Il monumento agli alpini di Bruneck-Brunico, oggetto di deturpazioni e proteste da parte degli Schützen e dei partiti nazionalisti sudtirolesi.
Foto di Leandro Casini.
🔴 di Leandro Casini 🔴
Qualche settimana fa sono stato in vacanza in Alto Adige… in Südtirol… Mah. Proprio su questo vorrei scrivere. Perché ho avuto l’impressione di essere capitato lì, più precisamente a Bruneck-Brunico, in un momento importante per la storia di quelle terre.
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Note politiche su un viaggio a Brunico
Qualche settimana fa sono stato in vacanza in Alto Adige… in Südtirol… Mah. Proprio su questo vorrei scrivere. Perché ho avuto l’impressione di essere capitato lì, più precisamente a Bruneck-Brunico, in un momento importante per la storia di quelle terre.
È da diversi anni che frequento d’estate questa provincia dell’estremo Nord Italia, e pian piano entro in contatto con alcune particolarità della cultura e della storia che caratterizzano le sue popolazioni, specie quelle di lingua tedesca e di lingua ladina. Sono arrivato in queste valli dolomitiche per la bellezza delle montagne, ma l’incanto non si è spezzato affatto nel passeggiare nei borghi, nel visitare i castelli, nel gustare i piatti tipici e la pasticceria di stampo mitteleuropeo. Anzi, ciò che gli uomini e le donne hanno creato in quelle vallate col loro continuo lavoro e hanno saputo mantenere con la costante cura valorizza appieno i doni della natura. Fine del panegirico, passiamo a cose più crude.
In Alto Adige-Südtirol siamo in Italia, ma non solo. Se l’approccio con cui si arriva è quello della “Nazione” come la intende la premier Giorgia Meloni, si arriva col piede sbagliato. È un approccio di molti turisti italiani, che provocano e fanno di tutto per insegnare agli “indigeni” che «qui è Italia, se non ve lo ricordate!», oppure «se stare in Italia non vi piace, andate in Austria!». È proprio questo atteggiamento di stampo nazionalista-colonialista che trova di riflesso la reazione gretta dei peggiori istinti nazionalisti e revanscisti sudtirolesi, quelli del partito estremista Süd-Tiroler Freiheit, quelli di coloro che ti parlano in tedesco anche se l’italiano lo conoscono (magari non bene). Tanto per ribadire che siamo noi a casa loro, nella loro terra, e non viceversa.
Il mio approccio invece, da comunista, non può che essere internazionalista e antinazionalista, contro tutti i nazionalismi, e arrivo nei posti con gli “occhiali” di chi guarda più alle differenze di classe che alle diversità di lingua o di costume. Mi è sempre piaciuta la battaglia di Alexander Langer, storico uomo di sinistra di quelle parti, contro le “gabbie etniche” e per una vera integrazione interetnica fra le comunità: nel 1981, durante il Censimento generale della popolazione, egli fece obiezione di coscienza alla dichiarazione di appartenenza etnica dichiarandosi «né tedesco né italiano», perdendo così il diritto ad assumere cariche pubbliche o lavori negli uffici amministrativi… (puoi leggere qui un profilo autobiografico di Alexander Langer).
Perché questo luglio 2023 è stato così importante per l’Alto Adige-Südtirol?
Dal punto di vista della politica provinciale, in quei giorni si è verificata una spaccatura interna alla Südtiroler Volkspartei (Svp): uno dei massimi esponenti del partito, Thomas Widmann, ex assessore alla Sanità in Consiglio Provinciale, ha abbandonato il partito e ha fondato il movimento Für Südtirol, che si presenterà alle elezioni provinciali di Bolzano nell’ottobre 2023. Sembra normale per la politica italiana assistere alla continua frammentazione dei partiti, ma da quelle parti è un po’ meno normale. Infatti la Svp è da sempre il collettore di molte delle tendenze politiche sudtirolesi di lingua tedesca escluse quelle più estremiste, un partito-contenitore centrista in cui le varie tendenze hanno convissuto per continuare a dominare la vita politica della provincia facendo sì che dal punto di vista politico-amministrativo non fosse messa in discussione l’egemonia della maggioranza germanofona delle valli sudtirolesi. Ora potremmo assistere a una nuova storia politica. Vedremo, osserveremo.
La questione però che più mi ha colpito durante il mio soggiorno è quella storica. Infatti, proprio nei giorni del mio soggiorno ricorrevano i 100 anni dall’ufficializzazione dei fascistissimi Provvedimenti per l’Alto Adige, esposti il 15 luglio 1923 al Teatro Civico di Bolzano dal loro principale estensore, il geografo irredentista Ettore Tolomei, e passati alla storia proprio come Programma Tolomei:
- italianizzazione della toponomastica, a partire dalla proibizione del nome Südtirol che viene sostituito da Alto Adige;
- italiano lingua ufficiale;
- italiano come unica lingua di insegnamento nelle scuole, sancita poi dalla Riforma Gentile, sempre del 1923 (da qui la nascita di scuole clandestine che, anche attraverso le parrocchie, continuarono a insegnare la lingua tedesca, le cosiddette “scuole delle catacombe”);
- italianizzazione “facoltativa” dei cognomi (chi voleva continuare a lavorare nelle pubbliche amministrazioni doveva avere un cognome italianizzato);
- lapidi funerarie in lingua italiana;
- censura sui giornali tedeschi ostili al Programma: vennero soppressi il «Bozner Nachrichten» e il «Bozner Zeitung», mentre il «Die Tiroler», per non citare il nome vietato del Tirolo, dovette cambiare nome prima in «Der Landsmann» e poi in «Dolomiten»; nel 1926 sorse anche un giornale filo-fascista in lingua tedesca, l’«Alpenzeitung», mentre come voce ufficiale del Partito Nazionale Fascista sorse il quotidiano «Provincia di Bolzano»;
- eliminazione degli istituti di credito locali;
- abolizione della legge del “maso chiuso”;
- insediamento di podestà nei paesi;
- nomina di segretari comunali italiani;
- rafforzamento e diffusione capillare delle caserme dei Carabinieri, con agenti dell’Arma provenienti dalle regioni confinanti;
- aumento della presenza delle Forze Armate;
- forti incentivi all’immigrazione in provincia di Bolzano di italiani provenienti da altre regioni.
Un “programma” e un nome, quello di Tolomei, che ancor oggi dividono le tre “anime” della popolazione della Provincia autonoma di Bolzano. Ettore Tolomei: esaltato dagli italiani nazionalisti, viene invece considerato dalla maggioranza di madre lingua tedesca come “il becchino del Sudtirolo” (Totengräber Südtirols).
Quando mi trovo in vacanza in quelle valli acquisto sempre due giornali: il quotidiano «Alto Adige» e il settimanale «La Usc di Ladins» («La Voce dei Ladini»). Quest’anno, pur non conoscendo il tedesco, ho acquistato anche qualche numero del «Dolomiten», il più diffuso quotidiano locale di lingua tedesca. Dal confronto fra i tre giornali risulta evidente la differenza di approccio alla vicenda storica dell’italianizzazione del Sudtirolo, con ferite tuttora aperte tra le comunità a partire dalle questioni relative alla toponomastica. Mentre il quotidiano «Alto Adige» strizza l’occhio, naturalmente, alla comunità italiana, e quindi ha un approccio morbido alle questioni riguardanti le rivendicazioni dei sudtirolesi di lingua tedesca, il «Dolomiten» mi sembra chiaramente schierato con la Svp e, pur con moderazione, cerca di rappresentare le esigenze culturali rivendicate dai propri lettori, dando poco spazio al Süd-Tiroler Freiheit della “pasionaria” Eva Klotz.
Riproduciamo a parte alcuni materiali tratti dai giornali locali di quei giorni vicini al 100° anniversario del discorso di Tolomei.
Leandro Casini
Inserito il 06/08/2023.
🔴 di Leandro Casini 🔴
Gaetano Salvemini, nel suo Mussolini diplomatico, scritto nel 1932 dall’esilio in Francia, definì Ettore Tolomei «il boia del Tirolo […] l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia. I suoi ammiratori gli attribuiscono il merito di aver “creato” l’Alto Adige e lui accetta senza riserve quella gloria».
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Il fascista Ettore Tolomei creò l’Alto Adige o uccise il Südtirol?
Gaetano Salvemini, nel suo Mussolini diplomatico, scritto nel 1932 dall’esilio in Francia, definì Ettore Tolomei «il boia del Tirolo […] l’uomo che escogitò gli strumenti più raffinati per tormentare le minoranze nazionali in Italia. I suoi ammiratori gli attribuiscono il merito di aver “creato” l’Alto Adige e lui accetta senza riserve quella gloria».
Ettore Tolomei. Un cognome che non può non colpire un senese come me: i Tolomei (pensiamo per esempio alla Pia di Dante!) erano un’antica famiglia nobile di Siena, e un ramo di essa si era stabilito a Rovereto, allora Impero Austro-Ungarico, dove Ettore nacque nel 1865.
Fin da giovane Ettore aderì agli ideali dell’irredentismo italiano. Dopo le scuole superiori, per l’università non scelse l’Austria, ma prima Firenze e poi Roma, dove si laureò in Lettere.
Richiamato nell’esercito asburgico per il servizio militare, a Vienna frequentò un corso universitario di geografia.
Nel 1904 scalò in Valle Aurina la cima del Klockerkarkopf o Glockenkarkopf (2912 m), quello che egli descrisse come il punto più settentrionale dell’Italia geografica: fu proprio lui, in una relazione sul «Bollettino del Club Alpino Italiano», a dare il nome Vetta d’Italia alla cima, che allora si trovava ancora in territorio asburgico (in realtà ormai si è stabilito che il punto geografico situato più a Nord della regione geografica italiana e della Repubblica Italiana è la Testa Gemella Occidentale, 2837 m, che dista poche centinaia di metri ma è situata 100 metri più a nord). Non solo: mentre si trovava sulla cima, scolpì simbolicamente sulla roccia una grande «I» come auspicio che in un futuro non lontano quella montagna passasse all’Italia.
Stabilitosi a Gleno di Montagna (oggi provincia di Bolzano), nel 1906 fondò la rivista «Archivio per l’Alto Adige» (tuttora esistente), con la quale voleva dimostrare l’italianità storica della zona a nord di Trento. La denominazione Alto Adige per la zona del Tirolo compresa fra Trento e il Brennero è di origine francese e Tolomei la riprese da documenti napoleonici. Fu dalle pagine della rivista che egli lanciò la proposta dello stabilimento del confine con l’Austria proprio al passo del Brennero.
Nello stesso anno Tolomei dette vita a un Prontuario dei nomi locali dell’Alto Adige in cui raccolse più di 16.000 toponimi tradotti o adattati in italiano a partire dai nomi originari latini o, più frequentemente, dai nomi tedeschi o retoromanzi (ladini). È sulla base del suo Prontuario, pubblicato nel 1916, che il regime fascista rinominò ufficialmente in italiano le località, i fiumi e i rilievi dell’Alto Adige, suscitando non poche polemiche anche fra gli esperti di filologia e di linguistica per alcune soluzioni tolomeiane giudicate bizzarre, fantasiose o antiscientifiche.
Volontario negli alpini durante la Grande guerra, e perciò condannato a morte in contumacia dall’Impero Austro-Ungarico, cambiò temporaneamente nome per evitare conseguenze nel caso in cui fosse caduto prigioniero del nemico asburgico.
Al termine della guerra Tolomei partecipò alla conferenza di pace tra il Regno d’Italia e la neonata Repubblica Austriaca conclusasi con il trattato di Saint Germain che fissò effettivamente il confine tra i due Stati al Brennero.
Il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando lo nominò alla testa del Commissariato alla Lingua e alla Cultura per l’Alto Adige, per cui si trasferì a Bolzano, dove iniziò una personale battaglia contro il sindaco Julius Perathoner, già borgomastro sotto l’Impero, un fervente pangermanista (cioè rivendicava l’unificazione di tutte le popolazioni di stirpe tedesca, compresi trentini, sudtirolesi e austriaci, sotto la Germania).
Ettore Tolomei aderì fin dal 1921 al fascismo, e fu così che iniziò il suo dominio incontrastato nella politica di italianizzazione del neonato Alto Adige: questo fu infatti il nome, da lui proposto, che assunse la neonata provincia di Bolzano.
Dal 1923, dal discorso al Teatro Civico di Bolzano in cui illustrò i Provvedimenti per l’Alto Adige, fino al 1935 seguì e completò il cambio della toponomastica del territorio da tedesca o ladina a italiana; dal 1936 si dedicò al cambio dei cognomi delle famiglie tedesche e ladine, che aderirono solo nella parte che voleva continuare a lavorare nelle amministrazioni pubbliche, in cui era vietato avere cognomi non italiani.
Nominato senatore sempre nel 1923, per evidenti meriti di fronte al nazionalismo italiano, restò in politica fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Arrestato dai nazisti per le sue passate attività antitedesche, anche se quasi ottantenne riuscì a sopravvivere alla prigionia prima a Dachau e poi in Turingia.
Dopo la guerra Ettore Tolomei scrisse le proprie memorie. Morì nel 1952 e venne sepolto nel cimitero di Montagna-Montan, il capoluogo della frazione di Gleno in cui risiedeva. In varie occasioni la sua tomba è stata profanata da estremisti sudtirolesi.
Leandro Casini
Inserito il 06/08/2023.
Ettore Tolomei (1865-1952).
Fonte della foto: https://www.cultura.trentino.it/var/001/storage/images/media/images/ettore-tolomei/22303622-1-ita-IT/Ettore-Tolomei_imagefullwide.jpg
Dal quotidiano «Alto Adige»
di Paolo Campostrini
Cent’anni fa, precisamente il 15 luglio, Ettore Tolomei svelò al teatro di Bolzano i 32 provvedimenti per l’italianizzazione dell’Alto Adige. Una rottura netta rispetto al percorso portato avanti tra il 1918 e il 1922 dal commissario Luigi Credaro che mirava ad una convivenza linguistica.
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Tolomei, un discorso contro il dialogo
Storia. Cent’anni fa, precisamente il 15 luglio, Ettore Tolomei svelò al teatro di Bolzano i 32 provvedimenti per l’italianizzazione dell’Alto Adige. Una rottura netta rispetto al percorso portato avanti tra il 1918 e il 1922 dal commissario Luigi Credaro che mirava ad una convivenza linguistica
BOLZANO. Cento anni fa, in un luglio caldo quasi quanto questo, il teatro di Bolzano era pieno come un uovo. Bandiere tricolori, divise tirate a lucido, orbace e cinturoni. Ma anche colletti bianchi. Fascisti a petto in fuori e liberali dentro per presenza. Sul palco Ettore Tolomei stava elencando i trentadue provvedimenti per l’italianizzazione dell’Alto Adige. Ad ogni articolo un applauso. Iniziando dall’introduzione dell’italiano come unica lingua ufficiale, lo scioglimento di tutte le associazioni politiche di lingua tedesca, anche quelle sportive, l’abolizione dei toponimi tedeschi e loro sostituzione con quelli italianizzati nel suo Prontuario ormai ricchissimo di traduzioni o riesumazioni; e poi niente iscrizioni pubbliche in tedesco, così come i nomi delle strade, persino i cognomi, licenziamento dei funzionari tedeschi. Elemento strategico: gli incentivi all’immigrazione italiana e all’acquisto di terre. Ultimo ma non ultimo, la rimozione del monumento a Walther oggi nella sua piazza omonima e sostituzione con quello al re Vittorio Emanuele.
Era il 15 luglio del 1923. Non tutti i provvedimenti vennero condivisi in toto. Alcuni subirono una decelerazione, come l’italianizzazione dei cognomi. Anche l’acquisizione delle terre non fu mai perseguita con rigorosa acrimonia. Altri punti, invece, divennero lo snodo per operazioni di largo respiro, come la forte incentivazione all’immigrazione interna, con gli incentivi per i trasferimenti dalle vecchie provincie a sostenere gli sforzi infrastrutturali mirati alla creazione di una zona industriale asimmetrica rispetto al contesto, paragonabile, ancor oggi, forse solo ai grandi insediamenti dell’industria pesante a Sesto San Giovanni o a Torino.
Tolomei era nato a Rovereto. Di formazione geografo era cresciuto dentro quella temperie di confine che aveva alimentato l’irredentismo trentino attraverso la valorizzazione della lingua e della cultura italiane in contrapposizione all’analoga spinta pangermanista che spirava da nord, anch’essa molto intrecciata con le ricerche geografiche e storiche portate a supporto di una appassionata radicalizzazione dei concetti di sangue e suolo. Ma Tolomei era andato oltre. Aveva visto l’Alto Adige come nuova frontiera, colto nella sua storia antica le radici di una possibile, frustrata e interrotta latinizzazione che aveva impedito la valorizzazione di una presenza anche linguistica non germanica. E poi nel fascismo lo strumento per riprendere questo percorso.
Ma non tutto gli era sempre filato liscio. Subito dopo la fine della Grande guerra, intorno al ’9, Ettore Tolomei aveva subito una frustrante emarginazione. Come Cincinnato si era ritirato, meglio: lo avevano fatto ritirare. Perché l’Italia che aveva vinto la guerra non era fascista. Era liberale. Persino socialista. Cattolica e monarchica. I partiti avevano voluto l’intervento, Trento e Trieste, il risorgimento compiuto così come da impegno storico di Casa Savoia. Ma ora il Regno voleva sostituirsi all’Impero asburgico senza dimenticare le sue radici antiassolutiste, vagamente massoniche e in ogni caso, statutarie, inteso come eredità parlamentare. Tolomei era un peso e un ingombro per il commissario Luigi Credaro, plenipotenziario incaricato della ricostruzione. E ancor prima, per lo stesso governatore militare Pecori Geraldi. La ricostruzione, ai loro occhi, non doveva essere solo materiale ma costituire una possibile base per la ricomposizione anche dei rapporti tra popolazione sudtirolese e nuovo assetto.
«Stranamente – dice Giorgio Delle Donne – questo periodo che va dal 1918 al ’22 in Alto Adige non è stato mai molto approfondito. Veniva più facile, invece, puntare alla radicalizzazione: Italia sempre fascista, sudtirolesi sempre oppressi».
Per lo storico, autore di molte ricerche su questo intervallo tra conclusione del conflitto e avvento del regime, l’allontanamento di Tolomei è il segno di una incompatibilità profonda tra le prospettive che si sforzavano di dischiudere per questi territori i funzionari dell’amministrazione regnicola e quelle perseguite dal nazionalismo tolomeiano.
Non che non ci fossero spinte anche intorno a Credaro per ottenere un atteggiamento meno remissivo nei confronti delle richieste tedesche, ma il contesto generale stava favorendo una transizione che avrebbe potuto avere sbocchi improntati alla tolleranza reciproca.
«Non dimentichiamo – ricorda Delle Donne – che il primo proclama dell’amministrazione italiana è redatto in due lingue. Che il commissario ha costantemente protetto la toponomastica tedesca rispetto agli attacchi che provenivano da ambienti radicali. Come pure era garantita la permanenza delle scuole tedesche e l’insegnamento nella lingua delle popolazioni».
Vuol dire, allargando lo sguardo, che l’annessione da parte dell’Italia non era direttamente e inevitabilmente connessa con un suo sbocco nazionalistico e dunque oppressivo in senso soprattutto etnico-linguistico. Al fondo, c’era la visione liberale dell’epoca che era ben cosciente come lo stesso impero austro-ungarico aveva improntato la sua presenza al rispetto o almeno alla tolleranza delle lingue presenti nei suoi possedimenti. E che la prospettiva entro cui si muovevano i funzionari italiani tra il ’18 e il ’22 guardava alla possibilità di un controllo territoriale migliore attraverso una convivenza tra diverse esigenze linguistiche.
Nel ’23, da senatore, Tolomei farà poi il suo rientro trionfale a Bolzano, quando ormai il suo prontuario con diecimila nomi italiani era stato applicato dall’emergente onda fascista successiva alla marcia su Roma e al cedimento del re a Mussolini. Ancor prima, per far comprendere anche allo stesso Credaro che l’aria era cambiata, si era assistito alla marcia su Bolzano degli squadristi di Starace con l’occupazione del municipio e la defenestrazione del sindaco Perathoner.
Quella breve stagione di un possibile dialogo si era così drammaticamente conclusa. Tolomei aveva vinto e l’Italia liberale perso. Certo, la storia ha le sue sliding doors, le sue porte girevoli. Senza il successo, fino all’ultimo istante in forse, il destino dell’Alto Adige sarebbe stato diverso. Ma anche la marcia ha avuto le sue possibili sliding doors. Ancor oggi si dà per certo che se il re avesse posto la sua firma allo stato d’assedio e all’intervento di un allora forte esercito, i treni di “O Roma o morte” sarebbero rimasti fermi a Orte. E anche i 32 punti del “Discorso di Bolzano”, da allora divenuti un libro, probabilmente sarebbero rimasti nei sogni di Tolomei. Invece sono stati applicati. E la presenza italiana è passata attraverso l’italianizzazione forzata. Ponendo così le basi per i successivi conflitti etnici, le incomprensioni, le frustrazioni della popolazione italiana e il costante vittimismo di quella tedesca, incapaci, fino al secondo Statuto, di costruire un percorso condiviso. Il quale, nonostante gli sforzi di molti, porta ancora, nel sottobosco della dialettica politica soprattutto preelettorale, i pesi di quel luglio di cento anni fa al teatro civico di Bolzano.
Paolo Campostrini
(Tratto da: Paolo Campostrini, Tolomei, un discorso contro il dialogo, in «Alto Adige», Anno 78, n. 170, 20 luglio 2023).
Inserito il 07/08/2023.
Dal settimanale «La Usc di Ladins»
di Manuel Riz
La lingua ladina appartiene alle lingue romanze ed è parlata da circa 30.000 persone nelle Dolomiti, precisamente in cinque valli situate intorno al Gruppo dolomitico del Sella: Val Badia (con gli idiomi badiot, ladin de mesa val, marô), Val Gardena (gherdëna), Val di Fassa (cazet, brach, moenat), Livinallongo del Col di Lana (fodom) e Ampezzo (ampezan). Il settimanale «La Usc di Ladins» [La Voce dei Ladini], che riunisce le cinque comunità, ha voluto ricordare il 100° anniversario del “Discorso di Bolzano” di Ettore Tolomei in maniera originale. Col fumetto Scedola vs Topolomei il disegnatore Manuel Riz riporta un “ideale” scontro linguistico-culturale tra il suo personaggio Scedola (la raccolta Scedola Patofies [Storie di Scedola] di Manuel Riz ha ricevuto una Menzione Speciale della giuria di Lucca Comics 2014) e un Tolomei reso famoso in quelle valli dalla sua riforma della toponomastica e che così viene ribattezzato “Topolomei”. Non sfuggirà la critica alla tendenza omologatrice della nostra vita contemporanea, nemica di ogni cultura originale, e una critica alla propria comunità più attenta ai valori del profitto che ai valori culturali.
Nelle didascalie diamo la traduzioni in italiano delle frasi pronunciate da Scedola; va detto che l’autore è di Canazei e usa il ladino della Val di Fassa, che è un po’ diverso (sente l’influenza veneta) da quello badioto un po’ meglio conosciuto dal curatore di questo sito.
L.C.
(Fumetto tratto da «La Usc di Ladins», n. 27, 14 luglio 2023).
Inserito il 08/08/2023.
Scedola: 100 anni fa il Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini ha voluto a ogni costo attuare la “conversione all’italianità” di tutti i Ladini per poterli così dividere in 3 province e far loro perdere le loro radici e i loro diritti…
Topolomei: I Ladini sono una macchia grigia che bisogna a tutti i costi grattar via!!!
Scedola: Taci, schifezza!!!
Topolomei: Ah! Povero illuso! L’erosione del vostro “idioma italico” sta avvenendo senza che voi ve ne accorgiate…
Scedola: Ladini siamo! Ladini restiamo!!!
Topolomei: …Anestetizzati come siete dai vostri ritmi di vita che hanno come unico scopo quello di ricavare un profitto maggiore rispetto alla stagione precedente…
Scedola: Che è questa roba? Non c’è neanche la lingua ladina!!!
Topolomei: Ma kettefrega! Anche se non c’è il vostro dialetto riesci sicuramente a capire almeno una delle altre “lingue ufficiali”… eh! eh!
Scedola: Ma andiamo! Mancano del tutto i toponimi ladini!!!
Topolomei: Ma rilassati un pochino! Si capisce comunque! L’importante è che i turisti sappiano dove andare… poi se hai problemi guardati Google Maps!
Scedola: Per fortuna che ancor oggi il ladino viene insegnato ai giovani nelle scuole…
Bambino: Mamma… la verifica di ladino è andata proprio male…
Madre: Non preoccuparti, il ladino non serve a niente! E fuori dalle nostre valli non lo parla nessuno…
Topolomei: Brava madre! Ottimo discorso!
Scedola: Neanche il popolo ladino conserva con orgoglio la propria lingua, le proprie usanze e tradizioni!!!
Uomo con gli occhiali: Vabbè non esagerare! Noi non parliamo il ladino ma ci piace travestirci da Ladini così ci fanno tante foto che diventano virali sui social!!!
Topolomei: Bravi così! Meglio l’apparenza che la sostanza!
Formaggio…
Scedola: Una soluzione per tenere uniti tutti i Ladini è stata quella di creare una lingua scritta unitaria…
Topolomei: Ma va là! Manco quello siete riusciti a far applicare!!! Ben venga che ogni villaggio, paesino, valle scriva nel proprio idioma, più siete divisi e spezzettati, più risultate innocui a livello politico e istituzionale…
Topolomei: Hai visto mio caro? Ormai oggigiorno non serve più la mia azione diretta per estinguere la vostra identità, così da omogenizzarvi al resto della società; ci pensate voi stessi a non difendere i vostri diritti, perché costa tempo e tanta passione, piuttosto preferite ripetervi il mantra: “Vabbè, anche se non è scritto in ladino, si capisce bene lo stesso…”. Buona sfortuna piccolo ladino!!
Scedola: Ladini, stiamo in guardia!!! Salvaguardiamo le nostre radici e la nostra lingua!!!
Una segreta lezione di tedesco all'interno di un maso in provincia di Bolzano, nel 1927 ca.
Fonte della foto: wikipedia.org
di Milena Cossetto*
Come il fascismo italianizzò la scuola in Alto Adige e come nacque la reazione locale (le Katakombenschulen) al rischio della perdita della lingua tedesca e della propria cultura.
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Scuola fascista e “scuole delle catacombe” tedesche
[…]
Mondo absburgico e mondo liberale italiano: un difficile incontro
Alle soglie della prima guerra mondiale il quadro europeo dell’analfabetismo era piuttosto disomogeneo.
Nel Regno d’Italia si era passati da un 75% di analfabeti (in relazione alla popolazione globale) nel 1861 al 68% nel 1871, al 48% nel 1901 al 37,9% nel 1911. Ma la definizione di alfabeti significava concretamente saper apporre a malapena la propria firma ad un documento. A livello europeo la situazione era ben diversa.
Ai primi del Novecento in Germania, Francia, Olanda l’analfabetismo era pressoché scomparso, in via di superamento in Belgio ed Austria (soprattutto la parte orientale), mentre rimaneva al 32,6% nel Regno d’Italia. Le carenze principali del sistema scolastico italiano erano relative alla situazione di partenza (soprattutto le difficoltà finanziarie in cui versavano i Comuni del sud), le carenze negli edifici scolastici e nella costruzione di nuove strutture, le modalità di reclutamento del personale docente e le retribuzioni insufficienti dei maestri che poi erano costretti a cercare una seconda occupazione. Infine, non di minore importanza, restava l’incapacità delle strutture dello Stato di vigilare sull’evasione dall’obbligo scolastico.
Questa è la scuola che giunge, con l’esercito italiano, nella Bolzano del 1918.
Una prima fase, caratterizzata dall’incertezza delle scelte sui confini e dalla necessità di porre ordine al caotico disfacimento dell’Impero absburgico, vede lo sforzo dell’editoria italiana di fornire libri di testo in lingua tedesca adeguati ai nuovi programmi ed orientamenti del Regno d’Italia. Sono soprattutto la Trevisini di Milano e la Bemporad di Firenze che si fanno carico del problema.
Con gli accordi di pace del 1919 e la definitiva annessione del Tirolo del sud al Regno d’Italia (compresa l’alta Pusteria) si configura in modo definitivo il nuovo assetto del territorio ancora gestito dal governatorato militare. Tra il 1919 e il 1922, con l’insediamento del Commissariato Generale Civile, definito unanimemente dalla storiografia “un periodo liberale”, la scuola in lingua tedesca mantiene il suo status e, pur con tutti i limiti che la crisi del dopoguerra portava con sé, il diritto allo studio ha uno sviluppo. Nella Bassa Atesina, invece, prende il via il processo di italianizzazione forzata delle scuole, segnale premonitore della svolta radicale nella politica culturale del Regno d’Italia in Alto Adige ad opera del fascismo a partire dal 1922.
Le tre fasi di sviluppo della politica scolastica del nazionalismo fascista in Alto Adige
Tre sono, in sintesi, le fasi di sviluppo della politica scolastica fascista in Alto Adige: una prima fase caratterizzata dalla aggressione alle istituzioni e alla cultura locale, con particolare violenza nei confronti delle scuole e delle istituzioni rappresentative (analogamente a quanto stava avvenendo a livello nazionale con gli oppositori politici). In particolare vanno ricordati gli episodi squadristici del 1921 e del 1922: l’assassinio del maestro Franz Innerhofer e il ferimento di 50 persone durante il corteo folcloristico, manifestazione legata alle attività della Fiera primaverile il 24 aprile 1921 ad opera di circa 400 fascisti provenienti da Trento, Ferrara, Mantova; l’occupazione violenta della scuola elementare tedesca Elisabeth Schule di Bolzano da parte di una squadra fascista proveniente da Trento e Ferrara. Era la cosiddetta prova generale della Marcia su Roma, il 2 ottobre 1922. La scuola venne subito ribattezzata “Regina Elena”; in pochi anni avrebbe ospitato solo classi con l’insegnamento in lingua italiana. Settecento camicie nere, entrate a Bolzano, occuparono il Municipio, espulsero il sindaco Julius Perathoner, sciolsero il consiglio comunale; poi proseguirono per Trento “dove costrinsero alle dimissioni il presidente della Giunta provinciale straordinaria, senatore Conci ed il commissario generale Credaro. Il giorno seguente, 5 ottobre, l’Ufficio Centrale per le Nuove Province venne sciolto. In questo modo cessò di esistere l’Italia liberale e democratica verso le minoranze. La capitolazione dello stato al fascismo, in tema di politica delle minoranze, rivestì carattere simbolico per la capitolazione dello stato in generale davanti al fascismo”1.
Una seconda fase, definita dalla storiografia “di assimilazione”, tra il 1923 e il 1934, vede la scuola come terreno fondamentale di italianizzazione forzata. Il 15 luglio del 1923 Ettore Tolomei, nazionalista di Rovereto, fondatore della rivista “Archivio per l’Alto Adige”, nominato dal governo liberale italiano Commissario alla lingua e cultura dell’Alto Adige, promotore e autore del programma per l’italianizzazione dell’Alto Adige, membro del partito fascista fin dal 1921, legge al Teatro Comunale di Bolzano i 32 punti del suo progetto di italianizzazione della regione. Il programma prevede l’uso esclusivo della lingua italiana nella vita pubblica (uffici, nomi di località, indirizzi, comunicazioni ufficiali, cognomi ecc.), la definitiva chiusura della scuola tedesca, una forte immigrazione di lavoratori italiani (impiegati pubblici, operai, artigiani, funzionari ecc.) ed incentivazioni per lo sviluppo economico industriale, in modo da favorire la penetrazione di capitale italiano2.
Dal 1923 venne proibito ufficialmente l’uso del nome Tirol e nel 1926 venne istituita la Provincia di Bolzano, da cui rimaneva escluso il territorio della Bassa Atesina, tra Bronzolo e Salorno, che rimase alla provincia di Trento. Con l’applicazione della Legge di riforma di Giovanni Gentile, a partire dal 1 ottobre 1923 nella prima classe elementare venne introdotto l’italiano come lingua di insegnamento; gradualmente, nel corso di cinque anni, tutte le classi elementari avrebbero avuto l’italiano come unica lingua di insegnamento (1927-28). Per l’insegnamento della lingua tedesca inizialmente furono destinate delle ore supplementari, ma di fatto veniva insegnata da docenti di madrelingua italiana, che poco padroneggiavano la lingua tedesca e ancora meno sapevano destreggiarsi con il dialetto locale3.
Ben presto vennero drasticamete italianizzate anche le scuole superiori: dall’anno scolastico 1926-27 per tutti gli studenti delle scuole tecniche e dei ginnasi la lingua madre tedesca venne insegnata solo come lingua straniera. Dal processo di italianizzazione vennero risparmiati il ginnasio vescovile Vinzentinum di Bressanone e il ginnasio Johanneum di Tirolo, fondato per l’area tedesca della Diocesi di Trento nel 1928. Entrambi persero il riconoscimento legale del corso di studi. A partire dall’ottobre del 1929 vennero aboliti anche i corsi integrativi di tedesco, che pur nelle difficoltà di orario e di organizzazione, erano rimasti l’unico legame con la madrelingua per i bambini che frequentavano la scuola elementare.
La situazione si presentò drammatica per gli insegnanti sudtirolesi, che si videro privati in pochi anni della lingua d’insegnamento, del posto di lavoro, della sicurezza del luogo di lavoro: molti vennero licenziati, trasferiti, pensionati precocemente.
La terza fase, tra il 1934 e il 1939, viene definita dalla storiografia l’epoca dell’immigrazione e del popolamento e si caratterizza per la nascita della zona industriale di Bolzano e Sinigo (Merano) e per il forte afflusso di lavoratori e tecnici dal Veneto, dalla Lombardia, dall’Emilia Romagna. È una fase in cui, accanto ai tentativi di occupazione del suolo e di colonizzazione agricola dell’Alto Adige da parte di contadini veneti (ipotesi che non ha avuto il successo sperato dal suo teorico Ettore Tolomei) si avvia l’insediamento stabile di popolazione italiana: non più un’immigrazione di funzionari e di impiegati, ma un trasferimento di operai e tecnici con famiglie al seguito. La politica del fascismo, che puntava ad una Bolzano capoluogo di Provincia con 100.000 abitanti, anche per oggettive esigenze di maggiori spazi abitativi, avvia la trasformazione urbanistica della città. La scuola, in questo quadro, funge da luogo di promozione del consenso e di costruzione della mitologia nazionalistica. Gli arredi scolastici, le iniziative celebrative della dittatura, la retorica delle festività, le immagini ridondanti di nazionalismo fanno da scenario ad una scuola che faceva tutti “plagiati e contenti”4.
“Il Balilla dell’Alto Adige”, il giornalino scolastico ideato e diretto dal Regio Ispettore Scolastico Dal Piaz, diventa punto di riferimento per le scuole elementari della Provincia di Bolzano dal 1928, anno della sua nascita, al 1935. Sulle sue pagine, accanto a momenti di celebrazione dei miti fascisti e di retorica nazionalistica, si possono scorgere iniziative di promozione dello studio d’ambiente, di attenzione agli usi e alle tradizioni locali, mediate attraverso l’esperienza quotidiana dei bambini che parlano e scrivono dei loro sentimenti in italiano, una lingua diversa da quella parlata in famiglia5.
I cartelloni didattici (le tavole parietali) che ha raccolto ed esposto il Museo della scuola – Schulmuseum della città di Bolzano appartengono anche a questa fase della storia della scuola a Bolzano: nella prima fase di penuria di materiale didattico, con la radicale operazione di italianizzazione forzata della scuola, anche i tabelloni didattici subirono l’ira del tempo: diligenti insegnanti incollarono sui tabelloni etichette con didascalie e testi in lingua italiana su quelli originali in lingua tedesca. In un secondo momento, con l’introduzione del libro di testo unico di Stato e con la Carta della Scuola, nuove forniture di tabelloni (soprattutto quelli a sfondo prettamente ideologico) sostituirono quelli dei primi del Novecento, che rimasero chiusi e dimenticati in qualche armadio fino agli anni Novanta, quando vennero acquisiti dal Museo della Scuola-Schulmuseum.
Molti altri strumenti specifici di propaganda e di pressione furono adottati dal regime fascista tra il 1924 e il 1943 per cercare consenso da un lato, ma soprattutto per fare della scuola il luogo attraverso il quale costruire “i nuovi cittadini italiani dell’Alto Adige”: commemorazioni patriottiche, celebrazione del Duce, inaugurazioni e partecipazione ad iniziative extrascolastiche, agoni sportivi e della letteratura, la festa degli alberi, la Befana fascista, festa pro dote della scuola, le mostre didattiche, i viaggi premio, la corrispondenza scolastica e molte altre. Questa politica, però, non ebbe l’esito sperato dal regime, non si tradusse in consenso bensì contribuì a costruire un muro di inimicizia, reciproca diffidenza e sospetto tra le popolazioni dei due gruppi linguistici che progressivamente si trovavano a dover condividere scuola, lavoro, abitazioni, cerimonie, tutti i momenti della vita sociale.
“I bambini delle minoranze – scrive Claus Gatterer – ancor più di quanto generalmente accada a tutti i ragazzi negli Stati a regime dittatoriale – apprendevano fin dalla scuola un comportamento schizofrenico. A casa, in famiglia, Cesare Battisti o Guglielmo Oberdan passavano per traditori, a scuola erano esaltati come eroi. I padri della maggior parte di quei bambini avevano partecipato – più o meno volentieri – alla guerra mondiale dalla parte austriaca. E adesso a scuola si insegnava che i soldati austriaci erano barbari, disumani, crudeli; i bambini dovevano ripeterlo durante le ore di storia, e loro recitavano la lezione, scrivevano i compitini come era prescritto, però sapevano che li stavano costringente a scrivere delle cose non vere. C’è da stupirsi che considerassero non vero tutto quello che gli italiani - maestri e non – dicevano loro?
Che attribuissero agli italiani, nella loro fantasia, tutto quello che i testi scolastici addossavano ai loro padri? Scuole tedesche in Sudtirolo e scuole slave nella Venezia Giulia non sarebbero mai riuscite a suscitare e a diffondere tanto odio per l’Italia quanto ne scaturì dalle scuole italiane, imposte ai bambini di questi territori”6.
L’obiettivo del regime di fare della Bolzano negli anni Trenta, con la nascita della zona industriale e dei nuovi quartieri operai, una città da 100.000 abitanti, fallisce. Il calo della popolazione di lingua tedesca alla fine degli anni Trenta è riconducibile alla politica delle Opzioni, adottata da Hitler e Mussolini con accordi bilaterali, che ha costretto i sudtirolesi a scelte laceranti, spesso neppure percepite dai vicini italiani, o molto più spesso oggetto di una rimozione collettiva7.
Negli anni Trenta nascono, o meglio hanno una visibilità anche sul piano degli edifici e delle attrezzature, anche le principali scuole tecniche superiori, gli Istituti Tecnici, Commerciali, Industriali; sono scuole che sostituiscono istituti superiori di lingua tedesca e hanno un duplice obiettivo: proseguire la politica di italianizzazione del Sudtirolo e rispondere alle nuove esigenze del mercato del lavoro, orientato verso lo sviluppo industriale e l'ampliamento dell'apparato amministrativo-burocratico8.
Le Katakombenschulen, le scuole clandestine in lingua tedesca
Mentre il processo di italianizzazione e fascistizzazione delle scuole in Alto Adige subiva la svolta radicale con l’abolizione dell’insegnamento in lingua tedesca (Riforma Gentile, 1924), la popolazione locale cercò di far sopravvivere lingua e cultura tedesca e di trasmettere questo sapere alle nuove generazioni. Grazie al lavoro capillare del Canonico Michael Gamper9 e dei suoi collaboratori, venne costruita una fitta ed articolata rete di “scuole clandestine”, scuole delle catacombe, Katakombenschulen. Ogni casa, ogni spazio doveva diventare una scuola, secondo Gamper e i genitori dovevano diventare i primi maestri. Non tutti però, soprattutto nelle case di montagna, erano in grado di insegnare ai propri figli a leggere e scrivere in tedesco: già passare dal dialetto alla lingua tedesca era un problema, insegnare a leggere e a scrivere in gotico corsivo era un lavoro da professionisti. Così, i maestri e le maestre licenziate o allontanate dalla scuola dal regime fascista, nei pomeriggi, la sera o la domenica, insegnavano a piccoli gruppi di bambini nei masi, nelle soffitte, nei fienili, nelle canoniche delle chiese. Ma gli insegnanti che non erano riusciti a sostenere le prove di italiano e quindi erano stati licenziati, avevano cercato un altro lavoro e quindi non erano in grado di fare lezioni private. Così nel progetto di organizzazione della rete clandestina di scuole in lingua tedesca Gamper e i suoi collaboratori scelsero le giovani figlie delle famiglie benestanti, istruite, ma non ancora impegnate con la famiglia e comunque senza esigenze economiche eccessive. La prima organizzazione, ancora molto artigianale, dei corsi privati di tedesco sembrava non poter resistere a lungo, a causa delle continue persecuzioni da parte delle autorità fasciste, soprattutto nella Bassa Atesina, ma non solo; molti genitori e molte maestre erano spaventate; serviva quindi un’organizzazione più capillare e più funzionale alle esigenze.
Le autorità fasciste locali non davano tregua alle scuole clandestine: pedinamenti, appostamenti, delazioni erano strumenti per intimidire e per raccogliere prove ed indizi di attività antinazionale.
I nomi di Angela Nikoletti, Rudolf Riedl, Joseph Noldin rappresentano le vicende più tragiche nella storia delle scuole clandestine: persecuzioni, carcere e confino per aver contribuito a costo della propria vita alla salvezza della pluralità linguistica del Sudtirolo10.
I bambini e le bambine iniziavano a frequentare le scuole clandestine una volta giunti in seconda elementare italiana, in modo da aver già imparato a scuola a scrivere e a leggere l’alfabeto latino11.
Per evitare concorrenza tra le maestre l’organizzazione aveva stabilito delle regole alle quali tutte dovevano strettamente attenersi: i gruppi dovevano essere costituiti da non meno di 3 e non più di 6 bambini, le lezioni non dovevano tenersi prima delle ore 7.00 e non dopo le 19.00, i bambini svogliati dovevano essere esclusi, le maestre dovevano affrontare il programma stabilito12.
Il materiale didattico utilizzato nelle scuole clandestine era limitato all’essenziale, perché doveva essere nascosto velocemente in caso di perquisizioni. Per questo motivo ai libri spesso venivano strappate le pagine, in quanto così erano più pratiche da maneggiare.
L’organizzazione delle Katakombenschule (il Kanonikus Gamper, Noldin o la maestra Nicolussi) faceva arrivare il materiale didattico introducendolo di contrabbando dalla Germania, poi veniva smistato da Sudtirolesi fidati in tutti i paesi dell’Alto Adige. Però molti dei libri utilizzati per le lezioni erano di proprietà delle maestre e risalivano alla loro infanzia.
Si fece scuola anche d’estate, con la collaborazione di giovani studenti universitari provenienti dall’Austria e dalla Germania; si fece scuola nei masi e nelle località di montagna.
Per un apprendimento efficace erano comunque fondamentali la tranquillità, la serenità, la fiducia che l’insegnante riusciva a trasmettere ai bambini, già duramente provati a scuola e spaventati dalle continue perquisizioni. Le frequenti interruzioni dovute alle perquisizioni, le corse per nascondere il materiale didattico, l’ansia di essere scoperti erano fattori negativi per la riflessione e lo studio.
Il nazismo, le opzioni, i corsi di tedesco
A Berlino, il 23 giugno 1939, le delegazioni d’Italia e Germania firmano l’accordo per le opzioni. “È l’ultimo, brutale, tentativo di risolvere la questione altoatesina dopo il fallimento dei tentativi di snazionalizzazione operati dal fascismo. (…) Entro il 31 dicembre i sudtirolesi potranno optare per l’espatrio in uno dei territori occupati dal Terzo Reich. Quelli che rimarranno in Alto Adige, rinunceranno, di fatto, a ogni tutela etnica.
La convivenza tocca i punti più bassi. L’estate e l’autunno sono segnati da un’accesa propaganda pro o contro l’opzione, nella quale la campagna favorevole all’opzione è nettamente prevalente. È il momento in cui in Alto Adige s’insediano, più o meno mimetizzati, numerosi circoli nazisti che opereranno attivamente dopo l’8 settembre 1943. Il vescovo Gaisler si pronuncia a favore dell’opzione. La maggior parte del clero è contraria. Contrari sono anche alcuni ristretti ma influenti circoli sudtirolesi che fanno capo al canonico Michael Gamper, nonché una parte della borghesia benestante ispirata dal commerciante Erich Amonn, futuro fondatore della SVP”13.
Le opzioni furono un vero e proprio dramma esistenziale per molte famiglie: “ fu una scelta difficile che spaccò in due molte famiglie e l’intera comunità di lingua tedesca, che si rinfacciò per decenni i propri tradimenti”14.
Lo svolgimento delle operazioni di trasferimento prevedeva tre fasi: prima circa 10.000 ex cittadini austriaci; poi il trasferimento dei cittadini etnicamente tedeschi, ma non legati al suolo (senza proprietà terriere) ed infine la popolazione con proprietà fondiarie, che andavano vendute all’Ente delle Tre Venezie. Per la Germania optò il 69,4% della popolazione; per l’Italia il 14,3%; i non optanti (cosiddetti “optanti grigi”) il 16,3%. Entro la fine del 1940 furono ben 57.000 i sudtirolesi che emigrarono in Germania15.
L’art. 22 dell’accordo di Berlino prevedeva l’istituzione di corsi speciali di tedesco per i figli degli optanti, per prepararli al trasferimento nel Terzo Reich. I corsi speciali riguardavano solo i figli di cittadini tedeschi che si sarebbero trasferiti in Germania; non poteva essere impartita alcuna lezione che non fosse esclusivamente lezione di lingua. Manifestazioni, lezioni di canto o qualsiasi altra materia di insegnamento era proibita. Era consigliata comunque la frequenza della scuola statale italiana. Per i bambini poveri era prevista l’assistenza scolastica. L’orario era pomeridiano dalle 14 alle 18 o dalle 13 alle 17 ad eccezione del sabato. Ogni classe aveva diritto a 2 ore giornaliere di lezione. L’Educazione Fisica veniva svolta solo nell’ambito dell’orario scolastico al mattino, mentre sarebbe stato ridotto l’orario scolastico delle scuole statali. Il compito di gestire i corsi fu affidato al direttore dell’A.D.E.R.S.T. (Deutsche Schulstelle der Amtlichen Deutschen Ein-und Rückwandererstelle) in accordo con il Provveditore agli Studi. Nell’ambito dei corsi era possibile utilizzare i tesi provenienti dalla Germania. Le spese per le pulizie, il riscaldamento ed il personale furono sostenute dai Comuni.16
Grazie all’istituzione dei corsi di tedesco i figli degli optanti vennero ritirati dalle scuole statali italiane, che persero gran parte degli alunni e, soprattutto in montagna, vennero chiuse.
Attraverso letture, racconti, fiabe e saghe nei corsi di tedesco entrarono, ovviamente, anche i contenuti culturali, la storia e la geografia del mondo tedesco, che in questa fase stava trasformandosi in un mondo prettamente nazista, razzista e propugnatore di ideologie di guerra e di dominio. Anche i testi in uso nei corsi per i figli degli optanti risentivano dell’ideologia nazista, basta leggere solamente i titoli dei libri: Il Führer, La croce uncinata, Chi è un uomo tedesco?, Il Führer e la sua gioventù17. A partire dall’aprile del 1941 fu permesso lo studio della matematica in lingua tedesca.
L’Alpenvorland, la guerra e la scuola
Il 10 settembre 1943, all’indomani dell’armistizio tra il governo italiano e gli Alleati Anglo-americani, il territorio della Provincia di Bolzano passò sotto la diretta amministrazione tedesca. Fu creata l’Operationszone Alpenvorland (Zona di Operazioni delle Prealpi) e affidata al Gauleiter Franz Hofer. L’Alpenvorland comprendeva le province di Trento, Bolzano e Belluno. La Repubblica Sociale Italiana (la Repubblica di Salò) di fatto venne esclusa: gli impiegati statali di lingua italiana vennero sostituiti con funzionari germanici o Sudtirolesi18.
Nelle città principali, dove forte era la presenza di popolazione di lingua italiana le attività scolastiche proseguirono, compatibilmente con i bombardamenti, gli sfollati e le gravi difficoltà provocate dalla guerra. Vennero introdotti corsi obbligatori di tedesco.
Il 4 ottobre 1943 riaprirono le scuole di lingua tedesca che “sebbene rappresentassero la realizzazione del giusto sogno dei Sudtirolesi, erano scuole in cui l’indottrinamento dell’ideologia ariana e nazista non era differente da quello che si trovava frequentando le lezioni in Germania. Un riscontro lo si può avere nei cicli di lezioni per l’aggiornamento del personale insegnante, che proponevano tematiche come: Il Reich e l’Europa (Educazione al popolo del Führer), Legittimità dell’ideologia del Nazionalsocialismo e l’Ebreo come parassita del mondo19.
Va ricordato che le leggi razziali emanate nel 1938, pur avendo prodotto anche in Provincia di Bolzano effetti devastanti, non hanno lasciato materiale documentario relativo alla scuola; probabilmente è stato sottratto agli archivi con precisione scientifica.
Dopo la prima guerra mondiale nelle province di Trento e Bolzano risiedevano 600 ebrei, di cui 400 a Merano, in quanto vi era una Sinagoga eretta nel 1901. A Lana, presso Merano, venne istituito l’ Alpines Schulheime am Vigiljoch, uno dei sei collegi ebraici fondati in Italia, frequentato da giovani ebrei tedeschi; le famiglie, rimaste in Germania, speravano grazie a questi collegi di garantire ai figli la prosecuzione degli studi nonostante il dilagare del nazismo e dei provvedimenti antiebraici. La scuola ebbe fino a 35 iscritti, tra scuole elementari e liceo. Musica, pittura, canto, lingue moderne erano le discipline principali, accanto all’insegnamento dell’italiano. Nel dicembre 1938, in seguito alla emanazione in Italia delle leggi antiebraiche, il collegio venne chiuso e gli insegnanti licenziati.
Nel marzo del 1944 le scuole elementari di lingua tedesca del Sudtirolo avevano 29.252 alunni e alunne in 420 scuole e 893 classi, con 821 insegnanti; tra questi 29.252 giovani vanno contati 7.034 alunni dei corsi professionali, di cui 116 dell’area artigianale e commerciale e ben 6.918 dell’area agricola. C’erano poi 3 scuole complementari con 17 classi e 524 studenti, 2 scuole superiori con 13 classi e 250 alunni e 4 scuole professionali con 19 classi e 3870 studenti. Il sistema scolastico di lingua tedesca poteva contare su 37.440 studenti e 883 insegnanti.
La scuola elementare italiana, invece, nel gennaio del 1944 aveva 5.030 alunni e 206 insegnanti.
Nella scuola tedesca vennero anche elaborati programmi specifici e percorsi di formazione e aggiornamento per i docenti.
La fine della guerra è segnata da molteplici speranze: si oscilla tra la gioia per la riconquistata libertà e, per le zone di confine come l’Alto Adige-Südtirol, l’incertezza per il futuro sia sul piano degli assetti territoriali che su quello della organizzazione istituzionale. Nasce la Südtiroler Volkspartei, con il compito di chiedere e ottenere l’autodecisione per la popolazione di lingua tedesca. Ma a Parigi, nel 1946, nell’ambito degli accordi di pace, i due ministri degli esteri A. De Gasperi e K. Gruber firmano l’accordo che sarà la base su cui costruire il modello istituzionale di autonomia della Provincia di Bolzano, all’interno della Carta Costituzionale.
Il testo dice:
“art. 1 - Gli abitanti di lingua tedesca della provincia di Bolzano e quelli dei vicini comuni bilingui della provincia di Trento, godranno di completa eguaglianza di diritti rispetto agli abitanti di lingua italiana, nel quadro delle disposizioni speciali destinate a salvaguardare il carattere etnico e lo sviluppo culturale ed economico del gruppo di lingua tedesca. In conformità dei provvedimenti legislativi già emanati o emanandi, ai cittadini di lingua tedesca sarà in particolare concesso:
l’insegnamento primario e secondario nella loro lingua;
l’uso, su di una base di parità, della lingua tedesca e della lingua italiana nelle pubbliche amministrazioni, nei documenti ufficiali, come pure nella nomenclatura topografica bilingue;
il diritto di ristabilire i nomi di famiglia tedeschi che siano stati italianizzati nel corso degli anni;
l’eguaglianza di diritti per l’ammissione a pubblici uffici, allo scopo di attuare una più soddisfacente distribuzione degli impieghi fra i due gruppi etnici”20.
[…]
Milena Cossetto*
* Milena Cossetto è ricercatrice e storica, giornalista, già docente presso la Libera Università di Bolzano.
(Estratto da: Milena Cossetto, Bolzano 1900: storie di scuole, nazionalismi e plurilinguismo. Storia e scuola: le vicende della scuola altoatesina nell’ultimo secolo; https://www.academia.edu/1760301/Bolzano_1900_storie_di_scuole_nazionalismi_e_plurilinguismo).
Note
1 Kiem O., Mock H., Zendron A., Perdere la patria, in Tiroler Geschichtsverein, Option Heimat Opzioni. Eine Geschichte Südtirols - Una storia dell’Alto Adige, Catalogo della Mostra, Innsbruck 1989, p. 45.
2 Sulla figura di Ettore Tolomei e sulle vicende delle sue carte (gli archivi documentari in parte risultano scomparsi o quanto meno nascosti) si rimanda ai recenti studi raccolti dal Museo Storico in Trento, diretto dal prof. Vincenzo Calì, in collaborazione con l’associazione sudtirolese Michael Gaismair Gesellschaft e il Gruppo di Ricerca di Storia Regionale:
Ettore Tolomei (1865-1952). Un nazionalista di confine. Die Grenzen des Nationalismus, a cura di Sergio Benvenuti e Christoph H. von Hartungen, con la collaborazione di Claudio Ambrosi e Rodolfo Tafani, supplemento al nr. 1/1998 di “Archivio Trentino”.
3 Cfr. a questo proposito: Villgrater M., Katakombenschule. Faschismus und Schule in Südtirol, Bozen 1984, pp. 37-44; Gatterer C., Bel paese. Brutta gente, Bolzano 1989, pp. 47-62.
4 De Rocco N., Plagiati e contenti. Un anno di scuola con i bambini del duce, Milano 1994. Il libro è “Dedicato a tutti i bambini, perché hanno il sacrosanto diritto di non venire plagiati, né per motivi affettivi, né per motivi ideologici, né per motivi consumistici e a tutti i giovani perché non si facciano scippare la libertà morale e intellettuale dagli ideologi di partito, quale esso sia, e dai tanti persuasori occulti che ci circondano”.
5 Cfr. a questo proposito: Renner S., “L’uomo nuovo” di Mussolini in Alto Adige. Alcuni tentativi rivolti all’infanzia, Tesi di laurea, Bologna 1997; Cagnati N., “Il Balilla dell’Alto Adige” 1928-1935: uno strumento per l’italianizzazione e la fascistizzazione della scuola elementare, Tesi di laurea, Bologna 1983.
6 Gatterer C., In lotta contro Roma. Cittadini, minoranze e autonomie in Italia, Bolzano 1994, p. 530.
7 Romeo C., La “Nuova Bolzano”. Alcuni aspetti della città negli anni Trenta, in Cossetto M., (a cura di), Fare storia a scuola. I passaggi e gli intrecci, vol. II, Bolzano 1999, pp. 187 e sgg.
8 Tra il 1922 e il 1923 le istituzioni scolastiche (superiori) preesistenti in Sudtirolo vengono tramutate in:
Regio Istituto Tecnico "C. Battisti" a Bolzano, Regia Scuola Industriale a Bolzano, Pubblica Scuola di Commercio a Bolzano, Regi Licei- Ginnasi "Carducci" a Bolzano e Merano, Regio Liceo Scientifico "E. Torricelli" a Merano, Regio Liceo-Ginnasio "Dante Alighieri" a Bressanone, Regio Ginnasio "Generale Cantore" a Brunico.
In una seconda fase vennero istituiti: il Regio Istituto Tecnico Inferiore a Merano, le Scuole di Avviamento al Lavoro di Bolzano e Merano, i Corsi di Avviamento a Vipiteno, Caldaro, Fortezza, Chiusa, Lana e altri centri della Provincia di Bolzano, la Regia Scuola Professionale di Serva Gardena e Ortisei.
9 Michael Gamper nacque il 7 febbraio 1885 a Prissiano e nel 1904 si iscrisse alla facoltà di teologia all’università di Innsbruck. Nel 1908 venne ordinato sacerdote e nel 1914 divenne Kanonikus. Fu anche catechista in alcune scuole. Dopo l’Annessione, visto che il periodico cattolico “Volksbote” non poteva più essere inviato nei territori annessi al Regno d’Italia, si occupò di redarne [sic] un’edizione locale. Collaborò alla costruzione e gestione del partito del Deutscher Verband (Partito di raccolta della popolazione di lingua tedesca del Sudtirolo). Nel 1920 divenne presidente della casa editrice Tyrolia. Fu l’artefice delle Katakombenschulen, la rete di scuole clandestine per l’apprendimento del leggere, scrivere e far di conto in lingua tedesca per le nuove generazioni in Sudtirolo. Il fascismo lo considerò ben presto un personaggio politicamente pericoloso e fu messo sotto sorveglianza a partire dal 1926. Per non compromettere la propria attività diede le dimissioni dalla redazione del “Volksbote” (e da qualsiasi altra carica). In realtà continuò segretamente ad esserne il responsabile. Durante il periodo delle opzioni si batté per i Dableiber (coloro che non avevano optato per la Germania nazista), affinché la popolazione sudtirolese non venisse sradicata dalle sue radici.
Gamper era contrario sia al regime fascista, sia a quello nazionalsocialista e di conseguenza nel 1943 dovette fuggire a Firenze per evitare l’internamento in un campo di concentramento. Furono invece deportati a Dachau Rudolf Posch, redattore del “Dolomiten”, e Friedl Volgger, redattore del “Volksbote”.
10 Angela Nikoletti nacque a Magré (Bz) il 31 maggio 1905; il padre era operaio agricolo e lavorava in varie zone tra Bolzano e la Bassa Atesina; la madre era spesso ammalata e quindi Angela fu costretta a risiedere presso i parenti. Dopo la morte della madre si trasferì presso la zia a Cortaccia. Frequentò l’Istituto Magistrale a Zams, presso il collegio di suore vicino a Landeck. Ma dopo il primo anno di scuola, una volta rientrata a Cortaccia, le Autorità le impedirono di ritornare in Austria. Dopo un’interruzione riprese gli studi e si abilitò all’insegnamento nel 1926. Rientrata a Cortaccia, tramite Maria Nicolussi, Josef Noldin e il maestro Riedl entra nella rete clandestina delle insegnanti delle Katakombenschulen. Dopo pochi mesi viene prima diffidata, poi perseguitata, arrestata e condannata a 30 giorni di carcere. Le sue condizioni di salute, già fragili, peggiorano nel periodo di detenzione. Uscita dal carcere, è sotto sorveglianza speciale; viene continuamente convocata presso i carabinieri, interrogata, minacciata, ammonita. Viene allontanata, come persona pericolosa, da ogni paese. Nell’autunno del 1927 viene ricoverata per 4 mesi all’ospedale di Bolzano, in quanto le sue condizioni di salute erano peggiorate: la paura, le continue tensioni, le difficoltà economiche, avevano minato Angela nel corpo e nell’anima. Muore alla fine di ottobre del 1930.
Joseph Noldin nacque a Salorno nel 1888; il padre proveniva dalla zona tedesca della val di Non, la madre era del Tirolo del Nord. Frequentò a Trento il ginnasio di lingua tedesca, poi si trasferì nel ginnasio di Felkirch (Vorarlberg), poi a Rovereto e infine al ginnasio dei Francescani a Bolzano. Fu nei Kaiserjäger, poi si iscrisse alla facoltà di legge a Innsbruck, dove si laureò nel 1912. Fece praticantato a Trento e a Mezzolombardo e allo scoppio della guerra si arruolò volontario tra i Kaiserjäger di Rovereto. Fu gravemente ferito e poi fu fatto prigioniero dai russi e portato in un campo di lavoro in Siberia. Rientrò in Sudtirolo solo nell’aprile del 1920: ben presto si trovò in prima fila nella lotta per la sopravvivenza della lingua e cultura tedesca a Salorno e nella Bassa Atesina. Fu dirigente delle scuole clandestine di Salorno e del circondario: venne più volte arrestato, interrogato, multato, sorvegliato e nel 1927 venne condannato a 5 anni di confino nell’isola di Lipari, per aver promosso, organizzato e sostenuto le Katakombenschulen. Fu colpito da una forma di malaria e dopo due anni rientrò a Salorno. Morì pochi mesi dopo in seguito alle privazioni e alle malattie contratte al confino.
Rudolf Riedl nacque a Egna il 2 febbraio 1876, figlio dal maestro Christian Riedl e di Foska Schöpf; studiò a Bolzano e musica a Regensburg. Cominciò ad insegnare a Termeno e a suonare l’organo nella chiesa; ben presto divenne anche direttore del coro, della banda musicale, del coro di voci bianche. Era un maestro molto esigente, severo e stimato; era un autorevole conservatore e un intellettuale rigoroso. Dopo la guerra e con l’avvento del fascismo collaborò alla istituzione e gestione delle scuole clandestine nella Bassa Atesina: venne perseguitato dal fascismo e condannato al confino a Lipari e a Pantelleria. Fu graziato da Mussolini su richiesta dei quattro figli, ma fu costretto a trasferirsi ad Innsbruck, dove scrisse la sua biografia intellettuale. Riedl R., In Ketten zur Verbrecher Insel, Selbstverlag, Innsbruck 1930.
11 Villgrater M., Katakombenschule, cit., pp. 108-109.
12 Ivi, pp. 128-138.
13 Agostini P., Ansaloni G., Ferrandi M., Alto Adige. Ottant’anni di storia, Bolzano 1994, p. 17.
14 Renner S., L’uomo nuovo di Mussolini in Alto Adige, cit., p. 144.
15 Hainz C., Schulgeschichte Südtirols 1918/46, Unter besonderer Berücksichtigung der gesetzlichen Grundlagen, Tesi di laurea, Innsbruck 1993.
16 Cfr. Sailer O., Schule im Krieg. Deutsche Unterricht in Südtirol 1940-45, Bozen 1985, pp. 22-23.
17 Cfr. Staffler R., Hartung von Hartungen C. (a cura di), Geschichte Südtirols. Das 20. Jahrhundert: Materialien / Hintergründe / Quellen / Dokumente, Lana (Bz), 1985, pp. 116-119; Verdofer M., Zweierlei Faschismus, Verlag für Gesellschaftskritik, Wien 1990.
18 Kramer J., Deutsch und Italienisch in Südtirol, Heidelberg 1981, p. 42.
19 Renner S., L’uomo nuovo di Mussolini in Alto Adige, cit., p. 162; cfr. anche Sailer O., Schule im Krieg, cit., p. 155; cfr. Mann E., La scuola dei barbari. L’educazione della gioventù nel Terzo Reich, Firenze 1997.
20 Cfr. sulla storia recente della scuola in Provincia di Bolzano:
Seberich R., Südtiroler Schulgeschichte, cit., Bolzano 2000.
Cossetto M., Storie di maestri e maestre. Esperienze di alfabetizzazione e di istruzione tra le valli dell’Inn e dell’Adige nel XIX e nel XX secolo, in Cossetto M. (a cura di), Fare storia a scuola. I passaggi e gli intrecci, vol. II, Bolzano 1999, pp. 357-436.
Vidoni C., Appunti di legislazione scolastica, Provincia Autonoma di Bolzano, Assessorato alla scuola italiana, Intendenza Scolastica Italiana, Edizioni Junior, Bergamo 2000.
AA.VV., Davanti e dietro i banchi. Ottant’anni di scuola in Alto Adige, Cesfor, Bolzano 2000. Il testo raccoglie le testimonianze dei rappresentanti politici che hanno costruito le norme e l’assetto per le scuole della provincia di Bolzano all’indomani dell’Accordo De Gasperi-Gruber.
Inserito il 15/08/2023.
Lilli Gruber e il primo dei libri di memorie sulla sua famiglia.
Fonte della foto: https://libreriamo.it/libri/lilli-gruber-torna-in-libreria-con-tempesta-un-libro-che-e-un-attacco-allintolleranza-2/
di Lilli Gruber
Ecco come la celebre giornalista sudtirolese narra le vicende della propria famiglia legate al primo periodo fascista, quello dell’italianizzazione delle scuole.
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Le katakombenschulen nei ricordi di famiglia
di Lilli Gruber
Gli squadristi, gli uomini che hanno terrorizzato Rosa in quella domenica del 1921 a Bolzano, hanno preso il potere. Il 31 ottobre 1922, a seguito della marcia su Roma, il re ha nominato Benito Mussolini presidente del Consiglio, e da quel giorno il nuovo despota d'Italia fa il buono e il cattivo tempo. Non perde occasione per menzionare con ostilità la minoranza germanofona del Sudtirolo, che ostinatamente si rifiuta di rinunciare alla sua lingua, alla sua fede e alla sua storia.
Il 4 novembre 1922 con l'arrivo del nuovo prefetto della Venezia Tridentina, Giuseppe Guadagnini, è stata avviata ufficialmente la politica di assimilazione della popolazione di lingua tedesca. I Provvedimenti per l'Alto Adige, redatti da Ettore Tolomei, sono diventati il programma dello Stato fascista per il Sudtirolo. Nel 1923 il fanatico irredentista italiano, ora in camicia nera, espone le linee guida del programma al Teatro di Bolzano: italianizzazione delle istituzioni e dell'immagine dell'Alto Adige, come lo chiamano adesso; spinta al trasferimento e insediamento di nuovi italiani nella zona; progressiva eliminazione della cultura tedesca. Per i sudtirolesi è una dichiarazione di guerra.
Le violenze aumentano. Rosa si sente inquieta quando Jakob deve andare in città, a incontrarsi con gli altri possidenti e i membri dell'associazione delle cantine vinicole. L'ex borgomastro di Neumarkt, il barone Anton von Longo, se n'è dovuto andare con tutta la sua famiglia, auto-esiliati nelle loro terre in Carinzia. Troppi scontri con i fascisti: prima se la sono presa con lui perché la targa «municipio» in italiano sulla facciata del palazzo del Comune, secondo le camicie nere, non era abbastanza visibile. Poi sono cominciate le minacce e le intimidazioni. E quando il barone è andato alla polizia a denunciare la cosa, quelli gli hanno riso in faccia.
Il mondo di sempre con i suoi punti di riferimento è sconvolto.
Hella va a scuola, ma sembra che non potrà nemmeno imparare a scrivere nella sua lingua. Dall'oggi al domani infatti la maestra è stata cacciata e ne è arrivata una nuova, italiana. Da adesso bisogna studiare solo nella lingua dei conquistatori.
Hella non capisce e fa un sacco di domande: la vecchia maestra è sempre lì nel paese, la incontra tutti i giorni. E allora perché non lavora? Forse non ha più voglia di svegliarsi la mattina? Rosa va a trovarla, le portano un po' di frutta, qualche bottiglia del loro vino. Della situazione politica nemmeno parlano, è evidente a tutti che il nuovo regime ha cominciato dalle scuole la sua opera di italianizzazione, e che i bambini saranno i primi ad andarci di mezzo.
Hella infatti si lamenta un po' perché la sua vita è decisamente peggiorata: adesso la scuola non finisce a scuola, ma ricomincia a casa. Appena tornati bisogna tirare fuori di nuovo il quaderno, per fare gli esercizi di tedesco. Rosa, con tutto quel che c'è da fare, si è dovuta trasformare in una seconda maestra perché la sua piccola possa imparare a leggere e scrivere nella lingua che ha sempre parlato. Ora comincia a diventare pericoloso anche usarla in pubblico. E quanti ragazzini hanno una madre o un padre che possano insegnare loro il tedesco? Sicuramente pochi, troppo pochi. Il tasso di analfabetismo è basso rispetto ad altre regioni, ma senza la scuola la battaglia è persa in partenza.
Come Hella, migliaia di bambini sudtirolesi vivono in questi mesi una grande confusione.
«Mamma, la nuova maestra non la capisco».
«Devi avere pazienza», li esortano le madri.
Ma qualcuno comincia a formulare un altro genere di risposta.
Nelle case si svolgono sempre più spesso riunioni clandestine, organizzate spontaneamente da volontari. Occorre mettere in piedi un sistema alternativo di istruzione nella lingua e cultura tedesca. Si comincia a parlare di Katakombenschulen, scuole delle catacombe, una definizione usata dal canonico Gamper, uno dei primi promotori di questa forma di resistenza. In un suo articolo sul «Volksbote», che conquisterà molti nuovi adepti alla causa, scrive che il modello deve essere quello dei primi cristiani: «Quando essi non furono più al sicuro, officiando le loro messe nei templi pubblici, di fronte alle persecuzioni, allora si ritirarono all'interno del loro focolare domestico. Lì pregavano e sacrificavano insieme. Quando i persecutori arrivarono anche lì, essi si rifugiarono presso i morti nelle tombe sotterranee, nelle catacombe».
Si divide il territorio in tre aree: Bolzano, Merano e Bressanone, per coordinarsi al meglio. Nel 1923 i corsi privati di tedesco non sono ancora stati vietati ufficialmente, ma lo saranno presto e bisogna giocare d'anticipo.
Sono le donne le prime a muoversi a viso aperto. Escono allo scoperto chiedendo che non si cancelli una cultura. Organizzano manifestazioni a Bolzano e in altri centri, e nell'aprile 1924 scrivono direttamente alla regina Elena di Savoia. In quanto madre, pensano, di certo le capirà.
Altezza!
[...] L'eliminazione della lingua tedesca nelle scuole dell'Alto Adige ha portato tanto affanno, fra noi donne di questa terra, che anche oggi non possiamo che trasmettere nelle Vostre mani la nostra umile ma calda implorazione che ci venga lasciato inviolato ciò che un popolo possiede di più sacro, la sua madre-lingua, la quale venga riammessa come lingua d'istruzione nelle nostre scuole.
[...] Perciò noi rappresentanti delle madri dell'Alto Adige preghiamo l'Altezza Vostra di voler farsi fautrice ed interprete di questi nostri naturali diritti, e di patrocinare presso le istanze competenti la richiesta nostra per la conservazione della lingua di insegnamento tedesca nelle nostre scuole.
La gratitudine inestinguibile di tutti i cittadini di nazionalità tedesca ricompenserà la Vostra augusta benemerenza.
Ma la regina non si degna nemmeno di rispondere.
Da Bolzano fino al più piccolo dei paesi, le strade, gli uffici e le amministrazioni pubbliche del Sudtirolo si sono riempiti di fascisti. Vengono sostituiti sindaci, amministratori, funzionari. Si impone rapidamente l'obbligo di esporre cartelli o informazioni nella sola lingua italiana, e qualsiasi tentativo di preservare la cultura tedesca viene sanzionato. Oppressione e repressione sono una cifra comune al regime in tutte le regioni d'Italia, ma altrove si perseguitano gli avversari politici e ideologici. Qui invece la battaglia è più violenta, è una vera e propria colonizzazione quella che le camicie nere hanno in mente. E l'avversione per l'ingresso delle armate italiane nel 1919 si trasforma rapidamente in odio per il fascismo.
La vita di Rosa e dei suoi familiari e amici è diventata una foresta di nuovi divieti, tasse, imposizioni e pericoli. Jakob viene insultato quando si attarda a parlare in tedesco con un amico nella piazza di Neumarkt. Il barone Anton von Longo nel 1925 muore in Austria senza aver potuto rivedere la sua terra. Un conoscente viene picchiato in osteria perché si è rifiutato di ordinare la birra in italiano, un altro, impiegato statale, perde il lavoro perché «è tedesco». Gli affari cominciano ad andare male: non solo c'è una crisi mondiale, ma la nuova classe politica discrimina i proprietari terrieri tedeschi. Tra le nuove imposte e la nuova moneta, che ha comportato una perdita di valore del 40 per cento dei patrimoni in corone, molti masi passano di mano in mano. Spesso vengono acquistati all'asta dai contadini italiani che il governo sta incoraggiando a trasferirsi qui. Cambiano i nomi dei luoghi – Kurtatsch diventa Cortaccia, Neumarkt diventa Egna, Pinzon diventa Pinzano. La vita sociale della comunità tedesca è annullata, ci si ritrova giusto a casa, le feste e i riti popolari sono stati cancellati dal regime che ci vede, non sbagliando, la nostalgia per la vecchia Austria. Viene vietata una tradizione molto amata, i fuochi del Sacro Cuore, considerati una manifestazione anti-italiana. In effetti tante usanze locali non sono italiane, ma di per sé non sarebbero neanche ostili.
Però stanno per diventarlo.
Hella comincia a frequentare le scuole clandestine. Le sedi cambiano continuamente e ogni volta bisogna preparare una copertura, in caso di controlli. Non è facile per i bambini riuscire a concentrarsi. La paura di essere scoperti è più forte della voglia di imparare o della bravura delle insegnanti. Molte di loro sono maestre che hanno perso il lavoro con l'italianizzazione.
Rosa guarda Hella uscire di casa senza cartella o quaderni, non si può portare dietro niente altrimenti qualcuno potrebbe insospettirsi. Non si dà neppure appuntamento con le compagne: va da sola, al massimo portando una fetta di torta per dire che quella è la ragione della sua visita. Una volta arrivata si sistema nella Stube della casa in cui si svolge la lezione, altri bambini arrivano alla spicciolata. A volte Rosa li accoglie a Pinzon, prepara per tutti un succo di lamponi con una buona torta, anche per fingere che si tratti solo di una merenda. La regola è che, se arrivano i carabinieri, i fogli su cui stanno scrivendo devono essere nascosti in fretta in uno dei vani chiusi ricavati nel rivestimento di legno della parete, o sotto il cuscino della poltrona, dove non guarderanno.
Quando arriva la proibizione ufficiale di tenere i corsi, i controlli diventano più severi. Fioccano gli arresti, le multe e vengono comminati i primi «confini» alle maestre. Scrive a Roma il prefetto Guadagnini nel 1925:
Il numero considerevole di scuole clandestine scoperte specialmente nella zona fra Bolzano e Salurn dimostra che esiste in Alto Adige un'organizzazione regolare di resistenza la quale provvede al reclutamento di maestri, all'impianto delle scuole e al finanziamento necessario. Essa deve avere dei fiduciari nei comuni. [...] Occorre prendere accordi con l'autorità giudiziaria direttamente e a mezzo mio per procedere a sequestri e a perquisizioni domiciliari. Si terranno anche a contatto con le autorità scolastiche e daranno precise disposizioni perché sia intensificata al massimo la vigilanza e chiuse immediatamente le scuole scoperte col sequestro del materiale didattico con la denuncia dei responsabili.
La delazione è all'ordine del giorno e ogni volta si deve ripartire da capo, cercando di trovare una nuova casa sicura. D'estate è tutto più semplice, ci si può ritrovare all'aria aperta e fare lezione sul prato, ma il rischio c'è comunque. Bisogna avere coraggio a insegnare ma anche a mandarci i figli. Il sospetto avvelena i rapporti persino tra persone che si conoscono molto bene. I paurosi, gli opportunisti, i collaborazionisti non mancano, come nel resto d'Italia, sotto la dittatura fascista. I bambini vivono sdoppiati: devono fare attenzione a dissimulare le lezioni ricevute.
«Hella, perché hai scritto casa con la k?», chiede un giorno la maestra mentre la piccola sta facendo un esercizio di ortografia alla lavagna. A Hella batte il cuore più forte: da mesi le spiegano che non deve tradirsi, la k o la j in italiano non esistono. È come una dichiarazione di colpevolezza. Alcuni tendono delle trappole agli scolaretti, per permettere alla polizia di risalire alle scuole clandestine. Per questa volta, la maestra lascia correre.
«Non ti preoccupare, ma non scriverla più», si limita a dire.
Lilli Gruber
(Tratto da: Lilli Gruber, Eredità. Una storia della mia famiglia tra l’Impero e il fascismo, Milano, Rizzoli, 2012, pp. 149-156).
Inserito il 16/08/2023.
Per approfondire, dal quotidiano «Alto Adige»
Maurizio Ferrandi
(Merano, Edizioni Alphabeta Verlag, 2020)
Prefazione di Hannes Obermair
Un libro per approfondire la conoscenza sui fantasmi di un passato che occupa ancora le cronache, per capire lo scontro passato e presente tra nazionalismi contrapposti. Di questo volume riportiamo la Prefazione dello storico bolzanino Hannes Obermair, attualmente docente di Storia contemporanea all’Università di Innsbruck.
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Ettore Tolomei, l’uomo che inventò l’Alto Adige
Freschi di stampa. Maurizio Ferrandi torna 30 anni dopo con una nuova edizione del libro Lo scontro tra i nazionalismi e i fantasmi di un passato che occupa ancora le cronache Lo storico Hannes Obermair: «Era allora e resta oggi una monografia controcorrente»
A oltre trent’anni dalla prima pubblicazione, è arrivata da pochissimo in libreria per le Edizioni Alphabeta, una nuova e aggiornata edizione dell’unica monografia sinora dedicata a Ettore Tolomei, che ripercorre minuziosamente la vita di un uomo paradigmatico, che indaga una personalità nella quale si riflettono i grandi avvenimenti che segnano la storia dell’Alto Adige, diventato teatro di uno scontro tra nazionalismi tuttora vivi e presenti nella cronaca quotidiana. Il libro è firmato da Maurizio Ferrandi. Per gentile concessione dell’editore, pubblichiamo qui di seguito la prefazione al volume, scritta dallo storico Hannes Obermair.
Bolzano. Quando nel lontano 1986 uscì presso un coraggioso editore trentino il libro Ettore Tolomei. L’uomo che inventò l’Alto Adige, una generazione sudtirolese come la mia, imbevuta delle lezioni progressiste e universalistiche degli ultimi anni di Guerra fredda (che in verità pensavamo sarebbe durata in eterno), si strofinò non poco gli occhi. Ma come, un intellettuale bolzanino di lingua italiana si era prodigato a decostruire proprio Ettore Tolomei?
La verità nera
Maurizio Ferrandi, il suo nome, aveva osato mettere in luce la “verità nera” (proprio così la chiama Roland Barthes nelle sue stratosferiche Variazioni sulla scrittura) del nazionalismo italiano? In poche parole, stavamo assistendo a quello che Alexander Langer aveva chiesto ai dissenters sudtirolesi – divenire un “traditore etnico”? Ebbene sì, qui qualcuno aveva saltato il fosso e gettato il cuore oltre l’ostacolo, anzi il filo spinato, dei reciproci veti e delle contraddizioni etnopolitiche che avevano bloccato così a lungo questo territorio dalle innegabili potenzialità. Brevemente rientrato allora da Innsbruck (dove come molti altri pensavo di rimanere per sempre, giacché a Bolzano l’era glaciale sembrava non finire mai, e infatti girai per altri anni tra Vienna e Monaco), con una certa trepidazione comprai il libro con la copertina rossa e con un titolo che era già un programma. Un libro che descriveva e criticava, pagina dopo pagina, il dna dello sciovinismo italiano in salsa altoatesina. Evento inaudito e alquanto incredibile in quegli anni. Uso queste parole forti per cercare di far rivivere lo stupore prima e l’ammirazione poi per l’operazione editoriale del 1986. Le nostre – o forse è meglio che dica le “mie” – emozioni erano allora profondamente miste: in Austria Kurt Waldheim batteva la cassa fascistoide e veniva eletto presidente, a Haider era appena riuscito il Putsch di Innsbruck, mentre Gorbačëv aveva appena annunciato la Glasnost. Ero combattuto tra il pessimismo del rigurgito revanscista e neonazista, e l’ottimismo della verità che libera dai fantasmi del passato. Ferrandi colse questo spirito in pieno, a mio avviso. Ed è significativo che lo dovette fare, editorialmente parlando, a sud della Chiusa di Salorno, la quale spesso era – ed è tuttora – anche una chiusura mentale.
Il neofascismo nostrano
Allora cercavo di spiegarmi l’esilio tipografico con fattori contingenti, però era difficile non scorgere il risorgere del neofascismo nostrano con l’MSI trionfante a Bolzano città, gli Schützen che protestavano al congresso SVP di Merano, le prime mosse terroristiche di Ein Tirol, ma anche la «bibbia dell’italiano incazzato» (Langer) che fu Sangue e suolo di Sebastiano Vassalli, pubblicato già nel 1985, non da Publilux ma da Einaudi. Ecco, doveva essere il contrario, era questo il mio pensiero di allora: Ferrandi da Einaudi, con tutto il rispetto per l’editore di Trento. Oggi, potendo riconoscere le ragioni di entrambi (e Vassalli contribuì non poco a questo revirement, con la sua ritrattazione pubblicistica del 2015), penso che Ferrandi fu molto più coraggioso di Vassalli, anzi, lo considero un “ardito” di sinistra (talvolta dobbiamo scippare anche noi i concetti all’altra parte). Egli affrontava quel percorso difficile e spinoso dell’analisi nuda e cruda che Claus Gatterer prima e Leopold Steurer dopo avevano intrapreso con le loro opere sul versante tedescofono: indagare l’indole propria, non quella altrui, i casini fatti in casa, per così dire. Noli foras ire, in te ipsum redi, come l’antesignano Agostino esternava nelle Confessioni. L’onestà intellettuale di Ferrandi, mi pare di capire, non fu però compresa né recepita, come avrebbe invece pienamente meritato. Sarebbe uscita, solo un anno più tardi, la monografia di Gisela Framke sul Tolomei, che sembrava soddisfare i lettori di lingua tedesca, ma non certo placare i revanscismi sudtirolesi à la Josef Rampold o Othmar Parteli, che vollero fissare per sempre l’immagine tolomeiana del “becchino del Sudtirolo” e oscurare al contempo l’aggrovigliamento nazista della propria parte. Ma torniamo al testo di Ferrandi. Esso merita a pieno titolo di essere riproposto, quasi trentacinque anni dopo la sua prima uscita, perché non è per nulla invecchiato. E non lo è per due motivi.
Una controlettura
Il testo di allora era un’acuta controlettura di un personaggio travisato – nel mettere in luce tutti i tratti odiosi di un ultranazionalista come Tolomei, Ferrandi spiegava anche gli ingredienti di una Weltanschauung siffatta e ci vaccinava pertanto contro ogni sua riproposizione. Ma andava oltre, mettendo in luce le “ragioni” di tale aberrazione. Questo è l’illuminismo, mi dicevo allora, e lo penso tuttora. «Usa la tua mente» come ebbe a pronunciare Kant. Non credere alle mitizzazioni, riporta le cose al loro nucleo originario, riducile all’osso. Ferrandi pone in luce le angosce profonde di ogni nazionalismo che teme di perdere, sempre. Perdere l’identità (e nessuno è mai stato in grado di definire cosa quest’entità misteriosa fosse), l’egemonia economica e sociale (e qui ci siamo). La lettura di Ferrandi – ed è per questo che continua a convincere – mette a nudo la debolezza di ogni discorso identitario, anche contemporaneo.
Un vangelo nazionalista
Un discorso di principio, e quasi assiomaticamente recessivo perché sempre volto alla scomparsa paventata, che racchiude anche l’aspetto più moderno di Tolomei, ovvero la sua creatività nominalistica. Sappiamo cosa sono le fake news molto prima di Trump, che condivide con Ettore non solo la T del nome di famiglia. Divulgando notizie in modo distorto e inventando i nomi si costruisce una realtà che prima non c’era, disegnando cartine controfattuali si istituisce un nuovo stato delle cose, predicando il vangelo nazionalista si promette un cielo nazionale, distinto anch’esso per bandiere. Ecco, qui sta la forza del libro di Ferrandi, una forza che indubbiamente trascende la figura descritta, di certo mediocre. La sua monografia, controcorrente negli anni Ottanta, era ed è radicale proprio per la sua estrema onestà intellettuale. Mentre altri autori di lingua italiana, con pochissime eccezioni, andarono semplicemente avanti – ed è anche la via più semplice – a denudare l’innegabile filonazismo sudtirolese o a concentrarsi su una visione manichea e comunque vuota delle realtà locali, Ferrandi affrontò a viso scoperto tutte le insidie del caso tolomeiano riportandolo al suo nucleo originale: la paura.
Due citazioni
Alla prima edizione, così come a questa, del libro sono anteposte due citazioni congeniali del grande George L. Mosse e de «L’Illustrazione italiana» (che forniva peraltro il motto del titolo), le quali racchiudono il campo d’indagine: predominio e imposizione. Aggiungerei Eric Hobsbawm, cui dobbiamo il fortunato assunto dell’“invenzione della tradizione”, e Benedict Anderson, che ha smontato il concetto di “nazione” quale comunità politica immaginata, e intrinsecamente falsa. È su questa falsariga di demistificazione che si muove la riedizione del libro di Maurizio Ferrandi. Non negando il nucleo originario della prima edizione, anche perché non vi sarebbe ragione alcuna, egli aggiunge ulteriori considerazioni, alla luce del tempo trascorso da allora. Non deve rinnegare nulla di quello che ha scritto mentre il reattore di Černobyl’ e lo space shuttle Challenger esplodevano facendoci tornare in mente la scritta nefasta apparsa su un muro alla corte babilonese di Nabucodonosor. Anzi, l’autore integra e attualizza, aggiungendo non solo considerazioni puntuali sulle carte tolomeiane scomparse – e tutto sommato irrilevanti, in quanto il personaggio aveva già avuto modo di rendere pubblico per intero il suo pensiero, virgole comprese, sulla sua rivista, l’«Archivio per l’Alto Adige», o nelle sue Memorie di vita (scritte con una presunzione che oggi potremmo definire “sgarbiana”) –, ma andando oltre la sua figura e inabissandosi nel suo erede ideale, Carlo Battisti. Il glottologo trentino, editore del monumentale Dizionario toponomastico atesino, ne fu il successore intellettuale, disponendo tuttavia di strumenti decisamente più scientifici e oggettivanti. È qui che traspare la verve, il fegato di Ferrandi, ovvero il coraggio nell’affrontare di nuovo i deragliamenti ideali di una scienza piegata alla politica, e pertanto rivelatrice di un qui pro quo: mantenere la presunta superiorità morale sull’altro, anche se la posizione propria, a ben vedere, si è dileguata o sfasciata. La grandezza del libro di Maurizio Ferrandi, giustamente riproposto e ampliato, sta tutta qui: esso testimonia con forza che le contrapposizioni sudtirolesi non hanno ragione di esistere, e ove ci sono, devono essere analizzate, criticate e sbiadite alla luce della “ragion pura”, come il sapiente di Königsberg-Kaliningrad ci ha insegnato.
Hannes Obermair
(Tratto da: Hannes Obermair, Prefazione al volume: Maurizio Ferrandi, Il nazionalista. Ettore Tolomei, l’uomo che inventò l’Alto Adige, ripreso dal quotidiano «Alto Adige», 9 dicembre 2020; URL: https://www.altoadige.it/cultura-e-spettacoli/ettore-tolomei-l-uomo-che-invent%C3%B2-l-alto-adige-1.2495543, visitato il 09/09/2023).
Inserito il 09/09/2023.
Alexander Langer (1946-1995).
Dalla rivista «Belfagor» – 1986
di Alexander Langer
C’è stata nella sinistra sudtirolese e italiana una figura che ha unito, quella di un vero e proprio costruttore di ponti tra culture e idee diverse: Alex Langer, un intellettuale originale, che ha scelto di uscire di scena troppo presto.
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Minima personalia
di Alexander Langer
Prima parte
«Perché papà non va mai in chiesa?». Crescendo a Sterzing (950 m, 4000 abitanti), in una famiglia democratica e borghese, che a casa parla in lingua (tedesca) invece che in dialetto tirolese e nella quale si respira un clima molto rispettoso e tollerante, mi inquieta molto il fatto che mio padre non vada mai in chiesa.
Un giorno, approfittando del mio compleanno, oso chiedere alla mamma il perché. Me ne sento un po’ in colpa, come anche per il fatto di non parlare in dialetto. «Il papà, stando in ospedale tutto il giorno e tutti i giorni (era l’unico medico chirurgo del circondario) serve Dio in altri modi – te lo potrà confermare il cappellano che va bene così.» Il cappellano, un prete cecoslovacco in esilio, conferma.
Più tardi mia madre mi spiega anche che mio padre è di origine ebraica e che non conta tanto in che cosa si crede ma come si vive. Lei, in quegli anni, fa parte del consiglio comunale, come indipendente eletta sulla lista «tedesca» della Svp, ma ne esce presto, quando il clima peggiora e la richiesta di avere antifascisti in lista non è più così forte.
Nella mia cittadina, che amo molto, sento una certa estraneità che mi rende facile il passaggio precoce alla scuola media, a Bolzano, dai francescani. Faccio il pendolare settimanale con Bolzano, per la scuola (a Vipiteno, paradossalmente, solo gli italiani hanno le scuole superiori: un quarto della popolazione, ma con i figli degli ufficiali). Chiedere il biglietto o un’informazione in tedesco è impensabile. In città ci si sente proprio in minoranza, da tirolesi. Sul mio autobus (linea 3 di Bolzano) siamo solo due bambini di lingua tedesca. I fascisti fanno cortei per l’Ungheria e per «Magnago a morte». Me ne sento minacciato anch’io e comincio a sentire il fascino della resistenza etnica.
Ogni sabato leggo la terza pagina del «Dolomiten» che riporta capisaldi della storia sudtirolese, informa sui soprusi degli italiani, delle promesse non mantenute dallo Stato, di come si viveva sotto il fascismo. Il processo contro i «ragazzi di Pfunders» (accusati – credo ingiustamente – di avere ucciso un finanziere, in seguito ad una lite d’osteria, e duramente condannati) mi emoziona e mi indigna. Quando una mattina, passando in treno da Waidbruck (Ponte Gardena), vedo che il «duce di alluminio» è stato fatto saltare di notte, ne sono contento. Fanfani prometterà poi di ripristinare quella statua equestre al «genio italico» che rappresentava Mussolini a cavallo, ma non succederà mai.
«Perché noi non odiamo gli italiani?». Percepisco che il clima in casa è diverso da quello fuori, anche nella seconda metà degli anni ’50, quando si va verso gli attentati dell’autonomismo ed irredentismo tirolese. So già abbastanza bene l’italiano: i genitori ci tengono che a scuola io lo studi bene, e mi avevano persino mandato all’asilo italiano. Insieme ai fratelli registro la differenza etno-linguistica tra la gente come un gioco: per strada ci mettiamo a indovinare chi è «tedesco» e chi «italiano», e verifichiamo col saluto. Non ci si sbaglia quasi mai.
Dopo i primi attentati avverto una certa differenza di tono tra mia madre (più solidale con le ragioni tirolesi) e mio padre (più preoccupato dei possibili rigurgiti nazisti). Più marcata è la differenza di toni in famiglia e fuori. Mi sento un po’ insicuro se un «ciao» italiano – usato in famiglia – possa essere un tradimento, una dissociazione.
A mia madre chiedo: «perché noi non odiamo gli italiani?».
Mi spiega, tra l’altro, che se è vero che i fascisti hanno licenziato mio padre nel 1938, per via delle leggi razziali, è anche vero che dopo il ’43 sono stati degli italiani a salvargli la vita: il magistrato toscano Giovanni Bigazzi, l’avvocato trentino Domenico Boni, uno sconosciuto contrabbandiere e qualcun altro. E che, viceversa, lei ed i suoi genitori, perché contrari all’opzione per la Germania di Hitler, erano stati isolati nel paese. «Né tutti i tedeschi, né tutti gli italiani sono buoni o cattivi, bisogna distinguere».
Bandiere. Mi piace molto girare il mondo, e per fortuna i genitori me lo permettono, anche se vado molto da solo. A piedi, in montagna, nei dintorni di Sterzing; in bicicletta, con un raggio d’azione che arriva fino al lago di Garda, all’Engadina, nel Nordtirolo; poi con un ciclomotore che mi regalano: scopro la pianura padana, la Lombardia, la Toscana, l’Umbria, i monumenti studiati nella storia dell’arte, i luoghi di cui ho letto nei libri. Più tardi l’Europa. Mi piace dormire negli ostelli, conoscere giovani di altri paesi. Ho sempre trovato complicato spiegare da dove vengo. «Ma allora sei italiano o tedesco?».
Nessuna delle bandiere che spesso svettano davanti a ostelli o campeggi è la mia. Non ne sento la mancanza. In compenso riesco, con il tedesco e l’italiano, a parlare ed a capire nell’arco che va dalla Danimarca alla Sicilia.
(A proposito di bandiere: a casa mia non si è mai issata la bandiera tirolese, né alcun’altra bandiera. Nella festa del Sacro Cuore passava qualcuno che si segnava sul taccuino le case con bandiera. Per conto del partito tirolese. Un altro faceva la stessa cosa, per conto della Questura.)
Né giudeo né greco. Il primo ideale universale che riesce a convincermi ed a coinvolgermi è quello cristiano. I miei genitori non ne sono entusiasti, ma non mi reprimono. Leggo, rifletto, prego. «Mi impegno», sentendo questo impegno come cosa molto seria. Cerco di lavorare in senso ecumenico, come in quel tempo si dice: per il superamento della concorrenza tra associazioni cattoliche; per un dialogo e conoscenza reciproca con i (pochi) protestanti di Bolzano; per momenti comuni tra cattolici italiani e tedeschi. Ognuno di questi gradini presenta qualche difficoltà in più rispetto a quello precedente. Sono gli anni del Concilio. Molte le aperture e le speranze. È bello sentirsi parte di una comunità universale in cui non si distingue «né giudeo né greco». Ci rimango anche durante gli anni dell’Università, nella Fuci.
Come non sono diventato comunista. Magari per sensi di colpa, magari per sensibilità sociale cristiana, magari per istinto di giustizia sento molto interesse «per i poveri» e per le questioni sociali. Con altri organizzo un servizio per portare legna a vecchi indigenti. Do lezioni gratuite a ragazzi poveri. Mi piacerebbe anche sapere (e far sapere) come sono i comunisti. E benché da noi del comunismo ci si faccia un’idea piuttosto per aver sentito parlare di Budapest o di Praga che non del sindacato o della resistenza, prendo il coraggio a quattro mani e vado ad intervistare per il nostro periodico di liceo («Offenes Wort», “parola aperta”, da me fondato) il segretario della Federazione giovanile comunista Anselmo Gouthier, uno che poi farà carriera fino alla segreteria del partito ed al Parlamento europeo. Si parla in italiano, sono fiero di riuscire a condurre un’intervista in una lingua non mia. Gouthier parla di frontiere inviolabili, e che se si mette in discussione il Brennero, vacilla anche l’Oder-Neisse.
Cerco di capire cosa fanno i comunisti, e vengo a sapere che tengono «attivi». Per essere un’intervista che a scuola e presso i francescani mi costa caro, mi sembra molto magra e deludente. Forse se mi avesse spiegato in termini semplici che il mondo non si divide solo in italiani e tedeschi, credenti e non credenti, buoni e cattivi, come magari io lo vedevo, ma anche in classi, e che questo lo si poteva riscontrare anche nella realtà sudtirolese, chissà… Così invece mi appariva più concreta la San Vincenzo. E solo molti anni dopo ho saputo che a Bruneck (Brunico) in quegli anni qualcuno aveva fatto del marxismo uno strumento critico per capire meglio la situazione in cui agiva. Ma era stato a studiare fuori.
Un gruppo misto. Insieme a diversi amici comincio a capire – a metà degli anni ’60 – che forse un «gruppo misto» può essere la chiave per capire ed affrontare i problemi del Sudtirolo: sperimentare la convivenza in piccolo. Il gruppo si raccoglie, i più sono di provenienza cristiana, qualche non credente, ragazze e ragazzi, di madrelingua tedesca, italiana, ladina. Cominciamo a incontrarci regolarmente, a studiare insieme la storia della nostra terra (scoprendo le reciproche omissioni e reticenze), a farci un’idea di come potrebbero andare le cose. Ci sentiamo impegnati contro gli attentati (ormai di matrice neonazista, e con i servizi segreti implicati), per una giusta riforma dell’autonomia, per un futuro di convivenza e rispetto, nella conoscenza reciproca di lingue e culture. (Ma io, per non essere chiamato «Alessandro» dagli amici italiani, che allora trovavano naturale tradurre tutto in italiano, preferisco ricorrere all’abbreviazione «Alex».)
Ci sforziamo di fare in modo che le critiche ai «tedeschi» vengano formulate da «tedeschi», e viceversa. Il nostro gruppo non ha nome, non compare in pubblico, ma in breve diventa un nucleo di elaborazione e di proposta che nel 1967 se la sente persino di indire un convegno, con 200 partecipanti, promosso da «6 giovani sudtirolesi» (i firmatari dell’invito di convocazione), con un benevolo appoggio di Umberto Segre su «Il Giorno».
Comprendiamo che ci occorrono amici anche fuori provincia, e che dobbiamo creare rapporti con l’opinione pubblica democratica italiana ed austriaca, se vogliamo uscire dal periodo delle bombe ed entrare in una stagione democratica ed autonomistica. Comincia a far riferimento al nostro gruppo – tuttora piuttosto impolitico, e senza legami con alcun partito – anche Lidia Menapace, allora assessore provinciale (Dc) alla sanità, una delle poche persone di madrelingua italiana pienamente convinte della necessità di una riforma coraggiosamente autonomistica dello statuto sudtirolese. Insieme a Lidia in autunno faccio una tournée di buona volontà a Roma, a Innsbruck, a Vienna. Aiutati dal Mir (Movimento internazionale di riconciliazione) teniamo conferenze sull’Alto Adige, ed abbiamo qualche incontro con personalità di rilievo, tra cui il card. König di Vienna.
La nostra ispirazione e la nostra pratica – per niente estremista e lontana dal popolo – avrebbe potuto costruire la base sociale ed ideale per dare respiro e sbocco al «pacchetto di autonomia». Invece le forze dominanti (Dc, Svp) preferiranno un accordo tutto diplomatico, concordatario, basato sulla reciproca delimitazione e contrapposizione dei gruppi etnici come blocchi.
Dissidenti sudtirolesi. A metà degli anni ’60 comincia a manifestarsi un po’ più liberamente il dissenso sudtirolese di lingua tedesca. Principale luogo di incubazione: la Südtiroler Hochschülerschaft , l’associazione degli universitari, i quali – essendo il Sudtirolo privo di Università – sono sparsi in numerose città universitarie, a maggioranza in Austria: Innsbruck, Vienna, Graz, Padova, Firenze, Milano, Bologna, Salisburgo, Roma, Monaco, Zurigo, Venezia…
Sarà questa la prima – ed a tutt’oggi l’unica – organizzazione di massa sudtirolese in cui prevale, fin da quel tempo, una maggioranza non conformista. Mi ci impegno anch’io, rafforzato dal fatto di avere un «gruppo misto» alle spalle. I nostri temi principali sono la battaglia per la democratizzazione ed il pluralismo ideale e politico nella comunità di lingua tedesca.
Non ci basterà lo «Skolast», la rivista degli universitari. Con Siegfried Stuffer e Josef Schmid fondiamo «die brücke» (“il ponte”) nel 1967. Non sempre siamo d’accordo su tutto: quando scrivo della necessità di una «nuova sinistra» (novembre 1967) e di arrivare all’organizzazione pluri-etnica nella politica sudtirolese (1968), il collettivo redazionale vuole sottolineare che si tratta di idee solo mie. Sul «pacchetto» si delinea una posizione comune: fare presto ed andare oltre.
Nel 1969 «die brücke», che dal 1968 aveva cominciato ad ospitare articoli anche in lingua italiana, cessa le pubblicazioni. Le strade dei redattori si dividono: chi approda alla socialdemocrazia sudtirolese, chi al partito comunista, chi alla sinistra extra-istituzionale. Nel nostro «laboratorio letterario» hanno pubblicato le loro prime opere Norbert C. Kaser, Joseph Zoderer, Roland Kristanell ed altri. E nell’insieme «die brücke» aveva dimostrato la possibilità di un cammino autoctono della giovane sinistra tirolese.
Tra i suoi interlocutori più solidali e disponibili troviamo l’avv. Sandro Canestrini, uomo di sinistra che ha saputo capire e distinguere tra i «dinamitardi» tirolesi e il bacillo neonazista.
Firenze. Senza molta convinzione mi iscrivo a Giurisprudenza. Con molta convinzione vado a studiare a Firenze. Ci resto intensamente dal 1964 al 1967. Meno intensamente ci starò anche nel 1968. Non me ne pentirò mai. Sono gli anni del dialogo tra cattolici e marxisti. Vengo a conoscere la variegata sinistra italiana. Scopro in particolare la sua componente popolare.
Incontro Giorgio La Pira, mio professore; Ernesto Balducci, che ogni settimana tiene una lezione sul Concilio, al cenacolo. Entro in contatto con «Il Ponte» di Enriques Agnoletti (pubblicherà nel 1967 un mio lungo articolo sul Sudtirolo), con «Testimonianze» (che anche mi invita a scrivere), con «Politica» (idem). Conosco Giorgio Spini, Paolo Frezza, Enzo Mazzi, Paolo Barile (con cui mi laureo), tanti altri. Imparo ad apprezzare i pregi della democrazia italiana. Vedo i comunisti da vicino, seguo le vicende del dissenso cattolico, vado ai dibattiti, faccio amicizie.
L’incontro più profondo è con Don Milani e la sua scuola di Barbiana, per la quale insieme ad una vecchia ebrea austro-boema, Marianne Andre, tradurrò in tedesco Lettera ad una professoressa (pubblicata nel 1970). Come farò a non diventare «maestro» anch’io?
Il ’68 in provincia. Per il forte impegno locale passo il quarto anno di Università prevalentemente a casa, nel Sudtirolo. Così mi capita di partecipare ai movimenti del ’68 in periferia. La nostra campagna anti-Springer, virulenta e convinta, è contro il monopolio del «Dolomiten» e l’editore Ebner. Pubblichiamo sulla «brücke» articoli sul movimento studentesco (ma abbiamo scarsi contatti con Trento). Nel corso della mia prima supplenza di tedesco, al liceo scientifico italiano di Bolzano, occupiamo la scuola per alcuni giorni; tra le rivendicazioni degli studenti: imparare il tedesco così bene come i loro coetanei tirolesi imparano l’italiano.
Durante una visita del ministro Gui per la campagna elettorale della Dc assediamo il Municipio con un grande sit-in. Il ministro deve uscire dalla porta di servizio.
In primavera voto Pci (se fossi stato a Firenze, avrei votato per il Psiup), con preferenza al candidato di lingua tedesca. È il mio primo voto, dato in mancanza di meglio. In estate, con amici, visito la Germania orientale e la Cecoslovacchia, dove assisto all’invasione sovietica ed ai primi giorni di occupazione (rimaniamo più a lungo che si può).
In autunno lavoro per conto del Cnr a Bonn, per una ricerca di diritto costituzionale comparato, e conosco più da vicino l’Apo (opposizione extra-parlamentare).
La Germania, l’Austria. La mia formazione «letteraria» (dalle fiabe ai libri di avventura, dai classici ai contemporanei) è avvenuta praticamente tutta in lingua tedesca. I miei studi, i miei incontri, le mie frequentazioni invece hanno un segno più italiano. Così mi resta una forte domanda di conoscenza del mondo di lingua tedesca dall’interno. Dopo la conclusione del corso di studi a Firenze, cerco e trovo occasioni per fare questa conoscenza ravvicinata, che mi accompagnerà poi per sempre.
Un anno a Bonn, con il mio posto di lavoro alla biblioteca del Bundestag e l’iscrizione come Gasthörer all’Università; viaggi in molte città tedesche, austriache e svizzere; articoli pubblicati – dal 1967 – su giornali e riviste di questi paesi; amicizie o scambi epistolari; un secondo soggiorno prolungato in Germania (autunno 1973 - estate 1975) con la costruzione di un vero e proprio osservatorio politico e sociale (per conto di «lotta continua») sui paesi dell’Europa centrale e nordica, e con numerosi contatti con operai e sindacalisti tedeschi, austriaci, immigrati, gruppettari, militanti, studiosi.
Diventa sempre più ricco, più fitto e più variegato il reticolo di rapporti, di scambi, di ponti.
Nel periodo in cui a nord delle Alpi si guarda con interesse ed invidia all’Italia, sono ritenuto «esperto» di cose italiane: nelle conferenze e nei dibattiti che tengo a Berlino, a Vienna, ad Amburgo, a Innsbruck, a Berna, a Francoforte, a Colonia, a Utrecht, parlo delle lotte, delle organizzazioni sociali, della particolare spontaneità ed autonomia di classe in Italia; a sud delle Alpi, insieme ad altri compagni, cerchiamo di far conoscere la realtà del «proletariato multinazionale europeo».
Più tardi le parti si invertiranno, per qualche tempo, ed in Italia scoppierà la voglia di conoscere la Germania, l’Austria, i verdi, le Bürgerinitiativen. Sul mio ponte si transita in entrambe le direzioni, e sono contento di poter contribuire a far circolare idee e persone. Non mi viene mai alcun senso di inferiorità rispetto ai tedeschi delle madrepatrie: a volte mi sembra, anzi, che da sudtirolese certe cose della cultura tedesca si apprezzino di più.
Il primo sciopero sudtirolese. Nel 1969 l’autunno caldo ha riflessi persino nel Sudtirolo. I1 17 settembre c’è lo sciopero nazionale dei metalmeccanici. Decidiamo di portarlo davanti ai cancelli di una fabbrica sudtirolese: la Durst, a Brixen (Bressanone).
In una decina di persone, prevalentemente di lingua tedesca, siamo lì all’alba. Per essere creduti mostriamo il «Dolomiten» che annuncia lo sciopero nazionale. Si formano subito capannelli, quasi nessuno entra. Una segretaria di direzione inveisce e strilla contro di noi. Gli operai del pullmino della valle non varcano il cancello.
Quando arriva di gran carriera il direttore del personale, chiamato d’urgenza, investe con la macchina un operaio. È la goccia che fa traboccare il vaso: «pensate se l’avesse ferito gravemente o ucciso… il Gasser ha quattro figli!».
Lo sciopero riesce in pieno, facciamo un’assemblea con gli operai nell’osteria vicina, veniamo festeggiati, ci pagano da bere.
Parliamo di rivendicazioni ugualitarie, troviamo consenso. Quando poi ci capita di parlare con un operaio che nel suo paese fa il sagrestano, e proponiamo qualche idea ugualitaria anche per l’andamento delle cose di chiesa, lui è decisamente contrario. Ma si complimenta con noi per la riuscita dello sciopero.
Ancora dopo anni ripenso con piacere a questo sciopero.
Intanto i padroni si faranno più avveduti, e per distribuire un volantino agli operai pendolari della Val Sarentino o della Val di Non bisognerà inseguirne la corriera fino ai luoghi di origine.
(1/2. Segue)
Alexander Langer
(Tratto da: Alexander Langer, Minima personalia, in «Belfagor», Vol. 41, N. 2, 31 marzo 1986, pp. 201-211).
Inserito il 06/08/2023.
di Alexander Langer
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Minima personalia
di Alexander Langer
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Giornali. Scrivo molto, forse troppo, per svariati giornali e riviste (amo, invece, i giorni senza giornali). Non so dire di no a chi me lo chiede. Così non arrivo mai a scrivere un libro: quello che mi premerebbe tanto, sarebbe un buon libro per capire il Sudtirolo; in versione italiana e tedesca.
Dall’inizio degli anni ’60 scrivo articoli. Ho contribuito a fondare e dirigere diversi giornali: in particolare «Offenes Wort», «die brücke», «Tandem», sono i giornali non certo più prestigiosi, tra quelli dove pubblico articoli, ma ci sono più affezionato. Per un certo tempo faccio il direttore responsabile (per la legge) a «lotta continua», dove svolgo anche il mio praticantato per diventare, previo esame, giornalista professionista. Il progetto giornalistico al quale terrei maggiormente sarebbe un buon giornale bilingue (settimanale prima, quotidiano poi) per il Sudtirolo, come prefigurato da «Tandem» (1981-82). Ma occorrerebbe un qualche tangibile sostegno democratico dall’Austria, dall’Italia, forse dalla Germania. Ed invece arrivano sempre solo deplorazioni quando le bombe sono già scoppiate. Per il resto solo comprensione ed incoraggiamenti generici.
L’insegnamento. Svolgo con grande impegno e passione il compito di insegnante. In due periodi (1969-’72, 1975-’78) la scuola mi assorbe con particolare intensità. Insegno filosofia e storia, nei licei classici di lingua tedesca a Bolzano e Merano, in un liceo scientifico della periferia di Roma (XXIII liceo scientifico statale).
La mia vita nella scuola non è facile, costellata di trasferimenti punitivi, di note di qualifica con «sufficiente» e «buono», con frequenti interventi repressivi di presidi e provveditori. Mai un appunto sulla qualità della mia preparazione o dell’insegnamento, o un richiamo per scorrettezze disciplinari. Mi si rimprovera di «fare politica» e di non rispettare i ruoli prestabiliti.
Il rapporto con gli alunni, invece, è gratificante e durevole.
Assai diversa la situazione nel Sudtirolo ed a Roma. Mentre a Bolzano e Merano la scuola è un luogo reale di acquisizione di sapere, decisivo nella formazione intellettuale degli studenti (che in maggior parte provengono dalle campagne, abitano in collegio e prendono la scuola molto sul serio), a Roma si vive tra collettivi, cortei, assemblee ed occupazioni. Ma anche lì un passaggio decisivo nella socializzazione degli alunni si compie a scuola.
Credo – immodestamente – che la maggior parte dei miei studenti con me abbia imparato qualcosa di interessante e di importante, e ne serbi un buon ricordo. Con molti di loro il rapporto è ancora vivo.
Di Roma ricordo con piacere l’intensa solidarietà e cooperazione con molti colleghi-compagni, nel quadro di una insolita sezione sindacale Cgil.
Con i muli. Svolgo il servizio militare tardi (a oltre 27 anni), dopo aver sperato tanto di evitarlo (grazie ai due fratelli chiamati prima di me) ed aver studiato tutte le possibilità alternative (obiezione e carcere; servizio all’estero con la legge Pedini). Quando ci vado, penso alla caserma come ad un luogo di lotta di classe e di ricomposizione del proletariato, ed in quel senso mi propongo di agire, tra i «proletari in divisa». Parto con alle spalle una recentissima assoluzione per insufficienza di prove per vilipendio alle forze armate, e finisco così in una caserma punitiva dell’artiglieria di montagna, a Saluzzo, con i muli, una disciplina rigida e una speciale e dichiarata sorveglianza a mio carico.
È il periodo della mia vita in cui sopporto la maggiore fatica fisica e mi trovo tra contadini ed operai non per aver scelto di «andare tra il popolo», ma per esserci stato mandato, mio malgrado, su un piede di perfetta parità.
Mi dà una grande soddisfazione che pochi giorni dopo il congedo (settembre 1973, dopo il golpe di Pinochet) un buon nucleo del nostro contingente si ritrovi davanti alla caserma per una manifestazione. Saluzzo ci guarda con stupore.
Lotta continua. L’adesione a Lotta continua – alla fine del 1970 – giunge al termine di un processo collettivo di ricerca: in parecchi, a Bolzano, sentiamo l’esigenza di legarci ad una realtà più grande di noi.
Dopo aver sondato il panorama di gruppi ed organizzazioni – e dopo che qualcuno aveva compiuto altre scelte individuali (per es. nel «manifesto») – arriviamo a considerarci parte di Lc. C’è probabilmente anche qualcosa di regressivo in questa ricerca di «affiliazione», e sicuramente anche una buona porzione di ideologia; ma soprattutto la voglia di partecipare direttamente ed attivamente ad un processo storico che riteniamo promettente, liberatorio, «rivoluzionario», che – ci rendiamo conto – avrà i suoi epicentri altrove, non nel Sudtirolo; e questo in certa misura relativizza i problemi ai quali finora ci eravamo prevalentemente dedicati.
In Lc troviamo l’esaltazione di momenti di spontaneità, di combattività fuori dal dogma o dalla tradizione del marxismo ufficiale, e la valorizzazione di protagonisti che non vengono dalle canoniche roccheforti rosse.
«Reggio Calabria - Sudtirolo, la lotta contro lo stato» è il titolo del mio primo paginone sul quindicinale «lotta continua»: ritengo che in LC anche la nostra particolare esperienza locale possa trovare spazio e respiro, ed inserirsi in un processo più universale.
Ed è con Lc che lascio per la terza volta il Sudtirolo, dopo il servizio militare, e vado in Germania, dopo essermi occupato nei primi anni di adesione principalmente delle «situazioni arretrate» (come quella di Bolzano) e dei «proletari in divisa». Negli anni successivi mi dedico agli «esteri» ed acquisisco conoscenze e competenze intorno a problemi internazionali, e comincio poi a scrivere – una volta passato, nel 1975, a Roma – regolarmente sul quotidiano «con la testata rossa».
Partecipo al congresso di autoscioglimento di Lc a Rimini (fine 1976), dove sotto la spinta delle femministe l’organizzazione si dissolve. E mentre alcuni dirigenti di Lc di primo piano (a partire da Adriano Sofri) si ritirano totalmente, mi sembra di dover contribuire insieme ad altri compagni (tra i quali Paolo Brogi, Franco Travaglini, Enrico Deaglio, Clemente Manenti) all’«atterraggio morbido», proprio per evitare una rovinosa ed inconsulta ritirata o un’altrettanto rovinosa ed inconsulta radicalizzazione dei militanti la cui fiducia – che avverto – mi responsabilizza fortemente. È un lavoro un po’ da epigoni, e varie volte tento di sottrarmene, ma ogni volta una nuova emergenza mi richiama: il movimento del 1977, i morti di Stammheim e l’inverno tedesco, il rapimento Moro…
Nell’impegno del quotidiano «lotta continua» a sostegno dei referendum radicali (raccolta di firme nel 1977, campagna per il voto nel 1978) vedo un utile sbocco e caldeggio con molta energia questa scelta. Solo nell’estate del 1978 penso di potermi permettere il ritiro graduale dalla redazione e dai residui collegamenti organizzati.
“Spiegare il Sudtirolo”. Da decenni, ormai, mi sento impegnato nello sforzo di “spiegare il Sudtirolo”; di coinvolgere l’attenzione e l’apporto di amici democratici alla causa dell’autonomia e della convivenza nella mia terra.
Al di là della necessità di evitare l’isolamento ed il piano inclinato dei revanscismi, c’è anche una forte convinzione che mi sorregge: leggo nella situazione sudtirolese una quantità di insegnamenti ed esperienze generalizzabili ben oltre un piccolo “caso” provinciale.
Essere minoranza, senza per questo chiudersi in lamentele e nostalgie; coltivare le proprie peculiarità, senza per questo scegliere il “ghetto” e finire nel razzismo; sperimentare le potenzialità di una convivenza pluri-culturale e pluri-etnica; partecipare a movimenti etno-nazionali, senza assolutizzare il dato etnico; lavorare per la comunicazione inter-comunitaria… a volte penso che tanti aspetti del futuro europeo potrebbero essere sperimentati e verificati in corpore vili, con grande profitto. Peccato che la politica dominante vada in direzione opposta (piuttosto verso Cipro, il Libano, ecc.) e che così pochi al di là dei nostri confini provinciali se ne accorgano.
Le mie città. Ho vissuto in parecchie città diverse, per periodi più o meno lunghi. Nessuna la sento mia al punto da considerarmi suo cittadino (in questo senso solo Vipiteno è la “mia città”: però l’ho praticamente abbandonata da tanti anni), ma in molte mi capita di sentirmi a casa. E non potrò fare a meno di ritornarvi di tanto in tanto, in un giro che via via si allarga e che sento di poter ancora allargare.
I miei mestieri. Ho avuto la fortuna di svolgere, nel corso del tempo, attività e mestieri abbastanza diversi, e di non identificarmi con alcuni di essi al punto da assumere il ruolo e di dover pensare di continuarlo per sempre. E sono contento di possedere una carta di riserva che già varie volte mi è tornata utile anche per campare: traduco (volentieri), il che non è altro che un aspetto di quell’attività di ponte tra mondo tedesco ed italiano cui non potrò più sfuggire.
Un funerale. Nell’agosto 1978 muore il giovane poeta sudtirolese Norbert C. Kaser, i cui primi versi sono stati pubblicati su «die brücke». Al funerale di questo dissidente particolarmente significativo (che solo in seguito verrà pienamente apprezzato e meglio conosciuto) ci ritroviamo in tanti, al cimitero di Brunico. Gente che dieci anni prima era insieme, e che ora si trova a lavorare nel sindacato, nei partiti di opposizione, nella scuola… e parecchi cani sciolti.
Il silenzio di quel funerale (civile) e la dispersione e l’impotenza di tante persone che ai miei occhi rappresentano il meglio di questa terra, mi fanno impressione. Norbert C. Kaser è morto di questa impotenza.
È lì che penso di dovermi rioccupare più da vicino delle cose sudtirolesi. Pochi giorni dopo pubblico sulla «Südtiroler Volkszeitung» una proposta: riunire il dissenso sudtirolese, attraversando i gruppi linguistici ed i residui dei gruppi politici organizzati, ed affrontare – anche in occasione delle prossime elezioni regionali e provinciali – il gigante del regime sudtirolese con la fionda di David, senza dogmatismo e senza settarismo.
Non penso ancora ad un mio ritorno vero e proprio, da Roma; la persona che io vedrei bene a rappresentare la «lista di David» in Consiglio è una maestra sudtirolese, pensionata precoce, animatrice da anni di molte iniziative, con una singolare capacità di unire elementi della più autentica eredità popolare tirolese con lotte sociali ed impegno di trasformazione. Si chiama Irmtraud Mair, e non vorrà saperne. La proposta di formare una lista variopinta con queste caratteristiche inizialmente incontra soprattutto diffidenze e riserve. Evidentemente è più facile piangere insieme un amico comune che intraprendere una strada comune per il futuro.
I radicali. Dalla campagna referendaria del 1977 ho un rapporto ravvicinato con i radicali, senza essere mai iscritto al loro partito. Nel 1978 Marco Pannella intravvede nelle elezioni regionali del Trentino-Sudtirolo una buona occasione per ripetere il successo triestino (giugno 1978: i radicali si candidano al consiglio comunale ed eleggono Pannella). Ma non è possibile la candidatura «esterna», e così i radicali finiscono per appoggiare – anche massicciamente, nelle ultime due settimane – la «Neue Linke-Nuova sinistra» che rappresenta il risultato (non esattamente come sperato, ma pur sempre importante) della proposta relativa alla «lista di David»: inter-etnica, con gente politicizzata e non, con persone provenienti da esperienze piuttosto diverse, disposte a rinunciare a logiche di bandiera e di partito. Resistere all’abbraccio radicale un po’ troppo soffocante e continuare a rifiutare logiche partitiche (magari tra «partito radicale» e «partito dei non-radicali») costerà qualche fatica, ma vale la pena. Ed anche se talvolta mi sento abusivamente presentato come fiore all’occhiello radicale, non mi pento di un rapporto fatto di autonomia e reciprocità: con radici proprie e forza sufficiente da resistere a strumentalizzazioni unilaterali.
Parlamentarismo di provincia. Per due volte vengo eletto al Consiglio regionale e provinciale: nel 1978 con «Neue Linke-Nuova sinistra» (mi dimetto, per rotazione «linguistica», nel 1981), e nel 1983, con la più ampia «Lista alternativa per l’altro Sudtirolo», che rappresenta già un bilancio positivo ed un sensibile allargamento della precedente esperienza e riesce a raddoppiare la rappresentanza consiliare. Entrambe le volte per me è una decisione difficile accettare la candidatura e cambiare vita. In una situazione così particolare, così circoscritta e così segnata dalla specifica problematica del conflitto etnico, mi pare giustificato impegnarmi con lo strumento del parlamentarismo.
Ben consapevole di quanto esso rischi di trasformare le persone che lo usano. Problemi di coalizioni o di maggioranze non si pongono. Accanto ai 33 colleghi del parlamentino sudtirolese si può solo testimoniare l’alterità del Sudtirolo di cui si è portavoce e per il quale si lavora. Ma c’è anche un profondo limite in questo uso esclusivamente come «tribuna» di un’assemblea, ed è un limite che mi sta sempre più stretto.
Pacifismo. Mi sento profondamente pacifista (facitore di pace: almeno negli intenti), e mi capita con una certa frequenza di partecipare ad iniziative ed incontri per la pace. Spesso ho l’impressione che si tratti di una pace astratta, e di un pacifismo privo di strumenti per raggiungere i suoi obiettivi. Al momento della guerra delle Falkland-Malvine penso: se questo fosse un conflitto italo-tedesco (-austriaco, ecc.), saprei da che parte cominciare per contribuire ad una pace concreta. Il “gruppo misto”, il ponte, il “traditore” della propria parte che però non diventa un transfuga, e che si mette insieme ai “traditori” dell’altra parte... “La logica dei blocchi blocca la logica”, c’è scritto su uno striscione della manifestazione pacifista internazionale che teniamo il lunedì di Pasqua, del 1984, sul “ponte Europa” vicino a Innsbruck. Contro la logica dei blocchi: penso di avere qualche esperienza in proposito, grazie alla vicenda sudtirolese, e mi piacerebbe renderla più fruttuosa.
Opzione 1981: le gabbie etniche. Fin dalla fine del 1978 vedo arrivare, nel Sudtirolo, quella che chiameremo la «schedatura etnica»: per far funzionare senza intoppi e senza zone d’ombra un sistema interamente basato sulla nitida delimitazione tra blocchi etnici, occorre la realizzazione di un catasto etnico al quale nessuno possa sfuggire.
Inizialmente pochi credono che si arriverà a tanto, ed interpretano in modo riduttivo e blando le norme già predisposte in quel senso, con tanto di timbro e firma della Repubblica Italiana. Così mettiamo in guardia contro le «nuove opzioni», contro l’imposizione delle «gabbie etniche». Mi pare di capire con assoluta lucidità che si tratta del più grave attentato alla democrazia, del più grave avvelenamento dei rapporti inter-etnici nel Sudtirolo dall’accordo Hitler-Mussolini e le «opzioni» dal 1939 in poi. Vedo quasi fisicamente l’accelerazione dei processi di separazione e di contrapposizione etnica che il cosiddetto «censimento linguistico» (con tanto di iscrizione nominativa obbligatoria in uno dei tre gruppi etnici riconosciuti) incoraggerà e renderà finalmente possibile senza pieghe o riserve. Sono angosciato per questa grande operazione di razzismo legale che le cosiddette forze democratiche in Italia (tutte, dal Pci al Pli) ed in Austria consentono, minimizzano, appoggiano.
Non capisco tanta cecità, tanta noncuranza, tanta confusione tra giuste esigenze di autonomia e di tutela delle minoranze e pericolosi intruppamenti etnici.
Mi sembra quasi di toccare con mano un processo analogo a quello che ha portato al muro tra le due Germanie: dove prima la linea di demarcazione era appena tratteggiata sulle carte, e magari con qualche palo, ora c’è la «striscia della morte» e una vera «cortina di ferro» a dividere tra «noi» e «loro». I passi che hanno portato a questa separazione, singolarmente presi, non sembravano così terrificanti. Per un certo – breve – periodo l’effettuazione della schedatura etnica sembra in bilico.
Nell’estate 1981 le resistenze, da noi indotte, si moltiplicano e raggiungono il cuore dei partiti, e qualche giornale. Ma poi, dopo tre giorni di dibattito parlamentare, nell’ottobre, prevale la ragion di stato ed i partiti del sedicente «arco costituzionale» appoggiano tutti la soluzione voluta dalla «Volkspartei»: divide et impera, ad ognuno il suo recinto etnico coi relativi capi.
Insieme a diverse migliaia di coraggiosi rifiuto di firmare il modulo in cui dovrei scegliere se aggregarmi legalmente al gruppo linguistico tedesco, italiano o ladino. Mia madre, che vive ancora e che aveva già rifiutato l’opzione nel 1939, non firma neanche lei.
Come tanti altri «obiettori etnici» subisco presto una precisa conseguenza punitiva: il trasferimento della mia cattedra di storia e filosofia dal liceo di Roma al liceo classico di lingua tedesca di Bolzano, già regolarmente concesso, viene revocato dall’on. Falcucci, su pressione del partito di Magnago, per il quale non può essere considerato tirolese di madrelingua tedesca chi ha disertato la chiamata etnica obbligatoria del 1981.
Mi viene in mente mio padre, ormai morto da anni, che dopo il suo licenziamento razziale nel 1938 venne informato burocraticamente dal dirigente provinciale dell’organizzazione fascista dei medici che non era possibile alcun altro suo impiego, neanche nell’ambito della Croce Rossa o simili, e che comunque poteva sempre rivolgersi alle superiori autorità se credeva di aver subito un torto.
Avrei voluto parlare in costume tirolese. Nell’agosto 1985 vengo invitato dai «verdi» di Passau, in Baviera, a parlare ad una manifestazione anti-nazista, convocata contro un raduno di neonazisti nel corso del quale avrebbe parlato anche il vicecomandante degli Schützen sudtirolesi. Ci vado con piacere, pur non amando più da tempo la liturgia dell’antifascismo, ormai un po’ consunta.
Ed infatti la manifestazione anti-nazista ha molti tratti démodés, ma la seguo con un sentimento di gratitudine. Ad un certo punto vedo arrivare un pullman pieno di sudtirolesi in costume. Con sbigottimento li vedo scendere e disporsi per il corteo. Chiedo subito il microfono, e dal palco parlo loro: «non lasciatevi ingannare, già una volta il fascismo ed il nazismo hanno portato il nostro popolo alla rovina, state alla larga da quelli lì, un tirolese sincero non ha niente in comune con loro…». Tutti mi riconoscono immediatamente. Qualcuno esita, i più si fanno beffe di me. Poi i capi fanno partire il corteo.
È la volta in cui avrei voluto parlare in costume tirolese.
«Profeta verde». È la primavera del 1985, le elezioni amministrative sono imminenti, in molte città e regioni ci saranno «liste verdi». Sulla terza pagina di un quotidiano romano mi trovo apostrofato come «profeta verde». Io mi trovo a girare l’Italia per contribuire a questa semina verde. Cerco di farlo con argomenti ed intenti poco elettorali e molto riflessivi. Anche in questo caso non sono stato io a «candidarmi». Anzi, più che mai mi sono sentito ostaggio di un’accelerazione nata dalla combinazione di molte circostanze.
Per quanto mi riguarda, è dalla metà degli anni ’70 che, principalmente in Germania, osservo ed in qualche modo seguo iniziative e movimenti «verdi». Via via comincio a parlarne, a scriverne, a fungere anche qui da intermediario tra ciò che avviene a nord e a sud delle Alpi. Dal 1982 in poi contribuisco ad organizzare uno scambio più organico ed intenso, che ha un suo epicentro a Trento, anche grazie all’opera di Marco e Sandro Boato.
Nel 1984 vengo invitato a tenere la relazione introduttiva alla prima assemblea italiana di comitati e gruppi promotori di liste verdi, che si svolge 1’8 dicembre a Firenze: mi trovo così investito di una funzione di battistrada e di punto d’equilibrio che svolgo volentieri, nella prospettiva di passare velocemente il testimone ad altri, ma che mi preoccuperebbe, se si perpetuasse nel tempo e se prolungasse ed accentuasse troppo la mia condizione di ostaggio.
È difficile far credere che Bolzano non è la locomotiva verde d’Italia. Si vede che la realtà inventata dai mass-media è più convincente di quella vera. Non resta che darsi da fare per non deludere troppo.
Incontri. In passato ho forse imparato di più dai libri. Nei tempi più recenti mi sembra di imparare di più dagli incontri che mi capita di fare. (Ma forse era così anche prima, ed il ricordo inganna).
Tra le maggiori fortune che mi sono state date in sorte, considero i rapporti con le tante e diverse persone che ho potuto incontrare e conoscere. In gran parte si tratta di incontri che non mi sono stati regalati in virtù di qualche posizione o ruolo (essere figlio di…, frequentare la casa di…, ricoprire la carica di…), ma conquistati e costruiti, per così dire, in proprio. Così mi è concesso, fino ad oggi, di conoscere persone di indole, posizione e cultura assai differente, e di stabilire scambi ed amicizie su tanti piani e in tante direzioni. E se può essere emozionante conoscere da vicino Kreisky o Pertini o Gheddafi o Ingrao o Sofri o Illich, non è certo meno gratificante e fonte di arricchimento interiore coltivare amicizie e scambiarsi idee ed affetto con chi non scriverà mai sui giornali né vi troverà mai stampato il proprio nome.
Posso dire che, rifuggendo drasticamente dai salotti e dalle persone che mi cercano in funzione di qualche mio ruolo, vivo come una delle mie maggiori ricchezze gli incontri – già familiari o nuovi che siano – che la vita mi dona.
Vorrei continuare ad apprezzare gli altri ed esserne apprezzato senza secondi fini. Forse anche per questo converrà tenersi lontani da ogni esercizio di potere.
(2/2. Fine)
Alexander Langer
(Tratto da: Alexander Langer, Minima personalia, in «Belfagor», Vol. 41, N. 2, 31 marzo 1986, pp. 201-211).
Inserito il 06/08/2023.