Dal quotidiano «il manifesto»
(Edizioni Punto Rosso, Milano, 2025)
recensione di Guido Liguori
György Lukács è ancora abbastanza noto in tutto il mondo come filosofo marxista, studioso di estetica, storico e teorico della letteratura. Egli fu però anche un politico in atto, un rivoluzionario, almeno in due momenti fondamentali della sua vita – restando per il resto sempre un militante convinto, costretto dallo «stalinismo» a celare prudentemente le proprie opinioni.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
György Lukács
Scritti rivoluzionari
1919-1921
(Edizioni Punto Rosso, Milano, 2025)
recensione di Guido Liguori
György Lukács è ancora abbastanza noto in tutto il mondo come filosofo marxista, studioso di estetica, storico e teorico della letteratura. Egli fu però anche un politico in atto, un rivoluzionario, almeno in due momenti fondamentali della sua vita – restando per il resto sempre un militante convinto, costretto dallo «stalinismo» a celare prudentemente le proprie opinioni.
I due momenti in cui Lukács esercitò direttamente un ruolo politico di primo piano sono quelli relativi alla sua partecipazione a due distinti governi comunisti in Ungheria: nel 1919, quando divenne Commissario all’istruzione (ministro) della Repubblica dei Consigli d’Ungheria guidata da Béla Kun, che durò solo tra il marzo e la fine di luglio di quell’anno. E nel 1956, con il governo di Nagy, ancora come ministro dell’Istruzione. Entrambe le esperienze finirono malissimo. La Repubblica consiliarista del 1919 fallì e venne invasa dall’esercito controrivoluzionario rumeno. Nel 1956 furono i paesi del Patto di Varsavia a porre fine al primo esperimento di socialismo democratico guidato da Nagy.
DOPO IL GOVERNO rivoluzionario del 1919 Lukács era riparato in Austria, esule politico. Un libro da poco pubblicato (György Lukacs, Scritti rivoluzionari 1919-1921, a cura di Antonino Infranca, Edizioni Punto Rosso, pp. 176, euro 20) ha il merito di proporre per la prima volta in italiano i numerosi scritti apparsi su giornali ungheresi nei tre anni indicati nel titolo, che sono anche quelli in cui vennero scritti la maggior parte dei saggi che confluiranno in Storia e coscienza di classe, uscito nel 1923. Questo libro testimonia di come l’adesione di Lukács al marxismo, durante la prima guerra mondiale, fosse avvenuta sotto l’influenza di Sorel prima e di Luxemburg poi. Negli scritti in questione si nota dunque la collocazione di Lukács nell’ambito del «comunismo di sinistra», nonché il suo modo peculiare di affrontare alcuni temi teorici e culturali che rimarranno anche nel suo percorso successivo. Riguardo a questi ultimi, Lukács afferma – come nota Infranca nell’Introduzione – la necessità che il proletariato si impadronisca «della cultura in generale, anche della cultura borghese». Dal punto di vista teorico, emergono le categorie di totalità e di coscienza di classe, che saranno centrali nel libro del 1923.
Per quanto riguarda il primo aspetto, invece, Lukács aderiva al consiliarismo che caratterizzava il comunismo di quegli anni, e che declinò rapidamente anche per l’esautoramento dei Soviet da parte del partito bolscevico in Russia, in seguito alla situazione causata dalla guerra civile. Lukács cita ad esempio positivamente Pannekoek (il consiliarista olandese che si separerà dal Comintern nel 1921), come critica Paul Levi, uscito (o espulso) da «destra» dal partito comunista tedesco. La posizione di Lukács è (al contrario di quella coeva di Gramsci, e dello stesso Lenin) decisamente antiparlamentarista: la sua critica alla democrazia rappresentativa sarà del resto mantenuta fino alla fine dei suoi giorni (e andrebbe rivisitata). Sempre più importanza acquista il ruolo del partito, segnale anche della sua sempre più convinta adesione alle posizioni di Lenin.
UN LUNGO SCRITTO di questa raccolta – del settembre 1920 – è dedicato all’Italia e all’occupazione delle fabbriche (come molti altri sono dedicati alla Germania, o all’Inghilterra, oltre che all’Ungheria). Come il resto del Comintern, il marxista ungherese riteneva il nostro paese maturo per una rivoluzione, mancandovi solo un partito rivoluzionario. Il drammatico errore di valutazione – di cui il maggior responsabile in Italia fu Bordiga, a cui finì per accodarsi anche Gramsci – sarà alla base della nascita del Pcd’I come partito minoritario e poco influente.
In definitiva, un libro senza dubbio utile per conoscere meglio Lukács, pur con il non semplice lavoro necessario per ricavarne i motivi essenziali più rilevanti depurandoli dagli elementi della polemica quotidiana.
Guido Liguori
(Tratto da: Guido Liguori, Gli scritti rivoluzionari di György Lukács, in «il manifesto», 16 aprile 2025).
Inserito il 18/04/2025.
Il giovane Lukács.
Fonte della foto: https://lisandromoura.wordpress.com/wp-content/uploads/2011/02/lukacs6.jpg
di Lelio La Porta
Una breve ricostruzione del percorso politico del filosofo marxista ungherese.
Inoltre, presentiamo un breve scritto del 1919 in cui il Commissario del Popolo all’Istruzione pubblica György Lukács affermava il valore dell’arte e della letteratura universalmente riconosciuti senza cedimenti di fronte al dilettantismo della letteratura proletaria e di partito.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Lukács: l’agire tra etica e necessità
di Lelio La Porta
Solo pochi fra i «superstiti» della diaspora della sinistra italiana si sono accorti che alcune chiavi di lettura per analizzare il passato, per comprendere il presente, per preparare il futuro sono nell’opera dei due massimi esponenti del marxismo teorico e del comunismo critico del nostro secolo: Antonio Gramsci e György Lukács. Mentre al primo, nell’anno centenario della nascita [1891-1991; questo articolo di Lelio La Porta è del 1992, ndr], sono stati dedicati convegni, anche fortemente caratterizzati dal punto di vista politico, il ventesimo anniversario della morte del secondo [1971-1991, ndr] è passato pressoché sotto silenzio. Colpa delle compromissioni di Lukács con lo stalinismo o della sua tendenza all’autocritica?
Nel tentativo di riproporre – non solo all’attenzione degli addetti ai lavori ma anche, e forse soprattutto, di quanti si impegneranno nelle lotte del nuovo partito comunista – la teoria e la prassi di un militante comunista, vorremmo ripercorrere le tappe significative della vita e dell’opera di Lukács.
La prassi politica e il lavoro di militante comunista tagliano trasversalmente l’attività teoretica di Lukács, imprimendo alla sua vita una spinta dinamica in direzione dell’impegno e della lotta. Ed è proprio in questo sovrapporsi di teoria e di prassi che va ricercato il motivo alla base della decisione di aderire al Partito Comunista (di cui il pensatore ungherese, per sua stessa ammissione, non fu uno dei fondatori), decisione che fu di carattere etico-politico. Infatti Lukács esitò molto prima di affrontare quel passo in quanto, pur avendo simpatia per la rivoluzione russa e pur conoscendo, anche se scarsamente, le opere di Marx, era ancora preda dei pregiudizi borghesi fra i quali era cresciuto, primo fra tutti quello della violenza.
Pur essendo convinto che la violenza (ed il riferimento era ai giacobini) avesse un peso inequivocabile nella storia, Lukács era spaventato dal fatto che le sue decisioni avrebbero potuto favorire la violenza; ed arrivava alla conclusione che «la teoria nella testa di un uomo non coincide esattamente con la pratica». Eppure, pur avendo preso posizione contro la dittatura del proletariato in un articolo del 1918 sul «Libero pensiero» [«Szabadgondolat»], nel dicembre dello stesso anno Lukács si pronunciò a favore della dittatura. Aveva trovato risposta in lui quel quesito, che è centrale nel momento dello scontro frontale con il nemico di classe in una fase di possibile cambiamento rivoluzionario, secondo il quale «si può agire non eticamente e ciò nonostante giustamente». Questa risposta, che nella teoria si caratterizzò più precisamente nel saggio del 1919 intitolato Tattica e etica, ebbe la sua maturazione pratica nella completa adesione alla Repubblica dei Consigli (proclamata il 21 marzo del 1919) e nell’accettazione di un duplice incarico a livello di organismi dirigenti: Commissario del Popolo all’Istruzione e Commissario politico alla quinta divisione.
Come Commissario del Popolo, Lukács tentò di concretizzare le sue idee intorno alle forme dell’arte capitalistica che si manifestano in una giustapposizione del produttore al prodotto di modo che l’opera d’arte diventa merce. Ma il tentativo di separare l’artista dall’opera, secondo lo stesso Lukács, fu sviluppato con una certa ingenuità, il che costituì il suo fallimento. Migliori furono i risultati che sortì l’intervento sulla scuola, ed infatti le indicazioni date nel 1919 (scuola dell’obbligo di otto anni, ginnasio suddiviso in quattro classi, università) furono riprese in Ungheria dopo il 1945.
Energica, poi, fu l’attività di Lukács come Commissario politico alla quinta divisione al punto che, dopo la fuga di alcuni soldati rossi di fronte all’avanzata ceco-romena, convocò un tribunale di guerra e fece fucilare otto uomini del battaglione che era fuggito: «Il che fece, nell’insieme, ritornare l’ordine», ricordava lo stesso Lukács.
Alla caduta della Repubblica dei Consigli (133 giorni dopo la sua proclamazione), Lukács riparò a Vienna e, da lì, fece la spola con Berlino e, mettendo a repentaglio la vita, con l’Ungheria, nel frattempo portava a termine una delle sue opere più famose: Storia e coscienza di classe.
La sua grande forza di militante si manifesta, nel periodo dell’emigrazione, con gli articoli sulla rivista «Kommunismus» e con alcuni saggi, uno dei quali, precisamente quello sulla partecipazione ai parlamenti borghesi, fu duramente criticato da Lenin. Lo stesso Lukács ammise come proprio la critica di Lenin avesse avuto un peso decisivo nell’abbandono delle posizioni settarie.
Zinoviev, come rappresentante dell’Internazionale, criticò, nel 1924, Storia e coscienza di classe, inducendo Lukács a ritirare il libro dalla circolazione. Nel 1928 Lukács elabora le «Tesi di Blum» che, prevedendo i fronti nazionali contro la posizione dell’Internazionale (il socialfascismo), gli valgono l’esclusione dal Comitato Centrale del PC ungherese.
Nel 1929 fa autocritica; a nostro modo di vedere, la scelta è intelligente nel senso che permette a Lukács di poter combattere, dall’interno del Partito, la sua battaglia contro il fascismo dilagante; in questo senso anche questa è un’opzione profondamente etica, prima di essere politica.
Negli anni che seguono, fino alla fine della seconda guerra mondiale, Lukács vive a Mosca producendo alcuni dei suoi maggiori lavori, soprattutto sull’arte e sull’estetica.
Alla fine della guerra torna in Ungheria e viene rieletto nel CC del PC ungherese.
Nel 1956, durante la sommossa ungherese, viene nominato Ministro della Pubblica Istruzione nel governo Nagy; dopo l’intervento sovietico è deportato in Romania, da dove rientra nel 1957. Da questa data l’attività di Lukács sarà puramente teorica, anche se nel 1967 otterrà di essere nuovamente iscritto al Partito Comunista.
Lo schematismo con cui, per certi aspetti, si è tentato di tracciare questo profilo di Lukács militante e comunista non maschera quella grande tensione verso una devitalizzazione del modello capitalistico e delle sue pratiche di manipolazione, a vantaggio di una società diversa, che costituì il nucleo della riflessione teorica lukacciana e la «molla» all’attivazione della politica e della prassi della politica. Questo, forse, è il Lukács meno conosciuto, meno amato dai partecipanti ai convegni, ma più vicino alle richieste di cambiamento che giungono da varie parti e dalle giovani generazioni; sarà anacronistico, forse paradossale, dire oggi ciò che Lukács scrisse nel suo abbozzo di autobiografia: «L’evoluzione a comunista è certo la massima svolta, l’esito evolutivo della mia vita»; questa è un’eredità, è un testamento etico e politico, è un invito a essere se stessi e a essere una parte di un tutto; e questa parte, in quanto parte, può comunicare l’impulso di trasformazione alla totalità.
Lelio La Porta
Precisazioni
di György Lukács
Se faccio la seguente dichiarazione, è unicamente per fornire delle precisazioni ai lettori in buona fede, ma male informati a seguito della presentazione faziosa dei fatti; non è per difendere la mia politica o quella del Commissariato del Popolo di cui ho la direzione.
Il Commissariato del Popolo all’Istruzione pubblica non accorderà il suo sostegno ufficiale alla letteratura di corrente o di qualche partito.
Il programma culturale dei comunisti fa distinzione soltanto tra la buona e la cattiva letteratura e si rifiuta di respingere sia Shakespeare, sia Goethe con il pretesto che non erano scrittori socialisti. Ugualmente, però, si rifiuta di aprire nell’arte la strada al dilettantismo con il pretesto del socialismo.
Il programma culturale dei comunisti è di offrire al proletariato l’arte più pura e più elevata e non permetteremo che si corrompa il suo gusto con una poesia di parole d’ordine trasformata in strumento politico.
La politica non è che un mezzo, il fine è la cultura.
Ciò che ha un vero valore letterario troverà, dovunque venga, il sostegno del commissario del popolo ed è evidente che egli sosterrà in primo luogo l’arte che cresce nel solo proletariato nella misura in cui questa arte è veramente arte.
Il programma del Commissariato del Popolo all’Istruzione pubblica è di rimettere i destini della letteratura nelle mani degli scrittori. Il Commissariato non vuole un’arte ufficiale e non vuole d’altronde la dittatura dell’arte di partito. Il punto di vista politico resterà ancora a lungo un punto di vista di selezione, ma non deve indicare le direzioni alla produzione letteraria. Deve servire da filtro e non essere una fonte esclusiva! Fin qui il Commissariato del Popolo non era intervenuto nella vita letteraria. In fin dei conti, lascerà alla organizzazione degli scrittori la cura di dirigerla. Dunque, chi attacca il Commissariato in questo senso diffondendo delle calunnie è o stupido o in malafede e, sotto una forma letteraria, lancia, piacente o nolente, una bomba politica.
György Lukács
In «Vörös Jjság» («Giornale Rosso»), 18 aprile 1919 [inedito per l’Italia; trad. di Lelio La Porta].
N.d.T.: Il «Giornale Rosso» fu, di fatto, l’organo del Comitato Centrale del Partito comunista ungherese ed uscì nonostante l’apparato del Partito fosse stato arrestato nel febbraio 1919. Lukács rivelò [cfr. Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, Roma, 1983, pp. 70-71] che le pubblicazioni del giornale erano possibili grazie al lavoro quotidiano, in condizioni difficili e precarie, di un gruppo di redattori del quale il filosofo faceva parte. Nata la Repubblica dei Consigli nel marzo del 1919, il «Giornale Rosso» divenne la voce pubblica dei comunisti.
(Tratto da: Lelio La Porta, Lukács: l’agire tra etica e necessità, in «Il Calendario del Popolo», anno 48, n. 552, marzo 1992).
di György Lukács
1968. Il filosofo marxista ungherese György Lukács rilascia una lunga intervista alla rivista letteraria e culturale ungherese «Kortárs» («Il Contemporaneo») in cui affronta i problemi del suo tempo ma soprattutto si interroga criticamente sul ruolo degli intellettuali marxisti nella fase storica della Guerra Fredda e della politica della coesistenza pacifica. Perché i giovani non sono attratti da noi ma dai cinesi? I guasti del “culto della personalità” e del dogmatismo staliniano, le rigidità dei sistemi dell’Est europeo socialista, gli approcci sbagliati e le analisi parziali. «Serve un ritorno a Marx e andare avanti con l’analisi marxista della situazione attuale».
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Lukács 1968. Un’intervista a tutto campo (e senza reticenze)
I problemi del socialismo nel nostro tempo
di György Lukács
Nel numero di maggio 1968 della rivista letteraria e culturale ungherese «Kortárs» («Il Contemporaneo») è apparsa — ripubblicata poi nel suo testo integrale su «Rinascita» del 31 maggio — una intervista di grande interesse culturale e politico del compagno György Lukács, uno dei più grandi filosofi marxisti viventi. Ne riportiamo qui in largo estratto i punti essenziali.
Dopo il Ventesimo Congresso la politica americana è stata costretta a riconoscere che la politica del roll-back, tendente all’annullamento dei risultati della guerra mondiale con l’esibizione della supremazia militare, è fallita e che a causa del patto atomico occorre cercare un certo tipo di pacifica convivenza con l’Unione Sovietica per un periodo più o meno lungo. Nasce da ciò una situazione del tutto particolare; da una parte l’accordo atomico rende la guerra estremamente improbabile, dall’altra continuano a sussistere tutte le possibili cause della guerra.
In questa atmosfera si realizza la coesistenza, che significa anche intensificazione incessante dei contatti culturali, senza che i contrasti esistenti fra il mondo socialista e non socialista siano cessati. Per questo penso, ed avevo espresso questa opinione anche nel 1956, che la coesistenza può essere valutata solo come la nuova forma della lotta di classe internazionale.
Dietro la coesistenza poi vi è — come ho detto — il contatto incessante delle culture che non si può fermare con nessun tipo di guerra o di proibizione. Come esempio vorrei ricordare un fatto: quando si stavano preparando guerre contro l’Unione Sovietica e l’Unione Sovietica non era ufficialmente «riconosciuta» il film La corazzata Potiomkin scorrazzava per tutta l’Europa ed entusiasmava: cioè il contatto esisteva.
Solo con un risultato di cultura realmente grande dunque — e parlo solo di un risultato di cultura e non di un successo economico (a proposito di questo emergono altri problemi) — si può conquistare una vittoria veramente permanente nella coesistenza. Da parte nostra, cioè dal punto di vista della vittoria che vogliamo far scaturire dalla lotta di classe, è importante che negli stati non socialisti si impegnino nell’azione strati sempre più vasti, gli strati che sentono come una esistenza degna dell’uomo sia meglio realizzabile nel socialismo che nel capitalismo: per questa vittoria noi dobbiamo, in sostanza, lottare; questa vittoria dobbiamo conquistare nella coesistenza.
Negli anni Venti era estremamente chiaro un fatto: la cattiva situazione economica dell’Unione Sovietica non influiva in modo decisivo sulla forza di attrazione della cultura sovietica. La gente sentiva che proprio da questo socialismo poteva venire una risposta ai problemi della sua vita migliore di quelle che potevano venire dal capitalismo.
Così l’élite dell’intellighenzia rivoluzionaria — Becher, Brecht, Arnold Zweig, Anna Seghers, Eluard, Picasso — è diventata comunista, mentre se oggi diamo un’occhiata al panorama emergente degli scrittori più giovani, non troviamo fra loro tanti comunisti. A che cosa dobbiamo attribuire ciò? È vero, l’Unione Sovietica è incessantemente calunniata, ma negli anni Venti la calunniavano forse anche di più. Qui dobbiamo fare noi l’autocritica ed esaminare il nostro lavoro: perché i nostri scritti non hanno l’effetto che avevano negli anni Venti? E dobbiamo ritornare alla questione della liquidazione del «culto della personalità» perché il periodo stalinista fu quello in cui l’intellighenzia europea perse la fede nella buona fede, nella veridicità dei comunisti. Dirò solo una cosa semplice: che cosa dirà un occidentale di una storia del Partito in cui si tratta del 1917 senza che vi appaia il nome di Trotzkij e senza che si parli del suo ruolo di allora? Questo è assurdo! Io sono veramente lontano dal simpatizzare con Trotzkij ma negare che negli avvenimenti del ’17 anche Trotzkij abbia giocato un grande ruolo significa perdere, in fatto di storia, il credito di ogni nostra parola.
Oggi per altro l’ideologia della American Way of Life sta crollando nella guerra del Vietnam, come anche all’interno, in rapporto alla questione negra. La situazione è analoga in Inghilterra e anche altrove. Ora si tratta di sapere in quale misura siamo noi capaci di soppiantare questa ideologia, di presentarci con una nuova ideologia. Per dare solo un esempio, quando negli studi di economia scriviamo ancora soltanto commenti al libro di Lenin sull’imperialismo e continuiamo ad aspettare il momento in cui scoppierà la grande crisi in America, questa nostra «economia politica» non può avere nessun credito perché contraddice i fatti. Noi potremo acquistare prestigio invece se saremo capaci di spiegare i fenomeni dell’economia politica di oggi con il metodo marxista. Sono profondamente convinto che ciò sia possibile.
Dobbiamo sapere che, anche se fuori si scagliano contro il socialismo, in effetti tutti coloro che sono insoddisfatti del capitalismo sia economicamente sia politicamente sia culturalmente istintivamente si rivolgono verso di noi per avere una risposta intelligente ai loro problemi.
Per questo noi abbiamo una grave responsabilità e questa responsabilità ci prescrive imperativamente la strada che dobbiamo percorrere: ritornare a Marx nel metodo e nella realtà andare avanti nella spiegazione marxista dei fenomeni di oggi. Se saremo capaci di fare questo vinceremo la battaglia storica della coesistenza.
Il marxismo ha sviluppato le leggi più generali del processo che apre la via al socialismo e i migliori uomini politici rivoluzionari periodicamente hanno elaborato una strategia e nel quadro di questa strategia — sino ai singoli scioperi — una certa tattica che, naturalmente, cambia continuamente a seconda delle circostanze. Stalin ha rovesciato questo principio. Per lui era essenziale la tattica momentanea. Aveva detto che nel socialismo la lotta di classe si acutizza continuamente e non era una affermazione generale ma solo un trucco che egli aveva architettato per giustificare i grandi processi. Prima si facevano i grandi processi, poi si inventavano le teorie adatte… Ancor oggi talvolta capita che prima presentiamo una certa tattica e poi applichiamo la strategia e la teoria generale. Il valore di una simile teoria generale è zero.
Naturalmente è molto semplice dire a proposito della tesi staliniana — dell’acutizzazione della lotta di classe — che non è vera, ma se andiamo in fondo a questa critica ci troviamo di fronte a questioni serissime. Mi sia concesso di citare solo un esempio storico. Quando fra Stalin e Trotzkij sono emersi contrasti sulla questione cinese Stalin dichiarò che in Cina dominava il feudalesimo e, a proposito del feudalesimo, che la tattica da seguire era la stessa che era stata applicata in Russia: in altre parole egli, per rimanere nel dominio della tattica, aveva buttato fuori dalla teoria marxista tutto il problema del sistema di produzione asiatico e con ciò aveva reso impossibile ai marxisti la conoscenza marxista degli sviluppi in Asia.
Vorrei osservare che, date le condizioni di allora, Marx non si è mai occupato dello sviluppo dei popoli africani. Sulla base della più severa riflessione marxista possiamo domandarci: dove sta scritto che lo sviluppo dei popoli africani debba immancabilmente effettuarsi sulla base dello schema europeo o dello schema asiatico? Può darsi che, accanto ai rapporti di produzione europei ed asiatici, esistano anche rapporti di produzione africani. Noi aiutiamo i popoli del terzo mondo che si sviluppano: l’aiuto marxista consisterebbe anche nello spiegar loro quale sia la loro reale situazione e quale la loro prospettiva di sviluppo. Ebbene, di tutto ciò noi non sappiamo niente di più degli occidentali.
Alla politica coloniale americana bisognerebbe opporre su scala mondiale una politica di autodecisione democratica generale. Se noi compenseremo con un serio lavoro scientifico ciò che nell’epoca staliniana abbiamo tralasciato, allora saremo capaci di dare ai popoli del terzo mondo consigli economici e politici. Ma consigli reali, che non siano stati escogitati in questa o in quella capitale europea, ma che siano espressione reale dello sviluppo economico dei popoli in questione. Ecco che così si presenta la possibilità di avere un ruolo molto più grande che l’attuale nella storia mondiale.
Ciò non riguarda solo i popoli coloniali ma anche i popoli europei e americani. Ora stanno sorgendo nuove opposizioni in Europa e in America; queste opposizioni spesso presentano la particolarità di avere un carattere, per così dire, «cinese». Come forma spesso ricordano gli happenings americani; nel loro contenuto politico sono largamente sotto l’influenza dell’ideologia cinese. Da dove scaturisce tutto questo?
Nel 1903 Lenin scrisse nel suo libro intitolato Che fare? che l’anarchismo, che ai suoi tempi aveva abbastanza influenza, è una punizione per i nostri errori di opportunismo. È mia convinzione che Lenin avesse allora enunciato un principio generale, di una verità seria e profonda. Anche l’influenza cinese, diffusa in Europa, è una punizione per il nostro dogmatismo, per l’assenza dei principi, per il nostro tatticismo. Un giovane americano, o qualsiasi giovanotto occidentale di diciotto anni, entusiasta, non trova risposta agli interrogativi che il suo sentimento di opposizione gli avanza nella complicata politica estera di oggi e crede di trovarla presso Mao. Se noi faremo i conti con i vecchi errori supereremo questa situazione, influiremo positivamente sia sulla cultura che sulla politica.
Io accolgo con molto scetticismo anche la parola d’ordine sui sei o otto Vietnam perché non si può fare una vera guerra partigiana con la sola volontà. Una guerra partigiana si realizza quando un largo strato, soprattutto contadino, diventa cosciente che non si può vivere più come si è vissuto e preferisce portare la propria pelle sul mercato piuttosto che sopportare oltre quel destino. La guerra partigiana non può essere che il culmine di una rivoluzione generale borghese che eventualmente trapassi nel socialismo. Credo che nel Sud America questa rivoluzione sia all’ordine del giorno e che questa rivoluzione si farà, ma non con un piccolo gruppo, radunato intorno a un eroe che avvia una guerra partigiana. Si farà piuttosto quando i movimenti di riforma per migliorare le condizioni dei contadini e di altre classi povere trapasseranno nella rivoluzione.
Queste osservazioni (sul nostro impegno e sulla necessità dell’autocritica) possono essere applicate a tutte le scienze. Faccio solo un esempio, la cui eco possiamo sentire ancora: nel periodo Stalin-Zdanov la storia del pensiero è stata sistemata come se esistesse un pensiero prima del marxismo, poi ci sia stato un grande salto e poi sia venuto il marxismo. Il sostanziale valore superiore del marxismo consiste invece nel fatto che esso ha fatto propri tutti i valori dello sviluppo bimillenario europeo e questo non lo dico io, lo ha detto Lenin durante le discussioni del ’20.
Si annuncia un periodo in cui gli uomini discuteranno e sperimenteranno sempre di più le loro idee liberamente; se si tentasse di trasformare in opinione ufficiale un mio punto di vista, benché io sia convinto di aver ragione, sarei io il primo a protestare forte perché lo considererei pericoloso per lo sviluppo della verità. L’esigenza della vera comprensione del marxismo si è posta come una necessità sociale. E dall’America alla Siberia ci sono dappertutto uomini che vorrebbero soddisfare questa esigenza. Quale teoria risponderà alle aspettative e quale no? Nessuno di noi conosce comunque un altro criterio al di fuori della critica reciproca. In ultima analisi non esiste e non può esistere una istanza che possa dire: X ha ragione e Y no.
La mia opinione è che bisogna procedere così in ogni campo, soprattutto in quei campi in cui è più difficile stabilire criteri a priori. Così oggi è in formazione una nuova letteratura, ma questa nuova letteratura non può essere creata senza la critica del periodo dogmatico. Infatti oggi, in Ungheria per esempio, non vive neanche un uomo, diciamo più vecchio di trenta anni, nella vita e nel carattere del quale non ci sia stata una questione decisiva: se aveva tenuto fermo in quei tempi, come aveva tenuto fermo e così via… Senza tener conto di questo non si può rappresentare poeticamente il suo carattere e la sua azione di oggi.
È ridicolo d’altra parte affermare che i nostri guai non vengano causati dagli errori commessi ma dalle reazioni agli errori e, per di più, dalle reazioni poetiche e artistiche. Qualsiasi fenomeno letterario può cadere sotto una luce falsa se gli vengono applicati provvedimenti burocratici. E si crea un cattivo equilibrio nell’opinione pubblica internazionale quando facciamo cadere sotto un comune denominatore politico Solgenytzin e Pasternak, mentre nella realtà Solgenytzin sta in posizione diametralmente opposta a quella di Pasternak e dovrebbe e potrebbe esercitare una influenza opposta se non esistesse la pratica sbagliata che identifica artificialmente le due opposte posizioni. Non c’è ragione di ostacolare la pacifica convivenza delle tendenze emerse accompagnate da serie discussioni. Non si può conciliare tutti con tutti, eppure ancora oggi ci si comporta da noi come se non esistessero affatto contrasti. Non è una soluzione neanche questa: anche questa è solo un’altra manipolazione. Abbiamo invece bisogno di discussioni aspre, anche se queste discussioni non devono avere conseguenze organizzative.
Dobbiamo conquistare nella cultura questa condizione per ottenere seri risultati nella lotta coesistenziale.
György Lukács
(Tratto da: György Lukács, I problemi del socialismo nel nostro tempo, in «l’Unità», 11 giugno 1968).
Inserito il 06/11/2024.
Prossimamente: da «Rinascita» il testo integrale dell’intervista.
György Lukács (1885-1971).
Fonte della foto: https://www.foldvaribooks.com/pages/books/2339/portrait-photo-of-gyorgy-lukacs
di Cesare Cases
Ricordi personali e analisi del percorso intellettuale del filosofo ungherese si intrecciano in questo saggio del critico letterario e insigne germanista Cesare Cases.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
György Lukács, l’uomo buono
di Cesare Cases
Si era (presumibilmente) nel 1962. Frank Benseler e Heinz Maus procedevano in macchina da Francoforte verso Marburgo e discutevano animatamente: il primo era il curatore delle opere complete di Lukács presso Luchterhand; il secondo, discepolo di Horkheimer e uno dei pochi se non l’unico «francofortese» rimasto in Germania durante il nazismo, dirigeva una collana sociologica presso lo stesso editore e insegnava a Marburgo. Benseler confessava che per lui l’inferno non era quello di Dante, né «gli altri» di Sartre, bensì l’idea di dover correggere le millesettecento pagine dell’Estetica di Lukács. «Lei – scrive Benseler ricordando questo viaggio in una lettera immaginaria all’amico morto’1 – aspirò profondamente il sigaro, gettò quel suo maligno sguardo di sottecchi, come se volesse dire che gli inferni temporanei sono addirittura la condizione della possibilità del progresso, e poi si ritrasse un po’ in se stesso per chiarirmi che cosa Lukács doveva aver inteso fare: Lei allora non conosceva l’Estetica, solo i saggi e la Categoria della particolarità. Ma Lei mi ha chiarito che l’“orgoglioso ricordo dell’unità” nell’arte, la realizzazione dell’uomo come essere generico attraverso la socializzazione artistica, l’associazione per la libertà, erano in connessione con il tema centrale della sociologia “irragionevole”, dell’“evoluzione tragica”, conseguenze paradossali di un agire scientificamente pianificato; che Lukács rientrava nella grande tradizione europea dell’ottimismo storico; che la sua Estetica implicava la resistenza contro il filisteismo partitico, politico, pragmatico tanto quanto quella contro il movimento dell’arte per l’arte, il formalismo, il manierismo. “E del resto”, così Lei concluse bruscamente, “Lukács è un uomo buono”».
Questo, sembrava dire Maus a Benseler oppresso dall’immane peso, taglia la testa al toro. L’inferno della prosa tardo-lukacsiana è un inferno relativo – «molto attaccabile, molto caduco, molto transitorio, tutto illuminismo che scompare nel suo stesso processo», l’aveva definito sempre secondo Benseler2 –, tant’è vero che dietro a questo inferno sta un uomo buono. È l’impressione che Lukács dava a chiunque lo conoscesse, un’impressione che non emerge certo dalla lettura della massima parte dei suoi scritti. La sua bontà era in stretta connessione con la sua ironia, anch’essa accuratamente negata dalla sua pagina. Sembra che Ephraim Frisch fosse meravigliatissimo riscontrando nel primo volume dell’Uomo senza qualità una profusione d’ironia di cui riteneva l’amico autore del tutto incapace. Con Lukács succedeva esattamente il contrario. Eppure questa scoperta non meravigliava. Colpiva, certo, il divario tra l’amabile, instancabile conversatore – egli stesso soleva paragonarsi al Socrate del Simposio, che continua a condurre il discorso con Agatone e Aristofane quando tutti gli altri sono finiti sotto il tavolo e i primi galli cantano – che condiva la serietà di fondo di infinite relativizzazioni, ironizzazioni, ammiccamenti, da vero maestro della capacità antiromantica da lui teorizzata di sgretolare le false apparenze senza investire nichilisticamente la sostanza, e l’oratore o lo scrittore di circostanza (in conferenze o brevi scritti esplicativi, mentre quando dibatteva e polemizzava tradiva sempre un po’ dell’altra metà del suo essere), legnoso, ripetitivo, dominato da un’ossessione dimostrativa che differiva dalla vulgata staliniana (a parte i diversi referenti culturali) solo perché approdava faticosamente ai luoghi comuni da cui quella partiva senza tentare di giustificarli.
Quando nella primavera del 1956 fece una tournée di conferenze in Italia, ebbi occasione di conoscere le due metà accompagnandolo in treno da Pisa a Torino, tra piacevolissime conversazioni con lui e la moglie soprattutto sui Sonnambuli di Broch che stava leggendo (in privato poteva essere un ottimo critico della letteratura «decadente» da Kafka a Musil a Graß; un’incomprensione totale la rivelava solo per Proust e Joyce), e poi ascoltando nell’aula magna dell’università torinese un discorso di un’esasperante monotonia, aggravata dal suo pessimo francese che trasformava una lingua – ancora – tradizionalmente spumeggiante in una raganella di pesanti frasi fatte. Non c’è dubbio che questo tono dipendesse anche dal conscio o inconscio adattamento al momento storico; molte cinghie che tenevano insieme il bagaglio staliniano erano saltate ed erano prossime le esplosioni di Polonia e di Ungheria, sicché Lukács doveva essere insieme genericamente aperto nei contenuti e rigido nelle forme come inviato ufficiale di un governo ancora retto da Rákosi. Molto più efficace era stato a Milano nel 1949, quando teorizzando la differenza tra la «totalità chiusa» dei regimi fascisti e la «totalità aperta» di quelli comunisti criticava indirettamente, attraverso il paragone stesso che doveva suonare empio, la tendenza di questi ultimi a chiudersi, e prendeva posizione in favore di quel tentativi sinceramente liberali che stavano per essere soffocati dappertutto.
Ma il grigiore formale è una connotazione del tardo Lukács che si riscontra anche nelle opere più impegnative, dove risulta meno appariscente di fronte all’interesse dell’argomentazione. Già Karl Korn nel suo libro sul linguaggio del «mondo amministrato»3, studiando il fenomeno dell’infinito impersonale e statico, espressione di un «essere-nel-mondo» (uno dei rappresentanti tipici è appunto Heidegger) in cui il soggetto è completamente passivizzato, riscontra «l’esempio più crasso di cumulo di infiniti» nello scritto di Lukács Il significato attuale del realismo critico4. Korn dà una serie di esempi (del tipo «il sottrarsi al contenuto sociale del tempo») e trova giustamente un contrasto insanabile tra gli intenti socialisti dell’autore e la capitolazione di fronte all’esistente che si esprime attraverso questo modulo stilistico. «Il critico Lukács, che non si stanca di esigere una presa di posizione concreta sullo “scopo della vita”, identificandola con l’accettazione del socialismo, rinnega senza volerlo il proprio programma coi suoi infiniti astratti. Le azioni e gli atteggiamenti che Lukács biasima e critica o approva e cerca di promuovere appaiono in questo grottesco stile a base di infiniti come processi anonimi, difficilmente afferrabili, il cui promotore potrebbe essere al massimo l’astratto apparato del mondo, comunque non la concretezza nel soggettivo e individuale»5. Il volontarismo lukacsiano è negato da uno stile che dimostra casomai «il non sottrarsi al contenuto sociale del tempo», il quale contenuto è l’opposto di quello che riteneva l’autore. «È la cosa che ci ha in mano», per dirla con la fulminante inversione di Musil6, e non siamo noi ad aver la cosa in mano. È vero che il fenomeno linguistico, appunto perché radicato in uno stato del mondo, appare anche altrove se non dappertutto: Korn ne scorge i primi esempi in Nietzsche e basta sfogliare i libri di Habermas o di Hans Blumenberg per vederne esiti ancora più deprimenti di quelli denunciati da Korn in Lukács. Indubbiamente in lui c’è però il flagrante contrasto con lo spirito attivistico. Se Heidegger abusa degli infiniti sostantivati, ciò corrisponde a una concezione in cui l’Esserci è sprofondato nel «Man» o inversamente partecipa dell’Essere. Ma in Lukács c’è il macchinario illuministico e questo, checché ne pensasse Maus, non «scompare nel suo stesso processo », perché si riveste di forme che ne esprimono l’impotenza già all’atto dell’apparire, prima ancora che quel processo abbia luogo.
Non c’è dubbio che Lukács vedesse al contrario, proprio come Maus, in questo stile alcunché di puramente funzionale, un mezzo inerte di cui non gli importava nulla e che doveva servire solo a ribadire il vero e a sconfiggere il falso. Di questa sua indifferenza alla forma, che non mancava di stupire in un pensatore con tanti interessi di estetica e di critica letteraria, egli non faceva mistero alcuno, anzi la considerava come una delle «conquiste» della sua evoluzione ideologica degli anni venti. È noto quel che disse a Ernst Fischer, e cioè che nessuna sua singola frase sarebbe rimasta, ma qualche suo libro sì. Questo non è del tutto vero perché l’altro Lukács, quello conversevole, non era affatto alieno dal pronunciare frasi di grande pregnanza che restavano almeno nella memoria degli amici, come quella celeberrima: «L’intelligenza è sempre una deviazione di destra». Si diceva che la schizofrenia tra il «buono» (savio, ironico, tollerante, paziente) e il «cattivo» Lukács (pedagogico, normativo, apodittico, qualche volta politicamente ricattatatorio) non era affatto sentita come tale. In primo luogo essa non era così semplice come in Dr. Jekyll e Mr. Hyde. L’ironico e il tollerante erano tali proprio perché l’ottimismo storico non metteva in dubbio la vittoria ultima di ciò che si presentava in forme insoddisfacenti o addirittura disastrose. Su tutto ciò che, espresso, avrebbe immediatamente inficiato queste prospettive, Lukács manteneva un rigoroso silenzio. István Mészáros ricorda come prima del XX Congresso in casa Lukács non si parlasse affatto dello stalinismo – pure presente, diciamo così, visibilmente nella mano deformata del figliastro Ferenc Jánossy, che era stato a lungo in campo di concentramento – e che solo una volta aveva sorpreso il filosofo che borbottava con la moglie di «socialismo asiatico». D’altra parte il Lukács normativo e intollerante era spesso tale solo di facciata, in realtà si esprimeva, come egli stesso disse, in «linguaggio esopiano» e andava letto tra le righe e nel contesto. Se era l’antagonista dell’avanguardia in nome del realismo socialista, era anche l’autore di Tribuno del popolo o burocrate?, uno degli scritti più coraggiosi degli anni trenta. L’immagine di Lukács come eminenza grigia della politica culturale staliniana, pronto ad aggiustare il tiro al minimo cenno del partito, se ha qualche plausibilità ai tempi della «Linkskurve», quando godeva di un po’ d’autorità effettiva, in complesso è filologicamente insostenibile e deriva più che altro dal desiderio dei vecchi intellettuali ex-staliniani di trovare una figura di padre culturale negativo su cui scaricare le colpe dei propri peccati di gioventù.
Ma la ragione essenziale per cui la compresenza del «buono» e del « cattivo» non sembrava tanto contraddittoria sta nel fatto che essa era preparata da lunga data e si era formata in modo del tutto indipendente dalla teoria leniniana del partito, per cui poteva costituire al massimo una buona humus. La si legge nel conflitto tra l’«anima» e le «forme», tra la «vita» e l’«opera», soprattutto nella teoria del «peccato necessario» che sta alla base del saggio Sulla povertà di spirito7, con cui Lukács tentò di sublimare il trauma del suicidio di Irma Seidler. Il muro dell’Opera va intriso di sangue umano, come nella leggenda di Clemente il Muratore, citata nel saggio, o in un noto racconto di quel Theodor Storm cui è dedicato uno dei saggi capitali di L’anima e le forme. Si sa come Thomas Mann alimentasse con questo libro la sua propria problematica, i cui riflessi durano fino alla figura del Goethe di Carlotta a Weimar, che distrugge chi gli sta intorno come la fiamma la falena. Casomai, la conversione al marxismo, le speranze nella rivoluzione mondiale e la lunga notte staliniana significarono una riduzione della tensione tragica del conflitto giovanile: il rientro nell’alveo dell’ottimismo storico faceva del «peccato necessario» un momento negativo della marcia dello spirito del mondo che poteva durare anche interi decenni da affrontare con pazienza. Che Lukács avesse ogni tanto dei dubbi sulla capacità di riassorbimento del male da parte dello spirito del mondo lo testimonia, oltre ai borbottamenti sul «socialismo asiatico», la nota frase riferita da Victor Serge: «I marxisti sanno… che si possono commettere impunemente molte piccole porcherie quando si fanno grandi cose; l’errore di alcuni consiste nel credere che si può arrivare a grandi risultati facendo soltanto piccole porcherie…»8. Le piccole porcherie divennero grandi e gli «alcuni» tutta la burocrazia staliniana. Eppure, nonostante le violente critiche dopo il XX Congresso, nonostante le sue decisive partecipazioni al circolo Petöfi e alla rivolta del 1956, Lukács non cessò mai di credere che lo stalinismo fosse in qualche modo compreso nei decreti della divina Provvidenza. Ciò risulta chiaramente da quella specie di testamento che è l’intervista che prende le mosse dall’abbozzo autobiografico Gelebtes Denken9.
Che ne è allora dell’«uomo buono» travolto dalla bassa marea del decorso storico? Servirà a impastare il muro? La cecità di Lukács di fronte al male radicale che si manifestava nei Gulag e che doveva per lo meno imporre un riesame dei principi si scorge nella credenza, ricorrente in Gelebtes Denken, che l’individuo non sia mai del tutto estraneo alla sua fine. La sua sempre scarsa carità verso le vittime dei processi staliniani implica non già un giudizio di assenso alla loro presunta colpevolezza bensì il sospetto di mancanza di carattere. Nella bufera che il processo storico ogni tanto si compiace di scatenare chi ha la tempra morale necessaria troverà quasi sempre il modo di resistere e di scampare. Anche quando ammette di avere avuto la fortuna dalla sua parte nell’essere sopravvissuto agli anni terribili, si sente il segreto convincimento che la fortuna aiuta solo chi ha la forza del carattere. Quando andai a visitarlo a Budapest nel 1965 lo trovai entusiasta del libro di Jorge Semprun Il grande viaggio (trad. it. Einaudi 1964), che a me aveva fatto un’impressione alquanto penosa perché in queste memorie sembrava che a Buchenwald l’autore avesse trovato la forza di sopravvivere nel ricordo delle aule della Sorbona e della Bibliothèque Nationale, come se l’esaltazione della cutura fosse l’unica alternativa alla cancellazione dell’umano. Quello che in Se questo è un uomo di Primo Levi è soltanto episodico, nella scena in cui Primo recita al suo compagno di fatica il canto di Ulisse, tentando di evocare in mezzo all’orrore la parola altissima che invita a «seguir virtute e canoscenza», in Semprun è uno stato d’animo costante appiattito alla misura dell’intellettuale medio. Ma proprio questo era piaciuto a Lukács. Il libro, mi diceva (e ripeté poi in non so quale articolo o intervista), poneva fine alla «leggenda di Auschwitz» per cui esistono situazioni estreme di fronte alle quali ogni resistenza spirituale è impossibile. E quel che vale per Auschwitz, a maggior ragione doveva valere per i processi e per i Gulag. Quando poi non ci sia proprio più nulla da fare, la superiorità morale trova modo di rivelarsi anche nel gesto in cui si va incontro alla morte. Una volta mi raccontò di uno scrittore ungherese di cui non ricordo il nome il quale, condannato a morte dopo la fine della Repubblica dei consigli, fu chiamato per essere condotto davanti al plotone d’esecuzione. Si trovava in cella con un compagno, noto per il suo settarismo, che gli disse: «Va, gli operai e i contadini ungheresi non dimenticheranno il tuo sacrificio». Ma allora la triade classica comprendeva anche gli intellettuali, e lo scrittore, già sulla porta, si voltò sorridendo e disse: «Sei il solito settario, ti sei dimenticato gli intellettuali». Una simile ironica lucidità di fronte all’inevitabile corrispondeva all’ideale lukacsiano di uno stoicismo antiascetico che tiene fede fino all’ultimo alla vita e alla ragione. Un atteggiamento certo preferibile alle «ultime parole famose» sul tipo di quelle del compagno settario. Ma a quanti fu poi dato di tramandarlo?
Consapevolmente o meno, l’eroe che resiste a Auschwitz o affronta la morte irridendo alla sua retorica è sempre un membro della classe dimenticata dal settario: è un intellettuale. La «grande tradizione europea dell’ottimismo storico» in cui Maus faceva giustamente rientrare Lukács è un lusso che solo gli intellettuali si possono solitamente concedere. Essi che sono «al di sopra», forse anche di Auschwitz e del plotone d’esecuzione. E, naturalmente, dei settari. Sull’iscrizione di Lukács al partito comunista, che giunse completamente inaspettata agli amici del «circolo della domenica», ci sono diverse versioni. Quella che mi raccontò (e che non è detto che debba necessariamente essere quella autentica, poiché egli era il primo a diffidare della propria memoria – peraltro in generale eccellente –, come si legge in Gelebtes Denken, ma certo è assai significativa) è che egli e Béla Fogarasi si recarono ad ascoltare un discorso di László Rudas (che in seguito doveva date vari grattacapi a Lukács) sul programma del partito. Le argomentazioni dell’oratore erano così primitive che i due se ne andarono completamente demoralizzati: se questo era il comunismo… Passeggiarono un po’ e poi convennero che prima o dopo dovevano farlo, tanto valeva che lo facessero subito. E tornarono sui loro passi per iscriversi. In questo inizio si riflette esemplarmente la morale del «nonostante tutto» che doveva guidare tutto il tormentato rapporto di Lukács con il partito e che egli riassumeva nel noto motto «right or wrong, my party». Ma l’identificazione del «nonostante tutto» è la falsa identificazione che si può permettere l’intellettuale che ci sta e non ci sta, che è con il partito ma sa che il partito può aver torto perché ha sempre ragione nei lunghi periodi, e per questo può sorridere nella morte. Il militante non intellettuale non può far quadrare la coincidenza degli opposti: o resta convinto che il partito ha sempre ragione nell’immediato e scivola insensibilmente nella complicità totale, oppure affronta la rottura definitiva senza poter sperare neanche lontanamente nel miracolo della telefonata rassicurante che Stalin fece a Pasternak o nell’intervento di Dimitrov quando Lukács fu messo in prigione.
L’intellettuale è anche, di norma, di origine borghese. Appunto: «l’intelligenza è sempre una deviazione di destra». Come la normativa lukacsiana spingeva a raccogliere l’«eredità» borghese, venendo incontro alla monumentalità staliniana, così già in Storia e coscienza di classe appariva la predestinazione dell’intellighenzia ad anticipare nel pensiero la coscienza del proletariato e a costituirne lo stimolo e la guida. Questa investitura imponeva a chi la deteneva un esercizio delle virtù borghesi che ha salde tradizioni tra gli intellettuali dell’Ottocento e che ci appare insieme nobilissimo (specie se confrontato con il cinismo oggi dilagante anche nella sinistra) e problematico. Tali virtù nascevano dalla lotta contro l’ipocrisia della borghesia, ma in questa lotta assumevano proprio quei tratti di rigore dei postulati astratti di quella. L’ammirazione del padre di Lukács per la coerenza del figlio e i sempre buoni rapporti tra i due si spiegano probabilmente in questo modo, così come Lukács preferì in fondo sempre l’ascesi borghese al disordine intellettuale. L’intellettuale militante realizzava l’etica che il borghese predicava negandola nella prassi, e insieme si opponeva alla sregolatezza della pura ribellione dei suoi confratelli anarcoidi. Lukács dava sempre del «lei» alla moglie Gertrud Bortstieber perché lo avevano deciso fin dagli inizi della loro conoscenza per differenziarsi dalla società intellettuale budapestina dove tutti si davano del tu. Forse non si rendevano conto che attraverso la «negazione della negazione» finivano per conferire all’aspetto sacrale dell’istituzione la sanzione di una consuetudine linguistica che tra coniugi era sempre stata molto rara anche nelle classi dirigenti. La realtà era che un legame di questo genere (si ricordi il Che fare? di Černyševskij, molto caro a Lukács) assumeva aspetti di dedizione e di assolutezza superiori a quelli del matrimonio tradizionale proprio perché si presumeva fondato su una scelta libera da ogni elemento esterno, arbitrario, convenzionale. Gertrud, una donna di rara intelligenza e umanità, aveva rinunciato ai suoi studi di economia per identificarsi con l’attività del marito e tra di loro regnava un affiatamento cementato da anni di fughe e di privazioni. Nella rigorosa divisione del tempo seguita da Lukács c’era un’ora, dopo pranzo, riservata all’intimità con lei e in cui era fatto divieto di disturbarli a qualsiasi estraneo, che altrimenti era sempre ben accolto in una casa-porto di mare. Questa oasi di affetti coniugali scandita da un ideale metronomo suscitava tanta commozione quanta perplessità.
Gli affetti familiari si estendevano ai due figli del primo marito di Gertrud e agli allievi di Lukács, con cui egli aveva rapporti non meno franchi e teneri. Se poteva essere severo, ironico e anche duramente sprezzante verso coloro che non stimava per la mancanza di carattere, d’altra parte era di una disponibilità che rasentava il candore verso coloro cui concedeva credito, con il risultato di vedersi rivoltare contro qualche sua creatura quando il vento politico volgeva a suo danno. Era curioso constatare come quest’uomo, i cui vasti orizzonti avevano potuto essere solo episodicamente limitati dall’oppressione politica e che continuava ad avere numerosi contatti e fonti d’informazione e di appoggio morale (tra cui negli ultimi anni il Pci sosteneva un ruolo primario) vivesse in realtà isolato in una cerchia ristretta di familiari e di amici. In qualche modo ricreava sempre il «circolo della domenica», esercitando la sua delicata maieutica su chi gli capitava a tiro per arricchire quel novero degli intellettuali consapevoli e disinteressati che secondo i ricordi di Ernst Bloch già nei suoi sogni giovanili, come una specie di ordine cavalleresco, doveva platonicamente costituire il vertice della società10. Ciò che colpì molto Renato Solmi e me, quando andammo a trovarlo la prima volta a Budapest nel 1963, era come egli presupponesse tacitamente che il destino del mondo dipendeva in gran parte da noi happy few raccolti intorno a lui e ancora capaci di pensare alla vera soluzione, al tertium datur che ci doveva pur essere. E siccome col passar del tempo aveva dovuto mettere molta acqua nel vino della polemica contro la divisione del lavoro e già era disposto a tramutare l’ordine cavalleresco nel brains trust auspicato nei colloqui con Abendroth, era lieto di poter contare nei due figliastri su un economista e un fisico teorico che riparavano alle sue lacune in questi campi. Un uomo esile e umbratile parlava di questi ed altri collaboratori, compresi noi presenti, come se fossero suoi ministri in pectore in un governo intellettuale fantasma cui prima o dopo si sarebbe dovuto ricorrere.
Tale palese inadeguatezza tra il soggetto intellettuale e il mondo ne costituiva però anche lo straordinario fascino. Intellettuale, sì, ma quale intellettuale! Gli sciocchi che se la prendono con Lukács sperando che dimostrando la strumentalizzazione di una grande intelligenza possano giustificare quella della loro nullità, dovrebbero rileggersi le poche righe, forse le uniche positive in tutto il libro, che gli dedica il massimo indagatore del tradimento dei chierici comunisti, alludendo alla condanna del 1949: «È giusto e coerente che il Partito abbia condannato il piú insigne critico letterario marxista del Novecento, György Lukács. Non c’è il minimo dubbio che l’entusiasmo sollevato dalle sue opere tra i marxisti delle democrazie popolari aveva ragioni recondite e profonde. Si vedeva in lui l’annunciatore di una rinascita filosofica e di una nuova letteratura diversa da quella dell’Unione Sovietica. L’avversione per le opere improntate al realismo socialista che trapela dai suoi scritti rispondeva alla convinzione generalmente diffusa nei primi anni dopo la seconda guerra mondiale che nelle democrazie popolari l’insegnamento di Marx e di Engels stava prendendo nuove strade, sconosciute in Russia. Nei suoi libri Lukács lo confermava. Fu quindi ufficialmente condannato»11. È paradossale che Milosz definisse come avversario del realismo socialista quel Lukács che dopo tutto ne era stato il più intelligente teorico, anche se i risultati l’avevano profondamente scoraggiato. Ma l’esagerazione di un uomo non certo disposto a stendere un vel pietoso mostra come i distinguo teorici e critici di Lukács in quella situazione fossero più che sufficienti per trasformare nella pubblica opinione uno dei promotori della tendenza nel suo unico efficace avversario. Solo chi non ha vissuto quell’epoca e non ha voglia d’informarsi può permettersi di ignorare l’energia con cui quel fragile uomo aveva utilizzato tutti i margini e retto a tutte le tempeste.
L’uomo buono. Heinz Maus li aveva conosciuti tutti e poteva fare i debiti confronti. Difficilmente avrebbe definito buoni Horkheimer e Adorno, più facilmente Bloch. Si vede che per essere buoni ci vuole un po’ di ottimismo storico, che si accontenti della prospettiva lukacsiana o che voli verso l’utopia blochiana. A differenza di Bloch, Lukács era anche profondamente, qualche volta incredibilmente modesto. Ciò sembra in contraddizione con l’alto concetto che egli aveva della responsabilità dell’intellettuale, ma non lo era affatto, poiché proprio la funzione dell’intellettuale come battistrada imponeva l’assenza di ogni presunzione e la diffidenza verso se stessi. Certo, una volta che si riteneva convinto della bontà di una politica, il senso di responsabilità si rovesciava in un’intransigenza che poteva dare l’impressione di arroganza a chi, come Brecht, era costituito in modo esattamente opposto: cortesissimo, diplomatico, in fondo indifferente sulle questioni generali e implacabile quando si trattava delle proprie idee. Questo vale del resto soprattutto per i primi anni dopo la conversione al marxismo, quando la fisionomia intellettuale di Lukács fu ritratta in Naphta (ed egli finì per riconoscersi nel ritratto). Più tardi prevalse la pazienza del saggio, temprata da tanti anni di guerriglia.
Non in se stesso presumeva, ma nella funzione degli intellettuali. Hegelianamente, egli contrapponeva la forza del pensiero alla cieca mole della natura. Bloch rammenta: «Quando un tale [Bloch stesso] disse al suo saggio amico [Lukács]: “le nostre conversazioni possono essere fini e profonde, ma quanto mute sono le pietre e come restano non mosse da noi; quanto grande è l’universo e quanto misera si erge di fronte ad esso l’altezza della nostra chiesa di San Pietro; che cosa dovrebbe aver da dire la terra stessa se aprisse la bocca da Lisbona a Mosca e tuonasse solo pochi detti orfici”; allora il saggio amico, campanilista della cultura, rispose: “uno schiaffo non è un argomento e la terra probabilmente direbbe soltanto sciocchezze, poiché non ha letto né Kant né Platone”»12. La conversione al «materialismo» corresse un po’ questo punto di vista – che è quello di Storia e coscienza di classe – ma più sul piano teorico che su quello pratico. L’uomo non è solo oppresso, anche quando ha letto Kant e Platone, dalla mole della natura, ma altresì da quella degli apparati della società moderna. Lukács li riconosceva e li combatteva – nella reificazione di cui fu il grande teorico, nella «manipolazione» capitalista delle masse, nella burocrazia socialista – ma ne sottovalutò sempre il peso. Credeva che l’uomo ne sarebbe venuto a capo con il socialismo «buono», il cui avvento era garantito da «tutta la grande tradizione europea dell’ottimismo storico». Ma se mai l’umanità potrà rovesciare le forze che la distruggono, non le basterà certo questa tradizione, né il campanilismo della cultura. Lukács avrebbe potuto superare i limiti che aveva imposto al proprio pensiero se avesse lasciato che lo strapotere di quelle forze emergesse alla coscienza e non si vendicasse soltanto nello stile nominale denunciato da Karl Korn. Per questo, forse, occorreva essere meno buoni.
Cesare Cases
(Tratto da: Cesare Cases, L’uomo buono, in AA.VV., Il marxismo della maturità di Lukács, Napoli, Prismi Editrice Politecnica, 1983, pp. 11-22).
Note
1 In appendice all’introduzione a: H. Maus, Die Traumbölle des Juste- milieu. Erinnerung an die Aufgaben der kritischen Theorie, hg. v. M.Th. Greven und G. van de Moetter, Frankfurt a. M. 1981, p. 38.
2 Ibid., p. 37.
3 K. Kons, Sprache in der verwalteten Welt, München 1962 (la prima edizione è del 1959).
4 Ibid., p. 120.
5 Ibid., p. 122.
6 R. Musil, Der Mann ohne Eigenschaften, hg. v. A. Frisé, Reinbek 1978, p. 32 (la trad. it. di Anita Rho qui è un po’ libera).
7 Trad. it. in: G. Lukács, Sulla povertà di spirito. Scritti 1907-1918, a cura di P. Pullega, Bologna 1981, pp. 100-115. Cfr. l’eccellente saggio di Agnes Heller su questo scritto in: AA.VV., La scuola di Budapest: sul giovane Lukács, Firenze 1978, pp. 45-58.
8 V. Serge, Mémoires d’un révolutionnaire 1901-1941, Paris 1951, p. 204 (trad. it. Memorie di un rivoluzionario, a cura di A. Chitarin, Milano 1983, p. 188).
9 G. Lukács, Gelebtes Denken. Eine Autobiographie im Dialog, hg.v. István Eörsi, Frankfurt a. M. 1981 (trad. it. Pensiero vissuto. Autobiografia in forma di dialogo, a cura di A. Scarponi, Roma 1983).
10 Cfr. Michael Löwy, Pour une sociologie des intellectuels révolutionnaires. L’évolution politique de Lukács 1909-1929, Paris 1976, pp. 297-98 (intervista con Ernst Bloch).
11 Czeslaw Milosz, La mente prigioniera, Milano 1981 (ed. orig. 1953), p. 251.
12 E. Bloch, Spuren, Frankfurt a. M. 1959, p. 246. Al passo rinvia Lukács stesso in Gelebtes Denken, cit., p. 251 (trad. it. cit., p. 205).
Inserito il 05/10/2023.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Il marxismo della maturità di Lukács e il suo saggio sulla democrazia
Nel 1968 György Lukács aveva ottantatré anni, ma – tutt’altro che tirare i remi in barca – stava attivamente lavorando all’Ontologia, all’opera cioè che riteneva dovesse molto contribuire a far iniziare una nuova epoca: l’epoca del rinascimento marxista. Con tale disposizione di spirito – corroborata dal fatto di essere stato finalmente riammesso, l’anno prima, nel partito dopo un’anticamera che durava da dieci anni – egli guardava quanto stava accadendo nel mondo. Nei drammatici giorni dell’ottobre-novembre 1956 il partito comunista ungherese (che dal 1948 si chiamava Partito dei lavoratori ungheresi) era stato rifondato sotto il nuovo nome di Partito socialista operaio ungherese, ma il passaggio degli iscritti dall’uno all’altro partito non era stato automatico, si richiedeva una specifica domanda. Cosa che Lukács – benché allora deportato in Romania in quanto membro del soppresso governo Nagy – aveva subito fatto. Tuttavia non aveva avuto alcuna risposta, di nessun genere, fino al 1967, quando finalmente la sua domanda era stata accolta.1 Ed era con questo stato d’animo che egli ora guardava alla grande crisi culturale del sistema capitalistico che sarebbe poi andata sotto l’etichetta sintetica di «sessantotto» e all’altrettanto grande crisi culturale del sistema socialista. Quest’ultima però aveva già una sua storia alle spalle, incentrata com’era sullo shock del «cinquantasei», con la denuncia dello stalinismo contenuta nel «rapporto segreto» di N. Chruščëv al XX Congresso del PCUS e le novità «teoriche» enunciate nella medesima circostanza, vale a dire che la pace era possibile o, come si preferì dire, la guerra non era inevitabile e si poteva, al contrario, avviare una coesistenza fra i due sistemi, sempre ancora in competizione fra loro, ma pacifica.
La situazione, tuttavia, non gli appariva né chiara né buona, quanto a orientamenti generali. A suo giudizio, il moto di contestazione dei valori consolidati che in Occidente andava montando fra i giovani, e non soltanto fra i giovani, avrebbe dovuto trovare un punto di riferimento positivo nelle realizzazioni del socialismo, ma questo non riusciva a liberarsi dallo stato di shock in cui era entrato nel 1956 e, paradossalmente, i pensieri di riforma all’interno dei paesi socialisti avevano in gran parte come modello proprio i valori del mercato, proprio quella economicizzazione della vita che le giovani generazioni occidentali mettevano in crisi propugnando la loro ideologia del diritto al consumo (poi, nella regressione del movimento, dialetticamente rovesciatosi in «consumismo», cioè di nuovo appunto in economicizzazione, in mercificazione della vita).
Occorreva dunque intervenire per mettere a fuoco, almeno sul piano teorico, ciò che il socialismo non era, in che cosa doveva autocriticarsi e, ultimo non ultimo, verso dove esso, per sua natura, storicamente muoveva. Ecco perché Lukács fu pronto a cogliere l’occasione di soffermarsi specificamente su questi temi e accettò, nella prima metà del 1968, di scrivere un saggio sulla democrazia nella società borghese. Furono le cose stesse poi a sollecitare un allargamento del discorso, ma – come vedremo – a Lukács, per ragioni teoriche, non sarebbe stato possibile escludere dalle proprie considerazioni il problema della democrazia nel socialismo.
Il saggio che in tal modo cominciava a delinearsi venne effettivamente steso nel corso di quell’anno, ma non arrivò mai alla pubblicazione. Scomparve. E a lungo fu indicato, fra gli addetti ai lavori, come un misterioso Scritto sulla democrazia di cui nessuno conosceva né il contenuto né il titolo esatto. Qualcuno dei corrispondenti dell’autore in verità ne aveva avuto notizia diretta per lettera. In particolare, interessanti sono gli accenni che ne riceve Frank Benseler, il curatore delle opere complete di Lukács in tedesco (vale a dire nella lingua originale), e che dunque avrebbe dovuto essere il primo a conoscere la cosa. Poiché Benseler si aspetta buone nuove circa il testo dell’Ontologia, Lukács lo avverte invece con cautela una prima volta, il 2 settembre 1968, che egli va accarezzando «l’idea di scrivere un ampio saggio sui problemi socio-ontologici di una odierna democratizzazione (in ambedue i sistemi)». Ma una ventina di giorni dopo, il 23 settembre, diviene più esplicito: «Al momento non sto ancora lavorando alla revisione dell’Ontologia perché voglio capire con chiarezza se sono in grado di formulare la questione della democratizzazione per una pubblicazione minore».
Come chiarirà subito all’inizio del libro, egli preferisce usare il termine «democratizzazione», perché ciò che esso designa è un processo, non uno stato. Ed è tanto convinto di questo che, dopo aver scritto sempre «democrazia», in un secondo tempo corregge quasi sistematicamente lungo tutto il saggio. Per ora, comunque, ci preme sottolineare come la «pubblicazione minore» sembri essere molto importante per Lukács, tanto da fargli rimandare il lavoro sull’opera che pure considera fondamentale. Vi sono infatti urgenze politiche che spingono ad anticipazioni e sviluppi su punti specifici. Nell’agosto cecoslovacco, appena accaduto, egli vede qualcosa di più della semplice repressione da parte sovietica di un tentativo di liberalizzare il regime. Per Lukács l’una parte e l’altra – al di là dei diritti conculcati, degli interessi e delle intenzioni – mancano di prospettiva storica, sono chiuse dentro l’orizzonte bloccato dello stalinismo: l’una come «reazione», l’altra come «continuità». È urgente quindi affrontare il tema antistalinista per eccellenza, quello della democrazia.
Il leggero accento di dubbio sulle proprie capacità di venirne a capo è tutt’altro che un vezzo, indica piuttosto la consapevolezza di aver tra le mani un’idea nuova, la quale, come tutte le idee nuove, abbisogna di attenta fatica per arrivare a possedere forza persuasiva. Lukács tuttavia va avanti con ottimismo. Al punto di avviare già accordi per la pubblicazione: non però con Benseler e con il suo editore consueto in Germania occidentale, ma con la casa editrice del Partito comunista italiano a Roma. Il cambiamento di editore è evidentemente legato a motivi che trascendono i fatti commerciali. Frank Benseler infatti riceve una comunicazione il 25 novembre 1968 secondo la quale egli, certamente, potrà far uscire l’edizione tedesca, ma «solo dopo quella italiana». E anzo Lukács precisa espressamente: «È molto importante che questa valga da edizione originale».
Ciò nondimeno, come detto, il volume non venne pubblicato. L’autore non firmò alcun contratto con nessuno e lo «scritto sulla democrazia» scomparve dalla circolazione. Le ragioni furono, palesemente, politiche. Lukács sapeva, ovviamente, di aver dato una impostazione nuova al discorso sulla democrazia, con forti implicazioni di «critica dell’esistente» in ambedue i sistemi, e in qualche modo deve aver condiviso l’idea di una inattualità temporanea del suo scritto, tanto da non voler minimamente forzare le cose della pubblicazione (che pure era a portata di mano). Viene comunque da chiedersi di dove nascesse l’interesse di Lukács per l’Italia, un interesse che sembra aver creato – accomunando aspetti intrinseci ed occasionali – un sorprendente destino italiano per lo «scritto sulla democrazia».
In realtà il riferimento all’Italia sembra dilatarsi oltre la semplice pubblicazione di questo libro. Va forse ricordato, a tale proposito, che il ritorno di Lukács sulla scena politica dopo il 1956 avviene con una intervista all’«Unità» (28 agosto 1966) sulla riforma economica ungherese, allora ancora nella fase della discussione. Ed è interessante notare come in tale intervista siano subito presenti taluni motivi di fondo dello «scritto sulla democrazia». Vale a dire: 1) la ricerca di «un terium datur tanto rispetto all’arretratezza settaria dogmatica quanto alla capitolazione incondizionata nei confronti dell’economia capitalista»; 2) la persuasione che questo tertium significhi «la rinascita della teoria e del metodo di lavoro di Marx», come egli stesso sta contemporaneamente dimostrando nell’Ontologia (in particolare, quanto all’economia occorre, secondo Lukács, in primo luogo apportare probabili «correzioni o “integrazioni”» alla teoria marxiana della riproduzione allargata contenuta nel secondo volume del Capitale, in secondo luogo dare una interpretazione teorica del cambiamento «sostanziale» avvenuto nel sistema economico del capitalismo, in terzo luogo fissare le eventuali «categorie diverse» di nuova formazione rispettivamente nei sistemi capitalista e socialista); 3) la istituzione di un nesso stretto fra realizzabilità della riforma economica e ripristino della «democrazia proletaria»; 4) la puntualizzazione che, a tal fine, è necessario debellare «realmente nella pratica» l’indifferenza della gente e formare «un’opinione pubblica che agisca apertamente»; 5) l’affermazione, teoricamente molto densa, infine, che la riforma economica debba condurre a una «riforma del modo di vita delle masse»2.
Ma, appunto, da dove nasceva questa attenzione verso l’Italia? Il fatto è che nella riflessione di Lukács l’orientamento «ontologico» aveva un obbligato sbocco politico antistalinista. Ora, nel panorama complessivo del «movimento» l’unico punto d’appoggio disponibile in questo senso era l’avvio di analisi fornito da Palmiro Togliatti nel 1956 a ridosso del XX Congresso con la sua Intervista a «Nuovi argomenti». E infatti, proprio dalla impostazione togliattiana del problema prende le mosse qui la discussione su che cosa sia stato, in realtà, lo stalinismo. Lukács riscontra fra l’altro polemicamente l’assenza, nei dodici anni intercorsi fra il 1956 e il 1968, di quella approfondita analisi storico-sociale del periodo di Stalin che Togliatti aveva rivendicato per evitare l’effetto di nascondimento derivante dalla formula del «culto della personalità» se usata come spiegazione di tutto. Egli è così convinto della correttezza metodologica di tale rivendicazione che, esplicitamente, presenta come una risposta ad essa la parte del suo libro che verte sull’argomento. Una risposta certo non completa, ma che nelle intenzioni dell’autore servità a far luce sull’essenziale, cioè sui «principi direttivi di un segmento così importante dello sviluppo del socialismo».
L’analisi politica fornita da Togliatti è per Lukács un dato acquisito. Egli in sostanza condivide il giudizio secondo cui «Stalin fu ad un tempo espressione e autore di una situazione, e lo fu tanto perché dimostratosi il più esperto organizzatore e dirigente di un apparato di tipo burocratico nel momento in cui questo prese il sopravvento sulle forme di vita democratica, quanto per aver dato una giustificazione dottrinale di quello che in realtà era un indirizzo errato e sul quale poi si resse, fino ad assumere forme degenerative, il suo potere personale»3. Allo stesso modo, poi, trova in Lukács un riflesso pronto il richiamo che Togliatti faceva al soviet come a una forma istituzionale assai più democratica e progredita di qualsiasi sistema democratico tradizionale, una forma tuttavia svuotata, interrotta dal sopravvenire del burocratismo staliniano. E ciò comporta per ambedue, come via di uscita dallo stalinismo nei paesi socialisti, la scelta per l’appunto del soviet e non delle «forme di organizzazione delle società capitalistiche»4. In particolare va sottolineata la concordanza circa il punto del pluripartitismo: per l’uno e per l’altro si tratta di una forma politica storicamente connessa alla specifica sostanza sociale dei paesi capitalistici e quindi non idonea a risolvere il problema della democrazia nelle società socialiste post-staliniane. Ciò nondimeno, Togliatti precisava che «la pluralità o unicità dei partiti non può essere ritenuta, di per sé, elemento distintivo tra le società borghesi e le società socialiste, come non segna, di per sé, la linea di distinzione tra una società democratica e una società non democratica». D’altra parte, «nei paesi tuttora capitalistici dove il movimento operaio e popolare sia molto forte e sviluppato, è tutt’altro che da escludersi l’ipotesi di profonde trasformazioni socialiste attuabili in presenza di una pluralità di partiti e per iniziativa di alcuni di essi»5.
A questo punto, però, Lukács aveva già preso una strada sua propria, che – ci sembra – lo conduce interamente oltre i confini della cultura politica terzinternazionalista. Egli accoglie la distinzione tradizionale fra democrazia politica (borghese) e democrazia sociale (socialista), almeno come punto di partenza, poi però le rifonde ambedue in una terza cosa, la democrazia della vita quotidiana, che assume non semplicemente come sinonimo di socialismo, ma – diciamo – come suo nome proprio. Di qui il salto.
Che nel suo ragionamento si celi qualcosa di differente, viene già annunciato dal fatto che, mentre a Togliatti bastava «restaurare la normalità» sovietica, con la mera aggiunta di garanzie contro il ripetersi degli errori dello stalinismo, qui invece il discorso si problematizza e si complica: i soviet, anzi i «grandi movimenti consiliari impetuosamente spontanei», avrebbero potuto – sostiene Lukács – trasformarsi in componente organica della società socialista, ma non lo sono mai diventati (gli stessi sforzi di Lenin contro la burocratizzazione avanzante furono inutili, fallirono ), cosicché in proposito noi oggi «non possediamo nessuna esperienza reale che sia, anche solo entro certi limiti, generalizzabile per il nostro presente e futuro». Dobbiamo fare da soli, come per l’appunto aveva dovuto fare Lenin, il quale non aveva trovato in Marx nessuna ricetta pronta per risolvere i problemi storicamente nuovi della costruzione del socialismo.
A fine ragionamento, al momento di avviarsi a concludere il suo discorso, Lukács adopera espressioni inequivoche: occorre aprire «un nuovo periodo», al cui inizio stia qualcosa di alternativo sia alla burocratizzazione staliniana del socialismo e sia alla democrazia borghese di oggi, basata sulla manipolazione delle idee e dei comportamenti, e questo qualcosa di alternativo è «una forma nuova di democratizzazione, ancora non esistente in nessun luogo». La posizione è radicale: dal passato si possono ereditare soltanto alcuni elementi criticamente selezionati. In primo luogo, il «metodo» di Marx (con cui elaborare nuove teorie adeguate alle nuove realtà). In secondo luogo, le intenzioni più profonde dei rivoluzionari, nonostante il naufragio di tali intenzioni sullo scoglio staliniano (uno scoglio che dunque costituisce una cesura storica nel movimento socialista e comunista). Per il resto, cioè sul piano oggettivo, socialismo non è altro che, realisticamente, «quel complesso di istituzioni sociali, di tendenze, di teorie, di tattiche, ecc. che sono emerse dalla crisi del periodo staliniano», crisi che ha avuto «la sua prima espressione teorico-pratica nel XX Congresso». Qui non ci sono fughe né nel passato né nel futuro (il metodo «ontologico», che è quanto dire «realistico», si fonda sulla priorità del presente, vede sempre e soltanto come decisivo l’essere-proprio-così delle cose). Eppure Lukács afferma la novità storicamente assoluta della democrazia socialista, per altro tuttora inesistente.
Tale giudizio estremo nasce da uno specifico concetto di democrazia, su cui occorre soffermarsi un attimo. Per Lukács la parola democrazia non denota, come di norma nella cultura politica oggi corrente, un complesso di istituzioni e di pratiche variamente intese a garantire il potere d’intervento dei cittadini nelle questioni politiche di una società che si dice democratica proprio in quanto integra in sé tali istituzioni e pratiche. Possiamo ricordare a tale proposito che, secondo Norberto Bobbio, il «significato preponderante» tra i molti del termine democrazia è oggi quello che la definisce come «un insieme di regole (le cosiddette “regole del gioco”) che consentono la più ampia e più sicura partecipazione della maggior parte dei cittadini, sia in forma diretta sia in forma indiretta, alle decisioni politiche, cioè alle decisioni che interessano tutta la collettività»6. Per Lukács democrazia è invece il nome che assume il rapporto attivo del singolo con l’intera società in cui vive, quale che sia questa società. E si tratta di un rapporto politico le cui differenze storiche (di campo, di fini, di valori) derivano ogni volta dal contenuto «umano» della rispettiva formazione economico-sociale e del correlato uomo singolo da essa prodotto.
Abbiamo così un primo punto: la democrazia non è una categoria «sociologica astratta», ma invece, – come tutte le categorie, che sono «forme d’esserci, determinazioni d’esistenza» (Marx) di alcunché, – dice Lukács, è la «concreta forza ordinativa politica di quella particolare formazione economica sul cui terreno essa nasce, opera, diviene problematica e scompare». Questa assoluta storicizzazione, che sembra a prima vista stemperare la consistenza teorica della democrazia, che sembra quasi farle perdere forza ideologica nel conflitto fra gruppi sociali diversamente, talora inversamente, interessati all’affermarsi delle istituzioni e delle pratiche democratiche, finisce in realtà per attribuire alla democrazia una centralità inedita nella storia passata e, nella attualità, una dimensione che in qualche modo va oltre o, se si vuole, arricchisce di parecchie cose nuove il concetto di socialismo come sistema sociale. Poiché lo abbiamo appena citato, viene spontaneo sottolineare che qualche anno fa N. Bobbio, riscontrando che nel dibattito della sinistra storica il rapporto fra democrazia e socialismo veniva «configurato come un rapporto fra mezzo e fine, dove la democrazia svolge la parte del mezzo e il socialismo del fine», si domandava se non fosse possibile e in qualche modo proponeva, riecheggiando Bernstein, di «sostenere il contrario, e cioè che il socialismo è il mezzo e la democrazia il fine, come chi dicesse che la democrazia reale o integrale può essere realizzata soltanto attraverso una riforma socialista della società»7.
Un secondo punto è –l’abbiamo accennato – che la differenziazione storica fra i vari processi democratici è data dal contenuto «umano» di ciascuna società. Per chiarire questo punto occorre rifarsi alla concezione «ontologico-sociale» lukacciana, dove centrale è la categoria di genere umano. Studiando la genesi dell’essere sociale (il genere umano, appunto) dall’essere naturale e analizzandone lo sviluppo successivo, Lukács riscontra che all’inizio della sua esistenza storica l’uomo è solo potenzialmente tale, che esso diviene uomo dopo, a mano a mano che l’economia, la tecnica e la cultura producono socialmente, ossia oggettivamente e normalmente, quelle relazioni materiali e spirituali fra gli esseri umani che attuano le potenzialità del genere umano. In tale percorso storico, tuttavia, non soltanto l’itinerario è talora ambiguo, cosicché molto dipende dalle scelte degli uomini stessi, ma per giunta non vi sono garanzie di progresso spontaneo, nulla esclude che ci si metta per vicoli ciechi, per strade senza uscita, con l’inevitabile esaurimento o crollo di quella società, così come non si dà fato o provvidenza che salvi l’uomo da possibili ritorni indietro, fino alla barbarie. Solo l’«abitudine», che abbia plasmato il comportamento dei singoli su valori via via più adeguati alla «umanità» dell’uomo, è in certa misura, nella normalità dei casi, capace di ostacolare i regressi.
La schiavitù, ad esempio, è certamente un progresso rispetto all’abitudine di uccidere i nemici vinti (che a sua volta è stato un progresso rispetto al cannibalismo, all’abitudine d mangiare i nemici vinti), un progresso in quanto comportamento maggiormente approssimato al riconoscimento che l’altro (lo straniero) è uomo, appartiene al genere umano, che quest’ultimo è più ampio della polis.
La schiavitù è però anche la barriera dove vanno ad arenarsi le spinte evolutive della antichità greco-romana. La sua economia ha come premessa il lavoro servile e quindi produce un «genere umano» troppo limitato rispetto agli acquisti della sua cultura artistica, filosofica e persino scientifica (in termini marxiani: rispetto allo sviluppo delle forze produttive), una contraddizione che si rivela un vicolo cieco per quella società. E tuttavia in tale contesto prende forma la prima democrazie della storia, che al tempo della Rivoluzione francese verrà giudicata il modello da imitare. L’imitazione non sarà possibile, appunto per la specificità e contraddittorietà dei rispettivi contenuti economico-sociali, ma il riferimento intellettuale potrà comunque funzionare, giacché è in quel momento storico che si genera, come fatto sociale, il contenuto primo di ogni democrazia, il rapporto diretto e consapevole, attivo, dell’individuo con il «genere umano» (un genere umano che si configura nella forma storicamente determinata di civiltà della polis, con esclusione perciò degli schiavi, delle donne e dei «barbari»). Così la democrazia – che potrà diventare l’«organo» dell’auto-educazione dell’uomo «ad essere realmente uomo» solo come democrazia socialista – è oggi arrivata ad essere, come democrazia borghese, la democrazia del capitalismo manipolativo (come Lukács definisce, in sede teorica, la fase attuale del capitalismo) con la sua specifica negazione-affermazione del rapporto fra individuo e genere umano ormai mondializzato. Ciò dopo uno sviluppo secolare, che ovviamente non è stato lineare e che ha visto persino nel Medioevo – secondo la formula del giovane Marx ripresa in un accenno da Lukács – una «democrazia della illibertà», fondata sul carattere immediatamente politico degli elementi della vita sociale, giacché la proprietà, la famiglia, il tipo di lavoro determinavano in quanto tali «il rapporto del singolo individuo verso la totalità statale».
Le forme della democrazia, come si vede, possono essere assai varie una volta assunta questa prospettiva, ciò nondimeno la diversità di ciascuna di esse, anzi di ciascun processo democratico, è chiaramente descrivibile esaminando il grado e il modo di umanizzazione ogni volta richiesti e promossi. È questo criterio contenutivo che permette di identificare le differenze o le omogeneità. Per cui, diventa evidente che a separare la democrazia borghese da quella socialista non sono le eventuali differenti istituzioni rappresentative in quanto tali, ma è invece un salto d’epoca (il passaggio dalla preistoria dell’uomo alla sua storia), anche se naturalmente la forma statale dev’essere adeguata ai rispettivi contenuti. Ma altrettanto evidente risulta, all’analisi, la continuità strutturale interna della democrazia borghese, quali che siano le eventuali differenze istituzionali riscontrabili, dal momento in cui si presentò nella sua forma politica classica, durante la Rivoluzione francese, a oggi.
È noto come nel movimento operaio si sia dibattuto a lungo sul rapporto tra forma statale e potere di classe. Qui Lukács sembra rimandare a un secondo tempo di riflessione la questione istituzionale in sé, pur aprendo in qualche modo il problema, dato che il recupero della «auto-attività delle masse», da lui auspicato, deve pur trovare suoi luoghi e strumenti istituzionali. In ogni caso – egli sostiene – il superamento della «manipolazione burocratica» stalinista, manipolazione che non viene meno quand’anche si rispettino «tutte le regole della democrazia formale (voto segreto, suffragio universale, ecc.)», non può verificarsi nei termini di Lenin, non è un discorso che si possa riprendere al punto in cui si era interrotto, come se nulla fosse accaduto. L’atteggiamento di Lenin «oggi non può essere assunto come modello diretto, come indicazione concreta, in quanto egli si riferisce sempre a situazioni che sono qualitativamente diverse da quelle odierne», a situazioni nelle quali le masse erano spontaneamente in attività, mentre oggi regna una diffusa apatia.
L’impressione, comunque, è che non si tratti soltanto di circostanze storiche diverse, ma che Lukács consideri l’apporto di Lenin come un primo tentativo su un cammino niente affatto predeterminato (in Marx si trova appena «la fondazione teorica di questo complesso di problemi», osserva, «ma solo questa»), un tentativo di cui – essendo le cose andate come sono andate – non abbiamo la verifica pratica. Talché è inutile domandarsi come sarebbe andata se la malattia e la morte non avessero impedito all’unico uomo in grado e nella condizione di pensare correttamente i problemi (tanto contano gli uomini e le condizioni), se questi eventi fortuiti non gli avessero impedito di lavorare. Ne conosciamo però il metodo, che era quello «dell’esperimento ideale entro circostanze il cui carattere teorico-legale non è ancora per nulla sufficientemente illuminato dalla conoscenza». On s’engage et puis on voit8 era la linea di condotta che questo Lenin messo in luce da Lukács impara dall’attivismo napoleonico.
Se il cammino non è predeterminato, la «fondazione teorica» in ogni caso l’abbiamo. E – insieme alle dure lezioni dell’esperienza – essa conduce, sì, in territori intravisti da Lenin, ma senz’altro oltre il punto cui egli era potuto arrivare. È certamente vero, infatti, che sarebbe occorso «spezzare» la «macchina militare e burocratica» dello Stato borghese, ma il problema vero, quello della costruzione di una democrazia socialista, si presentava – teoricamente e praticamente – al di là di quel punto discriminante su cui allora si dividevano i riformisti dai rivoluzionari.
Una frase di Marx («la classe operaia non può mettere semplicemente la mano sulla macchina dello Stato bella e pronta, e metterla in movimento per i propri fini»), scritta a proposito della Comune di Parigi e ripresa poi in una prefazione al Manifesto, divenne nei dibattiti di fine secolo la cartina di tornasole per distinguere gli uni dagli altri. Lenin, in Stato e rivoluzione, analizzando il significato di tale tesi, la connetteva ad altre espressioni di Marx centrate sull’idea che il problema della rivoluzione proletaria fosse appunto, preliminarmente, di spezzare la macchina militare e burocratica dello Stato borghese, mentre per altro verso polemizzava con Eduard Bernstein, propugnatore del «revisionismo», secondo il quale «Marx avrebbe con ciò messo in guardia la classe operaia contro un ardore troppo rivoluzionario nel momento della presa del potere»9. Ma, più in generale, è proprio sul problema dello Stato che si costituiscono le diverse tradizioni socialiste. Lenin stesso così riassumeva le cose: «Gli utopisti si sono sempre sforzati di “scoprire” le forme politiche nelle quali doveva prodursi la trasformazione socialista della società. Gli anarchici si sono disinteressati della questione delle forme politiche in generale. Gli opportunisti dell’odierna socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello Stato democratico parlamentare come un limite al di là del quale è impossibile andare». Marx, invece, che non intendeva scoprire e inventare nulla, si era messo a studiare la storia e aveva così riscontrato che si stava andando «verso la distruzione della macchina dello Stato borghese»10. Uno dei pilastri della revisione teorica proposta da Bernstein era infatti l’assunto che l’idea della dittatura del proletariato fosse un «peso morto» e che la costituzione democratica, con il suffragio universale soprattutto e con le sue garanzie formali circa l’eguaglianza e la libertà dei cittadini, fosse non semplicemente un terreno più favorevole alla lotta per il socialismo, ma la forma politica che di per sé contrastava il capitalismo. «Noi vediamo – egli affermava – che i privilegi della borghesia capitalistica, in tutti i paesi progrediti, cedono gradualmente il passo a istituzioni democratiche»11. Cosicché la socialdemocrazia, il partito che lottava per il socialismo, doveva «porsi senza reticenza, anche sul piano dottrinale, sul terreno del suffragio universale e della democrazia, con tutte le conseguenze che ne derivano per la sua tattica»12. Il punto di sostanza in cui ciò si allontana dalla analisi di Marx è messo in evidenza, sul piano politico-costituzionale, da Lucio Colletti nel saggio premesso alla traduzione italiana di questo testo base del revisionismo: «Mentre per la socialdemocrazia la contraddizione è solo tra Costituzione e capitalismo, per Marx la contraddizione, che è all’interno della società, passa anche all’interno della Costituzione. Nel senso che, se, da un lato, essa chiama, col suffragio universale, alla vita politica tutti, e per la prima volta riconosce, così, l’esistenza di un interesse comune o pubblico… per un altro verso, essa non può non fare di questo interesse comune solo un interesse formale»13.
Lukács ritiene di vedere all’origine della divaricazione da Marx un concetto semplicemente economico del socialismo. Per lui il predominio della tattica, l’asfissia teorica e strategica che colpisce il movimento comunista dopo Lenin, così come aveva colpito il movimento socialista prima di Lenin, sono cuciti a filo doppio con un tale concetto di socialismo.
Quanto al revisionismo di Bernstein, basterà ricordare la tesi secondo cui il socialismo, mentre si oppone al capitalismo, si trova per contro in rapporto di continuità con la società «borghese» o «civile» (interpretate come un’unica cosa) che si presenta come orizzonte etico-politico sia del capitalismo che del socialismo. Per Bernstein «la conquista del potere politico da parte della classe operaia e la espropriazione dei capitalisti» non sono che mezzi per realizzare «princìpi socialisti» che non si discostano minimamente da quelli liberali. È bensì vero – egli dice – che nella storia i partiti liberali sono diventati in concreto «pure e semplici guardie del copro del capitalismo» e quindi tra questi partiti e il movimento socialista non ci può essere che antagonismo, «ma per quanto riguarda il liberalismo come movimento storico universale, il socialismo ne è l’erede legittimo non solo dal punto di vista cronologico, ma anche da quello del contenuto ideale». D’altra parte, come ricorda Bernstein stesso citando Ferdinand Lassalle, nel movimento socialista esisteva già una lunga tradizione di autori che rimproveravano al liberalismo politico semplicemente di non tener fede alle sue teorie e alle sue origini.
Rispetto a questa tradizione socialdemocratica Lukács rimette in campo il Marx critico della società borghese, il Marx che giudica inetti quei socialisti «che pretendono di additare il socialismo come realizzazione delle idee della società borghese espresse dalla Rivoluzione francese»14 e non si avvedono che questa società ha per l’appunto bisogno di sdoppiarsi in una sfera «ideale» e in una sfera «materiale», pratica. Nel socialismo, all’opposto, le due sfere devono finalmente congiungersi per dar luogo all’uomo attivo in quanto uomo intero, non più scisso in homme (egoista privato) e citoyen (idealista pubblico). Così, mentre costitutiva della società borghese è la trasgressione privata della morale pubblica o, per dirla all’inverso, una vita quotidiana che si basa sul principio homo homini lupus ma che si idealizza nella democrazia come «forma politica» ed etica, il socialismo al contrario è la democrazia della vita quotidiana stessa. Qui ogni individuo è persona, cioè realizza empiricamente il genere umano tutto, quale esiste nella sua totalità di specie sulla terra. Tanto più che il mondo ormai è unificato dalla tecnica e dall’economia. «Società vuol dire operare insieme degli uomini, e mai essa si è trovata in precedenza, dal punto di vista tecnico-pratico, al livello di realizzazione raggiunto nel capitalismo odierno», osserva Lukács. A tale stato di cose non corrisponde più il principio (che è stato caratteristico di tutta la preistoria dell’umanità, ma che si è espresso al meglio con la società borghese) secondo cui l’altro uomo è il limite della mia libertà; la nuova situazione del mondo trova invece la sua «forma sociale» nella democrazia socialista, vale a dire in una vita quotidiana costruita (dall’abitudine) sul principio nuovo (caratteristico cella vera storia dell’umanità ora agli inizi) secondo cui l’altro uomo è la realizzazione della mia libertà.
Ma lo stalinismo è tutto al di qua del salto d’epoca necessario perché si possa parlare di auto-educazione dell’uomo ad essere realmente uomo (al «regno della libertà»). E lo è perché la democrazia socialista, «l’organo» di tale auto-educazione, per sua natura non può sorgere né, utopisticamente, come applicazione di un modello ideale inventato da alcuni sapienti illuminati e da imporre agli uomini, né, meccanicisticamente, come prodotto spontaneo dello sviluppo tecnico ed economico, ma deve al contrario essere opera politica, lavoro consapevole, degli uomini in quanto persone. Stalin invece e tutti i suoi «rivali», da Trockij a Bucharin e gli altri, ritennero che edificare il socialismo fosse esclusivamente una impresa economica, cosicché produssero, analogamente alla socialdemocrazia della Seconda Internazionale, sebbene con intenti opposti, una cultura politica volgar-materialistica che si esauriva in mosse tattiche (lo spirito burocratizzante non poteva che essere l’effetto visibile di questo predominio della tattica). Lo stesso Lenin colse bensì «sul piano pratico-intuitivo» il carattere specifico della formazione sociale socialista, cioè il suo bisogno, per esistere, di individui consapevolmente attivi, ma non arrivò a formulare il problema in termini teorici generali. Né formulò mai il problema teorico di fondo della concreta edificazione di una società socialista – nota Lukács – nelle condizioni non classiche in cui avvenne la Rivoluzione d’ottobre: il problema delle «proporzioni» da assegnare alla pratica economica di recupero del ritardo rispetto al capitalismo evoluto, da un lato, e, dall’altro lato, alle pratiche, alle istituzioni, alla cultura della democrazia socialista. Egli si limitò a delineare le «nude prospettive»: l’elettrificazione del paese e i soviet.
E tuttavia – diversamente che in Stalin e nella Terza Internazionale, che possiamo chiamare stalinista – in Lenin vi sono intenzioni profonde che lo inducono a guardare in avanti e per converso a preoccuparsi davanti al burocratismo dilagante. Lukács va a cercare con insistenza quei momenti in lui dove si percepisce la spinta a superare i dati e i metodi della cultura politica che lo circonda. Si sofferma quindi sul Lenin che riflette intorno alla estinzione dello Stato perché, con la sua categoria dell’«abitudine», è capace di incanalare il discorso verso il terreno, quello della vita e della cultura quotidiana, da cui sorge la possibilità reale di una teoria socialista non atrofizzata dal dilemma drogato: o Bernstein o Stalin.
Il socialismo inteso come democrazia della vita quotidiana, cui Lukács arriverà seguendo anche questa traccia, è certamente una versione etica della proposta socialista, ma non conserva per nulla la scissione fra «materiale» e «ideale» entro cui si muovono ambedue i corni di quel dilemma. Infatti né registra come semplici valori modello la libertà e l’uguaglianza formali borghesi, né abbandona alla moralità ideale della «causa» il compito di dare senso e contenuto ad azioni di per sé legate alla logica pragmatica, priva di idea, del risultato immediato. e fa anche saltare – vale la pena di rilevarlo di passata – la scissione fra oggi e domani, fra presente come sacrificio e futuro come felicità, su cui è stata costruita la militanza comunista fin dall’inizio.
Il presente, il qui e ora, ha ormai due poli nell’analisi di Lukács: l’uomo come specie (materialmente costituita sulla terra dal mercato mondiale capitalistico e dalla potenza della tecnica) e l’uomo come persona (che esiste se e quando il singolo uomo vede nell’altro la specie). Questi due poli compongono un campo di realtà sociale la cui forma adeguata è, per l’appunto, la democrazia della vita quotidiana. Si tratta, alla fine, di una concezione filosofico-politica assai compatta, che vuole tenere insieme il senso della storia del mondo con l’attenzione alle cose concrete di ogni giorno.
Non per questo, però, l’eredità storica del socialismo viene a perdere di pregnanza. Lo impedirebbe, come abbiamo detto, il realismo stesso della concezione. È piuttosto da sottolineare a tale proposito quella che ci sembra una importantissima dislocazione dell’accento dal fatto rivoluzionario, come gesto iniziale, ai problemi costruttivi del passaggio socialista. Così, invece di guardare ancora al Lenin stratega inflessibile dell’Ottobre, Lukács si interessa, crediamo di poter dire, molto di più e molto più a fondo della introduzione della Nep (una misura tutt’altro che meramente economica, nell’interpretazione che qui se ne dà) e soprattutto rivaluta nella discussione sul sindacato del 1921 l’intenzione profonda, ancora una volta, che era contenuta nella formula leniniana della «cinghia di trasmissione» (ma funzionante in due sensi di marcia). In ambedue i casi Lukács ritiene che Lenin cogliesse il nodo del problema, vale a dire l’attività delle masse, sciolto il quale poteva aver luogo uno sviluppo democratico inedito nella storia.
Non fu così. Nella situazione nuova, conseguente alla crisi (molto lunga) dello stalinismo, Lukács recupera proprio l’idea di una articolata dialettica politico-sociale imperniata sulla insostituibile funzione democratica (nel senso innovativo che questo termine qui assume) del sindacato, ma aggiunge qualcosa che in Lenin e tantomeno nella tradizione comunista staliniana non c’era: rivendica la mobilitazione dell’«opinione pubblica» come primo passo verso la democrazia socialista. Senza la quale, senza le persone, senza gli individui come soggetti della società e, in particolare, dell’economia, anche quest’ultima – statalizzata quanto si voglia – resta un vicolo cieco, da sé non riesce ad adeguarsi alla dignità umana, che è la categoria base della storia ora agli inizi.
Alberto Scarponi
(Il brano rappresenta la Prefazione al volume: György Lukács, L’uomo e la democrazia, Roma, Lucarini Editore, 1987).
* Alberto Scarponi, nato a Roma nel 1934, dove tuttora vive, proviene da una lunga esperienza politica e filosofica: è stato negli anni settanta, per oltre un decennio, caporedattore della rivista teorica del Pci «Critica marxista» e successivamente (dal 1991 al 1998) segretario generale del Sindacato nazionale scrittori, dirigendone la rivista «Produzione e Cultura». Oggi è redattore letterario del trimestrale «Lettera internazionale» e dirige la rivista letteraria telematica «MU il vuoto esplode», da lui fondata.
Noto come saggista e traduttore di testi sia filosofici che letterari, ha curato l’edizione italiana del IV volume delle Opere di Marx ed Engels (collana di cui è stato responsabile redazionale fino al 1972). Inoltre ha tradotto i maggiori scritti dell’ultimo Lukács, – dai tre volumi dell’Ontologia dell’essere sociale (1976-1981), ai relativi Prolegomeni all’Ontologia dell’essere sociale (1990), all’autobiografia filosofica Pensiero vissuto (1983), al saggio L’uomo e la democrazia (1987) e altro ancora, – talvolta approntando edizioni italiane di testi che erano inediti in assoluto. Fra i testi filosofici da lui tradotti vi sono Filosofia del linguaggio di Adam Schaf (1969) e Sociologia della vita quotidiana di Ágnes Heller (1975).
Nel campo letterario, suoi lavori di traduzione sono stati una antologia di prose di Heinrich Heine (La scienza della libertà, 1972), Fenicka e Dissolutezza di Lou Andreas-Salomé (1987, con ampia prefazione), i racconti intitolati Fuochi d’artificio di Frank Wedekind (1988) e la doppia traduzione, in versi sciolti e in rima, del poemetto polemico di Ludwig Feuerbach Versi sopra la morte (1995, edizione accompagnata, oltre che da un ampio scritto introduttivo, anche da un dialogo sui problemi del tradurre poesia). Negli anni settanta, come autore di testi per il teatro d’avanguardia, ha anche scritto una versione drammaturgica di Igitur di Stéphane Mallarmé.
Tra i suoi lavori letterari sono apparsi alcuni “pezzi postmoderni”, racconti e composizioni poetiche in volumi collettivi o riviste.
(Tratto dal sito del Sindacato Nazionale Scrittori: www.sindacatoscrittori.net).
Note
1 Il presente saggio di Scarponi, prefazione al volume di György Lukács L’uomo e la democrazia pubblicato nel 1987 da Lucarini Editore, compare anche, sotto il titolo Anima, forme, democrazia, come introduzione alla riproposizione della stessa opera lukacsiana nel 2013 a cura della casa editrice del quotidiano «il manifesto» (col titolo La democrazia della vita quotidiana). Nella versione del 2013 Scarponi in questo punto aggiunge le seguenti notazioni: «Nel ristretto gruppo dei suoi allievi-amici circolò allora una battuta: il Partito si era iscritto a Lukács. Era la percezione ironica della costanza con cui per decenni, e precisamente da prima ancora della pubblicazione nel 1911 dei saggi intitolati L’anima e le forme, dove aveva indagato la vita intellettuale europea come un «tentativo», un cercare saggiando il terreno, ma poi dalla composizione affannata di Sulla povertà dello spirito, in cui aveva drammaticamente combattuto contro il fallimento dell’intellettuale tutto inteso all’“opera” e per questo sordo alla “vita” e dunque impossibilitato a rispondere al bisogno che il mondo aveva di rivoluzione, – da sempre Lukács aveva cercato il nesso ontologico, reale, insomma etico tra pensiero e azione, tra intellettuali e rivoluzione appunto, nel concreto del quotidiano tra coscienza e politica, e ora sapeva di averlo trovato, quell’anello mancante, nella scoperta marxiana del lavoro (un complesso antropico costituito dalla filiera: bisogno-coscienza-realtà-desiderio-conoscenza-finalità-azione-valore-misura): il lavoro come categoria fondativa dell’essere umano, della sua storia intrisa di possibile, dunque di incertezza, e di autoteleologia, dunque di volontà di sé, individuale e collettiva. Nel 1918 il senso di quel bisogno di rivoluzione l’aveva indotto alla scelta “etica” del comunismo, atto morale, soggettivo, volontaristico, visibile solo dalla parte del soggetto; ora, cinquant’anni dopo, sapeva invece di essere su una soglia oggettiva, solo possibile ma oggettiva, era davanti all’eventuale transito dalla preistoria alla storia dell’uomo. Qui ora la parola comunismo non aveva più il connotato della bella bandiera, dell’evento-azione che affida una invisibile razionalità alla propria intenzione di futuro, non era più rivoluzione ma opera rivoluzionante, lavoro» (A. Scarponi, Anima, forme, democrazia, in G. Lukács, La democrazia della vita quotidiana, Roma, Manifestolibri - La Talpa, 2013, pp. 7-8) [ndr].
2 Vedi G. Lukács, Marxismo e politica culturale, Torino, 1968, pp. 213-217.
3 P. Togliatti, Opere scelte, Roma, 1974, p. 719.
4 Ibidem, p. 708.
5 Ibidem, pp. 708, 709.
6 N. Bobbio, Quale socialismo? Discussione di un’alternativa, Torino, 1976, p. 42.
7 Bobbio, ibidem, p. 104.
8 «Ci scontriamo e poi si vede», celebre frase attribuita a Napoleone Bonaparte [ndr].
9 V.I. Lenin, Opere scelte, Roma, 1968, p. 935.
10 Ibidem, p. 893.
11 E. Bernstein, I presupposti del socialismo e i compiti della socialdemocrazia, Bari, 1974, p. 4.
12 Ibidem, p. 188.
13 Ibidem, p. LXXXI.
14 K. Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, I, Firenze, 1968, p. 219.
Inserito il 29/1/2023.
Costanzo Preve e György Lukács.
Il valore politico del marxismo dell’ultimo Lukács
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
La democratizzazione della vita quotidiana
Il valore politico del marxismo dell’ultimo Lukács
Per poter subito impostare correttamente la questione cogliendone l’aspetto essenziale ed entrando immediatamente in medias res ritengo utile iniziare da una illuminante citazione di Lukács che risale al 1966. Conversando con tre marxisti residenti nella Germania Federale (Wolfgang Abendroth, Hans Heinz Holz, Leo Kofler) a proposito dei problemi generali di prospettiva e di tendenza concernenti la ricostruzione di un credibile paradigma marxista, teorico e pratico, Lukács affermava:
Dobbiamo convincerci che oggi non possiamo, quanto al risveglio del fattore soggettivo, rinnovare e continuare gli anni Venti, ma dobbiamo ricominciare da un nuovo punto di partenza utilizzando tutte le esperienze che sono patrimonio del movimento operaio così come si è sviluppato fino ad ora e del marxismo. Dobbiamo renderci chiaramente conto che abbiamo a che fare con un nuovo inizio o, per usare una analogia, che noi ora non siamo negli anni Venti del secolo ventesimo ma, in un certo senso, all’inizio del secolo diciannovesimo, quando, dopo la rivoluzione francese, si incominciava a formare lentamente il movimento operaio. Credo che questa idea sia molto importante per il teorico, perché ci si dispera assai presto quando l’enunciazione di certe verità produce un’eco molto limitata».
Lo scrivente, che appartiene anagraficamente alla cosiddetta «generazione del Sessantotto», ha dovuto battere la testa contro il muro per molti anni prima di comprendere che queste chiare parole di Lukács offrivano una lucida diagnosi teorica anticipata della tendenza di fondo del Sessantotto stesso. Nel sessantotto ci fu, in effetti, la percezione diffusa che fosse necessario un «ringiovanimento» della tradizione del movimento operaio mediante una sorta di «nuovo inizio», e tuttavia questa giusta percezione fu incanalata nel vicolo cieco della «coazione a ripetere» gli anni Venti di questo secolo, attraverso la riscoperta di tutte le eresie storiche e di tutti i momenti «estremistici» della storia del movimento operaio. In proposito, tuttavia, un’autocritica razionale di questo tipo deve a mio parere essere sempre accompagnata dal razionale rinnovamento di una critica di fondo al movimento operaio storicamente costituito di allora, dimostratosi incapace di recepire gli elementi strategici e di prospettiva che venivano allora sollevati in una forma inadeguata.
Ritornando ora a Lukács, vi è una ragione di fondo che spiega la sua lucidità. Parlando della illusorietà di un ritorno al paradigma teorico degli anni Venti, Lukács era perfettamente cosciente di quanto diceva, in quanto egli stesso aveva a suo tempo formulato, con la sua grande opera del 1923 Storia e coscienza di classe, le coordinate teoriche essenziali della autocoscienza comunista dell’epoca, così almeno come questa autocoscienza si stava dando presso gruppi non marginali di intellettuali europei di allora. In proposito, Lukács si mostrava preoccupato del successo che in quegli anni stavano ottenendo le traduzioni francese e italiana di Storia e coscienza di classe, ritenendo non a torto che la sua opera giovanile sarebbe stata letta come un manifesto filosofico attuale di battaglia, e che sarebbe stato invece trascurato come «inattuale» tutto il suo sforzo di rifondazione filosofica del marxismo sulla base di una ontologia dell’essere sociale, da lui intrapreso dopo il 1956 e in particolare intorno alla metà degli anni Sessanta.
Nella realtà dei fatti, avvenne proprio questo. Per portare una piccola testimonianza personale, ricordo che nel corso della mia entusiastica adesione al marxismo ed al comunismo verso la metà degli anni Sessanta, al tempo dei miei studi universitari, la lettura della traduzione francese di Storia e coscienza di classe e della carica utopica che conteneva giocò un ruolo importante. Solo molti anni dopo iniziai a riflettere su queste parole di Lukács, risalenti anch’esse al 1966, in cui si diceva:
Per fare un esempio interessante, prenda il famoso libro di Mennheim: egli è molto severo contro l’ideologia ma nutre una certa debolezza conciliante ed un’amabile tolleranza per l’utopia. Infatti, proprio tra queste due cose scompare la prassi rivoluzionaria. Un’utopia come utopia può essere nolto bene integrata, come Lei dice, Infatti un’opposizione che abbia obiettivi tanto vasti da rendere impossibile, per principio, la loro attuazione può essere integrata assai bene da un capitalismo come quello attuale. So benissimo perché certe cose siano accettabili e certe altre no.
A proposito di Storia e coscienza di classe si parlò a suo tempo di marxismo hegeliano, o tout court di hegelo-marxismo. A mio parere, si tratta di una connotazione assolutamente impropria. Da un lato, Hegel disponeva di una sensibilità filosofica troppo avvertita per eliminare del tutto la legittimità di una considerazione dialettica della natura, in primo luogo, e per unificare in un solo luogo «espressivo» le tre dimensioni dello «spirito», soggettivo, oggettivo ed assoluto, come se esse potessero esaurire la loro sostanzialità e la loro determinatezza nel punto di vista di un solo Soggetto (nel caso del giovane Lukács, del Proletariato idealtipicizzato titolare della conoscenza-azione della Storia Universale). Dall’altro lato, Marx disponeva di una coscienza scientifica troppo sviluppata per semplificare la complessità articolata, storica e sociale, del modo di produzione capitalistico e delle sue legalità non deterministiche di sviluppo per ammettere di poter fondare questa complessità sul terreno fragile di un punto di vista assoluto di una classe-soggetto, la coscienza assoluta del proletariato rivoluzionario. Ancora una volta, è bene ripetere che il cosiddetto hegelo-marxismo, versione novecentesca di una sorta di giacobinismo fichtiano rivoluzionario e soggettivamente «puro» (da non confondersi con un’altra versione, del tutto diversa, di hegelo-marxismo, consistente in una sorta di giustificazionismo evoluzionistico di tutto quanto accade «di fatto», identificato con una sintesi fra reale e razionale: questa non è, a nostro parere, che una sintesi instabile fra un certo crocianesimo ed un certo positivismo), è una teoria che può essere studiata, condivisa o criticata, come se Hegel e Marx in realtà non fossero mai neppure esistiti.
Ciò che ci interessa in questa sede, di tutta questa questione, è che Lukács stesso superò con le proprie forze intellettuali questo paradigma filosofico inadeguato (la cui forza, peraltro, stava nel suo «rispecchiare» nelle coscienze degli intellettuali occidentali anticapitalisti la grande rottura storico-epocale dell’Ottobre Rosso del 1917) nella direzione di una più consapevole e matura autocoscienza filosofica marxista. Utilizzando un po’ rozzamente categorie tratte dalla storia della scienza, possiamo dire che questo superamento fu duplice, in quanto presentò una dimensione «internistica», secondaria, ed una dimensione «esternistica», principale. Esaminiamole separatamente.
In primo luogo, un filosofo dotato del livello teorico di cui Lukács era capace non poteva non rendersi conto della debolezza e delle aporie di un paradigma integralmente idealistico della espressività della filosofia marxista, imperniato sulla identificazione fra soggetto ed oggetto, proletariato e storia universale. Questo paradigma, per «tenere», doveva necessariamente separare in modo platonico il proletariato e la storia universale reali dal proletariato e dalla storia universale ideali, fino ad instaurare una schizofrenia teorica quasi «istituzionalizzata». Ora, è vero che Lenin ci insegna che un idealismo intelligente è più produttivo di un materialismo stupido (e comunque lo scrivente continua a pensare che questo paradigma giovane-lukacsiano sia comunque più produttivo delle forme di meccanicismo evoluzionistico basato su di una nozione «economicistica» delle forze produttive sociali), ma è anche vero che non si vede bene perché intestardirsi a stare su di una base teorica idealistica quando è possibile riformarla in una direzione materialistica, dialettica, ontologico-sociale.
In secondo luogo, ed è questo il punto cruciale, l’esperienza storica della costruzione del socialismo nell’URSS e soprattutto dello stalinismo faceva a poco a poco maturare in Lukács la convinzione che il superamento sociale, di massa, delle forme di coscienza e di azione staliniane non poteva compiersi attraverso una fuga in avanti di una sorta di «supplemento di soggettività comunista» (che avrebbe ovviamente comportato la rifondazione di un paradigma filosofico marxista su basi idealistico-fichtiane), ma avrebbe soltanto potuto darsi sulla base di un «bagno di oggettività» e di un ritorno all’indagine della complessità dell’essere sociale complessivo e delle sue leggi ontologiche di sviluppo. L’essenza filosofica dello stalinismo secondo Lukács, infatti, non risiede affatto (come opinano superficialmente molte correnti del marxismo occidentale, prendendo su questo punto un vero e proprio abbaglio) in una forma di «oggettivismo», ma anzi si nutre di una forma di «soggettivismo settario» e manipolatore. Il soggettivismo settario non ha dunque bisogno di un supplemento di soggettività settaria, per moralmente pura e bene intenzionata che essa possa essere, ma ha bisogno di una correzione di rotta in senso oggettivistico, ontologico-sociale.
È questa, ovviamente, la chiave del secondo paradigma teorico che Lukács ha saputo offrire alla ricostruzione del marxismo, nella sua attività dal 1956 al 1971 concretizzatasi nelle due grandi opere denominate Estetica e Ontologia dell’essere sociale (cui bisogna aggiungere per completezza […] L’Uomo e la democrazia e anche i Prolegomeni […]).
Questa correzione di rotta è peraltro ad un tempo necessaria e improcrastinabile, da un lato, e presenta un gravissimo pericolo, dall’altro. È necessaria, perché intestardirsi a fornire «supplementi di soggettività» moralmente pura a strutture di riproduzione sociale esse stesse basate sul soggettivismo settario è comunque un vicolo cieco. È pericolosa, perché il superamento del soggettivismo settario sfocia in generale in una conciliazione con il vecchio mondo manipolato che si voleva superare e in una accettazione del cosiddetto «regno razionale della natura umana» capitalistica, confondendo le specifiche legalità dialettiche della costruzione del socialismo con le cosiddette leggi economiche universali che non sono in realtà altro che le leggi economiche specifiche della riproduzione capitalistica della società.
Ancora una volta, chi vive in Italia capirà assai bene quanto stiamo dicendo. Come è noto, migliaia di ex-sessantottini arrabbiati sono passati in pochi anni da un soggettivismo settario su base idealistica, che aveva come contenuto l’immediato passaggio ad un comunismo dei bisogni, a una riconciliazione integrale con la società capitalistica e i suoi valori economici, politici ed ideologici. In generale questo fenomeno viene interpretato con categorie morali, in chiave di instabilità ideologica della piccola borghesia intellettuale slegata dalla produzione materiale o in chiave di corruzione morale di chi si fa «comprare» per un pugno di dollari. Queste due spiegazioni contengono elementi indubbi di verità, e tuttavia, a nostra conoscenza, soltanto la filosofia dell’ultimo Lukács è in grado di spiegare che l’oscillazione fra il soggettivismo settario ultracomunista e la riconciliazione con l’esistente sono i due momenti opposti, in solidarietà antitetico-polare, di un unico complesso ideologico anti-ontologico.
Da un punto di vista teorico, il rifiuto della conciliazione con l’esistente capitalistico (o con la riproduzione sempre più asfittica e fallimentare del modello stalinano di socialismo) passa attraverso il superamento concettuale di almeno due dicotomie rigide e parziali, la dicotomia politica fra democrazia borghese «universale» e socialismo reale, e la dicotomia economica fra mercato e piano. A nostro parere, una mente che si faccia imprigionare in questa duplice formulazione antinomica è a tutti gli effetti una «mente prigioniera» […]. Schematizzando molto (e ce ne scusiamo sinceramente con il lettore), la questione fondamentale della filosofia marxista non è più oggi quella della presunta priorità dell’essere sul pensiero secondo la dicotomia idealismo/materialismo, ma è a tutti gli effetti quella della concettualizzazione di una polarità dialettica non antinomica che sappia render conto della attuale «mondializzazione reale» del problema del socialismo nella nostra epoca.
In proposito, il traduttore e commentatore di Lukács Alberto Scarponi formula assai correttamente il nucleo del paradigma teorico di questo secondo Lukács:
Una teoria socialista [non deve essere] atrofizzata da un dilemma drogato: o Bernstein o Stalin. Il presente per Lukács ha ormai due poli: l’uomo come specie (materialmente costituita sulla terra dal mercato mondiale e dalla potenza della tecnica) e l’uomo come persona (che esiste se e quando il singolo uomo vede nell’altro la specie). Questi due poli compongono un campo di realtà sociale la cui forma adeguata è la democrazia della vita quotidiana.
[…] Dicendo che «la vita quotidiana» è in un certo senso «la cellula elementare» dell’essere sociale contemporaneo, Lukács non si mette sulla strada di una «fuga in avanti» verso una sua trasformazione globale […]. Ancora una volta, il «cambiare la vita dalle fondamenta», oppure il «vivere la vita come un’opera d’arte» sono due varianti utopico-estremistiche, e perciò innocue e tollerate, del programma realistico di poter «vivere una vita sensata», programma apparentemente moderatissimo, e che pure il capitalismo (e il suo fratello gemello, il socialismo manipolato) rende impossibile. Come sintetizza in modo insuperabile Lukács nella Ontologia dell’essere sociale, «… il soggetto in quanto tale avvizzisce per lo più nell’ampio arco che va dallo specialismo alla stravaganza».
Sarebbe sciocco dimenticare, ovviamente, che la logica impersonale di riproduzione del modo di produzione capitalistico non rende soltanto difficile il perseguimento di una vita «sensata», ma rende talvolta anche impossibile il proseguimento della vita stessa intesa nel suo significato più elementare. Milioni di persone muoiono a causa dei rapporti economici mondiali imposti dall’imperialismo, e nelle stesse nostre società la vita per milioni di anziani pensionati e di disoccupati è assai dura. In questa sede, tuttavia, ci limiteremo a fornire il significato tecnico-filosofico della nozione lukacsiana di «democratizzazione della vita quotidiana», trascurando ogni (per altro ovvia) applicazione pratica ulteriore.
Secondo Lukács, che è un convinto sostenitore della teoria leniniana del rispecchiamento, il peculiare «rispecchiamento quotidiano» dell’intero sociale è distinto in via di principio dal «rispecchiamento scientifico» di esso. Mentre il rispecchiamento scientifico, infatti, si basa su di una visione impersonalistico-strutturale, integralmente disantropomorfizzata, di questo intero sociale stesso (esemplare è in proposito la nozione marxiana di «modo di produzione»), il rispecchiamento quotidiano si basa su di una antropomorfizzazione immediata di tutti gli eventi (esemplari sono in proposito le domande «esistenzialistiche» sul «significato» di eventi strutturali oppure sulla cosiddetta «creazione del mondo»). La natura di questa antropomorfizzazione caratterizza le rappresentazioni del pensiero quotidiano come una mescolanza contraddittoria di rigidità apodittica e di consustanziale incertezza, ed è su questa debolezza del senso comune quotidiano che si può innestare la manipolazione. Un quotidiano «democratizzato» è dunque un quotidiano pronto ad accogliere un rispecchiamento scientifico del mondo, un quotidiano non manipolabile perché capace di superare realmente la mescolanza alienante di cui si è parlato.
Il capitalismo non può strutturalmente permettere, neppure nelle sue varianti socialdemocratiche più oneste e convincenti, un vero superamento di questa mescolanza, in quanto verrebbero meno non solo gli arcana imperii della sua riproduzione politico-statuale, ma anche quel «segreto della estorsione del plusvalore», in particolare del plusvalore relativo, di cui non può fare a meno. Con questo non vogliamo dire che il socialismo (e il suo stadio superiore, il comunismo) sarà la società della trasparenza assoluta. Personalmente, dubito talvolta che si tratti di un obiettivo di tipo olistico-organicistico poco augurabile, e preferisco infatti la più sobria e moderata nozione di «associazione libera di individui eguali e solidali». In ogni caso, mi sembra che questo modo di impostare la questione rappresenti a tutti gli effetti un modo creativo di sviluppare l’eredità filosofica marxista.
Del marxismo, comunque, avremo bisogno in futuro come del pane. In questa sede, per ragioni di spazio, non era possibile sviluppare analiticamente l’esposizione delle categorie della rifondazione lukacsiana della filosofia marxista. Altre sedi, più ampie, verranno trovate. Per ora accontentiamoci di aver segnalato al lettore l’importanza di questi temi, e soprattutto la necessità di impostare un dialogo fra i convincenti esiti della riflessione dell’ultimo Lukács e i momenti migliori della tradizione del marxismo italiano, in particolare di Gramsci. Pur senza poterlo qui dimostrare, riteniamo che la tendenza fondamentale del pensiero di Gramsci non sia soggettivistica, ma sia ispirata ad una visione del mondo di tipo ontologico-sociale. Ovviamente, la confezione di minestroni eclettici non serve a nessuno. Più utile, invece, è la sottolineatura di elementi reali di convergenza teorica da cui possono nascere sviluppi inaspettati. In proposito, nutro un moderato ottimismo.
Costanzo Preve
(Tratto da: Costanzo Preve, La democratizzazione della vita quotidiana, in «Marxismo oggi», anno II, n. 1, gennaio 1988).
* Costanzo Preve (1943-2013) è stato un filosofo, saggista e politologo. Ha pubblicato numerosi saggi sul marxismo, di cui ci occuperemo anche in futuro su queste pagine.
Nota bibliografica
Per non appesantire la lettura, abbiamo rinunciato consapevolmente alle note. Inoltre, nostra intenzione non era di scrivere un saggio ampio ed articolato in cui documentare tutte le nostre affermazioni (sarebbero state necessarie decine di fitte pagine), quanto di iniziare un discorso che vorremmo fosse proseguito ed ampliato. Tuttavia, diamo qui alcune indicazioni di lettura.
Le citazioni iniziali sul «nuovo inizio» del movimento operaio e sulla «tolleranza borghese verso l’utopia» sono tratte da AA.VV., Conversazioni con Lukács, De Donato, Bari, 1968, pp. 72-73 e 78. La citazione di Alberto Scarponi è tratta dalla sua introduzione a G. Lukács, L’uomo e la democrazia, Lucarini, Roma, 1987. La citazione lukacsiana sulla oscillazione dell’individuo borghese fra «specialismo e stravaganza» è tratta da G. Lukács, Ontologia dell’essere sociale, Editori Riuniti, Roma, 1981, p. 760.
Sebbene uno studio del paradigma teorico dell’ultimo Lukács debba essere impostato a partire da una lettura attenta della già citata Ontologia dell’essere sociale, consigliamo al lettore privo di cognizioni specifiche in filosofia di partire dal libro edito da Lucarini, L’uomo e la democrazia, Scritto nel 1968 e rimasto inedito fino ad oggi, il libro è relativamente breve (meno di centocinquanta pagine), ed è scritto con cristallina chiarezza e con spirito di vero marxista e di vero comunista.
Segnaliamo qui per finire alcuni libri utili per una «letteratura secondaria» sull’ultimo Lukács. In primo luogo, per la sua chiarezza, si consiglia l’operetta di N. Tertulian, Lukács. La rinascita dell’ontologia, Editori Riuniti, Roma, 1986. Un convincente esame degli elementi di continuità tra il Lukács degli anni Trenta e quello degli anni Sessanta (al di là delle «liturgie linguistiche dell’epoca») lo si ha nella introduzione di Vittoria Franco a G. Lukács, Intellettuali e irrazionalismo, ETS, Pisa, 1984. Assai utili sono tre raccolte di saggi che qui ricordiamo: AA.VV., G. Lukács nel centenario della nascita (a cura di Domenico Losurdo, Pasquale Salvucci e Livio Sichirollo), QuattroVenti, Urbino, 1986; AA.VV., Il marxismo della maturità di Lukács, a cura di Guido Oldrini, Prismi, Napoli, 1983; AA.VV., Lukács e il suo tempo, a cura di Mario Valente, Pironti, Napoli, 1984.
Lo scrivente, che si considera da circa dieci anni un lukacsiano convinto, si permette di segnalare un suo studio complessivo in cui Lukács è collocato nel più ampio contesto della filosofia contemporanea, marxista e non: Costanzo Preve, La filosofia imperfetta, Fanco Angeli, Milano, 1984.
Inserito il 15/1/2023.