimismo, sapendo distinguere i lati positivi che spingono al miglioramento: siamo già ad uno degli elementi del realismo socialista, anche se mancano quasi dieci anni alla sua codificazione.
Il compito dei letterati russi non era più, secondo Gor’kij, quello del passato, limitato alla critica feroce della realtà, in ciò avendo reso per intero un buon servizio agli scopi politici, rivoluzionari. I giovani scrittori erano ora tenuti a far risuonare nelle loro voci «la gioia della speranza nel futuro»57 e Gor’kij concludeva l’articolo esprimendo fiducia nella loro capacità di utilizzare l’arte come uno strumento di trasformazione del mondo, di trasfigurazione dell’uomo.
L’artista è chiamato ad abbellire la terra con i fiori del proprio talento e l’arte è la cosa più miracolosa e misteriosa tra tutte le cose miracolose create dall’invenzione umana, malgrado la realtà e per la sua trasformazione da pesante, cattiva, sporca in festosa, nobile e abbellita dall’uomo.58
Insomma, Gor’kij chiamava a creare una realtà virtuale, un mito. Questo fu anche il senso di una lettera a Gladkov del 23 agosto 1925 in cui si complimentava con lo scrittore per il suo Cemento, «nel quale per la prima volta nel periodo della rivoluzione è stato affrontato con forza e illustrato con nettezza il più importante tema dell’epoca contemporanea, quello del lavoro»; e continuava:
L’epoca contemporanea esige del tutto legittimamente che l’autore, l’artista, pur non chiudendo gli occhi sui fenomeni negativi, sottolinei e con ciò stesso «romanticizzi» i fenomeni positivi. […] Tuttavia, cerchi di capirmi: io non sto parlando di quel romanticismo proprio di coloro che sono impauriti dalla realtà e scappano da lei per rifugiarsi nel campo delle fantasie, ma del romanticismo di coloro che credono, del romanticismo di quegli uomini che sanno stare al di sopra della realtà, osano considerarla come materiale grezzo e creare dal dato cattivo ciò che di buono è desiderato. Questa è la posizione del vero rivoluzionario, e questo è il suo diritto.59
Ne consegue che chi, come per esempio Majakovskij, pur non chiudendo gli occhi sui fenomeni positivi, sottolineava quelli negativi, non era un vero rivoluzionario.
Nel 1928, con l’aggiunta dell’idea della poetizzazione del lavoro, il gorkiano “castello in aria” del realismo socialista era già progettato. L’arte consolidava la propria funzione sociale: l’esempio dell’eroe positivo di un romanzo doveva stimolare il lettore all’emulazione. La stessa funzione lo scrittore affidò in campo pubblicistico alla rivista «Naši dostiženija», che doveva riportare le conquiste raggiunte nell’opera di edificazione del socialismo.
Ecco dunque che uno stesso impulso attivo, uno stesso fine creativo aveva condotto Majakovskij e Gor’kij su due strade divergenti. E se il secondo aveva rimproverato il primo di offrire esempi dei lati negativi della personalità con il suo teppismo e il suo anarchismo, il poeta a sua volta non poteva fare a meno di ironizzare su quegli inviti gorkiani a rappresentare la realtà in senso idilliaco, a mitizzarla. Nell’ultima sua grande opera teatrale, Il bagno (Banja, rappresentato nel 1930), Majakovskij, dopo aver citato esplicitamente la mania di Gor’kij («le nostre conquiste, come ama esprimersi Aleksej Maksimovič»60), pose nell’interessante e originale terzo atto una digressione-dialogo ideale tra il “regista” della commedia satirica che si stava rappresentando e gli attori, che nella realtà assomigliavano sin troppo ai burocrati che dovevano interpretare nell’opera. Noi crediamo che nello scambio di battute tra il Regista, che aveva ottenuto «l’autorizzazione del Comitato provinciale letterario [per rappresentare] un tipo letterario negativo», e Pobedonosikov, che invitava ad «attenuare, poetizzare, smussare», si possa rintracciare un preciso riferimento alla divergenza tra la linea di Majakovskij e l’estetica gorkiana di quel periodo:
Regista
[…] Avete assistito al primo e secondo atto? che ve ne pare? Naturalmente, a tutti noi interessa conoscere le vostre impressioni, e, in generale, il vostro punto di vista […]
Pobedonosikov
È troppo caricato, nella vita non accade così… Prendiamo, ad esempio, questo Pobedonosikov. In fin dei conti non sta bene… A giudicare dall’insieme, avete presentato un compagno responsabile: ebbene, lo avete messo in una certa luce, e per di più l’avete chiamato “Ciucciccì”. Da noi certi tipi non esistono… è innaturale, lontano dalla vita, inverosimile! Occorre trasformare, attenuare, poetizzare, smussare […]
Regista
Ma che dite! Ma che dite, compagni! Qui si tratta di pubblica autocritica: ed è con l’autorizzazione del Comitato provinciale letterario, e solo in via eccezionale, che è stato presentato un tipo letterario negativo.
Pobedonosikov
Come avete detto? Un “tipo”? Ma è lecito esprimersi così sul conto di un uomo di Stato responsabile? […] È il Capo ufficio per il coordinamento e il collegamento, il ciucciccì, nominato da organi dirigenti, e voi lo chiamate “tipo”! […]
Regista
Compagno, avete perfettamente ragione, ma è l’azione che lo esige.
Pobedonosikov
L’azione? Ma che c’entrate voi con l’azione? Azioni da parte vostra sono escluse. Vostro compito è mostrare, perché ad agire, state tranquillo, ci penseranno, senza di voi, i competenti organi del partito e del governo. E poi, si devono mostrare anche gli aspetti positivi della nostra realtà, scegliere qualcosa di esemplare, il nostro ente, per esempio, dove lavoro io, o, per esempio, me stesso…
Ivan Ivanovič
Proprio così! Andate nel suo ufficio: le direttive vengono eseguite, le circolari vengono attuate, si provvede a organizzare la razionalizzazione, gl’incartamenti rimangono in perfetto ordine per interi anni. Per le domande, i reclami e le relazioni c’è un nastro trasportatore. Un vero e proprio angolino di socialismo. Interessantissimo! […]
Regista
Compagno, cercate di non fraintenderci. Noi possiamo sbagliare, ma abbiamo voluto mettere il nostro teatro a servizio della lotta e dell’edificazione socialista. Quelli là vedranno e si metteranno a lavorare, vedranno e rimarranno turbati, vedranno e smaschereranno i colpevoli.
Pobedonosikov
E io, invece, a nome di tutti gli operai e contadini vi pregherò di non turbarmi. Guardalo un po’ che vuol fare da sveglia! Mi dovete accarezzare l’orecchio e non turbarmi; il vostro compito è di accarezzare lo sguardo, non di turbare. […] Noi, dopo la nostra attività statale e sociale, ci vogliamo riposare. Ritornate ai classici! Imparate dai più grandi genî di quel maledetto passato! […]
Mezalliansova
Ma certo, l’arte deve rappresentare la vita, la vita bella, uomini vivi e belli. Mostrateci dei begli esemplari maschili sullo sfondo di bei paesaggi, e in generale, la decomposizione borghese. E, se è utile alla propaganda, magari anche la danza del ventre. […]
Ivan Ivanovič
Proprio così! Fateci belli! Al teatro “Bol’šoj” ci fanno sempre belli. Avete visto Il papavero rosso? Io Il papavero rosso l’ho visto. Interessantissimo! Dappertutto volteggiano, carichi di fiori, cantano, danzano elfi e… sifilidi.
Regista
[A questo punto il Regista fa un abbozzo di opera che potrebbe soddisfare le esigenze dei suoi interlocutori, immaginando un’allegoria in cui sia rappresentata la lotta di classe, con i personaggi ad interpretare le figure della libertà, l’uguaglianza, la fraternità, le masse sfruttate, il capitale, l’imperialismo con i suoi tentacoli ecc. fino alla seguente conclusione:]
Incoronate di ghirlande immaginarie i lavoratori del grande, universale esercito del lavoro, simboleggiando i fiori della felicità, sbocciati sotto il socialismo. Bene! Tutto pronto! Eccovi servito! Una pantomima di tutto riposo sul tema:
“Il lavoro e il capitale
per l’attore è sempre pane”.
Pobedonosikov
Bravo! Splendido! E con un talento simile, come avete potuto abbassarvi alle quisquilie dell’attualità, alle grettezze quotidiane, alle meschinità della cronaca? Ecco, questa autentica arte riesce comprensibile e accessibile tanto a me, quanto a Ivan Ivanovič e alle masse.61
La morte di Majakovskij e la reazione di Gor’kij
Questo atto della commedia si chiuse con le parole rivolte da Pobedonosikov al Regista che ricalcavano quello che l’autore si sentiva dire sempre più di frequente: «Gli operai non La capiscono, compagno Majakovskij»62. In ciò sta almeno uno dei drammi che spinsero il poeta a spararsi il 14 aprile 1930. Il suicidio di Majakovskij sconvolse l’Unione Sovietica e turbò anche Gor’kij, nonostante questi si dichiarasse «non stupito».
Sulla tragica fine del poeta lo scrittore si soffermò in una lettera a I. Gruzdev:
Il suicidio di Majakovskij – scrisse Gor’kij nel maggio 1930 – non mi ha stupito, Il’ja Aleksandrovič. Ciò non per il fatto che lo consideravo una figura «tragica», ma perché fin dal primo incontro mi ha fatto un’impressione assolutamente precisa: un uomo scosso. Ricordo di aver detto una volta a qualcuno che Majakovskij avrebbe presto spezzato se stesso, che lui stesso o qualcun altro lo avrebbe fatto. Questa impressione me la rafforzò dopo essere venuto da me a Mustamjaki, nell’estate ’14 o ’15? Là lesse La nuvola in calzoni, Il flauto di vertebre – dei frammenti – e una gran varietà di poesie. I versi mi piacquero molto, e lui leggeva in modo eccellente, addirittura proruppe in singhiozzi, come una donna, tanto che mi impaurii e mi preoccupai. Si lamentava del fatto che «l’uomo si divide in orizzontale all’altezza del diaframma». Quando gli dissi che – a mio parere – egli avrebbe avuto un grande futuro, sebbene forse difficile, e che il suo talento avrebbe richiesto un enorme lavoro, egli rispose cupo: «Io lo voglio oggi, il futuro», e ancora: «Senza gioia il futuro non mi serve, ma gioia non ne provo!». Si comportò in modo molto nervoso, evidentemente era profondamente turbato. Elogiò molto Elena Guro per I cammellini celesti [Nebesnye verbljužata], mentre criticò Chlebnikov, lo definì addirittura «idiota», ma la sera, dopo cena, lesse delle sue poesie nelle quali la morte era chiamata «ruffiana misteriosa», e dopo aver letto i versi «Io accetterò tutto ciò che vorrà la morte» – o qualcosa del genere – anche lì per poco non scoppiò in lacrime, e alla fine disse: «Forse, Chlebnikov è un genio». Io sono abituato a persone di ogni genere, ma con lui era dura. Parlava come a due voci, ora come un lirico puro, ora in tono nettamente satirico. Si sentiva che non conosceva se stesso e temeva qualcosa. M.F. Andreeva gli rimproverava le contraddizioni, l’inutile volgarità, lui le rispose con i versi: «Non voglio saper essere tenero», «sudare tenerezza», ma «voglio camminare nudo» – qualcosa del genere. Accanto a ciò egli mostrava una predilezione per i giochi di prestigio verbali:
Sedeet k oktjabrju sova, –
Se dejut kogti Brjusova.63
e via così su questa linea.
Sarebbe stato un bene se fosse stato per divertimento. Ma egli annetteva ai giochi di parole forzati un serio significato, manca poco che li innalzasse al livello di mistica nella fonetica, come una volta si è espresso A. Belyj. Ma era chiaro: un uomo a suo modo sensibile, molto capace e infelice <…>64
La morte di Majakovskij tuttavia non mi va giù. Io sono unilaterale, è ovvio, di essa incolpo Vavila Burmistrov, il selvaggio che in Okurov ha strozzato Sima Devuškin, il poeta.
È duro tutto questo.65
Gor’kij addebitava dunque la triste fine di Majakovskij alla rottura di un equilibrio tra le due componenti della sua personalità: il chuligan aveva preso il sopravvento e aveva distrutto il poeta.
Tanto a lungo su Majakovskij lo scrittore non si sarebbe più diffuso per il resto dei suoi giorni, stando almeno ai documenti finora noti. Questo pronunciamento e turbamento era però del tutto privato, mentre in pubblico Gor’kij continuò a tenere una linea di freddezza e distacco per la persona del poeta. La sua prima dichiarazione pubblica sul suicidio che aveva scosso l’URSS fu contenuta in un articolo, apparso su «Naši dostiženija» nel giugno 1930, rivolto contro i «solitari» piccolo-borghesi, i parassiti che si staccano dalle masse ma ne succhiano la linfa vitale:
Il lirico-isterico verme intestinale piagnucola:
«Compagno Gor’kij! Majakovskij si è sparato, perché? Lei deve pronunciarsi su questo fatto. La storia non Le perdonerà il Suo silenzio».
«Solitario» I.P.! Majakovskij stesso ha spiegato perché ha deciso di morire. Lo ha spiegato in modo abbastanza preciso. Di amore si muore da molto tempo e assai spesso. È probabile che lo si faccia per causare un dispiacere all’innamorata.66
Nel rimaneggiare il proprio saggio commemorativo su Vladimir Lenin egli volle inserire anche una notazione del capo rivoluzionario sul poeta che non era apparsa invece nella versione originale del 1924:
Della poesia di Majakovskij [Lenin] parlava con diffidenza e persino con nervosismo:
– Strepita, inventa parole strambe! Le sue cose non sono, secondo me, quello che ci vuole, e per giunta si capiscono poco. Tutto è sbriciolato e difficile a leggersi. Ha talento? Molto talento? Bene, lo vedremo! Ma non vi sembra che si scrivano troppe poesie? Anche nelle riviste ci sono pagine e pagine di poesia, e quasi ogni giorno appare una nuova raccolta!
Notai che la passione della gioventù per il canto era naturale in quei giorni e che, a mio giudizio, era più facile scrivere poesie mediocri che un buon brano di narrativa, che la poesia richiedeva meno tempo e che, infine, da noi c’era un gran numero di professori di metrica e prosodia.
– Non credo che la poesia sia più facile della narrativa! Non riesco a capirlo. Potete scorticarmi, ma non riuscirei a comporre due versetti, – disse e aggrottò la fronte. – Bisogna diffondere tra le masse tutta la vecchia letteratura rivoluzionaria. Ce n’è tanta sia in Russia che in Europa.67
È del tutto plausibile che quel giudizio di Lenin su Majakovskij sia stato perfettamente condiviso dallo stesso Gor’kij, che quindi avrebbe voluto fornire una caratterizzazione del poeta poggiando su un’autorità completamente al di sopra di tutto e di tutti. Ricordiamo che Gor’kij aveva usato l’autorità delle parole di Lenin, citate nel saggio commemorativo, anche a conferma delle proprie istanze anticontadine.
Col passar del tempo, pur continuando a ritenere l’opera di Majakovskij dannosa dal punto di vista pedagogico-sociale, Gor’kij aprì qualche spazio alla sua originalità, le concesse una certa validità. Scrisse ad una aspirante poetessa il 28 agosto 1931:
Lei scrive nella lingua di versificatori di secondo livello da tempo dimenticati, poeti che scrivevano negli anni ’40 e ’50 del XIX sec. Lei conosce molto male quella lingua poetica elaborata da Brjusov, Blok e altri poeti degli anni ’90 e ’900. Ai nostri giorni non si può scriver poesie senza basarsi su questa lingua. Ai nostri giorni è indispensabile conoscere sia Majakovskij, sia Pasternak, sia N. Tichonov.68
Nel 1934 lo scrittore si rivolse ai curatori di un Vocabolario della lingua letteraria (Slovar’ literaturnogo jazyka) rilevandone «l’essenziale difetto nell’assenza di Zoščenko, Majakovskij, D. Bednyj, persone assai sensibili al bizzarro gioco della lingua e “creatori di parole”»69.
Lo stesso anno si svolse il I Congresso degli scrittori sovietici, nel quale si definì il canone dell’estetica del realismo socialista, cui avrebbero dovuto conformarsi tutti gli artisti; a margine del congresso, presieduto e orientato da Gor’kij, si svolse un piccolo cortese duello tra lo scrittore e Nikolaj Bucharin proprio sul significato dell’opera di Majakovskij. Nella sua relazione sulla poesia sovietica l’esponente comunista aveva parlato del «pungente ed enorme talento di Majakovskij»70, poeta che aveva «dato tanto alla nostra poesia da diventare un “classico” sovietico»71, anche se – aveva continuato Bucharin – «le “strofe propagandistiche” di Majakovskij non possono soddisfarci più, […] sono [diventate] troppo elementari»72.
Nel discorso di chiusura del congresso Gor’kij volle esprimere una critica a Bucharin proprio a proposito della sua caratterizzazione dell’opera del poeta:
Nel rapporto di Bucharin – disse lo scrittore – c’è un punto al quale voglio ribattere. Nel parlare della poesia di Majakovskij, Bucharin non ha messo in luce l’«iperbolismo», – secondo me dannoso – tipico di questo poeta così originale e che esercita tanta influenza sui giovani.73
Nel marzo 1936, cioè pochi mesi prima di morire, Gor’kij si rivolse a M. Zoščenko con una lettera scritta in parte nello stesso spirito dell’articolo del 1923-’25 La vocazione dello scrittore e la letteratura russa del nostro tempo, invitando l’autore satirico a dirigere il proprio talento nel combattere il dolore e deridere quei letterati che avevano fatto del dolore il leitmotiv della loro opera, che si erano fatti «sofferenti di professione».
Gli skopcy74 – scriveva Gor’kij – hanno una canzone che contiene queste parole:
«È insegnata ad Adamo dal diavolo la scienza
Acciocché mia madre mi partorisca nel peccato e nel dolore…».
Ma ecco che ai nostri giorni i parti diventano indolori grazie alle cure che la scienza si è presa per l’uomo.
Da questa contrapposizione si potrebbe iniziare un libro sulla distruzione del dolore e mostrare che è come se i letterati si fossero presi un’indigestione di letteratura agiografica ecclesiastica sui grandi martiri. […] Si potrebbe mostrare che anche il poeta “rivoluzionario” Majakovskij gridava:
«[Io] sono ovunque è dolore;
in ogni goccia di lacrima che scorre
ho crocifisso me stesso».75
e gridava ancora:
«Il poeta
è sempre un debitore
dell’universo,
che paga
sul dolore
percentuali
e ammende».76
L’idea dell’inevitabilità del dolore e della redenzione per suo tramite è passata dalla chiesa all’arte come suo tema fondamentale, e, fissando il dolore, l’arte della parola si è abbassata fino all’elargizione di elemosina verbale, stimolando negli uomini la civetteria e la vanteria delle sofferenze provate, mentre poeti e prosatori, «assumendo un aspetto scarno per ottenere dagli uomini elogi e inutile gloria», andavano fieri e pieni di boria per il proprio ruolo di propagatori di paroline buone e carine.
Deridere i martiri professionali, ecco un’opera buona, caro Michail Michajlovič.77
Majakovskij poeta “rivoluzionario” che gridava dolore: ecco dunque l’ultima parola pronunciata dallo scrittore sul grande poeta dell’avanguardia artistica e politica.
Gor’kij, incoronato al Congresso degli scrittori “re della letteratura sovietica”, fece del proprio meglio per impedire che Bucharin avesse ragione nel definire il poeta un «classico»; a quel tempo però le questioni letterarie non erano più trattate esclusivamente dalle massime autorità letterarie, e c’era sempre un’autorità politica che diceva la prima e l’ultima parola su qualsiasi ambito della vita. Stalin, che ormai non se ne stava più tanto lontano dalle cose letterarie (come invece lo era nel 1927 secondo Voronskij), disse la sua prima e ultima parola su Majakovskij nel 1935, e la parola divenne legge: «Majakovskij era e rimane il poeta migliore, il più dotato di talento della nostra epoca sovietica»78. In questo caso Gor’kij non replicò, ma se ne restò in disparte ad ascoltare ossequioso in silente dissenso. D’altra parte, lo stesso Bucharin non si sarebbe goduto molto a lungo la sua rivincita critico-letteraria.
(2/2. Fine)
Leandro Casini
(Il presente articolo è stato in parte pubblicato in: Leandro Casini, Gor’kij e Majakovskij: due personalità letterarie antagoniste, in AA.VV., Tempo e tempi presso gli slavi, a cura di Stefania Pavan, Firenze, Alinea Editrice, 1999, pp. 7-33).
Note
33 V. Majakovskij, Lettera dello scrittore Vladimir Vladimirovic Maiakovski allo scrittore Aleksei Maksimovic Gorki, in Id., Opere cit., 3, pp. 72-78.
34 Ma, come si sa, Gor’kij si trovava in realtà a Sorrento.
35 Georgij Arkad’evič Šengeli, poeta.
36 Fedor Ivanovič Šaljapin, celebre cantante d’opera.
37 F.E. Dzeržinskij, il presidente della Čeka, morto d’infarto nel 1926 dopo un plenum del CC del PCR(b) nel quale aveva duramente attaccato l’opposizione trockista.
38 V. Majakovskij, Vystuplenija na dispute «Lef ili blef?», in Id., Sobranie sočinenij v dvenadcati tomach, Moskva, 1978, 11, p. 333.
39 V. Percov, Majakovskij, žizn’ i tvorčestvo cit., 3, p. 163.
40 AG KG-P 18-16/24. Le parti tra <…> non compaiono nei volumi pubblicati dall’Archivio di Gor’kij, ma sono state da noi ricostruite sulla base dei documenti originali.
41 Archiv A.M. Gor’kogo, X, M. Gor’kij i sovetskaja pečat’, kn. 2, Moskva, 1965, p. 46.
42 AG KG-P 18-16/24.
43 Archiv A.M. Gor’kogo, X, M. Gor’kij i sovetskaja pečat’ cit., kn. 2, p. 47.
44 AG PG-rl 9-31/16.
45 Cit. in L. Spiridonova, Pritjaženie i ottalkivanie cit., p. 281.
46 Riportiamo qui la traduzione di: V. Majakovskij, Qualche buona parola per certi vizi. Quasi un inno, in Id., Opere cit., 1, p. 55.
47 M. Gor’kij, O vozveličennych i «načinajuščich», in Id., Sobranie sočinenij cit., 24, p. 364.
48 Ecco una sua poesia tipica di questo periodo, L’impiegato zelante (Služaka, 1928): «Sono apparsi / giovani / assai bene educati: / i distintivi d’oro / del soccorso rosso / adornano / il loro petto. / La commissione di controllo / del partito / non ha niente / da dire / sul giovanotto: / nel termine fissato / è registrata / la riga / dei sind- / e Part- / e rimanenti contributi. / Lui è onesto, / com’è onesto un bue. / S’è radicato / nel proprio / posto / e non vede / altro / più avanti / del suo naso. / Passato l’esame di comunismo / in base al libro / imparati a pappagallo gli “ismi”, / lui / ha finito per sempre / di pensare / al comunismo. / Perché guardare più in la? / Aspetta / la circolare / seduto. / Siedi / e aspetta / la circolare. / “A noi / e voi, / dice, / non spetta pensare, / se / pensano i capi”. / Per gli affari minuti / ha inforcato / un paio di paraocchi / su tutti e due gli occhi, / perché il servizio sia svolto / bene, / placidamente, / con ristretto orizzonte. / Il giorno è una tappa / di peculato e piaggeria, / il giorno / in cui ci sarà libertà / per i leccapiedi, / questo / sarà per lui / il vero socialismo. / Il percorso / che conduce alla Comune / non si può coprire / su una tale rozza, / lui / è creato / apposta / per l’affarismo burocratico. / Brillano / i distintivi dorati, / i petti sporgono / in fuori / fieri, / vanno / avanti / tranquilli / i giovani conformisti. / Si ancorano / al palo, / dove / l’acqua è tranquilla… / E sulla parete / come decorazione / la barba di Carlo Marx. // Ci tormenta l’incertezza, / che dobbiamo fare / con la loro onestà? / Giovane comunista, / vivendo / nei tuoi anni, / respirando / l’ozono / di ottobre, / ricorda / che ogni giorno / è una tappa, / un passo / verso il fine / segnato. / Non son nostri / quelli / che al sedere del tempo / hanno appoggiato / il rame / delle fronti; / essere comunista / significa ardire, / pensare, / osare, / volere. / Da noi / ancora non c’è / Eden e paradiso: / c’è la muffita melma / del piccolo borghese. / Lavorando, / commisura le piccole cose / all’immenso / scopo prefisso» (V. Majakovskij, Lo zelante, in Id., Opere cit., 3, pp. 462-465).
49 Id., Critica dell’autocritica, in Id., Opere cit., 3, p. 474.
50 AG PG-rl 18-3-6.
51 M. Gor’kij, Prizvanie pisatelja i russkaja literatura našego vremeni, in AA.VV., Gor’kij i ego epocha. Issledovanija i materialy, vyp. 2, Moskva, 1989, p. 3.
52 Ibid.
53 Ibid., p. 5.
54 Ibid., p. 7.
55 Ibid.
56 Ibid.
57 Ibid., p. 13.
58 Ibid., p. 15.
59 Id., Pis’mo F.V. Gladkovu, in Id., Sobranie sočinenij cit., 29, pp. 438-439.
60 V. Majakovskij, Il bagno, in Id., Opere cit., 7, p. 17.
61 Ibid., pp. 48-57.
62 Diceva Pobedonosikov, rivolgendosi al Regista alla fine del terzo atto: «Arrivederci, compagno! Non c’è che dire, vi definite teatro rivoluzionario e invece stuzzicate… o come vi siete espresso… turbate i lavoratori responsabili. Questo lavoro non è fatto per le masse; gli operai e i contadini non lo capiranno ed è meglio così: non capiscono e non c’è bisogno di spiegarglielo. Perché voler fare di noi dei personaggi, renderci attori, attivi cioè? Noi vogliamo essere passivi… come si dice… degli spettatori. Ah no! La prossima volta andrò in un altro teatro!» (Ibid., p. 62).
63 «S’imbianca verso ottobre la civetta, / si nascondono le unghie di Brjusov». Si tratterebbe di versi di un certo Aleksandr Kajranskij: qui il significato non ha assolutamente importanza, ma tutto sta nel gioco delle assonanze, dal momento che i due versi suonano praticamente identici.
64 Questo spazio vuoto (che i russi chiamano “macchia bianca”) è un intervento censorio operato dai curatori del volume dell’Archivio di A.M. Gor’kij. Purtroppo non sappiamo se nell’originale, al posto di quei puntini, sono contenute frasi assolutamente non attinenti all’argomento sin qui trattato oppure parole poco lusinghiere di Gor’kij verso il poeta: le nostre ricerche d’archivio si sono limitate ad esplorare alcune di queste “macchie bianche” presenti nelle edizioni sulla corrispondenza dello scrittore relative al periodo 1917-1927, e quindi su questa lettera del 1930 non abbiamo potuto fare luce. Attendiamo quindi con impazienza che qualcun altro sciolga ogni dubbio, magari portando alla luce tutta quanta la documentazione relativa ai rapporti tra i due baluardi della letteratura sovietica.
65 Archiv A.M. Gor’kogo, XI, Perepiska A.M. Gor’kogo s I.A. Gruzdevym, Moskva, 1966, pp. 227-228. In appunti personali stilati da Gor’kij nello stesso periodo era scritto:
«…2. Mustamjaki
La nuvola in calzoni
1. Dapprima dalla Ljubavina
Si confuse
Ciò mi fece un’impressione a lui sfavorevole, sembrava voler convincere se stesso del proprio spirito rivoluzionario» (Archiv A.M. Gor’kgo, XII, M. Gor’kij, Chudožestvennye proizvedenija. Stat’i. Zametki, Moskva, 1969, p. 226).
«Lo vidi dalla pittrice Ljubavina la primavera del ’14 [ma più verosimilmente nel 1915]. In quell’occasione lessero poesie Kljuev, Esenin, Šklovskij, doveva leggere anche V.V. [Majakovskij]. Lungo, sgraziato, con il viso chiazzato di pelle grigia, accigliandosi, leccandosi le labbra, facendo smorfie, mostrando i denti malati, sordamente, affrettatamente e confusamente pronunciò alcuni versi, fece un gesto con la mano [gesto russo che significa: lasciamo perdere!], si voltò all’improvviso, si dileguò nella stanza accanto dopo aver socchiuso la porta dietro di sé. Dissero che si era imabarazzato. La padrona di casa e m.me Brik a lungo e invano cercarono di convincerlo a leggere. Si raccontava che Majakovskij fosse una persona che amava imbarazzare gli altri, e fu piacevole verificare che quei racconti erano falsi.
In estate venne da me a Mustamjaki. Una persona molto gentile e modesta, con la predilezione per i trucchetti verbali» (Ibid., pp. 226-227).
66 M. Gor’kij, O solitere, in Id., Sobranie sočinenij cit., 25, p. 183.
67 M. Gorki, Lenin, in Id., Opere scelte cit., 15, p. 46.
68 Cit. in V. Percov, Majakovskij, žizn’ i tvorčestvo cit., 1, p. 159.
69 Cit. in Archiv A.M. Gor’kogo, XI, Perepiska A.M. Gor’kogo s I.A. Gruzdevym cit., p. 229.
70 G. Kraiski (a cura di), Rivoluzione e letteratura. Il dibattito al 1° Congresso degli scrittori sovietici, Bari, 1967, p. 244.
71 Ibid., p. 245.
72 Ibid., p. 250.
73 Ibid., p. 326.
74 Castrati, setta religiosa russa sorta nel XVIII secolo.
75 V. Majakovskij, La nuvola in pantaloni cit., p. 18.
76 Id., Conversazione con l’ispettore delle imposte intorno alla poesia, in Id., Opere cit., 2, p. 422.
77 Literaturnoe nasledstvo, 70, Gor’kij i sovetskie pisateli. Neizdannaja perepiska, Moskva, 1963, pp. 166-168.
78 Cit. in V. Kazak, Leksikon russkoj literatury XX veka, Moskva, 1996, p. 258.
Inserito il 06/02/2023.
(1941-2008)
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Antonio Gramsci e il concetto di “nazional-popolare”
Letteratura nazional-popolare è per Gramsci quella che sa soddisfare il gusto estetico non solo di élites ristrette ma del maggior numero di lettori, operando una mediazione attiva tra le esigenze di lettura più qualificata e le richieste, più elementari ma non meno autentiche, dei ceti subalterni. Lo scrittore, in quanto membro della categoria degli intellettuali, promuove una unificazione del pubblico, intesa come allargamento dell'area di consenso goduta dalla concezione dell’arte, e quindi della vita, di cui la classe al potere è portatrice storica.
In questa capacità di interpretare personalmente, con le sue creazioni espressive, un sistema di valori teso a espandersi a tutti i livelli della collettività, il letterato dà misura del suo rapporto organico con una classe dirigente, a sua volta capace di farsi interprete di stati d’animo e aspettative diffuse nell’intera collettività: cioè di esercitare non un «dominio», basato soltanto sulla forza repressiva degli apparati di governo, ma una «egemonia» che si esplichi in una influenza generale indiretta sulle varie manifestazioni della società civile.
La definizione di questo modello teorico è sorretta da esempi storici elevatissimi: i tragici greci, Shakespeare, i grandi romanzieri dell’Ottocento come Tolstoj e Dostoevskij. Proiettato su un orizzonte così ampio, il concetto di nazional-popolare serve a Gramsci anzitutto per sottoporre a revisione complessiva la tradizione culturale italiana, dando risalto ai suoi due vizi opposti e complementari: il provincialismo asfittico, tipico di quello che egli chiama “l’italiano meschino”, con la sua cortezza di vedute e mancanza di rigore mentale; e il cosmopolitismo, ossia l’atteggiamento del letterato che si sente estraneo alle contingenze pratiche della sua gente e del suo paese, e mentre si proclama sacerdote disinteressato del Bello è sempre disposto a metter la sua arte al servizio d’ogni padrone.
Entrambi i vizi rimandano a un dato di fondo nella storia dell’Italia moderna: la mancata formazione di una borghesia degna del nome, in grado di crearsi un ceto intellettuale dotato del dinamismo necessario per collegarsi alla mentalità e alle attese della popolazione e assieme trasvalutarle, portandole a quel livello di universalità che per Gramsci è il livello nazionale. Qui infatti una determinata collettività prende coscienza di sé e delle proprie contraddizioni, alimentando un confronto con le altre esperienze di civiltà presenti sulla scena internazionale.
Applicata alle vicende della cultura italiana, questa impostazione porta però, in concreto, a risultati sempre illuminanti ma alquanto unilaterali, se non antistorici: vale la pena di rilevarlo, a contrasto con le frequenti accuse di relativismo storicistico mosse al gramscismo. I letterati italiani passati e presenti appaiono posti quasi sotto processo, imputando a loro colpa ciò che non sono stati e non hanno saputo fare. Il punto è che a Gramsci il concetto di nazional-popolare interessava soprattutto come strumento operativo per suscitare un rinnovamento profondo della nostra letteratura, ampliandone le risorse e irrobustendone il respiro attraverso un’immersione salutare nella realtà sociale del mondo moderno. Su questa linea, egli poteva assumere come antesignano un esponente geniale della borghesia illuminata ottocentesca, quale fu Francesco De Sanctis. Ma la premessa decisiva era costituita da un mutamento delle forze storiche protagoniste: il proletariato avrebbe dato prova della sua maturità rivoluzionaria anche nel promuovere una rinascita letteraria, tale da abbattere lo steccato secolare tra il corporativismo dei dotti e l’arretratezza delle plebi, tenute lontane dalle serre in cui la classe dirigente coltivava i suoi ideali estetici.
Naturalmente, Gramsci sapeva bene che una nuova arte non nasce a comando: ciò che occorreva realizzare erano le condizioni culturali opportune perché si affacciasse sulla scena una leva di scrittori nutriti di una consapevolezza nuova del fatto artistico. D’altronde, per Gramsci ogni scrittore tende a entrare in colloquio con un pubblico socialmente e culturalmente determinato. Ciò implica la necessità di fare i conti con il condizionamento oggettivo rappresentato dalla conformazione particolare del gusto, delle attitudini critiche, delle pulsioni fantastiche cui quei lettori si richiamano. Il processo di elaborazione artistica consiste nel rovesciare tale condizionamento in una autodisciplina responsabilmente assunta dallo scrittore, e proprio perciò capace di un effetto liberatorio sui suoi interlocutori, prospettando loro esperienze inedite sì, ma di cui siano in grado di intendere la suggestione.
È questo il punto più avanzato del pensiero gramsciano sui problemi letterari. In effetti, il tema del rapporto fra arte e pubblico, letteratura e lettura ha assunto un rilievo sempre maggiore sull’orizzonte culturale europeo degli ultimi decenni, da Sartre a Mukarovskij, da Auerbach a Jauss. Sul piano storico, è naturalmente discutibile l’utilità attuale del concetto di nazional-popolare ai fini dell’impegno militante sulla letteratura odierna, in un contesto epocale così cambiato. Ma sul piano teorico e istituzionale, le indicazioni di metodo fornite da Gramsci mantengono una vitalità che il tempo trascorso consente di apprezzare oggi meglio di ieri.
Vittorio Spinazzola*
(Tratto dal volume: AA.VV., Gramsci. Le sue idee nel nostro tempo, Roma, Editrice l’Unità, 1987, pp. 111-112).
* Vittorio Spinazzola (1930-2020), critico letterario e cinematografico, storico della letteratura, è stato docente di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Milano.
Inserito il 18/12/2022.