Una storia dell’emigrazione italiana in Nuova Zelanda
🔴 di Antonella Sarti 🔴
Ringraziamo calorosamente Antonella Sarti, scrittrice, critica letteraria, traduttrice di letteratura neozelandese e maori per averci segnalato questa particolarissima storia…
Già docente presso il Liceo scientifico “Rodolico” di Firenze, Sarti collabora con la Victoria University di Wellington. Ma di Antonella ci preme ricordare anche la sua grande passione per lo studio della Resistenza, soprattutto nel territorio apuano, da cui ha tratto ispirazione per il romanzo Dalle cime al mare (Effigi, 2012).
Numerose le sue traduzioni, i saggi critici e le curatele di volumi di poesia e letteratura maori. Tra i numerosi titoli ricordiamo Piccoli buchi nel silenzio di Hone Tuwhare o Sciame di stelle. Poetesse maori contemporanee (Ensemble, 2020).
Paolo Mencarelli
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C’è un club a Wellington… il Club Garibaldi
Il motto è: “Fratellanza, Educazione, Lavoro”
di Antonella Sarti
Il Club Garibaldi è il più antico club culturale italiano dell’emisfero sud.
Fu fondato nel 1882 e registrato nel 1883 da alcuni fra i primissimi italiani che si stabilirono sulla costa attorno alla capitale neozelandese, Wellington, ed in particolare nei quartieri marini di Eastbourne ed Island Bay. La maggior parte di loro erano pescatori provenienti da Massa Lubrense e paesini limitrofi, altri dall’isola di Stromboli. Ma tra i fondatori dello storico club ci furono soprattutto ex garibaldini (da cui il nome dedicato) e seguaci repubblicani dell’eroe nazionale, che avevano preferito vivere in esilio anziché sottostare al governo del re sabaudo. La prima riunione per organizzare il club avvenne un mese dopo la morte di Giuseppe Garibaldi. Fu scelta come sede Courtnay Place, centrale nella capitale della Nuova Zelanda, la quale fu proclamata Stato ufficiale e Dominio della Corona Britannica, a seguire il Trattato di Waitangi, nel 1840. Dunque, uno dei primi club in assoluto in Aotearoa NZ!
Il primo presidente del Garibaldi Club era il signor Cenci, il vice presidente il signor Innocenti, il segretario Mr George Robertson (originario di Livorno e di doppia cittadinanza italo-britannica) e a seguire fra i membri fondatori: rappresentanti delle famiglie Cimino, Della Barca e Scaramelli. La famiglia Scaramelli era particolarmente vicina a Garibaldi, e una discendente di Telene Elvira Maria Scaramelli (emigrata in Nuova Zelanda nel 1870, fra i 150 cittadini livornesi ai quali il governo britannico aveva offerto il viaggio gratuito), di nome Michela Sgarallino, conserva ancora preziosi cimeli donati da Garibaldi alla sua famiglia, nel Museo Sgarallino di Livorno. Lo scorso anno Michela ha visitato la Nuova Zelanda per far luce sulle connessioni storiche e familiari con il Club Garibaldi. Ha incontrato Geoffrey Patrick Scaramelli, nato a Wellington e discendente di entrambe le famiglie, Scaramelli e Sgarallino, il quale è uno storico ed ha fatto molta ricerca sul tema.
Il motto ispiratore del Club Garibaldi era “Fratellanza, Educazione, Lavoro”.
Il Club è tuttora attivo e prospero, ed assieme al Circolo Italiano (affiliato alla Società Dante Alighieri) si occupa della promozione della lingua, cultura e tradizioni italiane a Wellington. Si trova adesso non distante dal primo luogo di incontro, all’incrocio fra Vivian Street e Tory Street, e nella sua sala principale si legge a grandi lettere lo slogan “Qui tutto bene” (un commento che accomunava molte lettere dei primi emigrati italiani).
Antonella Sarti
1932. Festa per i bambini italiani per il 50° anniversario della fondazione del Club Garibaldi.
Fonte della foto: «Italian Historical Society Journal», Volume 3, No. 2, July-August 1995, p. 9.
Anni ’50. Al Club Garibaldi ci si incontra e si gioca a carte.
Fonte della foto: «Italian Historical Society Journal», Volume 3, No. 2, July-August 1995, p. 10.
1961. Ballo al Club Garibaldi.
Fonte della foto: «Italian Historical Society Journal», Volume 3, No. 2, July-August 1995, p. 11.
La storia del Club tratta dall’«Italian Historical Society Journal»
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Il Club Garibaldi
La Casa dei coloni italiani a Wellington
Presentiamo un estratto delle pagine 71-85 del libro Alla fine del mondo (To The Ends of The Earth) di Paul Elenio, pubblicato dal Petone Settlers Museum e dal Club Garibaldi di Wellington, Nuova Zelanda, nel 1995 per commemorare il centenario della fondazione del Club Garibaldi nel 1882 e per raccontare la storia dell’emigrazione italiana nella regione di Wellington. Tutte le illustrazioni utilizzate in questo articolo sono state tratte dal libro.
Giuseppe Garibaldi è l’eroe più popolare dell’Unità d’Italia, avvenuta nel XIX secolo. Questo periodo è anche noto come “Risorgimento”. Egli fu chiamato “l’eroe dei due mondi” per il suo coinvolgimento nelle rivolte per l’unificazione di alcuni paesi sudamericani. Le notizie delle sue coraggiose battaglie e dei suoi ideali di unità e libertà attraversarono il mondo e gli fecero guadagnare molti ammiratori e sostenitori, soprattutto nel mondo di lingua inglese. Nel 1861 le comunità italiana e australiana di Melbourne espressero la loro ammirazione per Garibaldi inviandogli in dono una spada d’onore. Fu con l’assistenza finanziaria dei suoi amici della nobiltà britannica che Garibaldi acquistò l’isola di Caprera, al largo della costa della Sardegna, dove si ritirò e morì il 2 giugno 1882.
Un mese dopo la morte di Garibaldi, un gruppo di coloni italiani residenti a Wellington si incontrò per formare un club che gli dedicarono. Tra i fondatori del club c’erano diversi seguaci anticlericali e repubblicani di Garibaldi che avevano preferito vivere in esilio piuttosto che essere sudditi del re d’Italia. Uno dei principali giornali di Wellington dell’epoca, il «New Zealand Mail», riportò l’8 luglio 1882:
Alcuni residenti italiani in questa città hanno intrapreso i passi preliminari verso la formazione di un club su una base simile al Working Men’s Club già esistente in questa città. Propongono di occupare dei locali adatti allo scopo in Courtenay Place e di adottare il nome di “The Garibaldi Club”. In una riunione tenutasi sabato scorso sono stati eletti i seguenti dirigenti per i primi sei mesi: il signor Cenci, presidente; il signor Innocenti, vicepresidente; il signor George Robertson, segretario; il signor Calcinai, tesoriere; i signori Agorio e Cimino, consiglieri. Su proposta del signor Frandi, il dott. Diver è stato eletto all’unanimità Presidente Onorario, ed è stata nominata una delegazione per raggiungerlo e chiedergli di accettare l’incarico.
L’appartenenza al club non era limitata agli italiani: George Robertson, il segretario, era di origine scozzese.
Era nato a Livorno, dove suo padre, un ingegnere, era impegnato nella costruzione di una ferrovia; arrivò in Nuova Zelanda negli anni ’70 dell’Ottocento. Parlava fluentemente l’italiano e aiutò la comunità italiana per molti anni, venendo ricompensato per i suoi sforzi dal governo italiano con il titolo di Cavaliere.
Il nuovo club adottò il motto “Fratellanza, Educazione, Lavoro”. Fu registrato come società di mutuo soccorso nel 1883.
Sembra che il club abbia avuto successo già dai primi anni. George Robertson avrebbe scritto una lettera al Registrar of Friendly Societies nel marzo 1884: “L’istituzione sta ancora progredendo con continuità sia finanziariamente che da altri punti di vista”. Le entrate di quell’anno ammontarono a £ 366 13s 6d; £ 153 erano contributi dei soci e £ 213 13s 6d vennero riscossi dalle vendite al bar. Nel 1888 il club si era ridotto a pochi soci e non aveva beni. Il Presidente, J.H. Pagni, spiegò al Registrar of Friendly Societies:
I pochi membri rimasti si sono uniti per mantenere vivo il nome dell’istituzione, con la speranza che saremo in grado di riportarla alle sue condizioni precedenti.
Il club resisté per tutto il decennio del 1890, con un massimo di 43 membri nel 1892 e un minimo di 13 nel 1894. I fondi rimasti ammontarono a circa £ 5 per tutto questo periodo. Nel 1899 il club si trasferì in Vivian Street e ristrutturò lì delle stanze per una discreta somma.
Con l’inizio del nuovo secolo il club entrò in un periodo di crescita. Nei primi cinque mesi del 1900 i soci raddoppiarono a 54. Entro la fine dell’anno i soci erano 78. Dal 1903 le sale del club furono installate in Ghuznee Street prima al n. 3 e poi al n. 1. Negli anni successivi furono apportate modifiche alle sale del club e furono acquistati altri mobili. Il 3 agosto 1901 fu formato una compagnia per l’importazione di cibo italiano, denominato “La Previdente”. I beni importati includevano olio, vino e formaggi, prodotti base della cucina italiana che la comunità non poteva acquistare nei negozi di Wellington. Le attività di questa compagnia continuarono per molti anni.
Le entrate del club provenivano da quote di iscrizione e attività sociali. Esso offriva strutture come un bar e una biblioteca, con libri e giornali. Nel 1916 fu acquistato un panno da biliardo al costo di £ 8. Nel primo anno le entrate dal biliardo furono di £ 19 1s 6d. Le entrate in costante crescita derivanti dal biliardo negli anni successivi indicarono che si trattava di un’attività molto popolare.
Le raccolte di beneficenza facevano parte del lavoro del club. Durante la prima guerra mondiale furono fatte donazioni regolari alla Croce Rossa italiana. Ci furono raccolte speciali per i bisognosi locali e per il terremoto in Italia del 1915. Il denaro fu raccolto non solo dai soci, ma anche dalla più ampia comunità italiana di Wellington.
Alla fine del 1918 i soci erano 111, la prima volta che superavano i 100. L’anno successivo il club si trasferì al 93 di Taranaki Street, dove rimase fino al 1929, quando si trasferì al 270 di Wakefield Street. Gli anni ’20 e ’30 furono un periodo di crescita, sebbene il numero di iscritti fluttuasse di anno in anno. Nel 1939 c’erano 220 iscritti.
Potevano iscriversi gli uomini di età pari o superiore a 21 anni. La procedura prevedeva che il nome di un potenziale membro venisse messo sulla bacheca per un mese e, se non c’erano obiezioni da parte dei membri, il richiedente poteva iscriversi.
Le sale del club erano aperte tutti i giorni, offrendo ai soci e agli amici un posto dove incontrarsi, bere qualcosa e giocare a carte, bocce o biliardo. Il libro dei visitatori di quel periodo mostra che molte persone di origine non italiana visitavano il club. C’erano due baristi a tempo pieno che, oltre a servire bevande, vendevano cibo e vino italiani importati. Erano disponibili anche pranzi e cene e alcuni uomini single consumavano lì la maggior parte dei loro pasti.
Balli e serate sociali erano le attività del club più caratteristiche e regolari, ed erano molto frequentati. Nel 1932 il 50° Giubileo fu celebrato con una serata musicale seguita da cena e balli. Fu anche organizzata una festa per i figli dei soci. Altri eventi popolari erano il picnic annuale, che si teneva a Hutt Park, e la festa di Natale, a cui partecipavano le famiglie al completo. Fred Ferretti ricorda quanto questi eventi gli piacessero da bambino perché venivano distribuiti lecca-lecca e palloncini.
Il club forniva anche assistenza e supporto ai soci. Veniva dato aiuto ai nuovi immigrati in Nuova Zelanda e gli uomini in cerca di lavoro trovavano spesso un impiego presso un altro socio del club. Quando c’era un funerale, il club pagava i taxi per i partecipanti alle esequie perché erano davvero poche le persone che avevano un’auto.
Queste attività si interruppero negli anni ’40, dopo che l’Italia entrò nella seconda guerra mondiale. Il club andò in pausa durante gli anni della guerra, quando c’era un forte risentimento pubblico nei confronti degli italiani, in particolare quando venivano visti divertirsi mentre i soldati neozelandesi combattevano in Nord Africa.
L’attività del club riprese dopo la guerra. Una figura di spicco della riapertura fu Joe Milano, un lavoratore del pesce e ristoratore che in precedenza era stato presidente. I membri del primo comitato post-bellico erano Darby De Menech, Frank Ferretti, Primo Menara e Alfredo Mitri.
Per aumentare i fondi del club fu chiesto ai soci di pagare £ 15 per rientrare, con una quota associativa di £ 5 all’anno da allora. Le attività del club erano simili a quelle di prima della guerra. Tuttavia, le sale del club erano aperte solo dal venerdì alla domenica sera. Era ancora un importante luogo di incontro per la comunità italiana. Un migrante degli anni ’50 ricorda di esserci andato spesso per parlare con altre persone perché si parlava italiano e lui non aveva ancora imparato bene l’inglese. Il barista e custode a tempo pieno continuava a vendere il cibo e il vino importati dall’Italia dal club. Le scorte includevano vermouth, vino, pasta, pesce in scatola come aringhe, acciughe, sardine e tonno, oltre a grandi quantità di olio d’oliva e formaggio.
Negli anni ’50 i balli al club si tenevano ogni due settimane, di sabato, con una band di Lower Hutt come performer abituale. Non era consentito bere mentre si ballava, quindi alle 20.30 il bancone veniva chiuso per tutta la durata del ballo.
Il club era andato avanti praticamente senza incidenti per 75 anni quando un evento fece improvvisamente venire alla mente il suo nome e ancora oggi la menzione del club suscita ricordi. Nel settembre 1957 il custode del club, Angelo Odorico, fu assassinato. Una sera tardi, quando tutti i membri erano andati a casa, Angelo La Mattina rimase e chiese a Odorico se poteva prendere il fondo cassa del club per un prestito di cui aveva bisogno. Odorico rifiutò. Quando La Mattina chiese di acquistare qualcosa, Odorico si chinò per prenderlo e La Mattina lo colpì in testa con un barattolo di olive. La Mattina rubò l’incasso della giornata, 97 sterline. Odorico fu poi trovato morto. L’inchiesta sull’omicidio si basava sugli interrogatori a quei membri che erano stati gli ultimi a vedere vivo il custode. I giornali di Wellington erano pieni di questa storia. Il denaro rubato fu trovato in uno scarico della casa in cui alloggiava La Mattina. Per la polizia il caso fu notevole perché era la prima volta che le impronte digitali venivano usate come prova. Il processo catturò i titoli per giorni. Ci fu chi affermò che l’omicidio era una questione di cuore, che i due uomini si contendevano le attenzioni della stessa donna. Ma non era vero. La Mattina fu condannato a morte ma ebbe un colpo di fortuna. Il governo laburista di Walter Nash abolì la pena di morte e La Mattina fu condannato all’ergastolo. Divenne famoso per essere frequentemente evaso di prigione e c’erano sospetti che fosse stato protetto da altri italiani. Fu rimpatriato in Italia nel 1974, apparentemente per scontarvi un’altra pena detentiva.
L’omicidio ebbe ripercussioni ancora maggiori per il club. La polizia che indagò sull’omicidio aveva fatto un inventario del bar del club. Pochi mesi dopo, il club fu perquisito dalla polizia che indagava sulle violazioni delle leggi sulle licenze. Bert Monastra, che era alla porta quel giorno, inizialmente si rifiutò di farli entrare, ma dovette cedere quando la polizia minacciò di sfondare la porta con un’ascia. Le scorte di liquori del club furono confiscate. La polizia impiegò due ore per portare via i liquori, usando sei jeep come mezzo di trasporto. Alla fine i liquori furono restituiti. Il rappresentante legale del club sostenne in tribunale che l’alcol era di proprietà individuale dei soci, quindi il comitato iniziò a dividere l’alcol tra i singoli soci. Furono confezionati pacchi contenenti circa 5 £ di liquori che vennero poi dati ai soci ai quali fu chiesto di pagare 5 £ per loro. Il numero di iscritti era stato alto negli anni ’50, raggiungendo un picco di 242 nel 1956. Scese sotto i 200 alla fine degli anni ’50 e nel 1960 gli iscritti erano solo 102. Ci fu una modesta crescita numerica durante gli anni ’60, ma gli iscritti non raggiunsero mai i picchi del decennio precedente.
Dopo un po’ di tempo al 270 di Wakefield Street e a Kent Terrace, nel 1961 il club acquistò la sua prima proprietà al 230 di Wakefield Street. L’acquisto fu finanziato da obbligazioni sottoscritte da molti membri. Alcuni prestarono somme di denaro particolarmente ingenti, in particolare un enorme contributo dalla famiglia Zandi, che prestò £ 11.400, e uno da Frank Ferretti, che prestò £ 6000. Il club si trovava all’ultimo piano, mentre il primo e il pianoterra erano affittati ad aziende.
Negli anni ’60 il club continuò a essere attivo ed era ancora un luogo di incontro popolare per gli italiani, con circa 80 persone presenti la domenica. Trascorrevano il loro tempo giocando a carte e a bocce. I giochi di carte erano quelli italiani antichi scopa, settebello, bestia, cinquilio, quartilio giocati con un tradizionale mazzo di carte italiano, i cui semi erano denari, coppe, fiori e picche. Il club non aveva la licenza, quindi ogni membro aveva un armadietto con il suo nome in cui teneva la sua bevanda preferita, che fosse vino, liquori o altro. Ogni membro aveva una chiave per il proprio armadietto e il custode aveva un passepartout per tutti gli armadietti. Il perdente in una partita a carte avrebbe offerto agli altri giocatori un drink dalla sua scorta privata.
Le partite di bocce sociali si giocavano la domenica, mentre il mercoledì sera c’erano gare di bowling. C’era una coppa in cui il Club Garibaldi e lo Yugoslav Club si sfidavano circa due volte l’anno; la competizione si teneva nei locali del club che deteneva la coppa in quel momento. C’erano anche gare all’interno del club stesso per trovare il campione di bowling del club. Queste gare continuarono fino alla metà degli anni ’80. Il club aveva anche rappresentanti nelle bocce interclub e alcuni giocatori divennero noti come eccellenti giocatori di bowling.
Per anni, il principale evento sociale per gli altri club etnici era stato il loro ballo annuale. Il Club Garibaldi tenne il suo primo ballo nel 1961 e continuò a farlo fino agli anni ’80, quando i balli passarono di moda e furono considerati troppo costosi da organizzare. Nei primi anni ’70 l’attrattiva del club come punto di ritrovo sociale diminuì. Come altri club, fu influenzato dall’abolizione della chiusura alle 18:00, che diede alle persone una maggiore scelta di posti dove incontrarsi per un drink. Anche le generazioni più giovani amavano socializzare in una varietà di posti e non venivano al club così spesso come i loro genitori. Negli anni ’60 il club era aperto sia il sabato che la domenica, ma, a causa dei tempi che cambiavano, esso negli anni ’70 ridusse gradualmente i suoi orari di apertura alla sola domenica.
Nel 1982 il Club celebrò il suo 100° giubileo con un sontuoso ballo del centenario tenutosi al Majestic Cabaret, a cui parteciparono 500 persone della comunità italiana. Il calore generato dalla grande serata servì solo a mascherare un fatto doloroso: i soci del club stavano diminuendo e l’edificio del club era in grave stato di degrado. Sebbene il Club fosse finanziariamente sano, i suoi soci erano scesi a 40. Nessuno era disposto a impegnarsi finanziariamente per ristrutturare l’edificio, che fu venduto alla fine del 1980 per 800.000 dollari neozelandesi.
Dopo un breve periodo in locali temporanei, il club acquistò l’ex complesso Cricketer’s Arms Tavern all’angolo tra Vivian e Tory Street. Furono eseguiti lavori di ristrutturazione all’ultimo piano della proprietà e il nuovo club aprì nel marzo 1992.
Ancor prima che fossero progettate le nuove sale del club, i soci concordarono che era necessario fare qualcosa per aumentare il numero degli aderenti. Fu istituito un comitato speciale per rivedere lo statuto, che era stato aggiornato l’ultima volta da un membro dell’esecutivo nei primi anni ’60. Il nuovo documento approvato prevedeva che le donne di origine italiana potessero diventare socie e che le mogli di italiani potessero essere ammesse a farne parte. Per la prima volta le donne potevano far parte del comitato esecutivo. Nel 1994 ci fu un’ulteriore pietra miliare: i soci votarono per la prima volta una donna a ricoprire una carica, Nina Cuccurello, che subentrò come segretaria ad Armando Gilmoni, che si era dimesso dopo oltre 20 anni passati in quella posizione.
Il club si è ramificato in altre attività di natura culturale, come la formazione di gruppi di tarantella per bambini e un coro di donne italiane. Il club è diventato il luogo di numerose serate musicali e spettacoli di varietà, dall’opera alla commedia. Nel 1992 il club fondò due squadre di calcio e alcuni giovani soci formarono il gruppo “Garibaldini” per organizzare funzioni e incontri. È stato dato supporto a un progetto di storia orale per registrare e preservare i preziosi ricordi di circa 30 migranti italiani anziani. Nel 1995 il club si è anche mosso per installare un memoriale a Somes Island per ricordare gli anni di internamento sull’isola degli italiani durante la seconda guerra mondiale. Mentre si cercano costantemente nuovi modi per promuovere la lingua, la cultura e le tradizioni italiane, la storia dei primi membri del club sarà sempre ricordata.
(Tratto da: The Garibaldi Club. Home to the Italian settlers in Wellington, in «Italian Historical Society Journal», Volume 3, No. 2, July-August 1995, pp. 7-11).
Inserito il 18/04/2025.
1945. Carri armati a Trieste.
Fonte della foto: https://confinepiulungo.it/18-la-corsa-per-trieste/
Dal sito «volerelaluna.it»
Memorie della Liberazione
di Sergio Bologna*
Aveva 8 anni lo storico Sergio Bologna quando assisté da vicino alla liberazione di Trieste da parte dei partigiani jugoslavi. Di quegli anni e dei suoi ricordi di bambino parla un questo toccante articolo di qualche anno fa.
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Memorie della Liberazione
Trieste, 1° maggio 1945
di Sergio Bologna*
74 anni. Prendo spavento a pensare che c’ero, anzi, che me lo ricordo quel 1° maggio del 1945. E che i testimoni di quegli avvenimenti non sono rimasti tanti. Non dico in generale, dico quelli che hanno visto ciò che ho visto io, a Trieste, in una casa da dove si vedeva la sagoma del Castello, ultima roccaforte della resistenza tedesca all’avanzata dell’esercito di liberazione jugoslavo. I maschi della mia famiglia, tranne mio padre, erano tutti sotto le armi. Mio nonno era prigioniero in Africa, ad Asmara, ma non se la passava male, mi raccontò qualche anno dopo. Ci era andato volontario nel ’36 con le truppe italiane. S’era arruolato per ottenere l’amnistia, aveva una condanna per diserzione. Allora abbandonare una nave commerciale era considerato diserzione, come fosse una nave militare. Lui, elettricista di bordo, toccato un porto degli Stati Uniti, se l’era svignata per inseguire il sogno americano. Aveva sbagliato data, era il 1929. A Trieste s’era lasciato alle spalle una moglie e quattro figli: mia madre, la prima, una donna sensibile, bella, sportiva, s’era ammalata di tubercolosi a 15 anni e avrebbe passato la vita tra sanatori e ospedali. Poi tre figli maschi, uno alto, ben piantato, calciatore semiprofessionista, arruolato nei granatieri, era prigioniero in Germania, “internato militare”, per la precisione, preso dai tedeschi l’8 settembre ad Atene e ficcato in un vagone piombato. Un altro più giovane, Giorgio, dolce e tenero ragazzo, era caduto a 21 anni a El Ghennadi in Tunisia, pochi giorni prima della resa delle truppe italiane, nel maggio del ’42. L’ultimo, di cui non ricordo il nome, era morto di meningite a 4 anni.
Non so qual è stato il tributo di sangue che i partigiani di Tito hanno versato per conquistare Trieste prima che ci mettessero su le mani gli Alleati. Ma qualche fonte parla di migliaia di caduti sul Carso. Me li ricordo ancora, gli elmi nei boschi. Erano elmi tedeschi, molti foderati di pelle, li raccoglievo e me li ficcavo in testa, subito redarguito da mio padre, potevano averci i pidocchi. I partigiani portavano bustine, copricapi di stoffa, erano un po’ scalcagnati. Le SS, invece, com’erano tirate a lucido, P38 alla cintola, stivali senza una goccia di fango! Ma in quei giorni le ho viste tentare azioni disperate per salvare al pelle. Trieste non era più Italia, era Adriatisches Küstenland, di fatto incorporata nel Reich. Avevamo un Gauleiter, noi, il prefetto italiano contava ben poco. E anche un forno crematorio, sistemato in un’antica pilatura di riso. Il nostro è un cognome ebreo, Bologna, ma non eravamo ebrei, la famiglia di mio padre era genovese. Una famiglia numerosa, otto tra fratelli e sorelle. In quel forno crematorio ci finirono ebrei ma soprattutto antifascisti sloveni, croati, serbi, macedoni e italiani. Fu una vera guerra civile quella combattuta dall’esercito di liberazione jugoslavo. Una guerra spietata, feroce, con orrori commessi da ambo le parti, ma cominciata dai fascisti e proseguita dai nazisti e dai loro alleati ucraini, ungheresi, croati (gli ustascia), sloveni (i domobranci). Anche lo squadrismo fascista aveva avuto il suo battesimo a Trieste con l’incendio del Narodni Dom, la casa del popolo della comunità slovena, luglio 1920.
Maggio 1945, la resa dei conti. L’Italia del Nord era in parte liberata il 26 aprile, a Trieste l’insurrezione comincia il 29 aprile, senza i comunisti, la maggioranza s’era arruolata con Tito e non sempre se l’era vista bene. Il comandante militare dell’insurrezione – cui parteciparono anche repubblichini che avevano cambiato casacca all’ultima ora – era un colonnello dell’esercito regio. Perse tre figli maschi sulle barricate, nello stesso giorno. Questo era il quadro, quando, nella notte del 30 aprile, le truppe partigiane sfondano le ultime resistenze tedesche ed entrano in città, avanzando su due direttrici, una che portava al Tribunale, sede del comando tedesco, ed una che portava al Castello di San Giusto, sede di una guarnigione ben difesa. La nostra casa stava ai margini estremi del quartiere di San Giacomo, il quartiere degli operai dei cantieri, il quartiere “rosso” per eccellenza. Per prendere il Castello i partigiani dovevano passarci davanti. A due passi dalla nostra abitazione – si sarebbe saputo dopo – c’era la sede clandestina del «Primorski Dnevnik». Ma la mia non era una famiglia “rossa”, era mezza nera e mezza tricolore. Mio padre era fascista, perché lo fosse diventato fa parte di quegli enigmi che spiegano il disorientamento di un popolo, lui che era stato massone, chissà perché, lui dal quale ho imparato il rispetto e l’amore per il lavoro, il rispetto per la donna – assistette mia madre tutta la vita con un’abnegazione certe volte disumana, sostituendola per anni nei lavori domestici – lui che non ha mai alzato le mani su di me, che non mi ha mai impedito di fare qualunque cosa, lui che ha lavorato tutta la vita nei cantieri navali come tecnico progettista senza chiedere aumenti di stipendio perché non gli pareva dignitoso. Quest’uomo buono e mite, dal carattere introverso, tenace e ostinato come i liguri sanno essere, di un’onestà maniacale, che da ragazzo aveva patito letteralmente la fame, era irrimediabilmente fascista. Perché? Nel maggio del ’45 in quelle circostanze, in quella città, in quel quartiere, poteva finire in una foiba. Se l’avessero ammazzato, come avremmo fatto a vivere, mia madre ed io? Lei che faceva fatica a fare le scale di casa. Eravamo assuefatti al terrore, il bombardamento del 10 giugno ’44 aveva fatto una strage nel nostro quartiere, 463 morti, 4.000 case distrutte o danneggiate. Quindici giorni dopo avrei fatto da privatista l’esame di ammissione alla terza elementare. È difficile descrivere il terrore dei bombardamenti, la sensazione di essere una formica che può venire schiacciata per caso, la galleria Sandrinelli, rifugio sicuro ma lontano, stipata di gente con masserizie, valigie, fagotti. Il 1° maggio ’45 ascoltavamo la radio dire che la guerra era finita ma sotto le nostre finestre si combatteva ancora, di notte le pallottole traccianti, duelli di cecchini sui tetti, erano uno spettacolo quasi eccitante per un ragazzino di otto anni. Assistemmo alle ultime sparatorie dal balcone di casa nostra al quarto piano. I tedeschi, asserragliati nel Castello, si arresero soltanto all’arrivo delle truppe alleate, di neozelandesi. Accettarono la mediazione del vescovo, tirarono per le lunghe la trattativa, i partigiani, che avevano in pugno la città, che l’avevano liberata, rimasero con un pugno di mosche in mano. Restarono ancora per 40 giorni, inscenando cortei e manifestazioni di annessione alle nuova repubblica jugoslava, ma la diplomazia internazionale convinse Tito a ritirarsi, dovette accontentarsi dell’Istria e della Dalmazia. I caduti dell’assalto a Trieste erano morti invano. Per fortuna mio padre non era stato un fascista in vista, con cariche, responsabilità, lo era stato come tanti poveri diavoli. Ricevette minacce di morte, ma non da chissà quale giustizia partigiana, da un ragazzo, un vicino di casa, avrà avuto 17 anni, figlio di una famiglia slovena dello stabile accanto. Fu mia madre a sistemare la cosa con una telefonata. Chi afferma che le foibe nulla hanno a che fare con la guerra nazifascista ma sono state il risultato di puro odio etnico, non sa quello che dice. Per quanto accesa nazionalista fosse stata mia madre, la condizione economica in cui era cresciuta l’aveva portata a condividere l’esistenza del proletariato sloveno, in sanatorio aveva acquistato familiarità con quell’ambiente. Mio padre non fu toccato ma venne epurato dal cantiere e rimase per 14 mesi fuori, prima di essere reintegrato, dopo un processo sommario in cui il suo accusatore ritrattò le sue dichiarazioni iniziali. Di che cosa era incolpato? Di aver accusato i suoi colleghi di ‘disfattismo’ nel corso di un’animata discussione dopo la battaglia di Punta Stilo. Risulta dai verbali, conservati all’Archivio di Stato di Trieste.
Sono stati anni veramente duri, vissuti in un territorio dove le cose difficili sono ancora più difficili, in una famiglia che oscillava tra la condizione sottoproletaria e quella di piccola borghesia. Quando mio zio tornò sano e salvo dalla prigionia, visse fino alla fine degli anni Cinquanta assieme alla sua compagna e a mia nonna in una casa a Montebello, di fronte all’ippodromo, senza servizi. Lì avrebbe abitato anche mio nonno, tornato dall’Africa nel ’53, per qualche anno prima di andarsene.
Dell’altro mio zio si sapeva soltanto che era “disperso”. Il dolore per la sua morte era reso ancora più acuto dal tormento di pensarlo senza sepoltura. Solo 66 anni dopo, quando tutti i membri della mia famiglia triestina erano scomparsi, venni a sapere che i suoi resti erano conservati nell’Ossario dei Caduti d’Oltremare di Bari.
La luce di quella primavera/estate del ’45 mi è conficcata ancora oggi nel ricordo come la più luminosa di tutte le primavere successive. Ricordo la felicità di poter uscire di casa senza timori. Avevo voglia soprattutto di giocare perché noi, nati alla fine degli anni Trenta, non avevamo avuto tempo di essere bambini. Appena acquisita la coscienza di esistere, ci eravamo trovati in mezzo a una guerra mondiale. Si potrebbe pensare che a guerra finita avessimo bisogno soprattutto di dimenticare, di rimuovere il passato, ma era difficile togliersi il ronzio dei motori delle fortezze volanti dalle orecchie. Penso di aver scelto la storia come disciplina di studio perché volevo rendermi conto delle contraddizioni in mezzo alle quali avevo vissuto, volevo capire perché mio padre era diventato fascista, perché lo era diventata la maggioranza del popolo italiano, volevo capire perché aveva vinto il nazismo in Germania, perché gli operai dei cantieri erano diventati comunisti, perché tra italiani e slavi c’era stato tanto odio nelle nostre regioni, perché Tito era riuscito a mettere in piedi un esercito barcamenandosi tra Churchill e Stalin, perché, perché…
Trieste è un grumo talvolta inestricabile di contraddizioni e di incroci di culture, società, memorie, di rancori, nostalgie, stupidità. Volevo capire l’esistenza sottoproletaria di mia nonna, quella piccolo borghese della nostra famiglia monoreddito, quella roba lì che la sociologia chiama “la mobilità sociale” come funziona? Volevo capire me stesso, trovare una ratio in quel che mi stava attorno perché mi era apparso tutto – tutto, dal primo momento in cui avevo cominciato a ragionare – come una tragica follia. Non riesco a immaginare come si possa fare storia con una mentalità accademica, per fare un concorso, per avere titoli. Forse per me è stato solo un modo per uscire da un trauma, un modo, poco ortodosso, per aiutarmi a sopravvivere.
Poi c’è la questione del comunismo. L’ho studiato, con passione, ma direttamente l’ho conosciuto sotto le vesti di qualcosa che poteva voler uccidere mio padre. Potevo capire le sue ragioni, ma è un’altra cosa che farne parte. Ho visto i comunisti ammazzarsi tra di loro, quelli jugoslavi far fuori quelli italiani che sulla questione di Trieste volevano che decidesse un referendum. Quando Tito è uscito dal Cominform quelli stalinisti voler ammazzare quelli titini. Gli operai dei cantieri di Monfalcone, entusiasti di costruire il socialismo in Jugoslavia, mandati nel gulag di Goli Otok perché s’erano schierati con Stalin. Per questo ho visto nell’operaismo una prospettiva post-comunista, non ho mai condiviso l’atteggiamento di tanti compagni che si consideravano, in quanto operaisti, i “veri” comunisti. Io volevo la liberazione dal regime capitalista e dal regime comunista, volevo entrare in una nuova èra, che poi sarebbe stata del postfordismo e lì trovare nuove, originali forme di emancipazione, di liberazione, inventate da noi, non riprese pappagallescamente dalle formule della Terza Internazionale. Pertanto il mio operaismo doveva essere intriso di elementi anarchici, libertari, consiliaristi, non leninisti. Preferivo il libero pensiero, diffidavo del dogma. Mi sentivo più vicino alla spiritualità cristiana che all’ottuso settarismo politico. Dopo 74 anni, penso che sia andata così, penso che per quelli della mia generazione, sulle spalle dei quali, ancora bambini, la storia s’era abbattuta come una valanga, non ci fosse altra via d’uscita.
30 aprile 2019
Sergio Bologna*
* Sergio Bologna (Trieste, 1937) è storico del movimento operaio.
(Tratto da: Sergio Bologna, 1 maggio 1945 – 1 maggio 2019 – Alle radici di una storiografia militante, in: https://volerelaluna.it/cultura/2019/04/30/1-maggio-1945-1-maggio-2019-alle-radici-di-una-storiografia-militante/).
Inserito il 18/04/2025.
Dal sito «tempofertile.blogspot.com»
di Alessandro Visalli
«Howard Zinn (1922-2010) è stato uno scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di docente di Storia sia in quello successivo di docente di Scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam.
Il suo testo più famoso, Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi, è uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie interne. Anzi, di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste».
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Howard Zinn, Storia del popolo americano
di Alessandro Visalli
Premessa
Howard Zinn, nato nel 1922 e morto nel 2010, è stato uno scrittore radicale americano newyorkese di inclinazioni socialiste libertarie e provenienza da una famiglia di immigrati ebrei europei (dall’Austria e dalla Siberia). Dagli anni Sessanta prese parte attivamente al movimento per i diritti civili, sia nel ruolo di docente di storia sia in quello successivo di docente di scienze politiche. Prese posizioni coraggiose e personalmente costose contro la discriminazione razziale e la guerra del Vietnam1.
Il suo testo più famoso, Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi2, è uno straordinario affresco dell’intera storia degli Stati Uniti, fino ai primi anni di Bush junior, descritta sotto il profilo della storia popolare. Ovvero della storia delle lotte e mobilitazioni popolari e delle diverse forme di oppressione che sono state praticate nella storia del paese. È quindi, e soprattutto, una storia dei dispositivi di controllo sociale e di formazione e dominio delle élites e di formazione e sfruttamento di sempre nuove ineguaglianze e colonie interne. Anzi di controllo proprio rendendo funzionali le ineguaglianze interne tramite il sistematico spostamento su altro della natura economica di queste.
La “scoperta”
La storia prende ovviamente le mosse dai viaggi di Colombo, soprattutto del secondo viaggio la cui complessa organizzazione e l’alto costo (ben 17 navi) rendeva necessario garantire l’immediato profitto. Ovvero, chiaramente, aprire un canale di approvvigionamento di schiavi ed oro. Colombo tenta di adempiere al mandato, in un paese ricchissimo di risorse naturali ma non sviluppato in senso occidentale, soprattutto garantendo i primi. E quindi occupando militarmente Haiti, che viene selvaggiamente sfruttata e nella quale si attua in poco meno di un secolo un vero e proprio assoluto sterminio. Una popolazione locale stimabile in 250.000 abitanti viene ridotta praticamente a zero, grazie ad uno spietato ipersfruttamento in piantagioni intensive. Su questa esperienza si forma la militanza antirazzista del più importante autore militante spagnolo del tempo, Bartolomé de Las Casas3.
Ma il Nord America, di cui si parla in questo testo, fu invaso specialmente dagli inglesi e nel secolo successivo. Inoltre le popolazioni native, i first peoples, erano frammentate in centinaia di clan e alleanze federative, e potevano opporre una resistenza, se pure ostinata tuttavia frammentata e discontinua. A fronte di questa debolezza, che faceva sembrare agli europei abituati a densità sociali ed organizzative diverse il paese come vuoto ed immenso, gli inglesi (ma anche i francesi) esercitano quella che Zinn chiama una specifica “perfidia e brutalità”, causata in ultima analisi da un impulso interno. Precisamente da “quell’impulso speciale e potente che sorge all’interno delle civiltà basate sulla proprietà privata”4. Una spinta che è fatta di bisogno di spazio e terra, che lo concepisce come libero e da possedere in modo esclusivo. Di qui la necessità, in una logica per i contemporanei evidente, di sottrarlo agli usi comunitari non riconoscibili come legittimi. E dunque scacciare ed uccidere chi pretendesse di affermarli.
Al momento della conquista e colonizzazione vivevano nelle Americhe 75 milioni di membri dei first peoples, di cui 25 nel Nord America, ma divisi qui in almeno 2000 lingue e dialetti e un centinaio di culture tribali principali (navajo, lakota, chippewa, cheyenne, apache, irochesi, le cinque nazioni mohawk, oneida, onodaga, cayouga e seneca del 1722, e via dicendo). Un’enorme varietà, dunque, alcuni costruivano villaggi e coltivavano il mais, con forme straordinariamente evolute e adattate di aridocultura e tecniche ingegneristiche di irrigazione perfettamente adatte allo scopo, altri avevano artigianati raffinati ed estesissime reti di scambio, oppure culture basate sull’abbondante pesca o caccia e in genere con sistemi sociali perfettamente egualitari, stabili e spesso con elevato livello di parità sessuale. Ma anche straordinarie capacità culturali, di argomentazione logica e retorica, raffinate capacità diplomatiche, come quelle messe in evidenza da David Graeber e David Wengrow nel loro L’alba di tutto5. Ad esempio, è descritta la straordinaria vicenda di Kondiaronk, stratega dei Wendat, una confederazione di quattro popoli irochesi che cercò all’inizio del Settecento di evitare che inglesi, francesi e la coalizione hanfenosaunee si unissero contro la sua. In prospettiva l’obiettivo del leader nativo di organizzare una grande coalizione contro gli invasori6. Presumibilmente inviato come ambasciatore del suo popolo in Francia, si fa critico sia del cristianesimo sia della logica della trasposizione del potere sulle cose (la proprietà) in potere sugli uomini. I suoi arguti argomenti, secondo Graeber, influenzano profondamente lo stesso dibattito europeo contemporaneo sulla ineguaglianza. Uno dei più specifici argomenti portati da Kondiaronk, e riportati in Dialogues curieux: entre l’auteur et un sauvage de bon sense qui a voyagé, del 1703, dell’aristocratico francese Louis-Armand de Lom d’Arce, è che le leggi punitive di stampo europeo, e la stessa dottrina cristiana della punizione eterna, non sono rese necessarie dalla naturale cattiveria umana, ma da una forma di organizzazione sociale che incoraggia il comportamento egoista e l’avidità. Sono quindi le distinzioni tra “mio e tuo”, per usare le sue parole riportate nel libro, a rendere “disumana” la vita in Francia. Come dice, “affermo che quello che chiamate denaro è il diavolo dei diavoli; il tiranno dei francesi, la causa di tutti i mali; il flagello delle anime e il mattatoio dei vivi”7. Insomma, “un uomo motivato dall’interesse non può essere un uomo ragionevole”.
Questa critica indigena, ovvero dei pochi rappresentanti dei first peoples che riuscirono a farsi ascoltare e talvolta viaggiare, a partire dall’inizio del XVIII secolo, influenza il dibattito sulla eguaglianza e come reazione le teorie evoluzionistiche, che invariabilmente partono dallo ‘stato di natura’ egualitario. La domanda di come si possa trasformare il possesso, e quindi la ricchezza, in potere è anche al centro della riflessione di un avido lettore di diari di viaggio: Jean-Jacques Rousseau. Anche per lui la proprietà è la causa del problema dei mali della società, ma mentre per i first peoples la libertà presume una condivisione comunitaria dei beni, e quindi della sicurezza sociale, per gli europei resta legata alla proprietà e non può essere concepita alternativa. E quindi è indipendenza.
Mentre per i primi, al contrario, la libertà è figlia della interdipendenza in un contesto di reciproco riconoscimento e sostegno, socialmente indotto, per il nostro ed il pensiero illuminista europeo essa è figlia piuttosto del possesso incontestato e non limitato. E il possesso esclusivo resta connesso, sia pure in modo complesso e contraddittorio, con l’idea del progresso e dell’evoluzione (nel passaggio dallo ‘stato di natura’ dei first peoples, alla società).
Le prime colonie
Mentre tutti questi dibattiti e influenze erano ancora da venire, nel 1619 in Virginia, dove le prime colonie inglesi sopravvissero a stento alla crisi per fame del 1609-10, prese l’avvio un’economia protocoloniale fondata sulla necessità di coltivare i cereali da una parte ed il tabacco di esportazione, dall’altra. I coloni erano davanti ad un problema: pochi e per lo più di classe media (artigiani, piccoli ex proprietari) e non avevano attitudini e desiderio di coltivare personalmente la terra (attività dura e ingrata con i mezzi dell’epoca); d’altra parte non potevano mettere al lavoro i first peoples, culturalmente inadatti, abili a sottrarsi nei grandi spazi del continente, ed anche militarmente forti. I virginiani trovarono la soluzione importando schiavi. Il bacino era relativamente vicino perché ai caraibi nel secolo precedente erano stati importati almeno 1 milione di neri dall’Africa per sostituire le popolazioni autoctone sterminate. Gli africani erano più adatti perché le culture africane erano in fondo simili a quelle europee. Nel continente, oggi tendiamo a non vederlo, influenzati da una storiografia razzista e colonialista sviluppata soprattutto nell’Ottocento, ma in Africa tra il 1500 ed il 1600 erano presenti grandi stati, imperi persino, grandi centri urbani e un consolidato e importante artigianato. Inoltre, vi veniva praticata un’agricoltura avanzata, che faceva uso di utensili di ferro, e impegnava oltre cento milioni di persone. Lo stesso traffico degli schiavi era in parte autoctono, e venne quindi facilmente canalizzato verso i porti di scambio in centro Africa da attori locali. La forma sociale locale si potrebbe descrivere, a grandissime linee, come una sorta di feudalesimo con consolidate gerarchie e strutture complesse, insediato in forme di vita tribali e talvolta comunitarie. Una società dove l’idea di proprietà privata era presente, ma non strutturava completamente il sociale e gli istituti repressivi erano temperati. In questa società, o meglio nell’enorme varietà delle società africane per lo più mancava quindi la febbre del profitto illimitato che un secolo dopo impressionerà Kondiaronk.
Una volta catturati, mischiati tra etnie diverse e separati gli uni dagli altri, gli africani erano quindi particolarmente adatti e, al contempo, particolarmente inermi. Strappati ad una cultura consolidata tribale e comunitaria, con legami familiari allargati e costitutivi, venivano a trovarsi tra estranei, la cui lingua talvolta neppure capivano e portati in paesi lontanissimi. Nelle navi negriere erano scientemente separati e divisi, tenuti in condizioni inumane e alla fine venduti uno ad uno8. La tratta fu dominata prima dagli olandesi e poi dagli inglesi, nel pieno del fenomeno a Liverpool sostavano normalmente cento navi negriere.
In circa due secoli, in questo modo vennero catturati e trasportati nelle Americhe del Nord da 10 a 15 milioni di neri, su 45 milioni che furono sottratti al continente. È impossibile non vedere il nesso tra questa immane sottrazione di persone e distruzione di comunità e l’interruzione dello sviluppo autoctono che il continente subì nell’età del colonialismo europeo. E sottovalutare l’enorme contributo di questo trasferimento di ricchezza e forza lavoro nella costruzione della superiorità economica e quindi militare (o militare e quindi economica) dell’Occidente.
Bisogna aprire una parentesi. La colonizzazione inglese del Nord America è diversa sia da quella spagnola del Sud e Centro America (e di parte del Nord), sia da quella francese dell’attuale Canada. Mentre le altre due nascono da strutture statuali altamente organizzate e centralizzate, e sono sempre dipendenti fortemente dalla madre patria nelle loro strutture amministrative, la colonizzazione inglese nacque per ondate semispontanee di gruppi marginali e religiosi. La colonizzazione spagnola, che cominciò prima, di Nunez Cabeza de Vaca in California nel 1528-36, o Hermando de Soto in Florida nel 1539-41, e nelle aree degli attuali Arizona, Colorado, Nevada, New Mexico, Kansas, Oklahoma, era fondata su una precisa gerarchia sociale al centro della quale troviamo il 1-2% di popolazione spagnola, poi la popolazione “creola” (di sangue spagnolo, ma nata nel nuovo mondo) e in basso gli “indios”, trattati poco più che come schiavi. Nel XVII secolo alimentò questa espansione una emigrazione di ca 250.000 unità (su 10 milioni di popolazione complessiva).
Invece quella inglese aveva numeri quasi doppi ma stentò a decollare fino a che, verso il 1630, le debolissime colonie virginiane, intorno a nuove compagnie commerciali videro l’attivazione di una robusta immigrazione dall’Inghilterra di gruppi che si sentivano perseguitati. Questo è il contesto della rivoluzione inglese e con essa si intreccia. Nel 1629 si formò la Compagnia della baia del Massachussetts, che aveva l’obiettivo di favorire l’emigrazione di coloro che si sentivano perseguitati e volevano fondare una comunità all’altezza della propria fede religiosa9. Nel 1630 17 navi trasportarono oltre mille coloni, nei tredici anni successivi ne arrivarono 20.000. Per il tempo ed il luogo sono numeri significativi. Vennero fondate colonie come Boston o Charleston, Concord e Hartford.
La base sociale della colonizzazione inglese
Ma chi sono quelli che vengono? Ci aiuta un bel libro di Chistopher Hill Il Mondo alla rovescia10, il trentennio tra il 1620 ed il 1650 in Inghilterra è caratterizzato da una tremenda crisi economica che esacerba l’odio di classe e viene imputato al governo, alla istituzione di monopoli pubblici e alla pressione fiscale. Nelle elezioni dei due Parlamenti tenute nel 1640 molti ‘scamiciati’, organizzati in quello che all’epoca si identificava genericamente come il ‘Partito Popolare’ riuscirono ad eleggere molti candidati, contro le élite. Sull’orlo della guerra civile che scoppiò subito dopo tra il Re ed il Parlamento e prima della formazione della New Model Army di Cromwell, proliferano continue eresie religiose, si formano gruppi radicali, in alcuni casi (come i membri della “Famiglia dell’Amore”) in continuità con i fermenti cinquecesteschi. In tutti i primi anni del Seicento la rivolta contro la religione istituzionalizzata, i suoi simboli ed esponenti, è crescente ad opera di sette come i “Puritani” ed altre. Quel che avviene è un processo di disgregazione dell’unità feudale tra l’uomo e i suoi ruoli e quindi i ‘padroni’. Nel 1569 un’inchiesta del governo calcolò in 13.000 gli “uomini senza padrone” e nel 1602 nella sola Londra in 30.000. Si trattava di vagabondi (la “canaglia”), ma anche membri delle sette protestanti, popolate di piccoli artigiani che non potevano inserirsi nelle Corporazioni ufficiali, apprendisti, che si sentivano eletti e, al contempo, liberi nel loro esclusivo rapporto con Dio. Poi abitanti delle campagne ma non ufficiali (una legge del 1589 impediva di costruire case a chi non avesse abbastanza terreno), che praticavano mestieri come fabbri, carbonai, tessitori, etc. ma saltuariamente e nelle fasi di richiesta della nascente struttura produttiva. Quindi commercianti itineranti, che contribuivano enormemente a portare le nuove idee in giro.
Come dice Hill:
“Sotto alla superficiale stabilità dell’Inghilterra rurale, quella dei vasti campi aperti che colpiscono la vista, stava la brulicante mobilità degli abitanti della foresta, gli artigiani e gli operai edili itineranti, i disoccupati in cerca di lavoro, i suonatori e i giocolieri girovaghi, gli ambulanti e i ciarlatani, i vagabondi, i barboni; gente che si raggruppava soprattutto a Londra e nelle grandi città, ma che aveva basi ovunque una zona appena colonizzata riusciva a sfuggire al meccanismo delle parrocchie, o nello zone colonizzate da tempo in cui c’era bisogno di manodopera. Era in questo modo che venivano reclutati gli eserciti e gli equipaggi delle navi, era qui che si trovò una parte almeno dei coloni per l’Irlanda e il Nuovo Mondo, uomini disposti a correre qualunque rischio nella speranza di conquistarsi un pezzo di terra (e con essa lo status che ne derivava), speranza che non poteva avverarsi nella sovraffollata Inghilterra”11.
Con questo materiale umano, il processo di colonizzazione fu in sostanza organizzato dalla Compagnia in un primo momento e poi da istituzioni create dai primi coloni. Un General Court, formato dai capifamiglia, determinava l’autorizzazione ad insediarsi. Nel 1647 l’approvazione delle Law and Liberties, creò una prima fusione tra diritto inglese e istanze radicali religiose dei coloni. La crescita demografica fu imponente, da 250.000 abitanti all’inizio del Settecento si passò a 2,5 milioni in soli cinquanta anni. La gerarchia originaria era a tre strati: i diretti successori dei primi fondatori al centro, religiosi, commercianti o proprietari terrieri; in mezzo artigiani e piccoli proprietari; in basso i lavoratori salariati, spesso appena arrivati. Poi ci sono gli schiavi.
Dividere e gestire
Insomma, in una società in crescita, ma isolata e immersa in enormi spazi e circondata da nemici attuali o potenziali, dipendente da lavoratori sradicati e tenuti in condizioni disumane di sfruttamento e minaccia, era essenziale dividere. Ovvero impedire che i subalterni (siano essi ‘bianchi’, ‘neri’ o ‘rossi) si potessero percepire come simili e diversi dai dominanti, che erano strutturalmente minoranza. Oltre all’influenza della secolare cultura europea (gerarchica e fondata su un concetto di premio e punizione inscritto nella storia della fusione del cristianesimo paolino con la cultura romana12), costituì strumento di questa tecnologia del dominio, la coltivazione della barriera razziale. Specifiche leggi cercarono sempre di frenare la tendenza degli schiavi appena arrivati di sottrarsi e formare villaggi di maroons, tanto più quando minacciavano di unirsi a servi bianchi e indiani. Venne messo a punto un sistema di controllo capillare, sottile e crudele, sia a livello fisico (con tremende repressioni e punizioni, individuali e collettive) e psicologico. L’incubo che dominava le élite, e lo farà per tutta la storia americana, era semplicemente che i bianchi poveri si potessero unire ai neri (ed ai first peoples) contro i ricchi.
Nel 1676 in Virginia ci fu un caso di questo genere. La “insurrezione di Bacon”, che venne repressa con grande dispiego di uomini e mezzi, e punita in modo spietato. Bianchi poveri e neri non potevano mai agire insieme. Bacon, che organizzava bande armate per uccidere gli indiani, ai quali sottrarre la terra, venne arrestato dagli inglesi ma liberato dalla folla (nel contesto coloniale erano spesso gli immigrati poveri, affamati di terra di proprietà e disperati, a promuovere autonomamente la spinta per il genocidio dei first peoples. Talvolta il governo coloniale agiva da freno, sulla base di equilibri superiori). Allora scrisse la Dichiarazione del popolo, che esprimeva al contempo odio per i first peoples e risentimento per i ricchi. Di qui la feroce repressione.
Riassumendo, la catena dell’oppressione in Virginia, nella quale all’epoca vivevano 40.000 coloni, era alla metà del Seicento e nel Settecento la seguente: “gli indiani erano depredati dai bianchi della frontiera, che erano tassati dalle élites di Jamestown, e l’intera colonia era sfruttata dall’Inghilterra, la quale comprava il tabacco dei coloni fissandone il prezzo e ricavando centomila sterline l’anno per il Re”13.
Nacque in questo contesto, sulla base delle protoideologie egualitarie importate dall’Inghilterra (“livellatori”, “diggers”, “seekers”, “ranters”, quaccheri) nel contesto della gloriosa rivoluzione della metà del Seicento14, quella imponente immigrazione che vide i poveri andare oltremare sulla base di un contratto di servitù che durava da cinque a sette anni (e non era sempre rispettato). Poveri, già sradicati e pericolosi in patria, talvolta ex militari, che ovviamente rappresentano una minaccia. Dopo la metà del Seicento ne fanno parte anche sbandati della “gloriosa rivoluzione”, talvolta con esperienza nella New Model Army, che vengono trasportati sulle stesse navi negriere, a volte in condizioni quasi analoghe, vengono comprati e venduti e sottoposti ad abusi, ma reagiscono in modo individuale. Fuggendo o ribellandosi. Quando possono vanno all’Ovest.
Questa è la scena originaria nella quale si formano le divisioni di classe, genere, razza e cultura le quali strutturano fino ad oggi la società americana. In Virginia nel 1700 le famiglie abbienti principali erano ormai 50, e vivevano in grandi piantagioni per l’esportazione del lavoro di schiavi neri, servi bianchi e sorveglianti intermedi. Vennero allora scritte costituzioni schiaviste (quella del North e South Carolina da John Locke), che istituirono e consolidarono una nuova aristocrazia di tipo pseudo-feudale nella quale alla fine 8 famiglie avevano il 40% del terreno e solo un esponente di queste aveva il diritto ad essere nominato Governatore. Non diversamente avvenne a New York ed a Boston, dove nel 1687 50 individui possedevano il 25% della ricchezza, ma nel 1770 ormai ne avevano il 40% e il 30% della popolazione maschile adulta e bianca non aveva nulla.
Nel 1700 gli schiavi erano l’8% della popolazione, nel 1770 diventarono al Sud il 21%, ma gli abitanti generali, nel frattempo, erano esplosi (sia per crescita demografica autoctona, sia per immigrazione).
In questo contesto gli scontri sociali si susseguirono, e resteranno alti in pratica per due secoli.
La “rivoluzione americana”
La crisi “rivoluzionaria”15 utilizzò questa energia, ma fu canalizzata e sfruttata dalle élite. Le quali avevano concluso, sulla base dell’esperienza, che i first peoples non servivano a nulla, i negri erano docili e redditivi e i poveri bianchi invece pericolosi. Dunque, i burocrati coloniali li spingevano verso la frontiera (contro i first peoples) previa assegnazione a imprenditori concessionari. La meccanica era semplice e consolidata, le élite politiche definivano nuove concessioni reali nei terreni “vuoti” della “frontiera”; queste erano acquisite con anticipazioni dal sistema finanziario del Nord ed assegnate a imprenditori che le spezzettavano e rivendevano ai poveri appena arrivati; questi organizzavano carovane verso l’Ovest per prenderne possesso, ovviamente uccidendo i first peoples presenti. Quando andava male arrivava l’esercito.
Come è riassunto in un testo dell’epoca, bisogna “che gli indiani e i neri siano di freno gli uni agli altri, per evitare che, dato il loro numero ampiamente superiore, veniamo schiacciati, dai primi o dai secondi”16. Anche se talvolta andava male, nell’insieme funzionava: da Bacon all’epoca rivoluzionaria si registrarono 18 sollevazioni, 6 rivolte di neri e 40 altre sommosse minori. Il razzismo fu in questo contesto un potente strumento pratico al fine di rendere possibile questa separazione e controllo. Un altro meccanismo fu la deviazione dell’energia contro un altro nemico esterno: l’Inghilterra.
Nel 1776 alcuni personaggi eminenti creano quindi una nuova nazione su un’idea geniale nella sua semplicità: un sistema di controllo nazionale capace di unire paternalismo a comando. Venne in tal modo diretta la furia, che nasceva da lotte di classe non completamente consapevoli (a loro volta connesse, come abbiamo visto, con le tradizioni importate dall’Inghilterra seicentesca) contro le élite giuste (e non contro di loro). Peraltro, ci furono sempre molte rivoluzioni dentro la rivoluzione17, tra questa quella dei “Regolatori” di Ethan Allen che in alcune contee godettero dell’appoggio di 6 persone su 7. La repressione dei “regolatori”, dove avvenne, determinò un sostanziale disinteresse alla lotta contro gli inglesi, che venne condotta soprattutto dalle classi medie (la “umanità di medio rango” di Colden) che furono cooptate al Nord agli interessi del grande commercio e della intermediazione finanziaria e fondiaria. I membri dell’associazione “Sons of Liberty”, ad esempio, oltre ad essere di Boston, erano tutti delle classi medie e superiori; le classi povere faticavano a farsi coinvolgere in quelle che alla fine gli sembrava (e giustamente) una guerra tra ricchi.
Sarà un politico di grande talento, e capacità populista, come Patrick Henry, a trovare le parole giuste grazie ad uno stile intenzionalmente semplice e trascurato, lunghe pause, un tono emotivo al contempo preciso e vago. Grazie all’azione di questa coalizione, alla quale partecipò anche Thomas Paine, con il suo Common sense, del 1776, e la retorica di Thomas Jefferson, alla fine “livellatori” e “zappatori” furono marginalizzati ed estromessi dalla rivoluzione.
Durante la guerra i poveri vennero in sostanza incorporati nell’esercito, e nella sua promessa di avanzamento sociale, e le terre espropriate ai “lealisti” furono intelligentemente utilizzate per creare una classe media cuscinetto, politicamente fedele al Congresso Continentale. Emersero figure come George Washington (l’uomo più ricco d’America, grandissimo proprietario terriero e di schiavi), un ricco mercante bostoniano come Hancock, un agiato stampatore come Franklin (quel che più si avvicinava nelle condizioni del tempo ad un intellettuale).
Finita la guerra vennero regolati i conti con i first peoples.
Il modello che si affermò, qui non è il caso di ripetere tutta la storia, fu imposto nei dibattiti che seguirono tra le élite (Hamilton, Madison) sulla base di un accordo di fondo per il controllo di classe della situazione. E sulla base di un’alleanza sociale che vedeva favorevoli circa un terzo di piccoli proprietari ed artigiani i quali fondamentalmente volevano essere protetti dalla concorrenza inglese. Questa è la scena che portò in seguito al redde rationem della guerra civile.
Guerre di conquista e regolamento di conti
Ma prima ci fu l’affermazione del “destino manifesto” ad espandersi che portò alla guerra con il Messico del 1846, provocata con una scusa. Ci fu in tal caso un serrato dibattito, nel quale Lincoln, non ancora deputato, si dichiarò favorevole e Thoureau contrario, come molti lavoratori.
Si trovò a dire il senatore Johnson, mettendo a punto una retorica da allora sempre praticata:
“verremmo meno alla nostra nobile missione se rifiutassimo di perseguire gli alti fini che ci indirizza la saggia Provvidenza. La guerra è foriera di mali, e in ogni epoca ha dispensato morte e distruzione in grande quantità; eppure, per quanto ciò appaia imperscrutabile, l’Onnisciente Dispensatore degli eventi l’ha resa al tempo stesso lo strumento per realizzare il grande obiettivo dell’elevazione e della felicità dell’uomo. È alla luce di ciò che io aderisco alla dottrina del ‘destino manifesto’”18.
L’esercito americano, per la metà formato da immigrati recentissimi irlandesi e tedeschi che erano interessati solo al soldo, combatté e vinse alla fine una guerra molto impopolare per entrambe le parti e condotta su grandi spazi. Nel 1848 il Messico, occupata la capitale, capitolò e perse metà del paese.
Nel Sud il sistema era invece imperniato sulla piantagione, ed una struttura che potrebbe essere descritta come aristocratica (che esprime nei primi decenni praticamente l’intera classe politica) che continuava a crescere sulla base del lavoro schiavistico, il quale letteralmente macinava vite. In una indagine che ci è rimasta si legge che in una piantagione nel tempo su 32 schiavi, solo 4 raggiungeranno i 60 anni, 4 i cinquanta, 7 moriranno entro i 40 e gli altri prima, ben 9 a 5 anni (evidentemente i bambini di età inferiore neppure venivano registrati). In queste condizioni erano frequenti piani clandestini per ribellarsi ed uccidere i bianchi, o fuggire. Temendo l’unione con i bianchi poveri la risposta fu di assumerli come sorveglianti, in secondo luogo imponendo una religione particolarmente adatta a spostare sull’altro mondo i desideri.
Su questa base si affermò il modello di Lincoln, che, inaugurando anche qui una tradizione, si presentava come rivoluzionario ma si appoggiava sul mondo degli affari, vestendo di abiti umanitari un mix di ricchissimi e ceti medi del Nord come propria base sociale ed elettorale.
Lo scontro di interesse tra un Sud agricolo e dedito all’esportazione, ed un Nord finanziario e proto-industriale, che attraeva immigrati europei e temeva la concorrenza inglese, determinò infine la guerra civile che mobilitò molte speranze nelle popolazioni marginali, chiamate a sostenere lo sforzo bellico. Speranze puntualmente tradite nel dopoguerra, quando le terre furono restituite ai bianchi ricchi (anche del Nord). Superando quindi la breve stagione di Grant che vide un piccolo insediamento di deputati neri, e apertura delle scuole, che ma terminò negli anni Settanta, durando meno di un decennio. Una nuova coalizione tra industriali del Nord e uomini di affari del Sud inaugurò allora l’era del carbone e dell’energia.
Questo clima di speranze deluse, è quello nel quale prese la parola una nuova intellettualità che si era formata nelle scuole aperte ai neri e trovò in persone come W.E.B. Du Bois19 i propri leader.
Queste sono le condizioni nella quali, dopo la repressione del movimento della valle dell’Hudson, politici “progressisti” come Andrew Jackson padroneggiarono la retorica liberale e gli atteggiamenti populisti sulla base di una ben calibrata politica dell’ambiguità che, in sostanza, però continuò ad appoggiarsi sugli strati intermedi di commercianti ed impiegati (in crescita), verso una classe lavoratrice che fu tenuta costantemente in condizioni di frammentazione ed impotenza. Cominciarono a nascere, insieme ad una società più urbanizzata, nuovi fermenti come le prime forme di organizzazione femminile e il Movimento delle otto ore. Cosa che non impedì, nella crisi del 1873, l’emergere di un nuovo e più aggressivo capitalismo dei Carnegie e Rockfeller: i “Robber barons”.
Quando partì la ripresa che farà ancora più grande e potente gli Stati Uniti, la gestione delle tensioni crescenti avvenne sulla base di quello che Zinn chiama un “terrazzamento sociale”, nel quale la remunerazione e il grado di sfruttamento seguiva il colore (e l’epoca di immigrazione). Seguì la meccanizzazione crescente dell’agricoltura e quindi lo spostamento della forza lavoro sull’industria e la crescita della popolazione. Ma anche l’infrastrutturazione del territorio, soprattutto ad opera delle ferrovie di Carnegie e la rete crescente di interdipendenza finanziaria.
Contromovimenti
Theodore Roosevelt venne eletto in un paese nel quale si susseguivano gli scioperi ed il movimento per i lavoratori di Eugene Debs acquistava sempre più forza. Nel quale si avviò anche l’Alleanza degli agricoltori in Texas dalla quale nacque il movimento populista. Il Partito del popolo univa in una breve e piena di energia stagione repubblicani del Nord, democratici nel Sud, operai urbani e agricoltori neri e bianchi. Si trattava di uno strano partito, radicale e interraziale che venne aggredito dalle retoriche delle élite anche sotto questo profilo per inserire un cuneo tra bianchi e neri, operai ed agricoltori. Fino a che durò cerca, tuttavia, di creare una cultura indipendente; venne creato in Servizio Conferenze che arrivò ad avere 35.000 conferenzieri professionali, un enorme numero di riviste e opuscoli a stampa che si occupavano di economia, teoria politica, legge e governo, etc. una sola rivista, la “National Economist”, aveva 100.000 lettori.
Il movimento fallì alla fine perché non riuscì mai di farsi carico di interessi che erano potenzialmente divergenti e dirigerli, non riuscì ad unire stabilmente nei e bianchi, e venne attratto e assorbito dalla politica elettorale. In sostanza progressivamente, candidato dopo candidato e leader dopo leader, venne assorbito e neutralizzato nel Partito Democratico.
Continuando il suo racconto Howard Zinn ci mostra come ci sia sempre stato un nesso anche tra la chiusura della frontiera (così decisiva per la stabilizzazione sociopolitica della società americana attraversata da tensioni di crescita pericolose) e la proiezione estera. Secondo le sue parole, “il sistema del profitto, con la sua naturale tendenza all’espansione, comincia a volgere lo sguardo all’esterno”20. La depressione del 1893 fece nascere l’idea nel sistema industriale e finanziario che la vendita all’estero poteva risolvere il sottoconsumo interno (senza obbligare ad alzare i salari e quindi ridurre i profitti), prevenendo anche il conflitto di classe. In sostanza si spostò all’esterno la tendenza a trovare un nemico e un inferiore al quale rivolgere il proprio risentimento. Come disse sinteticamente Theodore Roosevelt, “questo paese ha bisogno di una guerra”, ovviamente verso le razze “inferiori”.
Ovvero verso paesi che non sanno governarsi da soli e “hanno bisogno di aiuto”; in sostanza una riaffermazione, fuori del continente, della dottrina del “destino manifesto”. A farne le spese inizialmente furono le Filippine che in tre anni di guerra aspra e violentissima furono occupate e piegate, passando dal dominio spagnolo a quello americano.
Ma siamo anche negli anni apicali della sfida socialista, quando autori famosi come Mark Twain, Upton Sinclair, Jack London, Theodore Dreiser, Frank Norris, promuovono l’idea e, d’altra parte, si affermò il taylorismo che puntava a disinnescare la forza degli operai nelle fabbriche. I sindacati assumevano sempre maggiore forza, ma anche qui si lavorò per separare lavoratori bianchi e neri. Scriverà Du Bois, “il risultato finale di tutto questo è stato convincere il nero americano che il suo nemico peggiore non è il padrone che lo rapina, ma il lavoratore bianco suo collega”21. Si affermarono anche organizzazioni operaie molto radicali ed efficaci, come i IWW (o “Wobblies”), i quali propugnavano un’azione diretta, senza divisioni di sesso o razza, e puntavano allo sciopero generale che espropri gli imprenditori. Un’idea basata su una forma di anarco-sindacalismo, anche se minoritario (forse diecimila militanti al massimo), ma determinato e coraggioso. Ad un certo punto i socialisti di Debs furono spinti dal loro successo a prendere le distanze dai Wobblies, i cui metodi spesso violenti, li rendevano un facile bersaglio. Non servì, perché nelle condizioni della Prima Guerra Mondiale furono repressi insieme.
Nacque in risposta a queste tensioni una sorta di capitalismo politico che attenuava e sopiva, che concedeva, ma per tutelare meglio gli interessi a lungo termine della classe capitalista, operando per i suoi interessi generali e prospettici, più che per quelli della singola fabbrica o industriale. Lo scopo, dice Zinn, era molto semplice e chiaro: tenere a bada il socialismo.
Guerre
Ma la lotta al socialismo non fu condotta solo dai politici dell’era progressista, un altro modo è il solito classico: la guerra. In un momento di necessità arrivò infatti a salvare la situazione la Prima Guerra Mondiale, proprio durante la pericolosa recessione del 1914. Du Bois lo vedrà in modo semplice: il capitalismo aveva bisogno di rivalità internazionale per creare una comunità artificiale tra ricchi e poveri. In realtà è un effetto secondario gradito, la crisi economica inasprì lo scontro tra capitali che si rifugiarono sotto la protezione nazionale, e lo trasformò in scontro tra sistemi di capitali nazionali e quindi nazioni. Scontro per gli “Imperi”, e quindi la proiezione protetta di capitali e aree commerciali, e scontro per regolare i debiti22.
Fatto sta che la guerra consentì anche di regolare i conti interni. Il Presidente Wilson fece arrestare Debs per tutta la guerra e annientare i IWW, arrestati e processati in massa. Seguiranno le misure contro l’immigrazione dal Sud e dall’esterno, con la parziale incorporazione della forza lavoro nera nelle fabbriche del Nord e dopo il crollo del ’29 la rivolta dei reduci, il New Deal, la TVA e l’inquadramento dei sindacati23. Il dopoguerra wilsoniano fu anche l’epoca della retorica anticoloniale (che, in realtà, era rivolta contro le colonie tedesche e solo quelle), promossa da un paese che, ricorda Zinn, tra il solo 1900 e 1933 era intervenuto a Cuba 4 volte, in Nicaragua 2 volte, a Panama 6 volte, Guatemala 1 volta, Honduras ben 7 volte.
La Seconda Guerra venne combattuta contro il nazifascismo, anche se durante l’intero periodo intermedio la preoccupazione di tutte le potenze Occidentali era piuttosto di fermare il comunismo. Lo dimostra l’atteggiamento nella Guerra di Spagna e comunque quello verso le potenze dell’Asse, solo con molta riluttanza designate come nemici. Questo, sia detto tra parentesi, fornisce uno sfondo anche alle esitazioni di Chamberlain, che vedeva il nemico a Mosca, non a Berlino. La guerra si combatté comunque con la solida determinazione, distruzione sistematica delle città inclusa, e risolse anche problemi sociali interni. Alla fine, servì, e quindi venne stabilizzata nella cosiddetta “Guerra fredda” (questa volta contro l’avversario giusto).
Rivolte e muri di gomma
Seguiranno la rivoluzione cinese, la guerra di Corea, le lotte per la decolonizzazione fino agli anni Sessanta inoltrati. Sul fronte interno la mobilitazione connessa con il riarmo, la crociata di Mc Carty e la dottrina del “pericolo evidente ed immediato”, la crescita del budget militare da 12 Mld nel 1950 a 45 nel 1960, fino a 80 nel 1970. Ormai negli anni Cinquanta e Sessanta il paese visse una sorta di economia di guerra permanente e si sentiva ormai sotto saldo controllo da parte delle sue élite.
Ma, durante gli anni tra la metà dei Sessanta ed i Sessanta avvenne l’esplosione sociale e politica della quale lo stesso Zinn fu testimone e protagonista. Iniziarono i neri, con le rivolte a Montgomery e l’emergere di grandi leader come King e Malcom X, tutti uccisi ovviamente non appena si radicalizzarono (Martin Luther King muore non appena comincia a parlare contro la guerra del Vietnam e la povertà). Dopo la Grande marcia del 1963 Kennedy cercò di riassorbire il movimento nella “Coalizione democratica”, come a suo tempo fatto con successo con il Partito Populista. In sostanza riuscì, ma per un poco ci furono movimenti divergenti, come quello di Huey Newton e le Black Panther, i cui leader furono assassinati in modo specifico e mirato. Oppure la League of Revolutionary Black Workers.
Emerse quindi il grande movimento pacifista contro la Guerra del Vietnam (una guerra coloniale nella quale gli Stati Uniti avevano preso il posto dei francesi) nella quale furono impiegate sette milioni di tonnellate di bombe (il doppio della Seconda guerra mondiale), e l’azione di grandi personaggi come Muhamad Alì. L’apice della protesta si ebbe nel 1970, prima del ritiro americano nel 1975.
Ci saranno anche molte altre mobilitazioni di diversi settori della società americana: le donne, i first peoples24, le lotte nelle carceri nelle quali troverà la morte George Jackson. Una generale rivolta contro “modi di vivere oppressivi ed artificiosi”, che si esprime in tutto: dall’abbigliamento alla musica (con autori come Bob Dylan e Joan Baez, tra gli altri). Cominciò a declinare la fiducia diffusa nel governo. Ne furono segno giurie popolari sempre più ribelli, che assolsero Angela Davis e altri membri delle Black Panther. Il momento più basso si ebbe con la crisi per le dimissioni di Nixon.
Che, tuttavia, furono, al contempo una deviazione di attenzione.
La controffensiva
Di qui partirà la controffensiva neoliberale. Avremo la Commissione Trilaterale con Huntington, la destabilizzazione del Cile, la controffensiva in America Latina e ovunque possibile, il tentativo di riconquista e riassorbimento attraverso una sorta di “populismo dall’alto”. Per la terza volta, dopo “l’era progressista” e la “nuova frontiera”, si giocò la carta di un membro ricchissimo dell’establishment che si vestì da uomo del popolo come fece l’aristocratico Patrick Henry nel 1700. Toccò ad un ricchissimo imprenditore di arachidi del Sud, Jimmy Carter, vestirsi da contadino e costruire un richiamo populista. Scelto per il ruolo da Rockfeller e Brzezinsky, Carter introdurrà un pacchetto sofisticato di apparenti riforme e potenziamento delle spese militari.
Seguirà il cambio di cavallo rappresentato da Reagan, che fece crescere ulteriormente il divario nella società americana e assistette all’inizio della disgregazione dell’Urss, cosa che gli consentì maggiore spazio di manovra per avventure come l’interferenza con i Sandinisti in Nicaragua, l’invasione di Grenada, l’uccisione di Oscar Romero in San Salvador, e poi, con il successore ed ex presidente Bush la prima guerra in Iraq (un vecchio e fedele alleato mediorientale, fattosi ingombrante).
Poi verrà Clinton con la sua retorica progressista e sostanza conservatrice, le sue contraddizioni, la sua svolta decisa verso l’internazionalizzazione dei capitali, la “terza via” e la riforma del welfare, l’eliminazione dei sussidi, la lotta neoliberale allo “Stato interventista” e poi, la Somalia, il Nafta, gli attacchi alla Jugoslavia al momento della dissoluzione sovietica. L’avvio della spinta ad Est della Nato, Seattle.
Verrà allora Bush Junior, con l’elezione rubata, l’11 settembre e la “Guerra al terrorismo”, le nuove avventure militari e i “Neocon”, l’Afghanistan. Tutti i fallimenti che fanno parte del declino americano di questi tempi25.
Le tecniche, dividere e nascondere
Al di là di ogni valutazione il punto del libro è che il sistema americano riesce sempre ad esercitare il più ferreo controllo dividendo e incorporando, distribuendo qualcosa a quanto basta per avere uno scudo e impedire che si sommino troppe forze ostili. Mette sempre gli uni contro gli altri, i piccoli proprietari contro chi non ha nulla, i neri contro i bianchi, i nati in America contro gli immigrati, i vecchi immigrati contro i nuovi, i professionisti contro i non istruiti, le città contro le campagne, il Nord contro il Sud, l’Est contro l’Ovest, i giovani contro gli altri e tutte le minoranze contro tutte (una delle ultime tecniche26).
L’importante è che non si veda la frattura principale, tra chi ha troppo e chi non ha niente.
Un esempio di questa attitudine dell’establishment anglosassone (e americano in primis) di cogliere ogni opportunità per silenziare e neutralizzare le sfide sistemiche, sostituendole se del caso con meno pericoloso ribellismo individuale, in particolare estetico, è rintracciabile nella trasformazione del Movimento dei diritti civili, che tanta preoccupazione fece prendere negli anni Sessanta all’FBI, in un movimento molto meno solido di risegregazione identitaria. Giovani avvocati come Derrick Bell si convinsero che le lotte contro la segregazione erano state in fondo utili al potere. E che, con le sue parole, “il razzismo è una parte integrante, permanente e indistruttibile di questa società [americana]”27. Nel contesto della disillusione post-moderna verso le “grandi narrazioni” e il correlato “universalismo illuminista” (anche, se non soprattutto, della tradizione marxista che era il vero bersaglio28), la nuova strategia non era essere tutti eguali, ma tutti diversi. Creare diritti differenziati che favorissero alcuni gruppi svantaggiati, risarcendoli sul piano simbolico e spesso linguistico. Questa idea si contamina con quella di “intersezionalità”, promossa da Kimberlé Crenshaw, con la sua “Teoria critica della razza”. L’idea, apparentemente plausibile, è che ogni individuo si forma all’incrocio di diversi attributi, secondo un’individuale ed irripetibile costellazione di identità, come proposto da Donna Haraway. Dunque una donna nera, o un omosessuale latinoamericano (è ovviamente irrilevante se ricco o povero), non possono essere capiti se non da altre donne nere e omosessuali latinoamericani. Non sfugge che secondo questa strana logica ogni mobilitazione generale è impossibile, e soprattutto lo sono quelle per ragioni economiche. Non per caso queste teorie nascono nelle più ricche università americane, da persone certamente non di classe popolare. Secondo la sintesi di un anziano Edward Said29, questa idea portante, che la vittimizzazione di gruppi identitari fornisca un qualche accesso privilegiato alla virtù, non garantisce l’umanità, “attestare una storia di oppressione è necessario ma non sufficiente, fino a che quella storia non è ricodificata nel processo intellettuale e universalizzata per includervi tutti i sofferenti”30. In altri termini fino a che non è inserita nel contesto della produzione sociale dell’oppressione che altri vivono, se pure diversamente, e in un progetto di riscatto che li coinvolga. O, per dirlo in altro modo, “nonostante quanto pensano Lyotard e i suoli accoliti, ci troviamo ancora in una periodo di grandi narrazioni, di drammatici scontri culturali e di spaventose guerre”, le cose vanno quindi collocate “nel più ampio contesto” e non solo dipendere “da una professionalità tecnica o dalla stantia ‘giocosità’ della critica postmoderna, con il suo altezzoso spregio per qualsiasi consa che non sia gioco locale o pastiche”31. L’autore palestinese, che tanta parte ebbe nella formazione del paradigma, in questi ultimi scritti protesta contro quella particolare “pedagogia dell’apartheid” ed esaltazione del particolarismo, che impedisce in radice che “un maggior numero di persone possa beneficiare dei vantaggi per secoli negati alle vittime delle discriminazioni di razza, classe e genere”.
Grazie a trucchi simili, trovati con istinto sicuro, alla fine l’America riesce sempre ad indicare una bella casa amena su una collina, mentre all’ombra di questa distrugge e tortura, schiavizza e incarcera, bombarda tutti e sempre (ma in modo “intelligente”), dichiarandosi aggredito, obbliga tutti a regole che lui stesso non rispetta e cambia ogni volta vuole, fa e disfa alleanze, designa nemici esistenziali e “nuovi Hitler” con i quali fa patti prima, combatte in mezzo e li rifà dopo. Tradisce gli amici, ogni volta possibile. Tradisce soprattutto gli amici, perché li considera inferiori.
Si comporta da impero, ma sempre, attentamente, “riluttante”. Obbligato, malgrado la propria modesta inclinazione, da un “destino manifesto” che non ha scelto. Che gli viene da Dio.
Conclusione, lo spirito premoderno di un paese di frontiera
Perché una nazione imperiale, che è nata sulla spinta delle componenti più disperate e radicali della rivolta religiosa seicentesca, innestando sul giano bifronte del liberalismo che abbiamo visto parlando del libro della Elkins sull’eredità di violenza dell’Impero britannico32, ha un tono veterotestamentario. Qualcosa che, come vedremo leggendo Taubes33, è radicalmente antipaolino. Riporta l’universalismo, conformemente ad una postura anglosassone implicita, al nomos ed all’ethos, alla Gerusalemme ed al popolo eletto. Paolo intendeva, invece, fondare un popolo e contestando al contempo l’universalismo romano e la comunità etnica ebraica. Nella “teologia politica negativa” paolina l’autorità viene sempre dall’amore per il prossimo. L’altro da sé. Ed è un movimento orizzontale che passa per il crocifisso, ovvero passa per l’indigenza (l’imperfezione, la finitezza). Per ciò che è proprio dell’uomo e ha sempre a che fare con l’amore che, esso solo, consente l’attivazione di quel movimento tramite il quale accedere alla perfezione. L’uomo nella antropologia paolina, e in quella cristiana al suo meglio, non è mai un ‘io’, ma sempre un ‘noi’. All’universale non si arriva per un movimento interno di dispiegamento, come l’espansione di una dote, di un possesso, ma si arriva perché ci si apre. Per l’evento, nel quale ci si contamina34, si sa perdere sé stessi (così, e solo così, trovandosi).
Il carattere veterotestamentario dell’universalismo imperiale americano promana dalla stessa esibizione della violenza nuda, alla quale ci ha abituato dentro e fuori, ogni qual volta si renda necessario. Le analisi di Jan Assmann, in Non avrai altro Dio35, e nelle altre opere36 mostrano come la “semantica culturale”37 americana pratica la relazione tra la violenza ‘necessaria’ e levatrice non in relazione al tema della sovranità, quanto della trascendenza. In relazione alla missione divina. Diventa allora una questione della verità. Pratica, e profondamente tanto più quanto meno se ne avvede (come ogni habitus acquisito alla nascita), la “distinzione mosaica”38. Impone alla costruzione americana, figlia di tante diaspore individuali e di gruppo, di distinguere il vero dal falso. Cosa che rende quella americana un’enorme “Cultura di enclave” nel senso dell’antropologa Mary Douglas. Qualcosa che è autoevidente, determina una cornice di vita comune, e anche individuale, la quale si contrappone naturalmente ad altri stili di vita tanto profondamente da poter uccidere per essa in modo assolutamente ovvio.
Ma tutta questa energia, questa determinazione e questa violenza è posta a servizio. Diventa una forma che rende possibile la stabilità dello sfruttamento, sentendosene innocenti. In sostanza da un certo punto di vista la costruzione americana è un capolavoro.
Alessandro Visalli
(Tratto da: Alessandro Vissalli, Howard Zinn, Storia del popolo americano, in https://tempofertile.blogspot.com/2025/03/howard-zinn-storia-del-popolo-americano.html).
Note
1 Scrisse il primo libro contro la guerra, Vietnam. The logic of Whitdrawal, Beacon Press, 1967.
2 Howard Zinn, Storia del popolo americano dal 1492 ad oggi, Il Saggiatore 2017 (ed. or. 1980).
3 Nato nel 1474 e morto nel 1566 è stata una straordinaria figura di teologo e vescovo spagnolo strenuamente impegnato nella difesa dei nativi americani, e successivamente anche dei neri importanti in sostituzione. Fondamentale fu la sua partecipazione al dibattito del 1550 di Valladolid, nel quale il suo avversario fu Juan Ginés de Sepulveda. Il testo principale è Bartolomé de Las Casas, Brevissima relazione della distruzione delle indie, Marsilio 2012 (ed. or. 1552).
4 Zinn, cit., p. 25.
5 David Graeber, David Wengrow, L’alba di tutto. Una nuova storia dell’umanità, Rizzoli 2022.
6 Graeber, cit., p. 61 e seg.
7 Graeber, p. 67.
8 Si veda, Paul E. Lovejoy, Storia della schiavitù in Africa, Bompiani 2019 (ed. or. 2012); Howard French, Africa. E la nascita del mondo moderno, Rizzoli, 2023; Zeinab Badawi, Storia Africana dell’Africa, Rizzoli, 2024.
9 Si veda, Francesca Canale Cama, Amedeo Feniello, Luigi Mascilli Migliorini, Storia del mondo. Dall’anno 1000 ai giorni nostri, Laterza, 2019, pp. 579 e seg.
10 Christopher Hilll, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, PGreco, 2023.
11 Hill, op.cit., p. 38.
12 Un tema, questo, di enorme complessità per un approccio al quale rimando ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 3, Mutamenti, p. 103 e seg.
13 Zinn, cit., p. 52.
14 Si veda, Christopher Hilll, Il mondo alla rovescia. Idee e movimenti rivoluzionari nell’Inghilterra del Seicento, op. cit.
15 Mi permetto di rinviare anche ad Alessandro Visalli, Classe e Partito. Ridare corpo al fantasma del collettivo, Meltemi, 2023, cap. 2, Rivoluzioni, p. 60 e seg.
16 Zinn, cit., p. 65.
17 Alan Taylor, Rivoluzioni americane. Una storia continentale, 1750-1804, Einaudi, 2017 (ed. or. 2016).
18 Zinn, cit., p. 166.
19 Grande intellettuale e militante nero, in realtà con sangue africano, olandese, francese e haitiano, nato nel 1868 e morto nel 1963.
20 Zinn, cit., p. 313. Per una lettura di questa tendenza si veda, Alessandro Visalli, Dipendenza, Meltemi 2020.
21 Zinn, cit., p. 347.
22 Si veda, ad esempio, Niall Ferguson, Il grido dei morti, Oscar, 2014.
23 Fasi descritte anche nel mio Dipendenza, op. cit.
24 Si veda, Aram Mattioli, Tempi di rivolta. Una storia delle lotte indiane negli Stati Uniti, Einaudi, 2024.
25 Gli altri, Obama, Trump, Biden, ancora Trump sono fuori del libro, perché l’autore è morto nel 2010 e sostanzialmente termina con le immediate conseguenze del 11 settembre 2001, Afghanistan prima dell’Iraq. Non parla della seconda guerra in Iraq e non della crisi del 2008. Non dei due fallimenti di entrambe.
26 Si veda Yascha Monk, La trappola identitaria. Una storia di potere e di idee del nostro tempo, Campi del Sapere, 2023.
27 In Yascha Monk, La trappola identitaria, cit., p. 59.
28 Non è difficile riconoscere una linea genealogica precisa tra l’emergere, tra gli anni Cinquanta e i Sessanta, di idee riprese dagli autori della ‘critica della ragione’ formatisi negli anni Trenta tra le due guerre, e il loro consolidarsi e diventare dominanti negli anni Ottanta, quando il marxismo subisce un autentico tracollo. Quando gli autori della svolta postmoderna criticano le “grandi narrazioni” e “l’illuminismo”, in realtà stanno attaccando l’idea di rivoluzione ed il marxismo-socialismo.
29 Edward Said, Nel segno dell’esilio. Riflessioni, letture e altri saggi, Feltrinelli, 2008 (ed. or. 2000).
30 Said, cit., p. 437.
31 Idem.
32 Caroline Elkins, Un’eredità di violenza. Una storia dell’imparo britannico, Einaudi, Torino 2024 (ed. or. 2022).
33 Jacob Taubes, La teologia politica di san Paolo, Adelphi, 1997 (ed. or. 1993).
34 Questa grande parola la uso nel senso di Derrida.
35 Jan Assmann, Non avrai altro Dio. Il monoteismo e il linguaggio della violenza, Il Mulino, 2007.
36 Jan Assmann, Verso l’unico Dio. Da Ekhnaton a Mosè, Il Mulino, 2018 (ed. or. 2014); Jan Assmann, Dio e gli dei. Egitto, Israele e la nascita del monoteismo, Il Mulino, 2009.
37 Per come la descrive Assmann, “le grandi narrazioni e le differenziazioni principali con cui una società si orienta nello spazio e nel tempo e che rendono impresse nei miti fondatori, nei simboli, nelle immagini e nei testi letterari della propria tradizione”, in Non avrai altro Dio, cit., p. 29.
38 Termine centrale della interpretazione di Assmann, per la quale la trasposizione che Mosè pratica dalla esperienza imperiale del suo tempo (Assiria ed Egitto) tra la vera e la falsa religione, tra vecchio e nuovo, che separa e distingue un “popolo che dimora a parte” (Nm 23, 9). Si veda Assmann, Dio e gli dei, cit., p.189.
Inserito il 05/04/2025.
Jean Jaurès (1859-1914).
Dalla rivista «Internazionale»
di Giovanni De Mauro
Jean Jaurès è stato un uomo politico francese, nato nel 1859 e ucciso a Parigi il 31 luglio 1914. Leader socialista, fu ispiratore e teorico del pacifismo, ideale per il quale fu assassinato da un nazionalista alla vigilia della prima guerra mondiale. Nel 1903 fu invitato a tenere un discorso agli studenti nel liceo di Albi, nel sud della Francia, in cui aveva insegnato prima di diventare deputato, e tra l’altro disse:
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“L’umanità è maledetta se per dare prova di coraggio si condanna eternamente a uccidere. Il coraggio oggi non è far vagare sul mondo la terribile nube della guerra. Il coraggio non è lasciare alla forza la soluzione di conflitti che la ragione può risolvere.
“Per voi il coraggio deve essere quello di ogni ora: è saper sopportare le prove fisiche e morali che la vita impone di continuo. Il coraggio è scegliere un mestiere, farlo bene, non disgustarsi per dettagli monotoni e fastidiosi. In qualunque mestiere bisogna esser sia pratici sia filosofi.
“Il coraggio è capire qual è la propria vita, precisarla, approfondirla e al tempo stesso coordinarla con la vita in generale. Il coraggio è tenere d’occhio la propria macchina per filare o per tessere in modo che nessun filo si rompa, e tuttavia prepararsi a un ordine sociale più grande e fraterno in cui la macchina sarà al servizio dei lavoratori liberati.
“Il coraggio è accettare le nuove condizioni che la vita propone alla scienza e all’arte, accogliere ed esplorare la complessità quasi infinita dei fatti e dei dettagli, e al tempo stesso illuminare questa realtà enorme e confusa con delle idee generali, organizzarla e sollevarla con la bellezza sacra delle forme e dei ritmi.
“Il coraggio è dominare i propri errori, soffrirne ma non esserne sopraffatti e continuare il proprio cammino. È andare verso l’ideale comprendendo la realtà. È agire e dedicarsi alle grandi cause senza sapere quale ricompensa riserverà al nostro sforzo l’universo, né se una ricompensa ci sarà. Il coraggio è cercare la verità e dirla, non cedere alla menzogna, non associarsi alle urla dei fanatici”.
(Tratto da: Giovanni De Mauro, Coraggio, in «Internazionale», n. 1448, 17 febbraio 2022, pag. 5).
Pietro Secchia (1903-1973).
Comunisti scomodi
di Angiolo Gracci (“Gracco”)
Pietro Secchia (1903-1973) fu un grande organizzatore della Resistenza e dirigente di spicco del Partito Comunista Italiano, di cui fu vicesegretario generale e responsabile del settore Organizzazione e Propaganda. Negli anni Cinquanta egli venne emarginato dai vertici del partito per le sue posizioni considerate estremiste: non aveva mai voluto rinunciare all’idea dell’insurrezione armata e fu accusato di aver costituito una struttura clandestina di ex partigiani dotati di armi non riconsegnate dopo la Liberazione.
Negli anni Sessanta, nel pieno della contestazione studentesca, presero contatto con lui esponenti dei movimenti della sinistra extra-parlamentare per cercare di coinvolgerlo nella fondazione di un rinato partito comunista su basi marxiste-leniniste. Il comandante partigiano fiorentino “Gracco” fu incaricato di sondare la disponibilità del dirigente del Pci a imbarcarsi nell’avventura della fondazione del Partito Comunista d’Italia (marxista-leninista). Qui il ricordo di quell’incontro.
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Pietro Secchia, figura da riscoprire
Un ricordo personale
di Angiolo Gracci (“Gracco”)
Il movimento del ’68 nel mondo, in particolare in Europa ma, soprattutto, in Italia, fu, sotto molti aspetti, “l’onda lunga” di ciò che era stato, nel corso della seconda Guerra mondiale (1939-1945), il fenomeno storico, senza alcun analogo precedente, della resistenza dei popoli contro l’aggressione imperialista nazifascista e nipponica.
Per quanto riguarda l’Italia, è impossibile afferrare la valenza della spinta socialmente e culturalmente rinnovatrice di quel movimento di globale contestazione senza ricollegarlo idealmente al suo naturale antefatto: la vicenda della ventennale lotta contro la dittatura fascista e quella della Guerra di Liberazione nazionale, con la sua vittoriosa conclusione insurrezionale del 25 aprile 1945; quest’ultima di indubbio carattere rivoluzionario, nonostante l’oggettivo condizionamento “interno” dell’antifascismo interclassista, la crescente pressione ostile delle preponderanti forze del campo imperialista vincente e la repressione posta in essere dalla nuova “santa alleanza” tra forze moderate della borghesia indigena, riciclatasi nell’antifascismo resistenziale, e quelle, poderose, degli alleati anglo-americani “liberatori”. Perché la seconda Guerra mondiale, sconvolgendo tutti i continenti, aveva avuto per posta lo stabilimento del predominio sull’intera umanità dell’uno o dell’altro modo d’essere dell’imperialismo mondiale. Tenendo presente questa premessa è possibile inquadrare adeguatamente il rapporto che intercorse tra il Pci e il “movimento del ’68” da intendere, questo, nella sua più ampia dimensione storico-politica; come, a ben maggiore ragione, va inteso quello, precedente, della lunga lotta clandestina contro il fascismo e della successiva resistenza armata, popolare e partigiana, contro il dominio e l’invasione nazifascista.
Studiare la posizione assunta in quel contesto da Pietro Secchia, figura storica di primo piano del Pci, implica, necessariamente, che sia tenuto presente quel nesso dialettico. Infatti, se è vero, com’è vero, che la lotta antifascista e la Resistenza sono state e restano, a tutt’oggi, i momenti in cui crebbero e si manifestarono, al più alto livello, la coscienza politica e, conseguentemente, l’influenza egemonica del movimento operaio italiano nella società nazionale, è altrettanto vero che ciò poté verificarsi grazie al tenace, metodico lavoro svolto e alla capacità dirigente acquisita dal Partito Comunista d’Italia che dimostrò di essere, davvero, la massima espressione organizzativa raggiunta dalla classe operaia, irriducibile antagonista a quella che aveva generato il fascismo: la borghesia capitalista.
Pietro Secchia – per il suo autentico essere, sentirsi e agire proletario; per il suo ruolo di primo piano assunto nella lotta clandestina e, poi, nella guerra partigiana di liberazione, come commissario politico generale delle brigate e dei distaccamenti d’assalto “Garibaldi”; per lo straordinario ininterrotto impegno svolto successivamente, in Parlamento e nel Paese, in strenua difesa dei contenuti sociali profondamente innovatori che, nonostante tutto, dalla Resistenza era riuscita a proiettare nella nuova Costituzione repubblicana e democratica – rappresenta oggi, tra la pur nutrita schiera di quelli che furono i valorosi “quadri” del gruppo dirigente del Pci, il punto di riferimento-chiave più significativo, ricco di stimolanti insegnamenti validi, appunto, anche nel difficile presente in cui è venuto a trovarsi, in Italia, il movimento delle classi subalterne.
Tutto questo va tenuto presente, non tanto ai fini di una corretta comprensione del rapporto conflittuale che intercorse tra il Pci o, meglio, tra il suo apparato dirigente e il movimento della contestazione studentesca e operaia, emblematicamente sintetizzato nella data del ’68, quanto – e forse è l’aspetto politicamente più rilevante – per riuscire a individuare e valutare appieno cause e ragioni profonde della incipiente involuzione di quello che, per oltre quarant’anni, era stato il più grande e combattivo partito comunista dell’intero mondo capitalistico, involuzione che proprio quei fatidici “anni ’60” consentirono di mettere in evidenza prefigurandone conclusione della parabola, scomparsa e trasformazione, in senso socialdemocratico, avvenuta due decenni dopo, alla fine degli anni ’80. Eppure si era trattato di un partito ch’era riuscito a creare, mantenere e, addirittura, allargare, nel corso di quasi settant’anni e come mai prima, un proprio vasto, organico, forte radicamento tra le masse lavoratrici e popolari, capillarmente diffuso nel tessuto sociale dell’intero Paese, sebbene che questo fosse divenuto, appena all’indomani della fine della guerra guerreggiata, “prima linea” del blocco occidentale atlantico contrappostosi, in un confronto inesorabile, di classe, a quello dei paesi del “socialismo reale”.
Merito di questo tempestivo saggio di Ferdinando Dubla è, pertanto, l’essere riuscito a ricuperare, efficacemente, attraverso la figura di quel grande dirigente comunista, aspetti essenziali del complesso passaggio di fase politica rappresentato dal ’68, nel contesto delle tormentate vicende post-belliche del nostro Paese.
Caratteristica peculiare del contributo di Dubla alla non facile ricostruzione storica di quel cruciale periodo e del suo irripetibile, tumultuoso clima polemicamente creativo è, infatti, l’essere riuscito a mettere in rilievo il travaglio politico-personale di Pietro Secchia nella situazione di irreversibile conflitto tra linee contrapposte venutasi a creare tra lui e, praticamente, la quasi totalità del gruppo dirigente del Pci. La figura limpida e coerente di Pietro Secchia emerge sullo sfondo del proliferare e agitarsi di posizioni e contraddizioni che caratterizzano l’apparentemente inesauribile attivismo ideologico e movimentista delle numerose e, più o meno, effimere organizzazioni “sessantottine”. Esse, come è noto, manifestarono molteplici dinamiche socio-politiche che, però, non riuscirono a fondersi in una comune, realistica, progettualità rivoluzionaria, rendendo così inevitabile la frantumazione e dissoluzione del movimento.
Dubla, con una rigorosa ricerca documentale, rintraccia e illustra il punto nodale in cui si manifesta, anche se in modo prevalentemente indiretto, l’interesse intenso, quasi partecipe – comunque, carico di speranza – di Secchia, nonostante il suo indissolubile legame esistenziale col Pci, verso l’evolversi e, quindi, l’esaurirsi dell’onda inusitatamente vasta di un movimento così eccezionalmente ricco di energie giovanili. Nei suoi numerosi scritti e negli interventi e discorsi in Parlamento, Secchia dimostrò di aver saputo cogliere e apprezzare i contenuti tendenzialmente rivoluzionari del ’68, espressisi nell’aspra, radicale contestazione dell’assetto politico-istituzionale, involutivamente stagnante e corrotto, prodottosi nel Paese a seguito dell’odiosa, sistematica discriminazione anticomunista e accentratosi con l’avvento al potere del Centro-Sinistra. Non a caso, fu proprio il profilarsi della prospettiva strategica del “compromesso storico”, intorno all’asse post-togliattiano Berlinguer-Moro, il più importante fra i fattori endogeni scatenanti quel grande, inusitato movimento di ribellione di massa nel contesto delle potenti, stimolanti suggestioni che venivano dal contesto del movimento rivoluzionario internazionale: il Vietnam, Cuba, la “rivoluzione culturale” in Cina, il “Che”.
Altro merito del saggio è l’avere sottolineato come – nell’ampio ventaglio delle soggettività politiche che caratterizzarono il movimento del ’68 – la componente comunista marxista leninista, in particolare quella rappresentata dal P.C.d’I. (m.l.), sia stata quella mostratasi capace di svolgere una funzione di valida interlocutrice sia sulle problematiche di fondo, di classe, sia su quelle nazionali, quali la lotta contro l’invadente presenza dell’imperialismo USA e il tradimento della Costituzione, tematiche intorno a cui Secchia, da sempre, aveva concentrato la sua attenzione critico-propositivo-costruttiva.
Proprio in quegli anni, infatti, tra il 1966 e il 1974, sarà soprattutto il P.C.d’I. (m.l.) a dimostrarsi capace di svolgere una notevole attività di seria critica e agitazione politico-ideologica antirevisionista nei confronti del gruppo dirigente Pci su una precisa base marxista e, nel contempo – specialmente attraverso la sua frazione “Linea rossa” – capace di elaborare e realizzare una intensa pratica di “linea di massa” estremamente ricca e avanzata, deliberatamente sperimentata, almeno in gran parte, nella difficilissima realtà del Meridione, sempre, però, contrassegnata dalla priorità complessiva e unificante della lotta di denuncia e di resistenza contro il destabilizzante insediamento imperialista degli Stati Uniti d’America.
Evidentemente è per questo motivo che il saggio dedica alcune pagine interessanti al rapporto tra il P.C.d’I. (m.l.) e Secchia, un rapporto brevissimo e ridotto a un solo episodio sul piano dei contatti personali, ma che, invece, fu intenso e, possiamo affermare, perfino di sostanziale, partecipe comprensione reciproca sul piano della convergenza nelle analisi di fondo. Tale conversazione si verificò sia sul versante del crescente travaglio in cui era già entrato il movimento comunista internazionale per il contrasto politico-ideologico-strategico insorto tra il partito comunista cinese e il Pcus, sia sul versante della crisi interna che, parallelamente, era andato delineandosi nello stesso Pci, come dimostrava il fatto stesso che la maggior parte degli aderenti al neo-costituito P.C.d’I. (m.l.), specialmente il gruppo dirigente, avessero alle spalle, nella quasi totalità, una più o meno lunga storia di militanza nel Pci, molti già dalla resistenza partigiana.
Sullo scenario di un passaggio storico tanto carico di esplosive contraddizioni – al momento in buona parte appena nascenti, ma che, sviluppandosi, avrebbero contrassegnato la vicenda socio-politica del Paese in questa fine di secolo e di millennio – può essere opportuno e utile cogliere l’occasione per illustrare, con una testimonianza diretta, quello che fu l’accennato unico episodio di contatto diretto tra Pietro Secchia e i marxisti-leninisti fuoriusciti dal Pci.
Fu proprio l’estensore di questa presente prefazione che ebbe dal compagno Fosco Dinucci, uno dei promotori e massimo esponente del Movimento marxista-leninista d’Italia, il compito di realizzare la missione segreta dell’incontro a Roma con Pietro Secchia.
Nell’imminenza dell’ormai preannunciato congresso fondativo del Partito comunista d’Italia (m.l.), che si sarebbe svolto a Livorno il 14-16 ottobre del 1966, si trattava di avere un colloquio riservatissimo e, per certi versi, decisivo col riconosciuto esponente della sinistra di classe nel Pci, il popolare e prestigioso Commissario politico generale delle formazioni partigiane “garibaldine” nella Resistenza, “spina dorsale” dell’intera Guerra di Liberazione. Obbiettivo: sondare la disponibilità di Secchia ad accettare il ruolo di dirigente nazionale del costituendo nuovo partito comunista che, non a caso, intendeva ricuperare il nome di quello fondato, il 21 gennaio 1921, a Livorno, da Antonio Gramsci. E, proprio per dare il massimo significato politico e propagandistico a questo evento, i compagni del Movimento marxista-comunista d’Italia avevano profuso lavoro e sacrifici per riuscire a tenere il proprio congresso fondativo-rifondativo in quella città toscana. Per “tornare a Livorno!”.
Fu ai primi del settembre 1966 che Fosco Dinucci mi comunicò la data concordata per l’incontro con Secchia. Mancavano, ormai, poche settimane al congresso fissato per il 14-16 del successivo ottobre. Pensai che i compagni dell’ufficio politico mi avessero affidato l’incarico, così difficile e delicato, ritenendomi il più idoneo a svolgerlo, essendo stato comandante di una delle più combattive brigate “Garibaldi” d’assalto, la 22ª bis “Vittorio Sinigaglia” (che, nell’agosto del ’44, aveva svolto un ruolo decisivo nella battaglia insurrezionale per la liberazione di Firenze ribellandosi, al suo inizio, all’ordine di disarmo impartito dagli “Alleati”) sia perché – esercitando, allora, la professione di avvocato sindacalista – avrei dovuto incontrare minori difficoltà nel tentativo di convincere Secchia ad accettare la proposta che il movimento stava facendogli.
Alla stazione Termini di Roma, dove giunsi di pomeriggio, Secchia aveva mandato a prendermi il compagno autista che la direzione del Pci gli aveva mantenuto nonostante fosse consumata da tempo la sostanziale emarginazione dalle responsabilità centrali. Secchia mi accolse con fraterna affettuosità presentandomi alla sua compagna, Alba, che stava ancora accudendo la cucina del modesto appartamento.
Ritiratici nello studio, ingombro di libri e carte mantenuti, però, in un ordine quasi francescano, avviammo la conversazione che si protrasse per alcune ore.
* * *
Fin dalle prime battute mi resi conto che Secchia aveva compreso chiaramente lo scopo della visita.
Percepii, ben presto, che dovevo considerare fallita la mia missione perché lui, presa, per così dire, l’iniziativa, aveva subito portato il colloquio su argomenti di indubbio interesse politico, ma lontani da quanto avrebbe dovuto costituire il tema centrale, se non esclusivo, dell’incontro.
Mi informò, infatti, delle ultime esperienze vissute a Milano, dopo il trasferimento disposto dalla direzione del partito, dell’attività che aveva profuso per orientare politicamente il movimento operaio in Lombardia soprattutto a seguito della grande ondata migratoria a Nord di braccianti e contadini dal Meridione. Passò, poi, a parlarmi dell’intenso lavoro che stava svolgendo per raccogliere i propri discorsi e scritti rivolti a porre all’attenzione dei militanti e, in particolare, delle nuove generazioni, le questioni della difesa strenua che avrebbe dovuto essere opposta all’attacco, in atto e sempre più aggressivo, portato avanti dalle forze restauratrici, ormai saldamente pervenute al potere, contro i valori e i programmi di radicale rinnovamento sociale e politico rivendicati dalla Resistenza e recepiti nei Principi fondamentali della Costituzione. Questioni che Pietro Secchia, battendosi come nessun altro tra i dirigenti del Pci, considerava giustamente decisive per l’avvenire del Paese, dei lavoratori e dello stesso partito.
Proseguendo la conversazione, Secchia dedicò la parte conclusiva dell’incontro a sottolineare l’importanza dell’impegno che i “quadri” politici e militari espressi dalla Guerra di Liberazione, in particolare quelli usciti dall’esperienza formativa delle Brigate “garibaldine”, avrebbero dovuto dispiegare per trasmettere ai giovani la loro preziosa esperienza, il loro slancio rivoluzionario. Tutto questo, doveva farsi nonostante la persecuzione, la discriminazione, l’emarginazione ch’essi avevano cominciato a subire appena all’indomani del 25 aprile, dopo il disarmo e la smobilitazione e conseguente dispersione dell’esercito popolare partigiano e della grande forza politica, ideale e di rinnovamento, ch’esso rappresentava per le classi lavoratrici italiane.
Toccando il tasto dell’emarginazione persecutoria degli ex partigiani comunisti, percepii come una amarezza, quasi che Secchia avesse voluto alludere anche a quella che molti di quei “quadri” stavano già subendo all’interno del Partito così come, in forme di ancor più sprezzante mortificazione, stava subendo un ben maggior numero di “quadri” e semplici militanti di base che si erano trovati costretti ad uscirne.
Di fatto, potei interloquire solo per informarlo di quanto noi del Movimento comunista (marxista-leninista d’Italia) stavamo facendo per realizzare in ottobre, a Livorno, il congresso fondativo-rifondativo del P.C.d’I.
Secchia mi ascoltò con attenzione, ma senza nulla dire che potesse essere interpretato come consenso o semplice sua valutazione del preannunciato, importante avvenimento.
In sostanza, mi apparve, ancor più di quanto avessi potuto considerarlo prima, come un grande compagno dirigente, ma totalmente “prigioniero” del partito al quale aveva dedicato, del resto, tutta la sua vita. Quindi, assolutamente impossibilitato, proprio sul piano della sua ferrea coerenza politica e morale, a rompere e scindere la sua sorte da quella del partito che, d’altra parte, con sacrificio e abnegazione, aveva contribuito a far diventare, attraverso tante lotte e vicende, punto di riferimento, speranza e aggregazione di milioni e milioni di lavoratori italiani. Indubbiamente egli soffriva di questa sua volontaria “prigionia”, ma ritenni doveroso rispettarla e non, invece, esacerbarla sicuramente avanzando la richiesta formale del distacco dalla “sua” organizzazione per quanto ciò, oggettivamente, potesse apparire giustificabile.
Consapevole, d’altra parte, della fragilità oggettiva del nostro movimento, dell’incerto avvenire che ci attendeva – al di là dell’entusiasmo, della straordinaria passione politica e della ferma determinazione che animava noi militanti – rinunciai, pertanto, a formulare compiutamente la richiesta, sebbene costituisse lo scopo della missione che mi era stata assegnata.
Ci salutammo con calore. Fissandoci, per un attimo, negli occhi, ebbi la sensazione che quel distacco rappresentasse quasi un affettuoso addio tra due generazioni, trovatesi idealmente e ideologicamente unite nella lotta, ma l’una, la più giovane, in procinto di partire, avventurosamente, verso nuove, imprevedibili esperienze di lotta, l’altra, la più anziana, la sua, destinata a consumare e consumarsi, fino in fondo, in una vicenda storica inesorabilmente segnata.
Pietro Secchia, pochi anni dopo, sarebbe andato incontro alla drammatica conclusione della propria vita dopo il misterioso avvelenamento subito – certamente, come egli sospettò, ad opera della CIA – nel corso del ritorno in patria dal viaggio in Cile per incontrare il Presidente Allende ormai, col suo popolo, prossimo obbiettivo dei piani assassini dell’imperialismo USA.1
I compagni del neocostituito Partito comunista d’Italia [avrebbero invece vissuto] l’intensa, esaltante stagione della ricostituzione delle combattive cellule comuniste (m.l.) operaie, contadine, studentesche (in Toscana, Liguria, Lombardia, Veneto, Piemonte, Lazio, Campania, Calabria, Sicilia, Basilicata, Puglia, Sardegna) sviluppando, in parallelo, una altrettanto combattiva “linea di massa” che avrebbe percorso, come un lungo fremito, tutta l’Italia: con le grandi manifestazioni d’avanguardia promosse dal Fronte antimperialista d’Italia (da Palermo a Milano, da Napoli a Firenze, da Bari a Genova) e delle lotte esemplari delle Leghe rosse contadine in Calabria e di quelle, avanzatissime, del Movimento leghe lavoratori italiani (MLLI) diffusosi in varie province del Meridione.
Conseguentemente, fu proprio contro i militanti del P.C.d’I. (m.l.) che, qua e là per l’Italia, cominciarono ad essere celebrati i primi processi politici con la contestazione delle imputazioni più tipiche previste, per le attività “sovversive”, dal vecchio codice penale fascista “Rocco”, non a caso lasciato in vigore fino ad oggi.
La prima e più clamorosa lotta di massa fu quella che la stampa dell’epoca definì come “la rivolta dei contadini di Mao”, a Cutro e Isola Capo Rizzuto (1967) e che provocò, addirittura, la messa in “stato d’allarme” e lo spostamento di grosse unità del Corpo d’Armata di Bari e, infine, il processo di decine di lavoratori, in gran parte braccianti ed operai emigrati, in una Crotone posta in stato d’assedio. Seguì una stagione di repressione poliziesco-giudiziaria che sarebbe durata quasi due decenni. Centinaia di compagni, militanti del movimento marxista-leninista e semplici lavoratori comparvero sul banco degli imputati nelle aule dei tribunali e delle corti d’assise di un’Italia che, per contro, assisteva, impotente, al progressivo consolidamento al potere della classe dirigente matrice di innumeri “Tangentopoli”, collaborazionista organica dell’imperialismo USA, connivente omertosa nella sua cinica strategia stragista in danno del nostro popolo.
Proprio nel momento in cui sto chiudendo questa prefazione, che rappresenta, a sua volta, un altro ideale, emblematico “passaggio di consegne” dalla mia generazione a quella di Ferdinando Dubla, i giornali – nell’ambito delle conclusioni cui è giunta, a quasi trent’anni dalla strage di Piazza Fontana (12 dicembre 1969), l’istruttoria sulle “stragi di Stato” condotta dal giovane giudice Guido Salvini – riportano, tra l’altro, la notizia dell’inaudita violenza istituzional-neofascista inflitta, in quegli anni, alla compagna Franca Rame; un episodio che spiega, più di ogni altro, quale fosse il clima e con quali metodi infami si svolgesse lo scontro di classe nel nostro Paese.
Questo ancor più ci legittima nel concludere questa prefazione-testimonianza ricordando che non fu certo per caso, dunque, se i militanti del P.C.d’I. (m.l.) – già prima di quel drammatico episodio che segnò la fine degli anni ’60 e prodromo, tuttavia, dell’ancor più lungo e tragico periodo di altre stragi di Stato e degli “anni di piombo” – furono considerati dalla Cia e dai vertici degli apparati dello Stato italiano come il “gruppo eversivo Numero Uno”2 e, pertanto, fatti oggetto di perquisizioni, persecuzioni e del più pesante tentativo di infiltrazione provocatoria posto in essere nei confronti della Sinistra extraparlamentare.
Fu allora che si dimostrò la capacità politica e il coraggio coerente di quella avanguardia comunista, modesta ma fortemente motivata, consentendole di realizzare la più clamorosa azione di controinformazione rivoluzionaria di questo dopoguerra, poiché essa riuscì a fornire al giudice istruttore Stiz di Treviso le prove di quella provocazione e, quindi, la possibilità di spostare le indagini dalla “pista rossa” (gli anarchici di Milano: Pinelli, Valpreda, ecc.) a quella “nera” della struttura veneta di “Ordine nuovo” (Freda, Ventura, Loredan e l’agente SID Giannettini).
Il merito principale di questa svolta dell’inchiesta giudiziaria – svolta che possiamo davvero definire come storica – va attribuito all’audace abnegazione del compagno Alberto Sartori, già torturato e condannato a morte dai nazifascisti, valoroso comandante partigiano e medaglia d’argento della Resistenza.
Fu così che, poche settimane dopo l’emissione del mandato di cattura contro Freda e Ventura (13 aprile 1971), potemmo convocare al Palazzo di Giustizia di Milano, il 7 maggio, una conferenza stampa per smontare, primi in Italia, la leggenda di comodo di una “eversione terroristica di destra contro il sistema”.
Parlando a nome dell’ufficio politico del P.C.d’I. (m.l.) denunciammo, infatti, come le organizzazioni eversive di destra fossero state mosse dall’imperialismo statunitense e coperte “da parte dei partiti parlamentari di destra, della struttura economica di destra del Paese e dello stesso apparato dello Stato borghese”, ma non con lo scopo di rovesciare il sistema sociale vigente, bensì rafforzarlo “su posizioni” che consentano al sistema e al suo vertice capitalista di raggiungere livelli più alti di profitto, di competitività e di maggiore sfruttamento attraverso una loro maggiore “stabilità” e “sicurezza”3.
Questa puntuale denuncia fu ripresa e rilasciata da Pietro Secchia, con indubbia, maggiore autorevolezza, quando ebbe ad accusare quelle medesime centrali segrete (NATO, CIA, SIFAR), unitamente alla sempre più pesante presenza economica politica e militare degli Stati Uniti d’America, come “centri di potere autonomi” che si sovrappongono al Governo e al Parlamento e definendoli come “le minacce ed i pericoli più gravi per la democrazia del nostro Paese”, poiché ne accrescevano “i pericoli eversivi e reazionari”4.
Se, oggi, quella forte, appassionata denuncia di Secchia può apparire sfocata e persino superata, non è, certo, perché ne siano venuti meno i presupposti di verità storica e politica, bensì, cosa ancora più allarmante, perché, al contrario, l’assetto attuale assunto dal potere in Italia, dopo l’avvilente fine della cosiddetta “Prima Repubblica”, è, appunto, come avevamo affermato allora, quello dell’avvenuta “normalizzazione”, in conformità ai disegni criminalmente perseguiti, nel corso di un intero cinquantennio, dall’imperialismo straniero e, in infame collusione, dalla classe politica dirigente italiana.
D’altra parte, è questo complessivo contesto nazionale e internazionale che, a nostro avviso, continua a legittimare nel nostro Paese la necessità del ruolo politicamente insostituibile di un’avanguardia coerentemente rivoluzionaria, davvero patriottica e, insieme, internazionalista, quale, nell’epoca contemporanea, può essere espressa solo da un movimento comunista saldamente e innovativamente radicato nel marxismo-leninismo.
Quell’avanguardia per la quale il compagno Pietro Secchia spese tutta la sua vita generosa nella prospettiva dell’avvento di una vera stagione di libertà, pace, progresso e giustizia per il popolo italiano e, per questa, indicando sempre, con lucida, convinta tenacia il dovere prioritario della lotta per l’uscita dalla NATO e del Patto Atlantico.
Angiolo Gracci (“Gracco”)
(Tratto da: Angiolo Gracci (“Gracco”), Prefazione al volume: Ferdinando Dubla, Secchia, il Pci e il movimento del ’68, Datanews Editrice, Roma, 1998, pp. 7-18).
Note
1 Vedi Enciclopedia dell’antifascismo e della Resistenza, vol. V, pp. 463-464, ediz. La Pietra, Milano, 1987.
2 Vedi rapporto dell’agente Sid Guido Giannettini pubblicato, sotto lo pseudonimo “Adriano Corso”, su «Lo Specchio» del 27 aprile e 21 dicembre 1969.
3 Il testo integrale della conferenza stampa fu pubblicato ne Il perché delle stragi di Stato il 15 giugno 1974, a cura della frazione Linea rossa del P.C.d’I. (m.l.), edizioni “Avanti popolo”.
Della conferenza parlarono il quotidiano «Il Giorno» e il settimanale «L’Espresso», mentre i giornalisti de «l’Unità», del «Corriere della sera» e dell’ANSA, presenti, dichiararono che non ne avrebbero dato notizia!
4 Pietro Secchia: «Critica marxista», quaderno numero 5, febbraio 1972, ripreso a pagina 573 del suo libro La Resistenza accusa 1945-1973, Mazzotta editore, Milano, 1973.
Inserito il 25/02/2025.
Dal sito «pungolorosso.com»
di Robin Philpot*
In attesa di una sua edizione italiana, riprendiamo dal sito pungolorosso.com la presentazione di un volume uscito negli Stati Uniti (F. Jerome, Einstein on Israel and Zionism, Baraka Books) che ricostruisce attraverso documenti a lungo volutamente lasciati in ombra il pensiero di Albert Einstein sulla creazione dello Stato di Israele in Palestina. Emerge in questo modo il punto di vista del grande scienziato che contraddice la propaganda sionista.
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Einstein si oppose alla colonizzazione sionista in Palestina e predisse l’attuale catastrofe
di Robin Philpot*
Riprendiamo da Counterpunch (in una nostra traduzione) la recensione di un libro di F. Jerome, ottimo conoscitore del pensiero scientifico e politico di Albert Einstein, che è stato pochi mesi fa riedito negli Stati Uniti da Baraka Books [Einstein on Israel and Zionism].
Non pretendiamo certo di ascrivere le posizioni di Einstein a quelle dell’internazionalismo rivoluzionario, ma cosa pensasse dei padri/padrini politici di Netanyahu e simili, e cosa dell’istituzione di uno stato ebraico in Palestina, è molto istruttivo. Smentisce categoricamente la pretesa di certi falsari di ascriverlo al “sionismo reale”, quello all’opera da un secolo in Palestina. (Redazione di pungolorosso.com)
Poche settimane prima della creazione dello Stato di Israele, Shepard Rifkin, direttore esecutivo dello Stern Group, chiese che i rappresentanti del gruppo incontrassero Albert Einstein negli Stati Uniti, «la più grande figura ebraica dell’epoca» secondo I.F. Stone. La risposta di Einstein fu inequivocabile:
«Quando una vera e definitiva catastrofe dovesse abbattersi su di noi in Palestina, il primo responsabile sarebbe l’inglese e il secondo responsabile sarebbero le organizzazioni terroristiche create dai nostri stessi ranghi. Non sono disposto a incontrare nessuno associato a questi individui corrotti e criminali».1
Per comprendere la lungimiranza di Einstein, basta sostituire “gli inglesi” con “gli americani” e “organizzazioni terroristiche” come il gruppo Stern e il gruppo Irgun con il governo Netanyahu, erede politico dei leader di questi gruppi, Menachem Begin e Yihtzak Shamir.
Einstein disse che la sua «vita era divisa tra equazioni e politica». Eppure, tra i suoi biografi (ce ne sono centinaia) e nei principali media, i suoi ampi scritti politici su Israele e il sionismo sono stati, nella migliore delle ipotesi, nascosti sotto il tappeto, nella peggiore, completamente distorti, facendo di Einstein un sostenitore dello Stato di Israele. Questo fino a quanto il compianto Fred Jerome non li ha cercati, trovati, fatti tradurre, per lo più dal tedesco, e pubblicati nel libro Einstein on Israel and Zionism.
Sfortunatamente, la prima edizione di questo libro, pubblicata da una casa editrice di New York, ha avuto una tiratura molto limitata, non è mai stata promossa o trasformata in un e-book, ed è andata esaurita in pochissimo tempo, avendo l’editore ceduto alle forti pressioni dei sionisti. Ecco perché Baraka Books ha pubblicato una nuova edizione con l’accordo di Jocelyn Jerome, la vedova dell’autore.
Fu nella Germania negli anni ’20, in un periodo di antisemitismo dilagante in cui la teoria della relatività veniva attaccata come “scienza ebraica”, che Einstein fu attratto dal movimento sionista. Solo nel 1914, quando arrivò in Germania, “scoprì per la prima volta di essere ebreo”, una scoperta che attribuì più ai “gentili che agli ebrei”. Prima di allora si era visto come un membro della specie umana.
Si definiva un “sionista culturale”, ma già nel 1921 Kurt Blumenfeld, un attivista sionista inviato a reclutare Einstein, mise in guardia Chaim Weizmann, il futuro presidente di Israele, riguardo al grande scienziato:
«Einstein, come sapete, non è un sionista, e vi chiedo di non cercare di farlo diventare sionista o di cercare di associarlo alla nostra organizzazione… Einstein, che propende per il socialismo, si sente molto coinvolto nella causa del lavoro ebraico e dei lavoratori ebrei… Ho sentito… che vi aspettate che Einstein tenga discorsi. Per favore, siate molto attenti a questo. Einstein… dice spesso, per ingenuità, cose che a noi non sono gradite».
A parte la presunta “ingenuità” di Einstein, Blumenfeld non avrebbe potuto esprimerlo meglio. Fino alla sua morte nel 1955, Einstein sarebbe stato un ostacolo costante al progetto sionista di colonizzazione della Palestina e alla creazione dello Stato di Israele. Ecco alcuni esempi delle posizioni da lui assunte.
I suoi scambi con Chaim Weizmann, il futuro presidente di Israele, illustrano quanto Einstein fosse importante per i sionisti, ma soprattutto quanto le sue opinioni differissero dalle loro. In una lettera a Weizmann del 25 novembre 1929, scrisse:
«Se non siamo in grado di trovare una via di onesta cooperazione e di patti onesti con gli arabi, non abbiamo imparato nulla nei nostri duemila anni di sofferenza e meritiamo il destino che ci toccherà».
L’idea del “destino che ci toccherà” ricorre spesso. Nel 1929, sembra che avesse già previsto che lo Stato di Israele, che i sionisti sognavano di creare senza “onesta cooperazione e onesti patti” con i loro vicini palestinesi, sarebbe diventato quello che è oggi, cioè il luogo più pericoloso al mondo dove vivere per gli ebrei.
Poche settimane dopo, il 14 dicembre 1929, scrisse a Selig Brodetsky dell’Organizzazione sionista di Londra:
«Sono felice di non avere potere. Se la cocciutaggine nazionale si dimostrerà abbastanza forte, allora ci faremo saltare il cervello come meritiamo».
Inoltre, Leon Simon, uno dei suoi primi traduttori, scrisse:
«Nel nazionalismo del professor Einstein non c’è spazio per alcun tipo di aggressività o sciovinismo. Per lui il dominio degli ebrei sugli arabi di Palestina, o il perpetuarsi di uno stato di ostilità reciproca tra i due popoli, significherebbe il fallimento del sionismo».
A differenza della grande maggioranza dei sionisti, il sostegno di Einstein a una possibile “patria ebraica” – non uno Stato – non si limitava alla Palestina. Non c’era nulla di religioso nel suo approccio. Alcuni sionisti sostenevano la creazione di una patria ebraica in Cina, Perù o Birobidjan nell’Unione Sovietica, ma sempre in pieno accordo con le autorità statali e le popolazioni. Einstein sostenne questi passi. Ad esempio, sulla patria ebraica in Birobidjan nell’Unione Sovietica dopo la Seconda guerra mondiale scrisse:
«Non dobbiamo dimenticare che in quegli anni di atroce persecuzione del popolo ebraico, la Russia sovietica è stata l’unica grande nazione che ha salvato centinaia di migliaia di vite ebraiche. L’iniziativa di sistemare 30.000 orfani di guerra ebrei nel Birobidjan e di assicurare loro in questo modo un futuro soddisfacente e felice, è una nuova prova dell’atteggiamento umano della Russia nei confronti del nostro popolo ebraico. Aiutando questa causa contribuiremo in modo molto efficace alla salvezza dei resti dell’ebraismo europeo». [In questo caso il giudizio di Einstein è piuttosto superficiale – nota della redazione di pungolorosso.com]
Negli anni cruciali tra la fine della guerra e la sua morte nel 1955, Einstein si espresse apertamente sul progetto dello Stato ebraico. Invitato a testimoniare davanti alla Commissione d’inchiesta anglo-americana sulla Palestina a Washington, nel gennaio del 1946, Einstein rispose in modo inequivocabile quando gli fu chiesto del possibile Stato di Israele rispetto a una patria culturale: «Non sono mai stato a favore di uno Stato».
Nel marzo del 1947, I.Z. David, membro del gruppo terroristico Irgun guidato da Menachem Begin, gli inviò un questionario al quale rispose in modo netto e chiaro:
Domanda: Qual è la sua opinione sulla creazione di una libera Palestina nazionale ebraica?
Einstein: Casa nazionale ebraica? Sì. Palestina nazionale ebraica? No. Sono favorevole a una Palestina libera e binazionale in un secondo momento, previo accordo con gli arabi.
Domanda: Opinione sulla spartizione della Palestina e sulle proposte di Chaim Weizmann in merito?
Einstein: Sono contrario alla spartizione.
Sulla questione dell’imperialismo britannico e americano, Einstein non ebbe illusioni circa il passaggio di mano dall’uno all’altro:
«Mi sembra che i nostri cari americani stiano impostando la loro politica estera sul modello dei tedeschi, dal momento che sembrano aver ereditato la supponenza e l’arroganza di questi ultimi.
Si rifiutano di imparare gli uni dagli altri; e imparano poco anche dalla loro stessa dura esperienza. Ciò che è stato inculcato nelle teste fin dalla prima giovinezza si radica più saldamente dell’esperienza e del ragionamento. Gli inglesi ne sono un altro buon esempio. I loro metodi antiquati di oppressione delle masse ricorrendo a elementi indigeni senza scrupoli della classe economica superiore costeranno loro presto l’intero impero, ma non sono in grado di cambiare i loro metodi; non importa se si tratta dei Tories o dei socialisti. Con i tedeschi è stato esattamente lo stesso. Sarebbe tutto bello e positivo, se non fosse che è così triste per gli elementi migliori e per gli oppressi…» (Lettera a Hans Mühsam)
Per quanto riguarda gli antesignani politici dell’attuale governo Netanyahu, Einstein si scagliò contro di loro e contro i loro partiti politici, in particolare sul «New York Times». Quando Menachem Begin venne a New York alla fine del 1948, Einstein, Hannah Arendt e altre personalità ebraiche negli Stati Uniti pubblicarono una lettera in cui denunciavano la sua visita e l’organizzazione da lui guidata, definendola «un partito politico molto vicino per organizzazione, metodi, filosofia politica e appello sociale ai partiti nazisti e fascisti».
Un esempio da essi citato era il massacro di 240 uomini, donne e bambini nel villaggio palestinese di Deir Yassin.
Einstein ribadirà questa accusa fino alla sua morte, avvenuta nel 1955: «Queste persone sono naziste nei loro pensieri e nelle loro azioni». Chiunque lo dica oggi nei media tradizionali viene immediatamente etichettato come antisemita e bandito dagli stessi media.
È risaputo che quando Chaim Weizmann morì nel 1952, il Primo Ministro di Israele offrì la presidenza di Israele ad Albert Einstein. Meno nota, invece, è la ragione che Einstein addusse per questo rifiuto: «Avrei dovuto dire al popolo israeliano cose che non avrebbero voluto sentire».
Ancora meno nota è la dichiarazione di Ben Gurion: «Ditemi cosa fare se dice di sì! Ho dovuto offrirgli il posto perché era impossibile non farlo, ma se accetta siamo nei guai».
Centinaia, se non migliaia, di persone vengono accusate di antisemitismo o licenziate dal loro lavoro perché osano criticare lo Stato di Israele, definirlo uno Stato di apartheid e denunciare il genocidio dei palestinesi. Stiano tranquilli: sono in buona compagnia, perché se Einstein fosse vivo oggi, sarebbe in prima linea a manifestare con loro.
Robin Philpot*
* Robin Philpot è l’editore di Baraka Books.
(Tratto da https://pungolorosso.com/2025/01/27/einstein-si-oppose-alla-colonizzazione-sionista-in-palestina-e-predisse-lattuale-catastrofe-robin-philpot-italiano-english/ che riprende a sua volta da https://www.counterpunch.org/2024/11/01/einstein-opposed-zionist-colonization-in-palestine-and-predicted-the-current-catastrophe/).
Note
1 Tutte le citazioni sono tratte da Fred Jerome, Einstein on Israel and Zionism, nuova edizione arricchita.
Enrico Berlinguer e Aldo Tortorella.
Fonte della foto: https://www.libereta.it/un-nuovo-mondo-lultima-intervista-di-libereta-a-aldo-tortorella/
Dal quotidiano «il manifesto»
di Luciana Castellina
Scompare all’età di 98 anni Aldo Tortorella, partigiano col nome di battaglia “Alessio”, intellettuale, l’ultimo grande dirigente del PCI. La rivista da lui diretta fino all’ultimo, «Critica marxista», resta per il nostro sito un punto di riferimento imprescindibile.
Riportiamo il ricordo di Luciana Castellina e gli rendiamo omaggio riprendendo il suo discorso di presentazione della Mozione 2 al XIX Congresso del PCI in cui contestava il progetto di Achille Occhetto e della maggioranza di aprire la fase di trasformazione del Partito Comunista in un soggetto politico che rinunciava alla critica sostanziale della società capitalistica.
Alla fine del suo intervento dalla tribuna del congresso di Bologna, Aldo Tortorella ebbe un malore, probabilmente legato alla forte emozione per la tragicità dell’evento che dava inizio allo scioglimento del partito.
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Il protagonista d’una comunità comunista
di Luciana Castellina
Vorrei capiste quanto doloroso e umanamente traumatico sia per me scrivere della scomparsa di Aldo Tortorella.
Lo è in realtà sempre per tutti quei compagni che come noi per più di vent’anni hanno lavorato, in qualità – come si diceva allora – di “funzionario di partito”, a Botteghe Oscure o nei suoi equivalenti federali.
Perché l’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa, e per questo i rapporti fra di noi diventavano totali.
Personali e collettivi, umani e politici, mai settoriali, perché abbracciavano tutti gli aspetti dell’esistenza. Con Aldo per me sono stati così stretti, perché è capitato che siano stati condivisi anche i legami centrali della nostra vita. A cominciare da quello con Rossana, sua coetanea, sua compagna di università, ambedue allievi di Banfi, un grande maestro di filosofia che gli aprì la porta del comunismo. Tutti e due guidati da lui a diventare partigiani a 18 anni. Poi militanti comunisti e insieme intellettuali, un connubio allora molto normale nel Pci, un’altra particolarità oggi ben più rara.
Poi tanti decenni di militanza analoga, io, gregaria, per un secolo nella Fgci e poi nella commissione femminile, ma pur sempre a Botteghe Oscure, Aldo, invece, subito di vertice – prima direttore dell’«Unità» di Genova, dove era capitato quasi per caso, fuggendo travestito da donna da un ospedale militare durante la Resistenza che si trovò così a combattere in Liguria, nelle fila del Fronte della Gioventù. Poi, tornato a Milano alla fine degli anni ’50, sempre direttore dell’«Unità», quindi segretario della federazione milanese del Pci, infine a Roma, successore di Rossana – guarda caso – alla testa della Commissione culturale del Partito.
È in quegli anni di Milano che, pur senza rallentare i rapporti di amicizia, cominciammo a distanziarci politicamente, prima perché è in quel contesto milanese, nel quale “funzionari” erano anche Rossana e Lucio Magri, che cominciò a delinearsi la tendenza (non corrente, non ci fu mai) “ingraiana” dalla quale Aldo restò sempre distante, restando berlingueriano fedele, ma mai sdraiato sulle linea ufficiale del Pci, soprattutto quando questa, alla fine degli anni ’70, non fu più quella di Enrico Berlinguer che pure era segretario del Partito.
Dall’ingraismo, come sapete, è nato nel 1969 «il manifesto», per iniziativa di una sua ala più indisciplinata, decisa a correre i rischi che comportava superare i confini della disciplina di partito. Ricordo bene quei mesi, perché in quei tempi, come da anni, avevo l’abitudine, quando – assai spesso – ero a Milano, di andare a dormire a casa di Lia Cigarini, amica strettissima, anche perché prima donna ad essere stata segretaria della mia amata Fgci in una grande città come il capoluogo lombardo. Quando noi “manifestini” veniamo messi sotto processo dal partito e poi radiati io sono a Milano in casa di Lia, nel frattempo divenuta compagna di Aldo: nella casa di Lia in bagno c’erano due lavandini per cui quando si aveva fretta era possibile lavarsi i denti contemporaneamente e ricordo Aldo che con lo spazzolino in mano mi apostrofava: «Sei una “pirla”, proprio una “pirla”». Non ridevamo, ci dispiaceva a tutti e due.
Ci siamo ritrovati nel 1989. Ho una bella fotografia sulla mia scrivania, scattata in occasione dell’incontro con la stampa per presentare la mozione numero 2 contro la decisione di Occhetto di sciogliere il Pci. In prima fila i firmatari. Tutti di nuovo riuniti. Fra loro Ingrao, Natta, Chiarante, io e Magri. Aldo ha retto un po’ più a lungo nel nuovo Pds, poi Ds, ma ha rotto già prima dell’avvento del Pd, quando Massimo D’Alema, al governo, ordina, durante la guerra del Kosovo, il bombardamento dei jet della Nato su Belgrado a partire dalle basi italiane. Durò 78 giorni.
Ci siamo ritrovati anche nell’impegno, non solo nelle idee. Prima nella redazione di una pubblicazione durata parecchi anni, a cavallo del secolo, «La rivista del manifesto», allegata al quotidiano. Poi quando Aldo ha dato vita a l’Ars, l’Associazione per il Rinnovamento della Sinistra, preziosa e attiva sede di incontro dei tanti ormai dispersi ma pur sempre impegnati nella ricerca di una nuova strada comune, oggi diretta da Vincenzo Vita. E, soprattutto direi, nel suo impegno di conservare e rinnovare la voce antica di una rivista bellissima, «Critica marxista», oggi affidata a Guido Liguori.
Vi ho raccontato tanti dettagli come non si fa nei necrologi. Ma volevo trasmettervi la testimonianza di quanto siano rimasti stretti i rapporti, nonostante le frequenti divergenze, fra i militanti comunisti, quando c’era un grande partito come il Pci .
A testimoniare in prima persona il tempo antico, eravamo fino a qualche anno fa rimasti solo in tre membri della direzione del Pci che erano stati iscritti dagli anni ’40, dall’immediato dopoguerra: Macaluso, Aldo e io.
Poi siamo rimasti in due quando anche Emanuele è scomparso qualche anno fa e con Aldo scherzavamo su di noi sopravvissuti.
Luciana Castellina
(Tratto da: Luciana Castellina, Il protagonista d’una comunità comunista, in «il manifesto», 7 febbraio 2025).
Inserito il 08/02/2025.
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Mozione 2 – L’intervento di Tortorella
Il compito che sta dinnanzi a questo congresso è quello di guardare avanti a noi, ai doveri che ci spettano, per quello che siamo e rappresentiamo nella situazione che si sta creando nell’Europa e nel mondo. Fin dall’inizio di questa discussione è fuori dubbio che questa realtà nuova chieda a tutti, e dunque anche a noi, una capacità reattiva, una risposta autentica, e dunque una innovazione profonda e reale.
È con questo animo che abbiamo ascoltato ieri la esposizione del compagno Occhetto e le risposte alle domande che sono venute da noi e non soltanto da noi: con l’animo, più esattamente, di chi è stato ed è pienamente persuaso che una discussione vera chieda una capacità di comprensione reciproca.
È giusto, innanzitutto, dare una valutazione positiva del nostro dibattito. Il partito è stato posto di fronte ad una scelta drastica. Non so quale forza politica avrebbe saputo comportarsi con tanta vivacità e con tanta compostezza.
Ma dunque, diciamolo, ecco una prova che questo nostro Partito comunista italiano, che tanti danno per morto, è una creatura ben viva e vitale.
Sono d’accordo: con questo congresso abbiamo già cominciato a cambiare. Quel centralismo democratico che da tempo avevamo dichiarato superato – anche se purtroppo solo in parte anche nella preparazione di questo congresso è stato abbandonato nella pratica – ha incominciato a cedere il posto ad un altro e più vivo modo di essere del partito. Questo è il migliore riconoscimento per le mozioni di minoranza: chi avrebbe iniziato questo nuovo modo di essere se non ci fosse stata l’opposizione? E si dice: c’è stato un ricchissimo dibattito: ma che dibattito sarebbe stato senza l’opposizione? Dove essa è stata meno presente, minore è stata la partecipazione e il numero dei votanti. E così abbiamo anche dimostrato che era ed è pienamente possibile far diverso e nuovo il nostro partito con i fatti, senza cambiargli il nome!
Tuttavia, non credo che la divisione, come si sente dire, sia un valore in se stessa e non sono pentito d’aver sempre partecipato, per quanto potevo, allo sforzo unitario che ha contraddistinto la vita del nostro partito. Adesso quello sforzo unitario da alcuni viene deprecato e definito come unanimismo di facciata. Certo, trasformare l’unità in un feticcio porta ai più gravi errori: e anche noi ne abbiamo compiuti. Ma è da gran tempo che l’assolutezza di quella idea della unità aveva ceduto il campo ad una ricerca aperta e laica: nessuno poteva impedire e ha impedito di presentare posizioni diverse o contrapposte se non era d’accordo con la maggioranza. Chi voleva farlo poteva farlo e lo ha fatto. Vi è stato anche nel recente passato chi ha detto ad alta voce il suo dissenso e la sua controproposta e ha fatto bene quale che essa fosse. Mentre ha certamente fatto male chi ha taciuto e ha magari accettato rilevanti funzioni e onori da un partito che oggi dichiara di disprezzare per tutta la sua storia.
Non preoccupa, dunque, il confronto aperto, la decisione affidata ai voti, il manifestarsi di maggioranze e di minoranze. Semmai possiamo rammaricarci di non aver insistito per arrivare prima ad un confronto più netto sulle scelte politiche. Ancora nella preparazione del XVIII Congresso, nonostante il manifestarsi di dissensi sulla linea che allora scegliemmo, e che sembrava a qualcuno troppo a sinistra, si volle seguire il metodo che abbiamo chiamato unitario, ed io mi associai a questa proposta fatta dai compagni cui erano state affidate le maggiori responsabilità. Noi possiamo oggi ritenere di avere sbagliato, allora. Ma quel metodo tuttavia servì per l’affermazione di un nuovo gruppo dirigente e servì anche per la campagna elettorale europea e per i suoi risultati.
La divisione come obbligo di lealtà
Ma se la divisione non è un valore in se stessa, essa diventa una necessità e un obbligo di lealtà e di chiarezza quando emerge su grandi questioni una disparità di pareri e quando ogni altra strada sia stata tentata. Se il dissenso non ha in sé delle ragioni autentiche cade per conto suo. Ma se esso è cosa seria manifesta il suo fondamento: e così è stato questa volta. La prima mozione ha una larga maggioranza e di questa espressione di volontà chi è qui minoranza deve prendere e prende atto lealmente. Ma la sorpresa, anche per noi, è la consistenza della minoranza: assai forte in tante grandi organizzazioni, e ricca di tanti giovani e di tante donne, nonostante la disparità delle forze e del sostegno di stampa, compresa la nostra «Unità».
La presenza di questa mozione non solo ha contribuito almeno a contenere dolorosi distacchi, ma ha anche sollecitato a iniziative politiche nuove l’insieme del partito e ha suggerito, come abbiamo sentito ieri, riflessioni che saranno certamente utili. Questo è il positivo risultato di un confronto serio e serrato: ma ora una preoccupazione deve stare dinnanzi a noi tutti. Una divisione sulle politiche sarebbe stata cosa seria ma poteva essere forse meno difficilmente composta, mentre più aspra e lacerante diventa una divisione sulla identità stessa del Partito. Il modo di affrontarla è quello di discutere con pieno impegno oltre che con reciproco rispetto. Non sarebbe stato giusto scomodare tanti compagni a venire qui, se tutto dovesse ridursi alla registrazione di qualcosa che è già accaduto.
E allora credo che per prima cosa vada detto che non vi è tra le mozioni presentate una divisione tra continuisti e liquidatori, conservatori e innovatori, tra guardiani del passato e interpreti dell’avvenire. Si sono confrontate due ipotesi di innovazione per quanto profondamente diverse tra di loro. Non è corretto dipingere come perduti imposizioni nostalgiche coloro che nel precedente congresso, e prima di esso, hanno lavorato per dare consistenza culturale e politica a quello che fu chiamato il «nuovo corso»: l’affermazione definitiva della democrazia come via del socialismo, l’idea della non violenza e di un nuovo ordine internazionale per affrontare i problemi del mondo, il bisogno di una ristrutturazione ecologica della economia, l’immagine di una nuova Europa.
E, per le questioni italiane, il ripensamento del sistema politico politico e dello Stato, l’affermazione della separazione tra politica e amministrazione, la distinzione tra la esigenza di uno Stato sociale e le forme della sua gestione, il superamento dei residui consociativi. Questo sforzo innovatore ci portò a spingere il nostro Partito anche sui terreni più difficili e ardui come quello della assunzione della politica della differenza sessuale che comporta la discussione difficile sulla unicità del soggetto giuridico così come esso è determinato da una tradizione che si fonda sul dominio di un sesso sull’altro.
Sentimmo il bisogno e ci impegnammo non solo per un ringiovanimento dei quadri, ma per una trasformazione della nostra cultura politica, della nostra analisi e delle nostre proposte sulla società e sullo Stato a cui lavoravamo da tempo. Fu nostro l’invito a rinnovare le fonti stesse della nostra cultura politica, e la concezione del rapporto tra il sapere e la politica.
Tutto questo sforzo di innovazione e trasformazione noi lo rivendichiamo pienamente perché fu un lavoro comune che comportò grande fatica e anche, diciamolo, il superamento di tante chiusure mentali e di tante resistenze.
Una delle conseguenze più avvilenti della contemporaneità che si è voluta stabilire tra la proposta che stiamo discutendo e il crollo dei sistemi dell’Est è questa lezione continua che a noi comunisti viene ora rivolta sulla democrazia e sul mercato, sul pluralismo e sulla impresa, sulla laicità e sulla distinzione tra partito e Stato come se avessimo atteso il crollo del muro di Berlino per avviare queste scoperte.
Ma non c’è una sola delle conquiste delle rivoluzioni democratiche dell’Est che noi comunisti italiani non abbiamo affermato nella nostra pratica politica e ancor prima delle nostre condanne esplicite di quei sistemi. Andreotti va ripetendo che la Dc ha salvato l’Italia dal fare la fine di quei paesi. Ma bisogna pur ricordargli, allora, che la democrazia italiana non è stata un regalo del 18 aprile democristiano: a riconquistare, a salvaguardare, a difendere la libertà e la democrazia sono stati, certo non da soli, ma in prima fila e in ogni stagione i comunisti italiani.
Addolora che a soccorrere quella tesi sia giunto anche uno dei fondatori dei comitati per la costituente il quale ha sostenuto che il Pci ha una cultura fondativa eguale a quella dei partiti dell’Est. Ma perché allora ci si rivolge ai comunisti italiani se essi sono stati una tale mostruosità? E se sono stati una tale mostruosità, come hanno fatto a mantenere, nonostante tutto, quella forza, anche elettorale, per cui sono così ricercati? Qui in Italia non vi erano polizie segrete a tenerli artificialmente in vita mentre erano già morti. Le polizie segrete, qui, stavano sempre da un’altra parte, e anche quando il Pci è stato in una maggioranza di governo. Si può dire che nella politica di solidarietà democratica il Pci abbia peccato di ingenuità ritenendo di svolgere un dovere nazionale. Ma questo non bastò. E sul tavolo della discussione politica, per sbarrare la strada a sinistra, fu gettato, nel mentre tutti gli apparati di sicurezza erano nelle mani della P2, il corpo senza vita di Aldo Moro. Questa è la storia terribile che abbiamo vissuto: fino alla morte del povero Ruffili, che fu assassinato solo per aver lottato con noi per la riforma istituzionale.
Certamente, e va detto senza ipocrisia, anche il nome del Partito comunista italiano ha determinato una difficoltà aggiuntiva per l’alternativa: ma, se si vuole essere seri, va anche ricordato che questa difficoltà aggiuntiva era un elemento della guerra fredda e di una sovranità sorvegliata, ben spiegata da Kissinger, ma priva di ogni fondata argomentazione. Non dal crollo del muro di Berlino il Pci aveva rifiutato di sentirsi parte di un campo e aveva scelto il suo posto dove era giusto stare e cioè in Europa. Infatti non dimentichiamoci di quel che è stato per noi la scelta di Altiero Spinelli.
Ma nessuno di noi è così insipiente da voler far credere, come qualcuno dice, che i nostri problemi e i problemi della sinistra italiana nascano dalla cattiveria altrui. È chiaro a tutti, non da ora, che solo guardando a se stessi e modificando se stessi, si risponde a una società che cambia. Ma quali idee nuove sorreggono il nuovo partito che viene proposto? Naturalmente è per noi senz’altro utile che vengano ribadite le scelte che già compimmo in materia di grandi orientamenti programmatici, al precedente congresso, come ieri è stato fatto. Ma i problemi nuovi urgono veramente.
Viviamo in un momento in cui l’aprirsi di grandi speranze per le rivoluzioni democratiche all’Est, si accompagna con una pericolosa stretta. Assieme con la grande volontà innovatrice di Gorbaciov, assieme con il risveglio dei popoli, c’è l’elemento del crollo e del fallimento pieno dei sistemi di pianificazione dall’alto e di negazione della democrazia. Ma proprio perciò non vi è solo il rischio, ma la spinta a seppellire ogni idea di antagonismo sociale e politico.
Ma il bisogno di antagonismo sta scritto in una realtà che non può essere cancellata: il Terzo mondo come altra faccia della ricchezza, i rischi ambientali come risvolto dello sviluppo, la violenza verso i deboli come prezzo estremo dell’ideologia del successo.
È giusta ed esaltante la grande idea di Gorbaciov della interdipendenza, della fine di un mondo diviso, di una corresponsabilità. Ma quante critiche di utopismo inconcludente si levarono per la idea di governo mondiale dell’economia quando essa fu lanciata in un congresso dal nostro Enrico Berlinguer. E sono evidenti i segni che dalla idea della interdipendenza è possibile che si passi ad una egemonia a senso unico: il che, alla lunga, costituisce un rischio nuovo. Ortega ha fatto benissimo a fare le elezioni e ad accettarne l’esito: ma questo non deve impedire la critica verso chi ha fatto votare il Nicaragua sotto un blocco economico e con la guerriglia alle frontiere. Il Patto di Varsavia è ormai a pezzi, basta dire con Brandt che la Nato deve rivedere le proprie concezioni? Si scontrano due concezioni sui limiti della democrazia intesa come sistema di regole. L’una è quella delle forze conservatrici o apertamente reazionarie che riprendono il timore dell’antica filosofia sulla democrazia come demagogia e disordine puntando ad un restringimento degli spazi di libertà, l’altra è quella che noi stessi abbiamo abbracciato. Noi abbiamo superato ogni contrapposizione tra democrazia formale e sostanziale, ma abbiamo al tempo stesso sottolineato che proprio perché le regole democratiche possano pienamente vivere è indispensabile contrastare i limiti posti alla loro attuazione dagli altri poteri, e innanzitutto il potere economico.
Ciò che continua a stupire della proposta che sorregge la svolta è l’opinione – che deriva da culture ben note – secondo la quale il sistema politico è una cosa a sé stante, entro il quale operano leggi totalmente autonome. Il mutare a piacimento uno dei soggetti in campo, in questo caso il Partito comunista italiano, determina il mutamento dell’insieme: e questo, infatti, può ben accadere. Ma la domanda è: in che senso, in che direzione muta l’insieme? E la risposta a questa domanda non si può avere se non si ricorda che il sistema politico non è separabile dagli interessi che percorrono la società.
Una dottrina che ignori il nesso tra economia e politica, tra Stato e società, non risolverà nulla ma, temo, aggraverà la crisi della sinistra italiana. Ovunque nei paesi sviluppati, per le necessità della riproduzione sociale e del sostegno stesso al sistema economico, la metà del reddito nazionale è spesa pubblica: lo Stato è diventato cosi il più grande degli enti di commessa, oltre che di distribuzione del reddito. Anche perciò si è rafforzata in noi la idea – non solo nostra – del bisogno assoluto di scindere politica e amministrazione.
Ma allora per non farsi illusioni ideologiche sulle virtù dei mutamenti di nomi, bisogna nominare i fatti. Abbiamo un governo che esprime la involuzione moderata della Dc e che tocca punte di suprema arrendevolezza verso i potentati economici, fino a paradossi come quello recente della Enimont.
La concentrazione finanziaria ha toccato vertici eccelsi e il servizio del debito pubblico ha realizzato il perverso obiettivo, come ci si spiega costantemente, di determinare arricchimento privato e povertà pubblica, a spese dei contribuenti.
Berlusconi non avrebbe potuto reggere senza il voluto vuoto legislativo, così come la Fiat non avrebbe potuto toccare nuove vette senza il sostegno di una politica pubblica bene indirizzata. Scalfari ha così riscoperto Meckie Messer che non aveva evidentemente ben studiato da giovane.
Ma questo spiega la vischiosità del potere politico che sa coinvolgere la propria variegata maggioranza elettorale in uno scambio effettivo, il cui peso principale grava su una condizione del lavoro dipendente che si è falta – soprattutto nel comparto operaio – particolarmente pesante.
Il problema centrale per noi come per ogni altro vero partito di sinistra è che ad un certo punto sono entrati in difficoltà aspetti essenziali della cultura e del programma della sinistra occidentale, cui non apparteniamo solo dal penultimo congresso e, quindi, è andato deteriorandosi il suo blocco sociale. Perché ignorare che le nostre difficoltà coincidono, pur con tutte le ovvie differenze, con quelle di grandi partiti come il laburista, o il socialdemocratico tedesco? Dimenticare questa realtà vuol dire perdere una visione europea, andare ad un restringimento e ad un immiserimento di tutta la nostra elaborazione.
Le incongruenze e la crisi dello Stato sociale, le nuove contraddizioni determinate dallo sviluppo, come quella ecologica, oppure venute alla coscienza per effetto dell’avanzamento culturale, come quella di sesso, i nuovi metodi produttivi e le forme assunte dalla ristrutturazione capitalistica: tutto questo ha sorpreso l’insieme della sinistra in Occidente. E accade anche a noi, quando avemmo il nostro più grande successo alla metà degli anni 70, di presentarci con una cultura riformatrice quanto mai arretrata e poco esperta. Anche allora si parlò molto di programma: e ne stendemmo uno dei numerosi che dovevano seguire; e anche allora si disse, giustamente, che dovevamo mostrarci capaci di un vero senso dello Stato, di una autentica responsabilità di governo: e lo facemmo, anche chiedendo sacrifici seri alla nostra gente.
Non dobbiamo pentircene in alcun modo: ma anche quella esperienza ci ricorda che il tema vero di un programma per l’alternativa non è la sua onnicomprensività, il suo carattere enciclopedico, la pretesa di saperne di più delle forze centriste e moderate in una opera di sostegno e di mediazione degli interessi forti. Il tema arduo e difficile è quello di una alleanza assai complicata da conquistare tra settori deboli e pezzi di settori forti della società. Ma a questo non si arriva in nessun modo senza un programma segnato da un reale antagonismo democratico, capace di mobilitare innanzitutto ceti e classi che avvertono il bisogno di cambiamento, che portano, più o meno consapevolmente, la esigenza di una critica allo stato di cose presente. Partito di lotta, partito di governo: è stato ridetto, come sempre. Ma bisogna aggiungere allora che programma per il governo e per l’azione nella società non possono essere due cose diverse.
Si è detto che la critica formulata nella nostra mozione sullo scarto tra le parole ed i fatti sulle grandi questioni sociali peccava di antico spirito agitatorio. Semmai l’allarme era troppo cauto: ciò che sta accadendo nelle fabbriche metalmeccaniche nel rapporto tra sindacati e lavoratori manifesta una crisi grave. La reciproca autonomia tra sindacato e partito è fuori discussione: ma un partito popolare a larga base di operai e lavoratori non può pensare di risalire la china senza un rapporto con i problemi delle condizioni del lavoro. Come non vedere che il dramma del sindacato ci riguarda e ci coinvolge da vicino? Il risultato delle elezioni europee fu anche l’effetto del risveglio positivo sui diritti negati alla Fiat, sulla leva militare, sulle questioni dei tickets.
Costruire il programma con i soggetti sociali
Ciò non significa cedere ad una visione rozza e perdente che sa solo proporre l’esigenza della lotta. La lotta medesima ha bisogno di coerenza programmatica. Ma se si pensa al programma come cosa che discende dall’alto ci si può incontrare poi con quelle conseguenze che si vedono oggi tra i metalmeccanici: cinque mesi nella discussione tra i vertici per la piattaforma, tre settimane alla base per decidere. Ed è stato rifiuto.
Coerenza programmatica nel paese e per il governo vuol dire costruire il programma con i soggetti sociali, smetterla con l’idea che i partiti siano i titolari dell’interesse generale. Lo possono diventare, ma in un confronto continuo con la società, per riscoprire ogni volta che cosa abbia da essere l’interesse generale. Certo. Non si deve acconsentire a qualsiasi movimento. Ma bisogna innanzitutto vederli, riconoscerli. Quanto tempo abbiamo messo anche questa volta per vedere il senso del movimento degli studenti? Esso non è il frutto dell’incomprensione di una buona legge di una buona concezione dell’Università e della cultura superiore. Esprime protesta contro l’assenza di lungimiranza e di serietà con cui si considera quella forza produttiva grandissima e oggi fondamentale che è il sapere superiore. Esprime il malessere di una generazione che sta per entrare in una società povera di democrazia e di innovazione di sinistra. Parliamo molto di Mezzogiorno. Ma questo movimento è scoppiato nel Mezzogiorno, esprime un timore di nuova emarginazione e propone una linea alternativa.
Ho accennato a qualche tema di contenuto: ma, si dice, lo vedrà la costituente, per cui dobbiamo lavorare. Non ripeterò che potevamo farlo prima. Propongo che una sfida sui contenuti si accenda fra di noi veramente. Ma, intanto. obietto che se il problema è e rimane quello dei contenuti non c’era e non c’è bisogno di cancellare i simboli e il nome.
E, infatti, il tema della nuova formazione politica è stato posto pensando alla possibilità di confluenze e di interlocutori nuovi. La relazione di Occhetto non poteva modificare, naturalmente, la realtà che già conoscevamo.
Lungi da me sottovalutare l’apporto della sinistra indipendente o di altri amici, ma non si tratta certo di novità significative.
Il problema non è soltanto quello che una sinistra già ampiamente emersa e talora già ampiamente sperimentata, non può coprire l’assenza di interlocutori reali. La questione vera è l’orientamento politico manifestato da molte di queste stimabili persone. Anche a parte l’atteggiamento – talora inaccettabile – verso i comunisti, in qualcuno di loro prevale una linea che ha poco a che vedere con quel partito popolare, di massa, di lavoratori che qui è stato descritto.
Nessuno sottovaluta le battaglie civili che i radicali condussero: ma è già assai arduo, come ha dimostrato la vicenda delle liste abruzzesi, una significativa intesa elettorale. Davvero si può ipotizzare e su quali basi di reciproca coerenza un comune partito?
Non vedo né realismo, né prospettiva in una strada come questa: anche perché il tema vero rimane quello del rapporto con l’altro partito della sinistra italiana.
Intraprendere la strada di una formazione politica nuova e tutta da qualificare porta proprio a quella oscillazione, che si è già in parte manifestata, tra impennate polemiche volte ad allontanare lo spettro dell’omologazione e i cedimenti che diventano inevitabili quando si arriva a cancellare tutte le proprie ragioni.
È certo giusto auspicare una ampia unità riformatrice. Ma non si può impostare una discussione seria soltanto sul tema della rendita di posizione di cui beneficia il Psi e ignorando che è una diversa strategia che ha guidato la politica di questo partito e le sue scelte. Quali frutti può dare il confronto se si ignorano i punti reali di contrasto che in questi anni ci hanno divisi e quelli che ci dividono ora? Ce lo impone il reciproco rispetto, ma, soprattutto, il dovere verso il paese poiché nessuno dei due partiti, credo, ha scelto per capriccio la sua linea nelle materie – come quella della lotta alla droga – su cui è forte il dissenso, compresa la materia istituzionale. Mai noi abbiamo demonizzato l’elezione diretta del capo dello Stato e neppure il presidenzialismo: ma questo è un tema che chiede il rifacimento di tutti gli equilibri istituzionali. Il rilancio del regionalismo, che è esigenza comune, non è la medesima cosa. E allora perché non riprendere la proposta di una agenda che veda una discussione di temi concreti? Certo, ciò suppone che, senza egemonismi, si parta dalla idea di una ricerca unitaria tra forze che sono diverse, se è vero che non si parte della ricerca di reciproche abiure. Una ricerca che potrebbe avere una grande partenza immediata. È giusto: la sinistra tutta deve avanzare. Perché non cominciare a intendersi per patti amministrativi ovunque ciò sia possibile?
Noi non possiamo oscillare, comunque, tra una autentica ricerca unitaria e proposte come quella di una legge elettorale che si avvicina a quella inglese e che sarebbe destinata ad azzerare di un colpo le differenze riducendo la dialettica a due poli soltanto: è assurdo, ma forse dovrei dire pericoloso in un sistema democratico traballante e segnato da tante correnti politiche e culturali ben radicate in cui una tale legge porterebbe ad una drastica riduzione di rappresentanze.
Certo, è tempo che le sinistre pongano unitamente la loro candidatura a governare. Ma bisogna che la gente capisca bene perché ci vuole l’alternativa. Il Psi può oggi dire di essere al governo per garantire la governabilità. Ma se si vuol porre la esigenza dell’alternativa, allora bisogna mettersi d’accordo che al governo la sinistra deve andarci, ma per cambiare!
Acquista, allora, rilievo la possibile ricerca e la possibile costruzione di un programma comune delle forze che si propongono come alternativa di governo e che vogliono evitare di essere un insieme incoerente e magari ancor più rissoso di quanto oggi il pentapartito non sia.
Ma davvero una imprecisata nuova formazione politica tra noi e la costituenda sinistra dei clubs farà meglio ed avrà maggiori capacità di penetrazione e di azione per arrivare a questi difficili obiettivi? Non lo credo.
Per questo ci siamo battuti e ci battiamo per un partito autenticamente di sinistra. Non ci siamo divisi su un problema qualunque, per cui si possa tranquillamente dire: ricomponiamoci e dividiamoci su altri eventuali problemi. Ci siamo divisi sul problema di che cosa sia un partito di sinistra, a partire da noi stessi. Ci siamo divisi sul fatto che noi riteniamo essere più utile agli italiani non una forza politica di sinistra eguale ad altre che già ci sono, ma una forza politica di sinistra che sviluppi un coerente antagonismo democratico, un coerente programma riformatore, una lettura critica della società. Per questo abbiamo difeso anche i nostri referenti simbolici, il nostro nome e la nostra bandiera. È vero. Questo nome è stato da altri infangato. Ma sono loro che debbono cambiarlo.
Un partito di sinistra come noi lo abbiamo inteso è sì un partito di programma che sa fare anche riforme apparentemente piccole, riforme di efficienza; ma non può non essere anche un partito che rappresenta le parti deboli e sofferenti della società e la parte frenata nella propria ascesa dai grandi poteri economici, politici ed informativi. Non può non essere anche un partito che a queste parti di società offre sollecitazioni stabili di militanza politica, che è associazione capace di portare al livello del governo politico le loro esigenze. Ma non solo. Noi pensiamo che un partito di sinistra antagonistico debba essere anche, e certamente, un partito di grandi idealità e finalità di sinistra.
Le grandi finalità non sono ideologiche. Siamo diventati da tempo un partito laico, non ideologico.
Al Pci si aderisce, da che esso fu rifondato da Togliatti, per il suo programma politico, non per una ideologia. Il riferimento allo studio del marxismo e del leninismo che era divenuto un residuo fossile, fu tolto dallo statuto per iniziativa di Berlinguer. Una ideologia è una visione totalizzante, coerente, filosoficamente univoca del mondo, dell’uomo e della sua storia, oppure, marxianamente, è pura e semplice falsa coscienza. Ma se fossimo stati così saremmo stati spazzati via come tanti altri partiti dell’occidente che si chiamavano come noi. Asse della nostra cultura è da tempo un pensiero pienamente laico, dapprima stretto entro l’orizzonte dello storicismo, ma poi aperto ad una analisi realistica e critica della società e proprio perciò potemmo anche esprimere il più recente rinnovamento. Non avremmo in alcun modo potuto raggiungere i voti che abbiamo raggiunto senza un ampio consenso di cattolici, e senza presenza cattolica nelle nostre fila e nei nostri gruppi dirigenti. Noi non abbiamo aspettato questo congresso per avere dentro di noi la più ampia contaminazione tra posizioni culturali, ideali, filosofiche diverse e persino opposte tra di loro: basta guardare, ora che abbiamo rotto gli argini, alle culture qui presenti tra noi. E questo è giusto che vada avanti. Non da oggi abbiamo detto che dovevamo aprire porte e finestre.
Ma l’incontro non può avvenire come è per un cartello elettorale solo su un programma. Qui sta l’equivoco della politica a lungo praticata dal nostro partito, alla quale fu sottintesa, per molti anni, una immagine del socialismo che non era la nostra e che non fu mai chiaramente e nettamente sostituita da quel nuovo senso delle parole comunismo e socialismo che venivano non solo dalla lezione di Gramsci, ma dalla esperienza concreta nostra, dal ripudio di altre esperienze, dalla lettura critica delle nostre stesse azioni. Sempre di più quelle parole riassumevano per noi non già l’idea di un fine della storia, ma di uno stimolo alla lettura critica della società, di una inquietudine rispetto all’abisso tra fatti e valori predicati. Ecco perché parliamo di ricostruire finalità intese come ripensamento morale, come norma per i militanti ma non come progetto da imporre sulla società o come criterio di verità.
Non si può rinunciare ad una cultura critica
Le grandi finalità sono necessarie perché danno ad una forza politica una collocazione ed un impianto di cultura. Sono la coscienza e la cultura etica della politica, impongono dei vincoli all’agire politico. Danno alla politica un senso, una coscienza, la garanzia di essere una attività non arbitrariamente mobile e superficiale, non meramente pragmatica. Anche un partito solo pragmatico non è privo di finalità, ma mentalmente o finisce per fare sue le finalità del sistema sociale esistente, o concepisce come suo scopo l’avere potere e sempre più potere.
E un partito di sinistra non può non essere identificato come un partito che si ispira ad una cultura antidogmatica, e critica, scientificamente consapevole della realtà economica, sociale, umana. Anche sotto questo riguardo non si deve scambiare la critica dell’ideologia con la rinuncia ad una cultura politica e ad un impegno morale. Ciò che noi dobbiamo dichiarare ormai da respingere con orrore è la separazione tra morale dell’intenzione privata e morale del risultato che dovrebbe ispirare l’azione politica. Il machiavellismo deteriore della separazione tra mezzi e fini è diventato ormai cosa ripugnante per chiunque.
Si parla molto di rottura della unità politica dei cattolici, di rendere più agevole lo spostamento elettorale a sinistra dei cattolici. Sui caratteri della crisi che oggi si manifesta nei rapporti fra una parte dell’area cattolica ed il partito della Democrazia cristiana, c’è bisogno di una analisi differenziata. Non mi sembra che sia esatto, in particolare, ciò che qualcuno ha scritto anche sul nostro giornale: ossia che il passaggio della sinistra democristiana all’opposizione interna sarebbe, in larga misura, una delle ripercussioni dello scossone dato al sistema politico dalla svolta proposta al nostro partito. La decisione della sinistra Dc nasce su un altro terreno: è il frutto quasi obbligato – come i fatti dimostrano – dell’irrigidimento a destra dell’asse Andreotti-Forlani e della politica dell’attuale governo.
È vero, comunque, che una discussione si è riaperta – anche a causa delle sconfitte subite – nei settori del cattolicesimo democratico all’interno ed all’esterno della Dc; ed è vero che la svolta a destra della Dc di Forlani, di Gava, di Andreotti lascia politicamente più scoperto quel variegato arcipelago cattolico che si è andato in questi anni differenziando in molteplici esperienze culturali e nei gruppi dell’associazionismo e del volontariato.
Ma quale domanda viene da questi settori? Non mi pare davvero che la ricerca – indipendentemente dal nome – sia quella di una formazione politica più o meno nuova nella quale collocarsi. Anche al di là del superamento dell’unità politica, la partecipazione attiva dei cattolici ad un altro partito rimane questione problematica: che può trovare solo una risposta processuale e di lungo periodo, non soluzioni in qualche modo improvvisate. Altre sono le domande che ci vengono rivolte.
La prima è quella di operare con più incisività e coerenza per creare quella cornice istituzionale e quel quadro politico nei quali possa meglio svilupparsi l’iniziativa per gli obiettivi (primi fra tutti il disarmo, il sostegno al Terzo e Quarto mondo, la solidarietà con gli ultimi) per cui tanti di questi gruppi hanno scelto di impegnarsi.
La seconda domanda – non separabile dalla prima – è un più netto e rigoroso rapporto tra azione politica e coscienza etica.
È significativo, del resto, che mai tanti cattolici si sentirono vicini al nostro partito (eppure nessuno metteva allora in discussione il nome comunista) come negli anni di Berlinguer. e ciò proprio per il suo modo di intendere la politica, per il suo spirito di antagonismo nei confronti di una società ingiusta, per il suo richiamo al rigore morale. Certo, c’è oggi interesse da parte cattolica per una prospettiva che significhi compiuto superamento di ogni residuo di una visione ideologistica e totalizzante del partito, di ogni chiusura verso altre culture, in particolare quelle di ispirazione religiosa.
Ma anche quando si manifesta interesse per il dibattito che si è aperto nel nostro partito, all’interesse si accompagna anche il timore che l’abbandono dell’ispirazione comunista significhi caduta di tensione ed impegno morale, cedimento ad una visione della politica come tecnica, abbandono a suggestioni laicistiche e radicaleggianti. Solo una cultura politica forte, che sappia fare i conti con le grandi sfide e con le grandi questioni etiche del nostro tempo, è il terreno per un confronto fecondo come l’area cattolica. E ciò ci ripropone il problema del partito, del suo carattere antagonista.
In verità anche il rinnovamento della nostra cultura politica ha trovato in questi anni un ostacolo, anche rispetto ad esigenze che avevamo da tempo avvertito ed elaborato, nel permanere di una vecchia struttura organizzativa – una vecchia forma partito – che risale non solo alla tradizione comunista, ma anche a quella dei partiti socialisti della seconda Internazionale. Su questo terreno ci sono ritardi, debolezze, incoerenze che tutti dobbiamo riconoscere. Anche nelle direzioni indicate dal XVIII Congresso abbiamo, a questo riguardo, lavorato davvero poco, anzi, il lavoro è stato interrotto, con la proposta della fase costituente, ancor prima di cominciare.
Sul tema posto dal congresso si è costituita una maggioranza e due minoranze.
E sono comparse in questa discussione non solo voci singole ma aree e tendenze culturali anche all’interno della prima mozione che sarebbe una assurdità, ormai, negare o vilipendere. Mi sembrerebbe saggio organizzare la convivenza ed il dialogo. Se vogliamo che la intera democrazia viva e si affermi e se non si vogliono combinare pasticci vanno stabiliti con chiarezza diritti e doveri di ciascuno. Pensiamo cosa avrebbe potuto essere la prova che stiamo vivendo se non avessimo introdotto nello Statuto la norma che all’interno del partito e con i suoi mezzi si può e si deve organizzare, se esistono, la diversità delle opinioni.
Ripensare e rifondare la forma partito, costruire nuove strutture di presenza democratica organizzata con un radicamento anche in nuove fasce del mondo del lavoro e della società, è oggi indispensabile per dare nuova forza ad una politica di alternativa per evitare che altrimenti il partito – qualsiasi partito – diventi solo funzione dei mezzi di comunicazione di massa, costretto a scegliere fra l’uno e l’altro dei vecchi padroni dell’Italia.
Ма оссоrrono, per questo, riforme radicali. Sulla forma partito avremo occasione di discutere più a fondo, spero, nel prossimi mesi. Noi abbiamo avanzato precise proposte superamento del verticismo, funzionale solo alla trasmissione dell’ideologia e del comando, riconoscimento da parte di tutti i dirigenti della parzialità che deriva dall’appartenenza di sesso, creazione di una struttura policentrica che meglio possa rappresentare gli interessi ed i bisogni di rinnovamento che maturano in una società complessa. Essenziale ci sembra una più chiara distinzione tra partito e rappresentanze. La costituzione di quell’organismo che è stato chiamato «governo ombra» doveva portare a realizzare questa distinzione di funzioni. Anche di questo non abbiamo potuto discutere ma è un tema determinante per un rinnovamento non di parole. Tra l’altro, ciò deve portare al superamento di ogni doppio incarico.
Ma, soprattutto, più ampia circolazione democratica e quindi costruzione dell’unità non negando ma valorizzando il pluralismo politico e culturale che deve animare la vita interna di una grande organizzazione politica democratica.
Giungiamo così ad una questione di immediata attualità. Sul tema di questo congresso si sono costituite una maggioranza e due minoranze. Di questo è giusto prendere atto, ed intenderne tutto il significato se vogliamo andare al dibattito di merito della nuova fase con la ricchezza delle posizioni che sono al nostro interno.
L’unità è un bene essenziale ma sarebbe ormai ipocrita e perdente pensarla e praticarla senza il riconoscimento delle differenze. D’altro canto mi sembrerebbe assurdo dialogare con i clubs e non dialogare chiaramente fra noi.
Il centralismo democratico superato in linea di principio e di fatto non può rientrare dalla finestra dopo essere stato scacciato dalla porta. Tipico di questa concezione che fu nostra è il superamento, con il congresso, delle aggregazioni o tendenze od aree che si costituiscono per il dibattito congressuale. Ciò può avvenire ma non può essere imposto e non può essere sostituito da rapporti non chiari e non limpidi.
Nella gara di idee che si deve aprire, se non si vuole soffocare il processo costituente prima che nasca, ogni posizione deve contribuire liberamente e liberamente devono essere scelte le soluzioni che parranno le più opportune al titolare di questo processo, che non può essere l’insieme del Pci. Ma lo sbocco allora non può essere predeterminato. Si è chiesto e si è ottenuto a maggioranza un mandato per aprire la fase costituente di una nuova formazione politica. Ma si è anche stabilito che vi deve essere un nuovo congresso sovrano. Che sovranità sarebbe se il suo compito fosse solo quella della ratifica? Sul significato della medesima espressione «formazione politica» si sono avute le interpretazioni più diverse, non meno che sui contenuti. Dunque, vi deve essere confronto serio tra tutti. Nessuno può escludere che si formino nuove maggioranze e nuove minoranze. Ciò è già avvenuto in tante risoluzioni politiche di tante federazioni. Ma, intanto vi è e permane diversità di pareri rispetto alla proposta originaria e con questa diversità non solo bisogna convivere, ma occorre regolarla e valorizzarla in modo fecondo. Ciò è compito della minoranza, che non deve avere alcuna remora all’impegno, alcun astio o spirito di rivincita, ma è in eguale e superiore misura compito della maggioranza. La lettera di Gramsci del ’26 fu inviata appunto come monito alla maggioranza.
E non vi è solo il processo costituente: vi è una lotta politica acuta, vi sono le elezioni amministrative imminenti e vi è sullo sfondo la possibilità che si voglia ancora chiudere in anticipo la legislatura. Per questo il tema del governo unitario del Partito nella chiarezza delle posizioni non può essere escluso. Naturalmente si può anche scegliere una strada – come taluno ha suggerito – di messa da parte della minoranza: può essere cosa comoda, in definitiva, soprattutto per chi starebbe solo ad osservare. Ma è inutile dire che è una strada assai pericolosa.
Ho finito. Voi sapete che avrei preferito una strada di rinnovamento tutta diversa. Ma adesso c’è da battersi qui ed ora. Io ho fiducia nella saggezza e nella responsabilità di tutti. Dopo il congresso dovremo andare a chiedere tutti insieme i voti per le amministrazioni democratiche vecchie e per quelle nuove da costruire. Facciamo che sia una buona battaglia per la democrazia italiana e per il Partito comunista italiano, poiché di questo partito la democrazia italiana ha ancora vitale bisogno.
Aldo Tortorella
(Tratto da «l’Unità», 9 marzo 1990).
Inserito il 09/02/2025.
Da un volume dedicato a Dario Paccino
di Paolo Mencarelli
1956. Dario Paccino e il primo testo scritto in Italia sulla storia dei nativi del Nord America. Il successo dell’operazione editoriale e le polemiche a sinistra che ne seguirono.
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Arrivano i nostri
Una controstoria socialista dalla parte dei Pellerossa
di Paolo Mencarelli
Dario Paccino ha lavorato per la piccola ma combattiva casa editrice del Partito socialista italiano Edizioni Avanti! in anni decisivi non solo per l’editoria legata a quello che veniva chiamato “movimento operaio” ma per la sinistra italiana stessa.
Tra il 1956 e i primi anni Sessanta del Novecento non si incrina solo il monolite sovietico e il suo mito con i carri a Budapest, ci sono anche le avvisaglie di quello che si preannuncia come “il miracolo economico” con trasformazioni socio-economiche e antropologiche che incidono profondamente nelle modalità con cui si produce e si trasmette la cultura. L’attività di Dario Paccino per le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio si inserisce nel tentativo di rinnovamento contenutistico e formale che lo stesso Bosio intraprese di fronte a quelle trasformazioni economico-sociali e culturali che avevano spinto il collettivo, tra cui sono almeno da ricordare Giovanni Pirelli, Roberto Leydi, Alberto Mario Cirese, Mario Lodi, intorno alla casa editrice socialista, alla pubblicazione di titoli volutamente provocatori rispetto alla cultura dominante.
Proprio nel fatidico 1956, per la collana Omnibus de Il Gallo, vera colonna portante della casa editrice, su sollecitazione di Bosio compare, grazie all’impegno di Paccino, Arrivano i nostri, Storia dei pellerossa, con una lettura della storia dei nativi d’America che rompe in Italia con la vulgata cinematografica e fumettistica.
Il libro diventa presto un piccolo “caso” editoriale ed entra a pieno titolo in un filone che negli anni Sessanta e Settanta sia negli Usa che in Italia diventerà importante per le culture alternative.
Nel caso di Arrivano i nostri sono i popoli apparentemente senza storia, “perdenti” per eccellenza come i pellerossa protagonisti, per una volta positivi, presentati finalmente con la propria cultura e le proprie tradizioni e non come semplici “selvaggi”.
Con questa vivace e appassionata ricostruzione, Dario Paccino, già collaboratore dell’«Avanti!», diventa l’autore di una sorta di pioneristica “controstoria” dell’epopea del West, sviluppata in chiave di narrazione divulgativa che utilizzerà poi parte del materiale opportunamente riscritto e ridotto per una fortunata edizione rivolta ai bambini nella collana “Universale ragazzi”, diretta da Mario Lodi, dal titolo Custer contro i pellerossa. La vera storia degli indiani, uscito nel 1962.
Altrettanto provocatorio per i gusti correnti, il libro per ragazzi è ottenuto rielaborando materiali già utlizzati per Arrivano i nostri con l’esplicito intento di rovesciare lo stereotipo dei bianchi “buoni” e dei pellerossa “cattivi”.
L’attenzione per il linguaggio è qui tradotta nello spunto narrativo del dialogo dell’autore con il figlio Sirio, reduce dalla visione di un film western, in apertura e chiusura dell’esposizione della storia.
Questa attenzione per la divulgazione rivolta alle fasce di lettori più giovani non deve stupire.
Per Bosio, già il testo del 1956 aveva, in fase di progettazione, soprattutto un valore per l’aspetto pedagogico «…in quanto ci permetterà di offrire una ricostruzione veritiera, che riporta una parte della nostra vita fantastica (i luoghi comuni dell’infanzia e non) alla realtà, e prende di petto i problemi dell’educazione borghese, con notevoli risultati verso la formazione di una coscienza democratica» (Gianni Bosio, Giornale di un organizzatore di cultura, Edizioni Avanti!, 1962, p. 106).
L’intento di demistificazione è chiaramente espresso dal fatto che il titolo proposto originariamente dall’autore era Gott mit uns in Usa. Storia degli indiani d’America con evidente parallelo con gli intenti genocidi nazisti. Ma i “pellerossa” non sono solo vittime dello strapotere militare ed economico dei “bianchi”, anzi prima di tutto gli “indiani” sono rappresentati come «condottieri di disperate battaglie, eroi omerici dell’epoca industriale» destinati a soccombere perché «al di qua dello sviluppo capitalistico» malgrado il loro valore di combattenti e la nobiltà d’animo dimostrata. Tutto ciò senza dimenticare il vero e proprio disastro ecologico che si accompagnò allo sterminio dei nativi, già opportunamente ricordato da Giorgio Nebbia.
Il libro non solo non passa inosservato, come vedremo, negli ambiti della critica allora definita militante, ma riesce ad attirare l’attenzione di ambienti apparentemente ben lontani da quelli della casa editrice socialista.
È infatti scelto come testo base da un concorrente del popolarissimo “Lascia o raddoppia” di Mike Bongiorno e ottiene presto un buon successo di vendite.
Mario Spinella intanto, dalle colonne de «Il Contemporaneo», lo attacca per la superficialità dell’interpretazione definita nella corrispondenza con Bosio «una parodia del marxismo». Critiche a cui il direttore delle “Edizioni Avanti!” non mancò di controbattere con energia, evidenziando comunque il valore del testo in quanto tentativo di applicare i canoni di una storiografia realista ad un argomento ritenuto apparentemente secondario.
Il conflitto tra i due andava oltre l’occasione della pubblicazione di Paccino e investiva questioni più generali in cui si era differenziata l’editoria divulgativa nell’ambito della sinistra.
Questioni evidenziate con chiarezza dallo stesso Bosio: «…con il volume di Paccino si è fatto lo sforzo di non ricorrere alla traduzione di un libro tascabile americano in vendita a L. 250, per presentarlo al lettore italiano a L. 350 (vedi Hamilton) [Charles Hamilton, Sul sentiero di guerra. Scritti e testimoninanze degli Indiani d’America, Feltrinelli, 1956], si è fatto lo sorzo di dare al lettore italiano al prezzo di L. 500 un libro, non originale nelle fonti, ma originale nell’interpretazione; si è tentato cioè di applicare i canoni di una storiografia realista, se non marxista, a un argomento piccolo e secondario, se vuoi, come la storia dei pellerossa. È poco questo? Forse sarà poco, ma se dal ’45 a oggi noi avessimo fatto lo sforzo di congiungere la conoscenza dei sacri testi alla loro applicazione non schematica, lasciando un po’ da parte invenzioni personali e di tipo propagandistico, forse oggi la cultura di sinistra si troverebbe un po’ meno nell’impasse in cui è» (cit. da P. Mencarelli, Libro e mondo popolare. Le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio, Biblion, 2012, p. 75).
Sono osservazioni significative che, lette oggi, ci fanno intuire il valore dei due libri di Paccino sui pellerossa, non solo sul piano della conoscenza di una storia, oltre il mito del west immortalato da centinaia di film, ma anche quanto fossero preziosi per un lavoro egemonico della cultura, quella dell’allora movimento operaio e socialista, che oltre ai “sacri testi” (del marxismo) avrebbe dovuto cercare linguaggi e modalità di comunicazione in grado di incontrare l’immaginario delle nuove generazioni.
Paolo Mencarelli
(Tratto da: AA.VV., Dario Paccino. Dall’imbroglio ecologico alla crisi climatica, Centro di Documentazione Pistoia Editrice, 2024, pp. 85-87).
Inserito il 18/12/2024.
Aprile 1964. Nikita Krusciov viene insignito dell’Ordine di Lenin e gli viene attribuito il titolo di Eroe dell’Unione Sovietica. È Leonid Brežnev ad appuntargli la spilla sulla giacca.
Autore della foto: Sergej Smirnov / RIA Novosti.
Fonte della foto: https://lgz.ru/article/kak-snimali-khrushchyeva/
Dal giornale «Literaturnaja gazeta»
di Evgenij Spicyn
Il 14 ottobre 1964 Nikita Nikita Sergeevič Krusciov (Chruščëv) fu costretto alle dimissioni da entrambe le alte cariche che ricopriva in Unione Sovietica: Presidente del Consiglio dei ministri e Primo segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista. In questo articolo si ripercorrono le circostanze e le tappe attraverso cui si svolse la ”congiura di palazzo” che portò alla destituzione del leader sovietico che aveva avuto la forza di iniziare la destalinizzazione del paese ma che era ricaduto in certi vizi come il cumulo delle massime cariche dello Stato e del partito e un culto della propria personalità.
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Come fu destituito Krusciov
di Evgenij Spicyn
Studiando la questione delle dimissioni di Nikita Sergeevič Krusciov (Chruščëv) nell’ottobre del 1964, gli storici stanno ancora discutendo su una serie di questioni, tra cui:
1) chi fu il principale promotore della “congiura di palazzo”;
2) quando maturò il piano per questo “rivolgimento” ai vertici del potere;
3) quali furono le ragioni principali delle dimissioni di Krusciov.
Sulla prima questione – sui promotori – ci sono punti di vista diversi. Alcuni storici sostengono che l’ispiratore della “congiura di palazzo” sia stato il membro di lungo corso della segreteria del Comitato Centrale M.A. Suslov. Altri dicono che i principali “cospiratori” furono i due membri più giovani e ambiziosi del più alto areopago: il segretario del Comitato Centrale A.N. Šelepin e il vicepresidente del Consiglio dei ministri dell’URSS D.S. Poljanskij, che fu attivamente sostenuto dal capo del KGB, il generale V.E. Semičastnyj. Infine, altri propongono la versione secondo cui il ruolo principale negli eventi di ottobre è stato svolto dai due segretari più influenti del Comitato Centrale: L.I. Brežnev e N.V. Podgornyj.
Anche sul secondo problema – la tempistica del piano – c’è disaccordo. Alcuni autori sostengono che i primi segni di preparazione per una “congiura di palazzo” apparvero nel giugno 1963, quando, al Plenum del Comitato Centrale, Brežnev e Podgornyj furono eletti segretari del Comitato Centrale. Altri ritengono che i preparativi iniziarono nel novembre 1962, subito dopo la fine della crisi cubana, che scosse bruscamente la posizione al potere di Krusciov. Altri ancora credono che la cospirazione maturò nel gennaio 1964, quando in una delle riunioni del Presidium del Comitato Centrale Krusciov minacciò direttamente di costringere alle dimissioni alcuni dei suoi membri, prima di tutto Suslov. Infine, un altro gruppo di autori afferma che la cospirazione maturò solo nell’aprile del 1964, alla vigilia del compleanno di Krusciov.
Sulla terza questione – le ragioni – ci sono due punti di vista principali. La maggior parte degli autori liberali interpretano persistentemente le dimissioni di Krusciov come il risultato di un “colpo di stato della nomenklatura” e di una “cospirazione al vertice”. I loro oppositori sostengono che queste dimissioni sono avvenute per motivi legali, nel quadro della rigorosa legalità del partito in conformità con le norme statutarie, quindi tutte le altre interpretazioni sono astoriche e politicizzate.
Per quanto riguarda le ragioni delle dimissioni di Krusciov, quasi tutti gli autori concordano nel ritenere che a porre fine alla sua carriera nel partito e nello Stato furono gli ultimi due o tre anni della sua permanenza al vertice, segnati da gravi fallimenti nella politica estera e interna, e soprattutto dal prurito di riforme nel settore amministrativo e nella sfera dirigenziale.
L’analisi di documenti, interviste personali e ricerche storiche ci consente di trarre alcune conclusioni sulle circostanze e sui motivi della destituzione di Krusciov. A quanto pare, la questione delle sue dimissioni fu discussa per la prima volta nell’ottobre 1962 da due persone: il membro più influente della massima leadership sovietica, il Secondo segretario del Comitato Centrale Frol Romanovič Kozlov (che lo stesso Krusciov e l’intera stampa occidentale indicavano come suo erede designato dal maggio 1960) e il capo degli organi amministrativi del dipartimento del Comitato Centrale, il maggiore generale del KGB Nikolaj Romanovič Mironov. Anche allora il catastrofico declino del tasso di crescita dell’economia sovietica era divenuto motivo di preoccupazione.
Tuttavia, come si sa, la sera dell’11 aprile 1963, dopo un’intensa giornata di lavoro, quando Kozlov dovette dirigere una riunione del Presidium del Comitato Centrale durante le vacanze di Krusciov, fu colpito da un grave ictus. La malattia non solo mise fine alla sua carriera, ma provocò anche drastici cambiamenti al potere. Già nel giugno 1963, al Plenum del Comitato Centrale, Brežnev fu reintegrato nella Segreteria del Comitato Centrale e fu trasferito il Primo segretario del Comitato Centrale del Partito Comunista Ucraino, Podgornyj, che cedette il suo incarico al nuovo delfino di Krusciov: Pëtr Šelest. Pertanto, per la seconda volta, l’idea di sostituire Krusciov maturò solo a cavallo tra il 1963 e il 1964 in una ristretta cerchia di dirigenti, in pratica solo sei persone: Brežnev, Podgornyj, Poljanskij, Šelepin, Semičastnyi e Mironov.
Il 30 settembre 1964, lasciando Poljanskij “a guardia” del governo, e Podgornyj e Brežnev del partito, Krusciov andò in vacanza sul Mar Nero e la “cospirazione” contro di lui entrò nella fase finale. Il 12 ottobre, sotto la presidenza di Brežnev, tornato il giorno prima da Berlino, si riunì il Presidium del Comitato Centrale, durante il quale, a giudicare dagli appunti del capo del Dipartimento Generale del Comitato Centrale V.N. Malin, erano presenti quasi tutti i membri del Presidium del Comitato Centrale: Voronov, Kirilenko, Kosygin, Podgornyj, Poljanskij, Suslov e Švernik, i candidati a membri del Presidium Grišin ed Efremov e i segretari del Comitato Centrale Andropov, Demičev, Il’ičëv, Poljakov, Ponomarëv, Rudakov, Titov e Šelepin. Di conseguenza, venne stata adottata la Risoluzione del Presidium del Comitato Centrale Sulle questioni sorte riguardo al prossimo Plenum del Comitato Centrale del PCUS e sullo sviluppo di un piano economico nazionale a lungo termine per il nuovo periodo, che consisteva in tre punti:
«1) In relazione alle richieste pervenute al Comitato Centrale del PCUS riguardo ad ambiguità di importanza fondamentale emerse riguardo alle questioni previste per la discussione al Plenum del Comitato Centrale del PCUS nel novembre di quest’anno. […] si riconosce che è urgente e necessario discuterne nella prossima riunione del Presidium del Comitato Centrale del PCUS con la partecipazione del compagno Krusciov.
Si incaricano i compagni Brežnev, Kosygin, Suslov e Podgornyj di contattare telefonicamente il compagno Krusciov e di comunicargli questa decisione in vista della riunione del Presidium del Comitato Centrale il 13 ottobre 1964.
2) Considerando le numerose ambiguità che sono sorte a livello locale in seguito alla nota del compagno Krusciov del 18 luglio 1964 (n. P1130) Sulla gestione dell’agricoltura in relazione al passaggio sulla via dell’intensificazione, inviata alle organizzazioni del partito, e considerate le istruzioni confuse in essa contenute, si ritira la suddetta nota dalle organizzazioni del partito.
3) Considerando l’importanza della natura delle questioni emerse e della loro imminente discussione, si ritiene opportuno convocare i membri del Comitato Centrale del PCUS, i candidati a membri del Comitato Centrale del PCUS e i membri della Commissione Centrale di Controllo del PCUS a Mosca…».
Alla fine della riunione Brežnev chiamò Krusciov a Pitsunda e gli chiese insistentemente di interrompere le sue vacanze e di tornare urgentemente a Mosca «per discutere questioni urgenti sull’agricoltura». All’inizio Krusciov si rifiutò di interrompere le sue vacanze, ma poi, dopo essersi consultato con Mikojan, che si trovava in vacanza con lui, ordinò un aereo governativo e la mattina seguente volò a Mosca.
Quando nel pomeriggio del 13 ottobre l’aereo con a bordo Krusciov e Mikojan atterrò all’aeroporto governativo di Vnukovo, contrariamente al protocollo, furono accolti sulla rampa solo dal presidente del KGB Semičastnyj, dal segretario del Presidium delle forze armate dell’URSS Georgadze e dal capo della 9ª direzione del KGB, colonnello Čekalov. Dall’aeroporto si recarono al Cremlino, dove era già iniziata una riunione del Presidium del Comitato Centrale, durata fino al pomeriggio del 14 ottobre, cioè prima della convocazione del Plenum del Comitato Centrale, i cui membri erano arrivati a Mosca il giorno prima.
Il verbale di questo incontro non è stato conservato e il contenuto della conversazione può essere giudicato solo da un riassunto frammentario dello stesso Malin e dalle memorie di alcuni dei suoi partecipanti, tra cui Šelest, Grišin e Šelepin. A giudicare dai documenti, alla riunione erano presenti tutti i membri del Presidium e del Segretariato del Comitato Centrale, ad eccezione di Kozlov. Tuttavia, solo 14 persone presero la parola secondo un ordine prestabilito. Tutti loro, con vari gradi di emozioni, espressioni, esempi e argomenti, iniziarono ad accusare Krusciov di violare le norme e i principi leninisti della leadership collettiva, di tenere un comportamento rozzo nei confronti dei compagni dirigenti di partito, di gravi fallimenti nella politica estera e interna, di avere creato il proprio culto della personalità, di aver dato corso a infinite riorganizzazioni degli apparati statali e partitici e di altri gravi errori.
All’inizio Krusciov si comportò nel suo solito modo – sicuro di sé e arrogante – e, interrompendo di continuo gli oratori, indirizzava loro commenti sarcastici. Tuttavia gli fu presto chiaro che tutto era predeterminato, che tutti i membri della direzione agivano come un fronte unito contro di lui, e si arrese. Anche il discorso della vecchia volpe Mikojan, che propose di lasciare almeno una delle cariche a Krusciov, non aiutò ad appianare la situazione. Pertanto, piangendo teatralmente, Krusciov disse ai membri del Presidium del Comitato Centrale che non avrebbe combattuto contro di loro, non avrebbe nemmeno parlato al Plenum, si scusò per «la sua maleducazione nei confronti dei suoi compagni» e chiese loro di scrivere un lettera delle sue dimissioni con una qualsiasi motivazione adeguata. Su istruzioni del Presidium, tale dichiarazione fu immediatamente scritta da Grišin e Il’ičëv, e Krusciov la ricopiò immediatamente e la firmò.
Il 14 ottobre, due ore prima dell’inizio del Plenum del Comitato Centrale, previsto per le 18:00, venne adottata una Risoluzione del Presidium del Comitato Centrale in cui si affermava che «a causa degli errori e delle azioni scorrette del compagno Krusciov N.S. recentemente si è creata una situazione del tutto anormale nel Presidium del Comitato Centrale, che rende difficile per i membri del Presidium del Comitato Centrale l’adempimento dei loro doveri di responsabilità nella guida del partito e del paese»; che il compagno Krusciov «si mostra intollerante e scortese nei confronti dei suoi compagni del Presidium del Comitato Centrale, disprezza le loro opinioni» e ha commesso una serie di gravi errori politici nell’attuazione pratica della linea «delineata dalle decisioni dei XX, XXI e XXII Congressi del partito». E poiché, «per le qualità personali negative esistenti…, per l’età avanzata e per il peggioramento della salute il compagno Krusciov N.S. non è in grado di correggere gli errori commessi e i metodi imparziali nel suo lavoro», la sua richiesta di dimissioni da tutti gli incarichi di partito e di governo «a causa della sua età avanzata e del peggioramento della salute» dovrebbe essere accettata.
La stessa Risoluzione indicava specifiche decisioni da sottoporre al Plenum:
«1) le cariche di Primo segretario del Comitato Centrale del PCUS e di Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS non dovranno più essere cumulate;
2) raccomandare al Plenum del Comitato Centrale di eleggere alla carica di Primo segretario del Comitato Centrale del PCUS il compagno Brežnev L.I.;
3) istituire la carica di Secondo segretario del Comitato Centrale e nominare a questa carica il compagno Podgorny N.V.;
4) raccomandare al Soviet Supremo dell’URSS di nominare il compagno Kosygin A.N. alla carica di Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS;
5) incaricare, a nome del Presidium del Comitato Centrale, il compagno Suslov M.A. di svolgere una relazione al Plenum del Comitato Centrale senza aprire un dibattito su tale relazione».
La sera dello stesso giorno, il Plenum iniziò i lavori, che, a nome del Presidium, vennero aperti da Podgornyj, il quale annunciò ai membri del Comitato Centrale che all’ordine del giorno c’era un solo punto: “Sulla situazione anormale venutasi a creare nel Presidium del Comitato Centrale in relazione alle azioni scorrette del Primo segretario del Comitato Centrale del PCUS N.S. Krusciov”. Quindi Suslov lesse un ampio rapporto in cui ripeté in forma molto dettagliata l’intera serie di accuse mosse contro Krusciov nell’ultima riunione del Presidium del Comitato Centrale. Come concordato, non venne aperto alcun dibattito sul rapporto e venne adottata all’unanimità la Risoluzione del Plenum del Comitato Centrale, che conteneva solo tre punti:
«1) soddisfare la richiesta del compagno N.S. Krusciov di liberarlo dalle funzioni di Primo segretario del Comitato Centrale del PCUS, di membro del Presidium del Comitato Centrale del PCUS e di Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS a causa della sua età avanzata e del peggioramento della salute;
2) eleggere il compagno L.I Brežnev come Primo segretario del Comitato Centrale del PCUS;
3) raccomandare il compagno A.N. Kosygin per la carica di Presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS».
Evgenij Spicyn
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Evgenij Spicyn, Come fu destituito Krusciov, in «Literaturnaja gazeta», № 40 (6954), 9 ottobre 2024).
Inserito il 02/11/2024.
Nikita Sergeevič Krusciov (Chruščëv) (1894-1971).
Il rapporto segreto
di Michail Suslov
Sessant’anni fa in Unione Sovietica ebbe luogo un evento storico: per la prima volta il posto n. 1 del partito e dello Stato fu abbandonato da una persona vivente e relativamente sana: Nikita Sergeevič Krusciov (Chruščëv). Ma di cosa esattamente incolpavano Nikita Sergeevič i suoi compagni del Presidium del Comitato Centrale (come a quei tempi veniva chiamato il Politbjuro)?
I rapporti e i discorsi pubblicati allora non avevano risposto a questa domanda. Solo in seguito sono stati declassificati i documenti che mostrano un quadro reale e non ovattato della realtà sovietica della prima metà degli anni Sessanta.
Di leggere il rapporto principale sugli errori di Krusciov al Plenum del Comitato Centrale fu incaricato Michail Suslov, colui che in seguito sarebbe stato considerato il custode dell’ortodossia del partito. Lo fece il 15 ottobre 1964, quando tutto era già stato deciso e Krusciov si era dimesso. Due giorni prima Suslov aveva preparato un altro documento, intitolato Rapporto del Presidium del Comitato Centrale del PCUS al Plenum di ottobre del Comitato Centrale del PCUS (variante), che è sorprendentemente diverso da quello ufficiale. E qui tutti i veli furono strappati. Ne presentiamo alcuni stralci pubblicati sulla «Komsomol’skaja Pravda».
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«Le colpe del compagno Krusciov»
di Michail Suslov
Il compagno Krusciov, dopo aver concentrato nelle sue mani un potere illimitato, ha rivelato una totale incapacità, e persino riluttanza, a usarlo correttamente. […] Il compagno Krusciov, soprattutto negli ultimi anni, è sfuggito al controllo del Comitato Centrale del PCUS e del suo Presidium, disdegna apertamente l’opinione degli altri dirigenti del partito e del governo, ha smesso di tenere conto delle dichiarazioni dei suoi compagni, non vuole confrontarsi con nessuno… Egli attribuisce tutte le conquiste del partito e del popolo, la vittoria del corso leninista nella vita della nostra società, non al partito, ma a se stesso, alla propria persona. […] In ogni evento più o meno significativo nel nostro paese tutto deve avere il marchio “Fatto da Krusciov”.
I membri del Presidium e i segretari del Comitato Centrale erano preoccupati del fatto che il primo segretario li umiliasse regolarmente.
Se qualcuno cerca di esprimere la propria opinione, viene immediatamente tagliato fuori. Ed è diventato inutile parlare: il primo segretario farà comunque a modo suo. Tali “metodi” come grida rabbiose, comandi, insulti osceni, linguaggio volgare, sono diventati la norma costante del suo comportamento… Ha smesso di prendere in considerazione anche la decenza e le norme di comportamento basilari e usa un linguaggio volgare in modo così disgustoso che, come si suol dire, fanno male le orecchie… “Sciocco, fannullone, pigro, puzzolente, mosca sporca, pollo bagnato, merda, str…o, c…e” (espressioni riportate per esteso nell’originale, ndr): questo è solo un piccolo elenco degli insulti che usa. E quelli più popolari, ai quali ricorre molto più spesso, non possono essere accolti da nessun foglio di carta e la lingua non osa pronunciarli. Tutto ciò viene detto indiscriminatamente anche in presenza di donne.
[…]
La politica estera dell’URSS tra la fine degli anni ’50 e l’inizio degli anni ’60 del secolo scorso, secondo Krusciov, ha avuto successo. Ma non è così. In realtà il nostro Paese è stato sull’orlo della guerra nucleare per ben tre volte. […]
Ricordate la crisi di Suez. Allora eravamo sull’orlo di una grande guerra! E su quali basi avremmo dovuto combattere? Dopotutto non avevamo nemmeno un accordo di mutua assistenza con l’Egitto: non c’era nessuna richiesta di aiuto. […] Questa non è politica, è avventurismo politico, ricatto, giocoleria irresponsabile con il destino del Paese, il destino del partito, la nostra grande causa.
E la famigerata “questione di Berlino”! Quando incontro il compagno Krusciov e Kennedy a Vienna si accaldarono così tanto su questo problema che Kennedy disse: “Se continua così, il clima in Europa diventerà presto disgustoso”. Intendeva la guerra. Il compagno Krusciov presentò un ultimatum: o entro una data tale Berlino sarà una città libera, oppure nemmeno la guerra ci fermerà. Non si sa su cosa contasse. Dopotutto non esistono da noi degli sciocchi tali da pensare che sia necessario lottare “per la libera città di Berlino”.
Ora parliamo della crisi missilistica cubana. Il compagno Krusciov dichiarò compiaciuto che Stalin non era riuscito a penetrare in America Latina, mentre ci era riuscito lui. […] Chiedete a uno qualsiasi dei nostri marescialli o generali, e diranno che i piani per la penetrazione militare in Sud America sono una sciocchezza, carichi di un enorme pericolo di guerra. E se, per aiutare uno dei paesi dell’America Latina, lanciassimo per primi un attacco nucleare contro gli Stati Uniti, allora non solo ci esporremmo a nostra volta a un attacco nucleare, ma tutti si allontanerebbero da noi.
[…]
Lui stesso (Krusciov, ndr) nei suoi innumerevoli discorsi e appunti ripete all’infinito che le cose in economia stanno andando bene. Gli fanno eco la stampa, la radio e la televisione. A sentirli, sembra che il comunismo stia per arrivare…
L’anno scorso il Paese ha vissuto gravi difficoltà per quanto riguarda il pane. A questo proposito, il compagno Krusciov propose di introdurre un sistema di tessere per il razionamento. E questo vent’anni dopo la guerra! Siamo stati costretti a stanziare 860 tonnellate d’oro per acquistare grano dai Paesi capitalisti. Se l’agricoltura fosse veramente in uno stato fiorente, allora come potrebbe un fallimento del raccolto durante il “grande decennio” portarci fuori strada e sottoporre il paese ai razionamenti? Privarlo delle sue riserve di grano per la difesa contro la carestia, costringere l’Unione Sovietica, che ha sempre venduto il grano, a comprarlo con l’oro?
Gravi difficoltà con il pane, così come con il foraggio, ci hanno costretto ad abbattere un gran numero di bestiame. Di conseguenza, ora la situazione è difficile per la carne, il burro, le uova e altri prodotti.
[…]
Questi, compagni, sono i fatti. Essi mostrano chiaramente fino a che punto può arrivare una persona posseduta da un indomabile desiderio di dittatura. La ragione di questo desiderio è che il compagno Krusciov è seriamente convinto di essere il migliore, il più intelligente e il più lungimirante di tutti. Ovunque vuole svolgere un ruolo di primo piano: nell’industria pesante lui è il capo-metallurgista, in agricoltura è l’agronomo supremo e l’allevatore più esperto, in edilizia è l’architetto generale, ecc., ecc.
[…]
La stampa, e soprattutto la «Pravda» e le «Izvestija», sono diventati, per così dire, i bollettini della sua famiglia, pieni di elogi a lui rivolti. Ogni frase che dice, anche se senza senso, viene riportata sulla stampa. Ed è difficile persino determinare quanti libri e opuscoli di Krusciov siano stati pubblicati! Più precisamente si tratta di libri e opuscoli da lui solo firmati: egli, in realtà, non sa affatto scrivere.
Michail Suslov
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: A. Gamov, A. Bogomolov, Sekretnyj doklad Prezidiuma CK KPSS: Chruščëv obzyvaet tovariščej slovami «grjaznaja mucha» i «mokraja kurica», in «Komsmol’skaja Pravda», 15 ottobre 2014).
Inserito il 10/11/2024.
Il Plenum del CC del PCUS dedicato alla destituzione di Nikita Krusciov dalla carica di Primo segretario del partito.
Fonte della foto: https://lgz.ru/article/kak-snimali-khrushchyeva/
P.V. Vasil'ev, Lenin sul treno per Pietrogrado (1949).
Fonte dell’immagine: https://pikabu.ru/story/vladimir_ilich_lenin_v_proizvedeniyakh_sovetskikh_khudozhnikov_8397851
Rivoluzione
di Enzo Traverso
«Esaurita da almeno tre decenni, l’esperienza comunista non ha bisogno di essere difesa, idealizzata o demonizzata: richiede invece di essere compresa criticamente come un’esperienza segnata da tensioni e contraddizioni interne, ricca di molteplici dimensioni in un vasto spettro di colori che vanno dagli slanci salvifici alla violenza totalitaria, dalla democrazia partecipativa e la deliberazione collettiva alla cieca oppressione e lo sterminio di massa, dall’immaginazione utopica più sfrenata al dominio burocratico più ottuso, passando a volte dall’una all’altro in un breve lasso di tempo».
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Storicizzare il comunismo
di Enzo Traverso
Prima parte
[…]
Volti del comunismo
La Rivoluzione d’ottobre diede vita a due interpretazioni contrapposte: da un lato, apparve come l’annuncio di una palingenesi socialista globale; dall’altro, come il punto di partenza di un’epoca di totalitarismo. Nel 1927, Sergej Ejzenštejn realizzò Ottobre, film che plasmò l’immaginario di diverse generazioni raffigurando la rivoluzione come una sollevazione epica di massa. L’equivalente storiografico di quest’opera d’arte fu Storia della Rivoluzione russa di Trockij, una ricostruzione al contempo cronologica e analitica, in cui la narrazione empatica e variopinta del testimone si fonde con la penetrazione concettuale del teorico marxista, in una sorprendente fusione degli stili di Jules Michelet e Karl Marx. In un capitolo della sua biografia del capo dell’Armata Rossa intitolato Il rivoluzionario come storico, Isaac Deutscher ne evidenzia la capacità di cogliere le emozioni degli oppressi trasformati d’un tratto in attori politici, combinando questo “slancio immaginativo” con una “chiarezza cristallina”1. Il risultato è un libro scritto con passione e acutezza d’intelletto. Per decenni la maggior parte della sinistra – ben al di là dei movimenti comunisti ufficiali – vide la Rivoluzione d’ottobre in modo simile: l’immagine iconica di aspirazioni utopiche e la prova irrefutabile di una visione teleologica che postulava il socialismo come esito naturale della storia.
L’interpretazione opposta vede nei bolscevichi l’espressione delle potenzialità totalitarie della modernità. Dopo il consolidamento dell’Urss nella seconda metà degli anni Venti, le descrizioni iniziali di un branco di babbuini saltellanti in un campo di rovine e di scheletri – secondo la prosa colorita di Churchill – vennero abbandonate, ma il comunismo continuò a essere dipinto alla stregua di una pericolosa patologia della società. Per molti conservatori, da Isaiah Berlin a Martin Malia, da Karl Popper a Richard Pipes, si trattava di una “ideocrazia”: l’esito inevitabile della trasformazione coatta della società secondo un modello astratto e autoritario2. Per la vulgata di destra, la volontà di creare una comunità di uguali genera ineluttabilmente una società di schiavi. François Furet, da parte sua, rifiutava sia la “passione” che l’ideologia comuniste e collegava entrambe alla follia originaria della rivoluzione in sé, fissando una traiettoria lineare che andava dal Terrore giacobino al gulag sovietico: “oggi il Gulag ci porta a ripensare il Terrore, in virtù dell’identità del progetto”3.
Le versioni più radicali di queste opposte interpretazioni – il comunismo ufficiale e l’anticomunismo della Guerra fredda – finiscono per convergere in una visione comune del Partito comunista come forza demiurgica della storia. La maggior parte degli studiosi che si sono formati durante la prima fase della Guerra fredda, ha osservato ironicamente Claudio S. Ingerflom, difendeva “la versione antibolscevica di una storia ‘bolscevizzata’”4. Come nella versione sovietica, l’ideologia dominava il paesaggio e il partito appariva come il suo strumento, anche se ora la strada del paradiso era diventata un cammino verso l’inferno. Trent’anni dopo la fine del socialismo reale, solo la prima variante di questa rappresentazione simmetrica è scomparsa; la seconda resiste tenacemente e mantiene le sue posizioni. Non è più egemonica nel mondo della ricerca, ma continua a modellare in profondità gli usi pubblici del passato, dalle volgarizzazioni mediatiche alle politiche della memoria.
Storicizzare l’esperienza comunista significa perciò superare questa dicotomia fra due narrazioni – una idillica e l’altra orrifica – in fondo del tutto analoghe. Esaurita da almeno tre decenni, l’esperienza comunista non ha bisogno di essere difesa, idealizzata o demonizzata: richiede invece di essere compresa criticamente come un’esperienza segnata da tensioni e contraddizioni interne, ricca di molteplici dimensioni in un vasto spettro di colori che vanno dagli slanci salvifici alla violenza totalitaria, dalla democrazia partecipativa e la deliberazione collettiva alla cieca oppressione e lo sterminio di massa, dall’immaginazione utopica più sfrenata al dominio burocratico più ottuso, passando a volte dall’una all’altro in un breve lasso di tempo. Nel 1991, scrivendo una nuova prefazione al resoconto autobiografico della sua rottura con il Partito comunista francese, Edgar Morin propose un’interessante definizione dello stalinismo: “la fase mostruosa di una gigantesca avventura per cambiare il mondo”5. Inevitabilmente, l’incubo di questa tappa ha eclissato il resto – gettando la sua ombra su tutto il Novecento – ma l’avventura era incominciata prima ed è continuata anche dopo la caduta del socialismo reale. Storicizzare il comunismo significa quindi inscriverlo in questa “gigantesca avventura” vecchia quanto lo stesso capitalismo. Il comunismo fu un camaleonte: non può essere isolato come esperienza insulare né separato dai suoi predecessori ed eredi.
Il comunismo è scaturito dalla Rivoluzione d’ottobre, la cui traiettoria molti hanno avuto la tentazione di descrivere come la Roma imperiale di Gibbon: origine, ascesa e caduta. Tuttavia, né la sua nascita né la sua conclusione erano inevitabili, e molte delle sue svolte furono il risultato di circostanze inattese. Il suo percorso non è lineare ma fratturato, segnato da rotture e biforcazioni. Include insurrezioni dal basso e svolte radicali “dall’alto”, balzi in avanti e regressioni termidoriane che solo uno sguardo retrospettivo riesce a inserire in una singola sequenza storica. Lenin e Stalin non si assomigliavano, sottolinea Sheila Fitzpatrick, ma appartenevano allo stesso processo: “Le guerre rivoluzionarie di Napoleone possono essere incluse nel nostro concetto generale di rivoluzione, anche se non le consideriamo come l’incarnazione dello spirito del 1789; e un approccio analogo sembra legittimo nel caso della Rivoluzione russa”6. Nel libro di Fitzpatrick, la Rivoluzione russa va dal febbraio del 1917 fino alle Grandi purghe del 1936-1938. Credendo in una possibile “rigenerazione” del suo spirito originario, Isaac Deutscher estese il processo fino alla destalinizzazione del 1956. Oggi possiamo facilmente riconoscere che la sua diagnosi era errata, ma la sua percezione di un movimento in corso era condivisa da milioni di persone in tutto il mondo. La visione binaria di un bolscevismo rivoluzionario opposto a una controrivoluzione stalinista ci permette di distinguere tra violenza emancipatrice e repressione totalitaria – una differenza cruciale – ma nasconde anche i legami che li uniscono e impedisce di investigarne il nesso genetico. Altrettanto sterile, l’interpretazione conservatrice che vede una sostanziale continuità da Lenin a Gorbačev fondata sulle basi ideologiche dell’Urss non fa che riprodurre la visione apologetica e “immunitaria” dell’anticomunismo liberale: la società di mercato e la democrazia liberale come attributi essenziali di un ordine naturale mondo.
Per comprendere il comunismo come esperienza storica globale occorre distinguere tra movimenti e regimi7 senza però ignorare i loro legami: non solo i movimenti si sono trasformati in regimi, ma questi ultimi hanno mantenuto un legame simbiotico con i primi orientandone progetti e azioni. Il partito bolscevico delle origini, composto per lo più da intellettuali esuli e paria, sembra un altro universo rispetto all’enorme apparato burocratico che governò l’Urss nei decenni successivi al 1917. Erano due mondi diversi, ma molti fili li collegavano. Questa constatazione non concerne esclusivamente la storia del bolscevismo, ma piuttosto la storia del comunismo nel suo complesso, almeno durante i suoi primi decenni di vita. Mentre in Urss Stalin decideva di eliminare la vecchia guardia bolscevica (gli storici stimano fino a mezzo milione le esecuzioni nella seconda metà degli anni Trenta), i comunisti guidavano i movimenti di resistenza contro il fascismo in Europa occidentale e organizzavano una delle esperienze rivoluzionarie tra le più straordinarie del Novecento: la Lunga Marcia attraverso la Cina (1934-1935).
Come molti altri “ismi” del nostro lessico politico e filosofico, anche “comunismo” è un termine plurale che si è gravato di così ampie metamorfosi nel corso del tempo da divenire ambiguo. Inteso storicamente, appare come un insieme di vicende ed esperienze talmente diverse che il concetto risulta problematico, sfuggente. La sua ambiguità non sta esclusivamente nella discrepanza che separa l’idea comunista – elaborata in molte forme prima e dopo Marx – dalle sue incarnazioni storiche; sta nell’estrema varietà delle sue espressioni. I comunismi russo, cinese e italiano erano ovviamente dissimili, ma a lungo andare molti movimenti comunisti nazionali subirono profondi cambiamenti, benché non ripudiassero la loro matrice ideologica e talvolta conservassero gli stessi leader. Se ne consideriamo la traiettoria storica come fenomeno mondiale, il comunismo appare come un mosaico di comunismi. Se vogliamo abbozzarne “l’anatomia”, potremmo distinguere almeno quattro forme principali, collegate e non necessariamente opposte l’una all’altra ma sufficientemente diverse da essere riconoscibili come sé stanti: la rivoluzione; il regime; l’anticolonialismo, e infine la socialdemocrazia, ossia il comunismo inteso come una variante della socialdemocrazia classica. La Rivoluzione d’ottobre è stata la loro matrice comune. Ciò non significa affatto che tutte queste forme abbiano un’origine russa, poiché lo stesso bolscevismo era una sintesi di diverse idee ed esperienze europee. Ma significa che tutte le forme del comunismo novecentesco furono legate alla Rivoluzione russa, la grande solta storica in cui trovarono tutte un punto di partenza (e in molti casi anche un epilogo).
Rivoluzione
La rivoluzione è un processo, spiega Sheila Fitzpatrick, ma la visione del comunismo come rivoluzione si focalizza soprattutto sul suo momento inaugurale evidenziandone il carattere di cesura. La rivoluzione è il momento in cui gli individui fanno la propria storia, in cui gli oppressi diventano soggetti, rovesciano il vecchio ordine sociale e politico e lo sostituiscono con uno nuovo. La rivoluzione è una rottura del continuum della storia, quando la linearità di un tempo “omogeneo e vuoto” è violentemente spezzata, aprendo così nuovi orizzonti e proiettando la società in un futuro da inventare. Potremmo chiamarla la fase ejzenštejniana del comunismo. Ottobre non è una ricostruzione storica della Rivoluzione russa, ma un capolavoro che ne cattura lo slancio emancipatore. La rivoluzione ha a che fare con rapporti di forza, tattiche e strategie, movimenti, leadership, ma riguarda anche aspirazioni, slanci, rabbia, risentimento, felicità, comunanza, utopie e memoria. In breve, è un momento in cui la politica appare improvvisamente inondata di sentimenti ed emozioni. È un’eruzione di comunanza che si contrappone in modo stridente al modello di società proposto dal liberalismo classico: uno spazio occupato da individui isolati e in competizione tra loro, uniti dal tessuto comune del mercato. In queste circostanze, i leader sono spinti in avanti e orientati da nuove forme di azione collettiva. Sembra quasi che si limitino a registrare e formalizzare le decisioni di un potere costituente che sale dal basso. Questo stato d’animo ha creato un’immagine iconica che, sopravvissuta alle vicissitudini dell’Urss, ha gettato la sua ombra sull’intero Novecento. La sua aura ha raggiunto milioni di persone in tutto il mondo e ha mantenuto la sua forza di attrazione anche quando il magnetismo dei regimi comunisti era completamente svanito. Negli anni Sessanta e Settanta, quest’aura ha alimentato una nuova ondata di rivolta che non solo rivendicava la propria autonomia dall’Urss e dai suoi alleati, ma li vedeva addirittura come nemici.
La Rivoluzione russa emerse dalla Grande Guerra. Fu un prodotto del collasso del “lungo XIX secolo” – l’epoca della “pace dei cent’anni”, per dirla con Karl Polanyi –e questo nesso simbiotico tra guerra e rivoluzione ha plasmato l’intera traiettoria del comunismo novecentesco. Emergendo dalla Guerra franco-prussiana del 1870, la Comune di Parigi aveva prefigurato la politica militarizzata, come spesso hanno sottolineato molti pensatori bolscevichi, ma la Rivoluzione d’ottobre la estese su una scala incomparabilmente più ampia: la Guardia Nazionale non era l’Armata Rossa e i venti distretti della capitale francese non possono certo essere paragonati all’Impero zarista. La Prima guerra mondiale trasformò il bolscevismo stesso, che cambiò molti dei suoi tratti: alcune opere canoniche della tradizione comunista come La rivoluzione proletaria e il rinnegato Kautsky (1918) di Lenin o Terrorismo e comunismo (1920) di Trockij sarebbero state semplicemente inconcepibili prima del 1917. Proprio come il 1789 introdusse un nuovo concetto di rivoluzione – non più una rotazione astronomica ma piuttosto una rottura sociale e politica – l’Ottobre 1917 lo riformulò in termini militari: crisi del vecchio ordine, mobilitazione di massa, dualismo di potere, insurrezione armata, dittatura proletaria e guerra civile per scongiurare una restaurazione. Stato e rivoluzione (1917) di Lenin formalizzò il bolscevismo come ideologia (una reinterpretazione delle idee di Marx) ma anche come unità di norme strategiche che lo distinguevano dal riformismo socialdemocratico, una politica che apparteneva all’epoca ormai esaurita del liberalismo ottocentesco. Il bolscevismo era nato in un periodo di brutalizzazione crescente, quando la guerra fece irruzione nella politica cambiandone il linguaggio e le pratiche. Fu un prodotto della “trasformazione antropologica”, per usare le parole di George L. Mosse, generata dalla Grande Guerra8. Questo codice genetico del bolscevismo era visibile ovunque, dai testi ai linguaggi, dall’iconografia alle canzoni, dai simboli ai rituali. Sopravvisse alla Seconda guerra mondiale e continuò ad alimentare i movimenti di contestazione degli anni Settanta, i cui slogan e riti sottolineavano ossessivamente l’idea di uno scontro violento con lo Stato. Il bolscevismo aveva creato un paradigma militare della rivoluzione che plasmò in profondità mentalità e culture politiche. La Resistenza europea, come anche le trasformazioni socialiste in Cina, Corea, Vietnam e Cuba, riprodussero questo legame simbiotico tra guerra e rivoluzione. Perciò il movimento comunista internazionale fu concepito come un esercito rivoluzionario formato da milioni di combattenti, e ciò ebbe conseguenze inevitabili in termini di organizzazione, disciplina, divisione del lavoro e, inevitabilmente, gerarchie di genere. In un movimento di guerrieri le donne potevano solo eccezionalmente svolgere un ruolo dirigente. Nemmeno Gramsci, quando tentò di mettere in discussione questo paradigma ripensando la rivoluzione in Occidente, riuscì a evitare di formulare il suo pensiero entro una cornice teorica militare in cui distingueva tra “guerra di posizione” e “guerra di movimento”9. Questa svolta ha lasciato tracce visibili nello stile, nelle forme estetiche e persino nell’abbigliamento. Sarebbe difficile immaginare Marx o Rosa Luxemburg in tenuta di combattimento. Durante gli anni di esilio a Vienna, prima della Grande Guerra, Trockij vestiva come un elegante letterato; dopo il 1917 vestiva l’uniforme. Aver guidato una rivoluzione dava diritto a indossare una divisa, come illustrano tante immagini di Ho Chi Minh, Mao Zedong, Stalin, Fidel Castro e Che Guevara.
I bolscevichi erano profondamente profondamente convinti di agire secondo le “leggi della storia”. Il terremoto del 1917 nacque dall’intreccio di molti fattori, alcuni dei quali appartenevano strutturalmente alla storia russa mentre altri erano più contingenti, sincronizzati d’un tratto dalla guerra: un’insurrezione contadina estremamente violenta contro l’aristocrazia fondiaria, una rivolta del proletariato urbano colpito dalla crisi economica e infine lo scompiglio di un esercito fatto di contadini-soldati, spossati dopo tre anni di un terribile conflitto che non comprendevano e di cui non vedevano approssimarsi la fine. Se queste furono le premesse della Rivoluzione russa, è difficile cogliere in essa una presunta necessità storica. L’esperimento sovietico fu fragile, precario e instabile durante i suoi primi anni di esistenza. Era continuamente minacciato e la sua sopravvivenza richiedeva energie inesauribili unite a enormi sacrifici. Testimone di quegli anni, Victor Serge scrisse che nel 1919 i bolscevichi consideravano probabile il collasso del regime sovietico, ma invece di scoraggiarli questa consapevolezza moltiplicava le loro energie e rafforzava la loro tenacia. La vittoria della controrivoluzione sarebbe stata un immenso bagno di sangue10. Forse la loro resistenza fu possibile perché erano animati dalla profonda convinzione di agire in accordo con le “leggi della storia”, ma in realtà non seguirono alcuna tendenza naturale; stavano inventando un nuovo mondo, senza sapere cosa sarebbe uscito fuori dal loro tentativo, ispirati da un immaginario utopico incredibilmente potente e certo incapaci di prevederne l’esito totalitario.
Malgrado il consueto ricorso al lessico positivista delle “leggi della storia”, i bolscevichi avevano ereditato la loro concezione militare della rivoluzione dalla Grande Guerra. Il Comitato militare rivoluzionario di Pietrogrado che depose il governo provvisorio la notte del 25 ottobre 1917 era formato da militari, e la terribile guerra civile che dissanguò l’ex impero zarista tra il 1918 e il 1921 fu un’estensione della guerra che era scoppiata nell’estate del 1914. In molti casi queste guerre furono condotte dagli stessi eserciti, dagli stessi generali e dagli stessi soldati. I rivoluzionari russi avevano letto Clausewitz e si erano nutriti delle interminabili controversie sull’eredità del blanquismo e l’arte dell’insurrezione, ma la violenza della Rivoluzione russa non sorse da un impulso ideologico; derivò da una società brutalizzata dalla guerra. Questo trauma genetico ebbe profonde conseguenze. La guerra aveva rimodellato la politica cambiandone i codici, introducendo forme prima sconosciute di autoritarismo. Nel 1917 caos e spontaneità erano ancora prevalenti in un partito di massa composto per la maggior parte da nuovi membri e guidato da un gruppo di esuli appena rientrati in patria, ma l’autoritarismo si consolidò rapidamente durante la guerra civile. Lenin e Trockij rivendicavano l’eredità della Comune di Parigi del 1871, ma aveva ragione Julij Martov quando notava che il loro vero antenato era il Terrore giacobino del 1793-179411.
D’altra parte, il paradigma militare della rivoluzione non va confuso con un culto cieco della violenza. Nella sua Storia della Rivoluzione russa, Trockij propone solidi argomenti contro la tesi, ampiamente diffusa a partire dagli anni Venti, di un “colpo di stato” bolscevico. Rifiuta l’ingenuità della visione idillica della presa del Palazzo d’Inverno come rivolta popolare spontanea e dedica molte pagine alla metodica preparazione di un’insurrezione che richiedeva, ben al di là di un’efficace organizzazione militare, un’attenta valutazione delle condizioni politiche e dei tempi d’esecuzione. Il risultato fu lo scioglimento del governo provvisorio e l’arresto dei suoi membri – Kerenskij era già fuggito – quasi senza spargimento di sangue. La disintegrazione del vecchio apparato statale e la costruzione di uno nuovo furono un parto assai doloroso durante più di tre anni di guerra civile. Ovviamente l’insurrezione richiedeva una preparazione tecnica e fu messa in atto da una minoranza, ma ciò non equivale a un “complotto”. “Per il suo significato storico e per i suoi metodi,” scrisse Trockij criticando un luogo comune diffuso da Curzio Malaparte, un’insurrezione “è profondamente diversa da un colpo di Stato di cospiratori operanti all’insaputa delle masse”12. Non c’è dubbio che la presa del Palazzo d’Inverno e lo scioglimento del governo provvisorio segnarono una svolta nel processo rivoluzionario: Lenin lo chiamò un “rovesciamento” o una “sollevazione” (perevorot)13. Tuttavia, la maggior parte degli storici riconosce che questa svolta ebbe luogo in un periodo di straordinaria effervescenza, caratterizzato da una mobilitazione permanente della società e dal costante ricorso all’uso della forza, in un contesto paradossale in cui la Russia, mentre rimaneva impegnata in una guerra mondiale (il trattato di pace con la Germania fu firmato a Brest-Litovsk soltanto nel marzo del 1918), era uno Stato che non possedeva più il monopolio dell’uso legittimo della violenza. I più accaniti storici anticomunisti come Martin Malia e Richard Pipes hanno scritto libri sulla storia della “Rivoluzione russa”, anche se la interpretano come un “colpo di stato”. Una delle premesse della svolta d’ottobre 1917 fu il fallimento, nel mese di agosto, del golpe del generale Kornilov, che Trockij analizza come incarnazione di una forma abortita di bonapartismo russo. Vladimir Antonov-Ovseenko, capo militare dell’assalto al Palazzo d’Inverno, non era un generale ma un intellettuale ritornato in Russia nella primavera del 1917 dopo anni di esilio.
Paradossalmente, la tesi del “colpo di stato” bolscevico è il punto d’incontro fra le critiche conservatrice e anarchica della Rivoluzione d’ottobre. Le loro motivazioni sono certo diverse – per non dire diametralmente opposte – ma le loro conclusioni convergono: Lenin e Trockij avevano instaurato una dittatura. Emma Goldman e Alexandr Berkman, che nel 1919 erano stati espulsi dagli Stati Uniti a causa del loro sostegno entusiasta alla Rivoluzione russa, non sopportavano il potere bolscevico e, dopo la repressione della rivolta di Kronštadt nel marzo del 1921, decisero di ritornare in America. Emma Goldman pubblicò La mia disillusione in Russia (1923) e Alexandr Berkman Il mito bolscevico (1925), la cui conclusione esprime un giudizio amaro e severo:
Grigi passano i giorni. Una dopo l’altra le braci della speranza si sono spente. Il terrore e il dispotismo hanno schiacciato la vita nata in ottobre. Gli slogan della rivoluzione vengono rinnegati, i suoi ideali soffocati nel sangue del popolo. Il respiro di ieri condanna ora a morte milioni di persone; l’ombra di oggi incombe sul paese come una nera coltre. La dittatura calpesta le masse. La rivoluzione è morta; il suo spirito grida nel deserto.14
Senza dubbio le loro critiche meritano attenzione, soprattutto tenendo conto che provengono dall’interno della rivoluzione stessa. La loro diagnosi è impietosa: i bolscevichi hanno stabilito una dittatura di partito che governa non solo in nome dei soviet ma a volte – come a Kronštadt – contro di loro, e i cui tratti autoritari sono diventati sempre più soffocanti, In realtà nemmeno i bolscevichi contestavano questa caustica valutazione. In L’Anno primo della Rivoluzione russa (1930) Victor Serge così descrive l’Urss durante la Guerra civile:
Il partito svolge in questo momento nella classe operaia le funzioni del cervello e del sistema nervoso, egli vede, sente, sa, pensa, vuole per le masse e per mezzo di esse; la sua coscienza e la sua organizzazione suppliscono alla debolezza degli individui nella massa. Senza di lui questa non sarebbe che un polverone d’uomini dalle aspirazioni confuse attraversate da bagliori d’intelligenza – che si perderebbero in mancanza di una guida capace di portarli all’azione su vasta scala – ma dalle sofferenze imperiose […]. Per il suo dinamismo e per la sua incessante propaganda, dicendo sempre la cruda verità, il partito innalza i lavoratori al di sopra del loro ristretto orizzonte individuale e rivela loro le vaste prospettive della storia. Tutti gli oneri si concentrano su di lui, tutte le forze si concentrano in lui. A partire dall’inverno 1918-19, la rivoluzione diventa l’opera del partito comunista.15
L’elogio della dittatura bolscevica, della militarizzazione del lavoro, del linguaggio violento contro qualsiasi critica del potere proveniente da sinistra – che fosse socialdemocratica o anarchica – fu certamente ripugnante e pericoloso. Durante la Guerra civile nacquero le premesse dello stalinismo. Resta il fatto che un’alternativa di sinistra credibile non apparve mai all’orizzonte. Come lo stesso Serge riconobbe con lucidità, l’alternativa più probabile al bolscevismo era il terrore controrivoluzionario. Come scrive senza giri di parole Alexander Rabinowitch, il terrore era “il prezzo della sopravvivenza”16. Senza essere un colpo di Stato, la Rivoluzione d’ottobre significò la presa del potere da parte di un partito che rappresentava una minoranza e che rimase ancor più isolato dopo la sua decisione di dissolvere l’Assemblea costituente. Alla fine della Guerra civile russa, tuttavia, i bolscevichi avevano conquistato la maggioranza, divenendo così la forza egemonica in un paese in rovine. Questo cambio drammatico non avvenne grazie alla Čeka e al terrore, per quanto questo fosse spietato, ma grazie alla divisione tra i loro nemici, al sostegno della classe operaia e al fatto che sia i contadini che le nazionalità non russe passarono dalla loro parte. Se l’esito finale fu la dittatura di un partito rivoluzionario, l’alternativa non era un regime democratico; la sola alternativa era una dittatura militare di nazionalisti russi, latifondisti aristocratici e pogromisti17.
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Enzo Traverso
(Tratto da: Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 338-347).
Note
1 Isaac Deutscher, Il profeta esiliato. Leone Trostky 1929-1940, trad. it. di Maria Eugenia Morin, Longanesi, Milano 1965, p. 305.
2 Ultimo di una lunga tradizione, Martin Malia scrive: “nel mondo creato da Ottobre, prima ancora che a una società, si aveva a che fare invece con un regime ideocratico”, The Soviet Tragedy: A History of Socialism in Russia, 1917-1991, Free Press, New York 1994, p. 8. Richard Pipes attribuisce alla rivoluzione i caratteri della contaminazione di un “virus” ideologico: La Rivoluzione russa. Dall’agonia dell’ancien régime al terrore rosso, Mondadori, Milano 1995, vol. 1, cap. 4.
3 François Furet, Critica della Rivoluzione francese, trad. it. di Silvia Brilli Cattarini, Laterza, Roma-Bari 1980, p. 17.
4 Claudio Sergio Ingerflom, De la Russie à l’URSS, in Le siècle des communismes, a cura di Michel Dreyfus, Éditions de l’Atelier, Paris 2000, p. 121.
5 Edgar Morin, “Préface”, Autocritique, cit., p. 7.
6 Sheila Fitzpatrick, The Russian Revolution, Oxford University Press, New York 1994, p. 3 (La Rivoluzione russa, trad. it. di Chiara Continisio, Sansoni, Firenze 1997).
7 Il primo studioso a suggerire questa distinzione è stato Renzo De Felice in una celebre intervista con Michael A. Ledeen: Intervista sul fascismo, Laterza, Bari 1975.
8 Sulla Prima guerra mondiale come matrice di violenza nella “Guerra civile europea” si veda Enzo Traverso, A ferro e fuoco. La guerra civile europea (1914-1945), il Mulino, Bologna 2008. Sulla brutalizzazione della politica, cfr. George L. Mosse, Le guerre mondiali. Dalla tragedia al mito dei caduti, trad, it. di Giovanni Ferrara degli Uberti, Laterza, Bari-Roma 1990; e, per il contesto russo, Peter Holquist, Making War, Forging Revolution: Russia’s Continuum of Crisis, 1914-1921, Harvard University Press, Cambridge 2002.
9 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, cit., vol. III, pp. 1613-1616; vol. II, pp. 865-867 e 801-802.
10 Victor Serge, L’Anno primo della rivoluzione russa, trad. it. di Giorgio Migliardi, Einaudi, Torino 1967.
11 Secondo Martov, “se Lenin, Trockij e Radek, alla ricerca di analogie storiche, avessero manifestato maggiore dimestichezza con la storia minore tendenza a scivolare sulla superficie dei fenomeni, avrebbero fatto risalire la genealogia dei soviet non alla Comune del 1871, ma appunto alla Comune del 1793-94, concentrato di energia rivoluzionaria e di potere rivoluzionario degli strati di popolazione più vicini al proletariato odierno”. Si veda Julius Martov, Bolscevismo mondiale. La prima critica marxista del leninismo al potere, trad. it. di Fiorenza Caselli, introduzione di Vittoria Strada, Einaudi, Torino 1980 [1919], p. 65.
12 Lev Trockij, Storia della Rivoluzione russa, cit., vol. 2, pp. 1191 e 1331 per l’allusione a Malaparte. Si veda Curzio Malaparte, Tecnica del colpo di Stato, trad. it. a cura di Giorgio Pinotti, Adelphi, Milano 2011.
13 Questo era un termine comune usato dai bolscevichi per definire la Rivoluzione d’ottobre.
14 Alexander Berkman, The Bolshevik Myth: Diary 1920-1922, introduzione di Nicolas Walter, Pluto Press, London 1989, p. 319. Si veda anche Emma Goldman, La mia disillusione in Russia, in Gli anarchici nella rivoluzione russa, a cura di Paul Avrich, La Salamandra, Milano 1976, pp. 210-212.
15 Victor Serge, L’Anno primo della Rivoluzione russa, cit., p. 354.
16 Alexander Rabinowitch, The Bolsheviks in Power: The First Year of Soviet Rule in Petrograd, Indiana University Press, Bloomington 2007, cap. 15 Sul “colpo di mano” dell’Ottobre 1917, si veda Marcello Flores, La forza del mito, cit., pp. 58-59.
17 Si veda Ronald Grigor Suny, Red Flag Unfurled: History, Historians, and the Russian Revolution, Verso, London 2017, p. 295. Per un bilancio storiografico, si veda tutto il cap. 6: “Breaking Eggs, Making Omelets: Violence and Terror in Russia’s Civil War, 1918-1922”.
Inserito il 20/10/2024.
di Enzo Traverso
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di Enzo Traverso
Seconda parte
Regime
Il regime comunista istituzionalizzò questa dimensione militare della rivoluzione. Cancellò lo spirito creativo, libertario e au to-emancipatore del 1917 e orientò il processo avviato in quell’anno cruciale, ma ne fu a suo modo un prolungamento, certo segnato da mille contraddizioni. Cancellò lo spirito rivoluzionario ma non significò affatto un ritorno al passato. Il passaggio della rivoluzione al regime sovietico attraversa diverse fasi: la guerra civile (1918-1921), la collettivizzazione dell’agricoltura (1930-1933) e le purghe politiche dei processi di Mosca (1936-1938). Sciogliendo l’Assemblea costituente nel dicembre del 1917, i bolscevichi affermarono la superiorità della democrazia sovietica su quella parlamentare, ma alla fine della guerra civile la democrazia sovietica era già virtualmente estinta. Durante questo atroce e sanguinoso conflitto l’Urss introdusse la censura, soppresse il pluralismo politico al punto di abolire le tendenze all’interno dello stesso Partito comunista, militarizzò le fabbriche, creò i primi campi di lavoro coatto e istituì una nuova polizia politica (la Čeka). Nel marzo del 1921, la violenta repressione della rivolta di Kronštadt segnò simbolicamente la fine della democrazia sovietica e l’Urss emerse dalla Guerra civile come la dittatura di un partito unico. Dieci anni dopo, la collettivizzazione dell’agricoltura pose brutalmente fine alla rivoluzione contadina, avviò un processo di modernizzazione burocratica e centralizzata del paese e mise in atto le prime forme di violenza totalitaria. Nella seconda metà degli anni Trenta, le purghe politiche eliminarono fisicamente le ultime tracce del bolscevismo rivoluzionario e disciplinarono l’intera società istituendo un sistema di terrore. Per due decenni, l’Urss conobbe un gigantesco sistema di campi di concentramento. Tra la collettivizzazione e i processi di Mosca, la rivoluzione culturale che si era diffusa dopo il 1917 fu brutalmente schiacciata; l’avanguardia estetica fu ridotta all’obbedienza e il realismo socialista divenne la dottrina sovietica ufficiale in letteratura e nelle arti, mentre il nazionalismo russo fu ripristinato in tutte le repubbliche dell’Urss. Lo stalinismo fu il risultato di queste trasformazioni.
A partire dalla metà degli anni Trenta, l’Urss corrispondeva grosso modo alla classica definizione del totalitarismo: una correlazione di ideologia ufficiale, leadership carismatica, dittatura del partito unico, soppressione dello stato di diritto e del pluralismo politico, monopolio di tutti i mezzi di comunicazione attraverso la propaganda di Stato, terrore diffuso attraverso un sistema capillare di campi di concentramento, e infine instaurazione di un’economia centralizzata18. Questa descrizione, usata ritualmente per mostrare le somiglianze tra comunismo e fascismo, non è errata ma è estremamente superficiale. Volendo anche tralasciare le enormi differenze che separano le ideologie comunista e fascista, nonché il contenuto sociale dei loro sistemi politici, resta il fatto che questa definizione canonica del totalitarismo non coglie la dinamica interna del regime sovietico. Detto in altri termini, non lo inserisce nel processo storico della Rivoluzione russa: raffigura l’Urss come un sistema statico e monolitico, quando invece l’avvento dello stalinismo significò una profonda e prolungata trasformazione della società e della cultura.
Altrettanto inadeguata è la definizione dello stalinismo come controrivoluzione burocratica o rivoluzione “tradita”. Lo stalinismo significò certamente un distacco radicale da qualsiasi idea di democrazia e auto-emancipazione, ma non fu certo una controrivoluzione. Un confronto con l’impero napoleonico è non soltanto pertinente ma per molti versi illuminante. Lo stalinismo rivendicava con orgoglio la sua filiazione nei confronti sia dell’illuminismo che della storia russa (quindi implicitamente della tradizione imperiale), ma non fu la restaurazione del regime anteriore, né dal punto di vista politico né da quello economico e nemmeno da quello culturale o simbolico. Lo stalinismo apparteneva al processo della Rivoluzione russa, suggerisce Stephen Kotkin, perché il suo progetto era la costruzione di una nuova civiltà:
Il bolscevismo dev’essere visto non solo come un insieme di istituzioni, un gruppo di personalità o un’ideologia, ma come un insieme di simboli potenti e di atteggiamenti, un linguaggio e nuove forme di parola, nuovi modi di comportarsi in pubblico e in privato, perfino nuovi stili di abbigliamento – in breve, come un’esperienza in corso attraverso la quale era possibile immaginare e impegnarsi a costruire una nuova civiltà chiamata socialismo.
Sulla scia del bolscevismo, continua Kotkin, “lo stalinismo non era solo un sistema politico, e ancor meno il dominio di un individuo. Era un insieme di valori, un’identità sociale, uno stile di vita”19. Lungi dal ripristinare il potere della vecchia aristocrazia, lo stalinismo creò un’élite economica, manageriale, scientifica e intellettuale completamente nuova, reclutata in seno alle classi inferiori della società sovietica – inclusi i contadini – e educata da nuove istituzioni comuniste. Questa è la chiave per spiegare il consenso sociale di cui godette lo stalinismo, malgrado il terrore e le deportazioni di massa20. Secondo Boris Groys, lo stalinismo dispiegò lo slancio creativo della rivoluzione perfino in campo estetico, nonostante le sue forme totalitarie. Perciò sarebbe sbagliato ridurre il realismo socialista a una semplice forma di neoclassicismo. La cultura staliniana, suggerisce Groys
continua a guardare al futuro, come l’avanguardia. È proiettiva e non mimetica. Rappresenta una visualizzazione del sogno collettivo di un mondo e di un uomo nuovi, e non il prodotto del temperamento individuale di un singolo artista. Non si chiude nel museo, ma cerca di agire sulla vita. Insomma: non la si può assolutamente definire un mero fenomeno “regressivo”, precedente all’avanguardia.21
Interpretare lo stalinismo come una fase del processo della Rivoluzione russa non significa neppure tracciarne un percorso lineare. La prima ondata di terrore – con ragione paragonabile al terrore giacobino del 1794 – ebbe luogo durante la Guerra civile, quando l’esistenza dell’Urss stessa era minacciata da una coalizione internazionale. La brutalità della controrivoluzione bianca, l’estrema violenza della sua propaganda e delle sue pratiche – pogrom e massacri – spinsero i bolscevichi a istituire una dittatura spietata. Stalin diede inizio alla seconda e terza ondata di terrore durante gli anni Trenta – la collettivizzazione e le purghe – in un paese pacificato i cui confini erano stati internazionalmente riconosciuti e il cui potere politico non era minacciato né da forze interne né dall’esterno. Ovviamente, l’ascesa al potere di Hitler in Germania rese evidente la possibilità di una nuova guerra a medio termine, ma il carattere massiccio, cieco e irrazionale della violenza di Stalin indebolì significativamente l’Urss invece di rafforzarla ed equipaggiarla per affrontare questo pericolo. Lo stalinismo fu una “rivoluzione dall’alto”, una miscela paradossale di modernizzazione e regressione sociale, il cui risultato finale furono le deportazioni di massa e i campi di concentramento, un insieme di processi che esumavano le fantasie dell’Inquisizione e un’ondata di esecuzioni di massa che decapitò lo Stato, il partito e l’esercito. Nelle aree rurali lo stalinismo significò, secondo Bucharin, il ritorno allo “sfruttamento militar-feudale” dei contadini con effetti economici catastrofici22. Perciò appare alquanto discutibile la visione apologetica di Stalin, suggerita da Eric Hobsbawm, come dittatore che si dovette adattare alle condizioni storiche di una classe contadina la cui mentalità ricordava quella delle plebi europee dell’anno mille23. Mentre i kulaki morivano di fame in Ucraina, il regime sovietico stava trasformando decine di migliaia di contadini in tecnici e ingegneri. In breve, il totalitarismo sovietico mescolò modernismo e barbarie; fu una tendenza prometeica peculiare, spaventosa e totalitaria. Sulla scia di Isaac Deutscher, Arno Mayer lo definisce “un amalgama ineguale e instabile di conquiste monumentali e crimini mostruosi”24. Possiamo certo condividere il giudizio di Victor Serge sulla linea morale, filosofica e politica che separa radicalmente lo stalinismo dal socialismo autentico, poiché l’Urss di Stalin era diventata “uno Stato totalitario, castocratico, assoluto, ebbro della sua potenza, per cui l’uomo non conta”, ma ciò non cambia il fatto, perfettamente riconosciuto dallo stesso Serge, che questo totalitarismo rosso faceva parte di un processo storico nato con la Rivoluzione d’ottobre25. Evitando un approccio teleologico, si potrebbe osservare che questo risultato non era storicamente ineluttabile (né coerentemente inscritto in un modello ideologico marxista). E tuttavia le origini dello stalinismo non possono essere semplicemente imputate, come suggerisce il funzionalismo radicale, alle circostanze storiche della guerra e dell’arretratezza sociale di un enorme paese con un passato assolutista, un paese che non avrebbe potuto evitare le sofferenze di una “accumulazione socialista primitiva” simile a quella conosciuta dal capitalismo un secolo prima26. Durante la Guerra civile russa, l’ideologia bolscevica ebbe un ruolo significativo in questa metamorfosi da uno slancio democratico a una dittatura spietata e totalitaria. La sua visione normativa della violenza come “levatrice della storia” e la sua colpevole indifferenza verso la costruzione giuridica di uno Stato rivoluzionario, storicamente transitorio e destinato a estinguersi, favorirono indubbiamente la nascita di un regime autoritario a partito unico. Molteplici fili uniscono la rivoluzione allo stalinismo, così come l’Urss ai movimenti comunisti in tutto il mondo. Lo stalinismo fu un regime totalitario ma anche, per diversi decenni, la corrente egemonica della sinistra su scala internazionale.
Non è inutile sottolineare la natura particolare dello stalinismo. Le modalità con cui disciplinò l’intera società sovietica e soffocò libertà e democrazia costituivano senza dubbio una forma di totalitarismo, ma questo non presentava molte affinità con il fascismo o con il nazionalsocialismo: nonostante le loro somiglianze superficiali e l’opposizione di entrambi alla democrazia liberale, la loro base sociale, la loro ideologia e i loro obiettivi erano diametralmente opposti. Se prendiamo in considerazione le loro strutture economiche (socialismo contro capitalismo) e il loro contesto filosofico (illuminismo contro Gegenaufklärung o modernismo reazionario), parlare di un unico Giano totalitario con due facce diverse – comunista e fascista – non ha senso. La Seconda guerra mondiale fu un test significativo della distanza che separava queste società e i loro regimi politici. Nel febbraio del 1942 Isaac Deutscher, uno storico marxista polacco con un incontestabile pedigree antistalinista, scrisse queste parole sull’aggressione nazista dell’Urss:
Dobbiamo comprendere una fondamentale verità sulla guerra tra Germania e URSS: la resistenza eroica degli operai e contadini russi è la dimostrazione della vitalità della società rivoluzionaria. Gli operai e contadini russi stanno difendendo tutto ciò che, malgrado varie deformazioni, è rimasto della rivoluzione: un’economia senza capitalisti e proprietari terrieri. Essi difendono ciò che considerano la loro patria socialista – e qui l’accento cade sull’aggettivo non meno che sul sostantivo. Essi la difendono non a causa, ma nonostante i privilegi che la nuova burocrazia ha usurpato per sé stessa; non a causa, ma nonostante il regime totalitario con il suo GPU [la polizia politica], i campi di concentramento, il culto del leader e le terribili purghe.27
Gli studiosi del fascismo sono pressoché unanimi nel sottolineare che l’entrata in guerra dell’Italia nel 1940 fu l’inizio del declino di Mussolini. Quando il fascismo cadde, nell’estate del 1943, un ampio settore della società italiana l’aveva già abbandonato, era diventato antifascista e ben presto una consistente minoranza si sarebbe unita alla Resistenza. In Germania, Stalingrado distrusse il mito del “Regno millenario” e i civili sostennero il regime hitleriano fino al suo collasso semplicemente a causa terrore nazista e della paura diffusa tra la popolazione dai continui bombardamenti alleati. In Urss, la Grande guerra patriottica non fu una leggenda. Nonostante l’esagerazione e le menzogne della propaganda stalinista, essa rispecchiava una mobilitazione generale della società contro l’invasione. È sufficiente mettere a confronto le cronache di guerra di Curzio Malaparte e di Vasilij Grossman, ai due lati opposti del fronte orientale, per comprendere il significato antinomico che i combattenti davano al loro impegno – sterminio e resistenza – in un conflitto in cui era in gioco l’umanità stessa28. È sufficiente mettere a confronto l’atteggiamento di artisti e intellettuali nei due campi: da un lato, la mescolanza di cinismo, rassegnazione e disgusto con cui, attraverso metafore e allusioni, Carl Schmitt ed Ernst Jünger descrivevano nella loro corrispondenza il “nichilismo” e il paesaggio apocalittico à la Hieronymus Bosch della guerra nazista in Ucraina nel 194229; dall’altro, l’intensa emozione e lo spirito combattivo con cui, nell’agosto del 1942, nel mezzo di una città assediata e affamata, i cittadini sovietici assistettero alla Sinfonia di Leningrado di Šostakovič30. Secondo Anne Applebaum, la guerra sollevò un’ondata di patriottismo persino tra i prigionieri dei gulag. A molti di loro fu permesso di arruolarsi nell’Armata Rossa e altri protestavano per non essere stati inviati a combattere. Nei campi nazisti, al contrario, le notizie dei bombardamenti sulle città tedesche erano ricevute come una fonte di speranza. Per quanto inumano e letale, il gulag era profondamente diverso da Buchenwald o Auschwitz. Nonostante la loro grande varietà, i campi sovietici non erano concepiti come centri di sterminio ma piuttosto come luoghi di “rieducazione” e di lavoro forzato. Anne Applebaum nota il “bizzarro paradosso” dei campi sovietici che ”a poco a poco portava[no] la ‘civiltà’, se così si può chiamare, in remote zone disabitate”31. Per quanto specifichi che “il gulag era in primo luogo un’istituzione penale, e solo in secondo luogo un’istituzione produttiva”, Steven A. Barnes sottolinea che esso svolse un ruolo cruciale nella trasformazione sociale del paese:
Il gulag diede un contributo considerevole, anche se assai gravoso, all’economia sovietica dagli anni Trenta fino agli anni Cinquanta. I lavoratori del gulag completarono enormi progetti di costruzione come i canali che univano il Mar Bianco al Mar Baltico e il Volga alla Moscova, aprirono miniere d’oro lungo la Kolima all’estremo orientale del paese, costruirono linee ferroviarie in tutta l’Unione Sovietica, tagliarono alberi in Siberia, produssero petrolio e carbone in luoghi come Vorkuta, Noril’sk e Karaganda, e fecero funzionare vaste aziende agricole in Siberia e Karaganda.32
Per vent’anni i prigionieri dei gulag costruirono strade, ferrovie, centrali elettriche, fabbriche e perfino città. La loro oppressione e il loro sfruttamento erano senza dubbio brutali – una forma moderna di schiavitù – ma non erano fondati su premesse ideologiche razziste e il loro scopo finale non era lo sterminio. Perfino un conservatore lucido come Raymond Aron comprese la differenza che esiste fra un sistema totalitario che sfocia nel lavoro forzato e uno il cui sbocco sono le camere a gas33. Quando il gulag raggiunse il suo apogeo in Urss, durante gli anni di guerra, l’avanzata dell’Armata Rossa in Europa centrale fu vista in Occidente – con la significativa eccezione della Polonia nel 1944 – come una marcia liberatrice che rincuorava e incoraggiava i movimenti di resistenza.
[…]
(2/2. Fine)
Enzo Traverso
(Tratto da: Enzo Traverso, Rivoluzione. 1789-1989: un’altra storia, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 348-353).
Note
18 Questa era la definizione classica di totalitarismo suggerita da Carl J. Friedrich, Zbigniew Brzezinski, Totalitarian Dictatorship and Autocracy, Harvard University Press, Cambridge 1956, pp. 21-22. Su questo dibattito si veda Enzo Traverso, Il totalitarismo. Storia di un dibattito, Ombre corte, Verona 2015.
19 Stephen Kotkin, Magnetic Mountain: Stalinism as a Civilization, University of California Press, Berkeley 1995, p. 23.
20 Si veda Sheila Fitzpatrick, Everyday Stalinism: Ordinary Life in Extraordinary Times: Soviet Russia in the 1930s, Oxford University Press, New York 1999.
21 Boris Groys, Lo stalinismo ovvero l’opera d’arte totale, trad. it. di E. Guercetti, Garzanti, Milano 1992, p. 141. Ciò non impediva ovviamente la critica del realismo socialista da parte delle avanguardie che, come il surrealismo, rimanevano legate allo spirito libertario della rivoluzione e dell’utopia. Si vedano ad esempio Karel Teige, Il realismo socialista e il surrealismo (1934), in Id., Surrealismo, Realismo socialista, Irrealismo 1934-1951, a cura di Sergio Corduas, Einaudi, Torino 1982, pp. 3-51, e Arturo Schwarz, André Breton, Leone Trotskij. Storia di un’amicizia tra arte e rivoluzione, Savelli, Roma 1974.
22 Nicolas Werth, Uno stato contro il suo popolo, in Stéphane Courtois (a cura di), Il libro nero del comunismo, Mondadori, Milano 2000, p. 233.
23 Eric Hobsbawm, Il secolo breve, cit., p. 456.
24 Arno J. Mayer, The Furies, cit., p. 607.
25 Victor Serge, Memorie di un rivoluzionario, cit., p. 314.
26 Nei primi anni Venti Evgenij Preobraženskij aveva coniato il concetto di “accumulazione primitiva socialista”. Si veda in particolare Evgenij Preobraženskij, La legge fondamentale dell’accumulazione originaria socialista (1924), in Nikolay Bucharin, Evgenij Preobraženskij, L’accumulazione socialista, trad. it. a cura di Lisa Foa, Editori Riuniti, Roma 1969, pp. 7-78.
27 Isaac Deutscher, 22 June 1941, in Id., Marxism, Wars & Revolutions: Essays From Four Decades, cit., pp. 19-20.
28 Si vedano Curzio Malaparte, Kaputt, Adelphi, Milano 2015; e Vasilij Grossman, Uno scrittore in guerra, trad. it. di Valentina Parisi, Adelphi, Milano 2015. Il romanzo di Malaparte, pubblicato originariamente nel 1944, descrive le atrocità della Wehrmacht sul fronte orientale ed è basato sulle cronache di guerra (molte delle quali furono censurate) che l’autore scrisse per il «Corriere della Sera». I reportage di Grossman dalle linee del fronte sono la fonte del suo celebre romanzo Vita e destino, trad. it. di Claudia Zonghetti, Adelphi, Milano 2013.
29 Si veda Ernst Jünger, Carl Schmitt, Briefwechsel: Briefe 1930-1983, a cura di Helmut Kiesel, Klett-Cotta, Stuttgart 1999, pp. 151-153. Si veda anche Ernst Jünger, Note del Caucaso, in Id., Irradiazioni. Diario 1941-1945, trad. it. di Henry Furst, Guanda, Parma 1995, pp. 158-222.
30 Si veda Brian Moynahan, Sinfonia di Leningrado, trad. it. di Claudia Manciocco, il Saggiatore, Milano 2017.
31 Anne Applebaum, Gulag: Storia dei campi di concentramento sovietici, trad. it. di Luisa Agnese Dalla Fontana, Mondadori, Milano 2017, p. 127.
32 Steven A. Barnes, Death and Redemption: The Gulag and the Shaping of Soviet Society, The University of Princeton Press, Princeton 2011, pp. 39, 36.
33 Raymond Aron, Démocratie et totalitarisme, Gallimard, Paris 1965, p. 298.
Inserito il 20/10/2024.
Angiolo Gracci (Gracco) (1920-2004).
Fonte della foto: https://ferdinandodubla.blogspot.com/2012/04/angiolo-gracci-un-comunista-testa-alta.html
A 20 anni dalla morte di Angiolo Gracci, figura storica della Resistenza fiorentina
🔴 di Paolo Mencarelli 🔴
La continuazione della Resistenza al nazifascismo portata nelle aule dei tribunali dall’avvocato Angiolo Gracci, sempre dalla parte della Costituzione nata dalla lotta partigiana.
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Il comandante “Gracco”, avvocato militante
L’attività di Angiolo Gracci in veste di avvocato difensore in processi politici e sociali dal 1966 al 19891
di Paolo Mencarelli
Prima parte
Prima di tutto è necessario fare qualche riferimento biografico utile a comprendere meglio, spero, il tipo di azione svolto da Angiolo Gracci e quelle che mi sembrano essere delle costanti della sua azione come legale, che, come si vedrà, non solo non può essere scissa da quella politico-militante, ma ne costituisce anzi la dimensione forse principale anche se non esclusiva2.
Angiolo Gracci (1920-2004) svolse la sua opera di avvocato in processi di natura politica in stretto rapporto con la sua militanza politica nelle file del movimento marxista-leninista a partire dalla metà degli anni Sessanta, dopo la sua fuoriuscita dal PCI, partito in cui militava dal 1944, quando aveva cominciato la sua attività partigiana al comando della Brigata Sinigaglia che contribuì alla liberazione di Firenze. Dopo la Liberazione, laureatosi in Legge nel 1948 con una tesi sul diritto del lavoro, riprese il suo posto come ufficiale della Guardia di Finanza, ma, dopo una serie di provvedimenti e trasferimenti punitivi (in Sicilia nei primi anni Cinquanta) per la sua militanza comunista e per le sue denunce di presunti illeciti operati da vertici militari, fu costretto nel 1956 ad abbandonare l’esercito e a intraprendere la carriera di avvocato soprattutto presso la Camera del Lavoro di Firenze, per la quale riorganizza il servizio legale, e la Lega delle cooperative, occupandosi anche qui dell’assistenza giuridica3. L’attività in veste di avvocato tra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta del secolo scorso è pressoché interamente assorbita dal lavoro all’interno di strutture legate al movimento operaio e vede un intensificarsi dell’impegno in particolare nel 1960, in corrispondenza con gli scontri, a Livorno, tra gruppi di paracadutisti e cittadini livornesi, di cui Gracci, d’intesa con la locale sezione dell’Anpi, assume la difesa4.
Tuttavia, il lavoro a tempo pieno come avvocato difensore in processi legati a reati di natura politica si colloca dopo l’abbandono del Pci. In particolare l’arco cronologico preso in considerazione va dall’ottobre 1966 (quando Gracci aderisce al Partito comunista d’Italia marxista-leninista rivestendo da subito incarichi dirigenziali di primo piano) al 1990, con decine di processi tra cui quelli riguardanti manifestazioni operaie a Trieste e Genova per la crisi dell’industria cantieristica, lotte contadine, manifestazioni studentesche e di solidarietà con il Vietnam (Pisa, Firenze, Lecce) fino ai processi alle formazioni armate, in particolare Gap, Prima linea, Brigate rosse (Gallinari e altri) alla fine degli anni Ottanta.
Questi processi coinvolgono una vastissima tipologia di figure sociali e politiche attive in quegli anni: studenti medi e universitari, contadini, operai, sottoproletariato, militanti dei gruppi della sinistra extraparlamentare e di alcune formazioni che scelsero la lotta armata, Prima linea e Brigate rosse in particolare.
Molto ampio lo spazio dedicato a processi svolti in rapporto a lotte che hanno avuto come teatro l’Italia meridionale: l’incendio del Comune di Cutro in Calabria nel 1967, le lotte dei baraccati messinesi o le occupazioni di fabbriche a Battipaglia e in Campania nei primi anni Settanta, solo per fare alcuni esempi. Proprio la presenza di materiale di questo tipo rappresenta una particolarità di non poco rilievo nel panorama dei fondi archivistici riguardanti la storia dei movimenti sociali e politici, se pensiamo alla rarità di centri e istituti di documentazione sulla stagione dei movimenti nelle regioni del Sud Italia5.
Corrispondenza, appunti manoscritti e dattiloscritti, verbali di interrogatori, ciclostilati, ritagli stampa ecc. sono presenti all’interno dei fascicoli legati ai processi in cui Gracci svolse la sua attività di legale. Non è raro che questa documentazione cartacea sia accompagnata anche dalla presenza di audiocassette con registrazioni di incontri, assemblee e riunioni di gruppi e collettivi legati in vario modo ai militanti processati a cui magari è annesso anche un corredo fotografico6.
In questa sede è possibile solo dare conto brevemente della tipologia di questa documentazione sia da un punto di vista archivistico che storico, individuando alcuni nuclei di interesse per gli studiosi. La presenza della variegata documentazione sopra accennata, oggi accessibile alla consultazione grazie ad un pluriennale lavoro di ordinamento e inventariazione a cui ho in parte collaborato, consente di cogliere non di rado l’intera genesi della linea difensiva scelta, una sorta di “filiera” dell’azione legale: dalla raccolta di informazioni da e sull’imputato, agli atti giudiziari (verbali di interrogatori, sentenze ecc.) alla documentazione prodotta dai movimenti e organizzazioni della sinistra rivoluzionaria sulle lotte al centro del procedimento giudiziario e infine al rilievo dato sulla stampa locale o nazionale ai processi. Questo mi pare un primo elemento di non poco interesse per gli studiosi della “stagione dell’azione collettiva”. Proprio l’approccio fortemente politico-militante che Gracci dava alla suo ruolo di legale (“compagno-professionista” e non “professionista-compagno”, come precisò più volte) spiega, unitamente ad una tendenza quasi compulsiva a conservare qualsiasi tipologia documentaria, la presenza di materiali così eterogenei. Spesso, anzi quasi sempre, il processo diventa una forma ulteriore di lotta politica, un’occasione di propaganda e in un certo senso anche una tappa quasi inevitabile nella “formazione” politica dei militanti rivoluzionari. Una scelta, politica e di vita, assai radicale di cui lo stesso Gracci era ben consapevole anche riguardo al costo personale (materiale e professionale) non solo nell’esercizio lavorativo in quanto avvocato e che sarà più volte disposto a pagare con ripetute perquisizioni domiciliari, provvedimenti punitivi e sospensioni disciplinari da parte del Consiglio dell’ordine forense di Firenze7.
Ad uno dei giovani studenti imputati per gli incidenti scoppiati nel corso di una manifestazione contro il generale De Lorenzo tenutasi a Lecce il 19 aprile 1968 Gracci spiegava chiaramente il tipo di comportamento da tenere e soprattutto il senso politico complessivo del processo:
…alla magistratura occorre presentarsi con dignità, consapevolezza della propria posizione politica e senza indulgere né ad atteggiamenti di superiorità, né di implorazione e di perdono. Se dovessero essere i giovani m-l a restare maggiormente colpiti nella graduazione delle condanne (che comunque non saranno disastrose data la natura dei reati contestati) vorrà dire che il Partito, nella vostra zona, sarà riconosciuto come quello più deciso e più combattivo e i lavoratori ci apprezzeranno ancora di più. […] I militanti m-l non avrebbero la possibilità di lottare e di andare avanti e di guidare le masse se facessero prevalere nel loro animo stati d’animo di preoccupazioni o illusioni sulla ‘comprensione’ dell’apparato repressivo borghese. Ciò non significa che i compagni vostri avvocati difensori non faranno fino in fondo tutto il loro dovere per ottenere decorosamente una vostra assoluzione o una condanna lieve.8
L’attività di legale non era dunque che un aspetto, un’articolazione della propria militanza e questo va tenuto presente per capire anche alcune scelte di fondo nell’elaborazione delle strategie difensive che presentano sempre un ampio spazio per la documentazione del contesto economico-sociale e culturale degli imputati, soprattutto quelli che avevano operato nelle regioni dell’Italia meridionale. A partire dalla scelta di non limitarsi ad una difesa strettamente tecnico-giuridica per Gracci diventava decisivo, ai fini di una linea difensiva che puntava a rovesciare sulle classi dirigenti al potere l’accusa di illegalità, poter dare un ampio quadro delle condizioni sociali e lavorative nell’ambito delle quali avevano operato gli imputati, presentando così le loro azioni come necessarie proprio per rendere effettivi i loro diritti.
Nel caso, ad esempio, di un giovane operaio milanese iscritto al Pcd’I m-l licenziato nel settembre 1968 dalla Magneti Marelli per essersi rivolto in modo ingiurioso ad un caporeparto nel corso di uno sciopero dei magazzinieri non dichiarato dai sindacati, la prima richiesta di Gracci, impugnando il licenziamento per “violazione delle norme sui licenziamenti”, non è solo quella di ricostruire l’episodio incriminato ma di avere una vera e propria biografia politica e sindacale dell’imputato centrata sulla sua azione politica e sindacale in fabbrica. Le informazioni dovevano servire ad evidenziare «…tutti i soprusi, sabotaggi e difficoltà, incomprensioni e ostacoli che hai dovuto subire in essa [la fabbrica, ndr] e anche fuori da parte di quelli che avresti dovuto considerare e che avrebbero dovuto comportarsi verso di te come compagni»9. Avendo constatato la difficoltà nel trovare testimoni per paura di rappresaglie, Gracci suggerisce al collega Paolo Leon, come ultimo tentativo in chiave difensiva, di evidenziare con forza «…quale sia la condizione operaia nella fabbrica Marelli e nel modo più clamoroso possibile»: anche qui dunque la strategia difensiva doveva svolgersi attaccando la controparte, secondo uno stile del resto assai consono al temperamento dello stesso Gracci, mostrando il carattere oppressivo della disciplina di fabbrica e inserendo infine il comportamento dell’operaio inquisito all’interno di un clima vessatorio a cui lui e i suoi compagni di lavoro sarebbero stati sottoposti10.
In questo, come nella generalità di altri casi simili, emerge chiaramente la ricerca di un contatto non formale con gli imputati stessi, l’esigenza di una conoscenza più approfondita possibile delle realtà locali di lavoro e di provenienza con una particolare attenzione, come già detto, al Meridione (Campania, Calabria e Sicilia). Un’esigenza che, cementata a volte dalla comune militanza, sfocerà in alcuni casi in forti e pluridecennali amicizie come nel caso del calabrese Rosario Migale o della siciliana Rosa Augello. La sensibilità meridionalistica era del resto ben presente in Gracci anche in seguito a intense e sofferte esperienze personali: un breve soggiorno alla fine degli anni Venti in Sicilia da bambino con la famiglia dovuto al lavoro di ferroviere del padre e il trasferimento punitivo nei primi anni Cinquanta nella stessa regione in veste di ufficiale della Guardia di Finanza. Esperienze che avevano maturato in lui la convinzione che le regioni meridionali, costituendo la parte più martoriata del Paese caratterizzata da rapporti sociali particolarmente arretrati, avrebbero anche potuto rappresentare quella potenzialmente più disponibile alla lotta. Sono infatti prevalentemente i gruppi marxisti-leninisti, tra i quali lo stesso Pcd’I m-l e l’Unione dei comunisti m-l, a curare particolarmente l’intervento politico nelle regioni meridionali, soprattutto in Calabria. Il caso della rivolta contadina di Cutro con l’assalto e l’incendio del municipio del novembre 1967, guidata da esponenti marxisti-leninisti come Rosario Migale, costituì un episodio di rilievo nazionale e vide Gracci, unitamente ad altri colleghi, impegnarsi nella difesa legale delle decine di contadini inquisiti, in un rapporto che si prolungherà anche nei primi anni Settanta, quando una nuova ondata di arresti riguarderà i protagonisti, tra cui lo stesso Migale, di una vasta occupazione di uliveti presso Isola Capo Rizzuto (ottobre 1972)11.
(1/2. Segue)
Paolo Mencarelli
Note
1 Le note qui raccolte sono in larga parte tratte dalla consultazione del Fondo archivistico Gracci-La Resistenza continua di circa 350 buste d’archivio e con annessa biblioteca, fototeca e nastroteca, conservato presso l’Istituto storico della Resistenza in Toscana, al cui interno è presente una ricca serie documentaria “Processi politici e sociali” di circa 90 buste e 300 fascicoli. Vista la dimensione quantitativa del materiale documentario non sarà possibile ovviamente alcun quadro che aspiri minimamente ad una qualche completezza rispetto ad esempio all’individuazione della tipologia dei reati contestati o ad uno studio sugli imputati, cercherò invece di individuare alcune caratteristiche di fondo della sua attività e insieme alcune possibili tracce di ricerca nella prospettiva di un lavoro su di un materiale tanto ricco quanto complesso (Paolo Mencarelli, Il Fondo Gracci-La resistenza continua: fonti per una storia dei movimenti sociali nell’Italia repubblicana, in «Italia contemporanea», n. 236 [settembre 2004], pp. 471-74; ISRT, Inventario del Fondo Gracci (Gracco), a cura di Gherardo Bonini, consultabile ora in www.istorestenzatoscana.it).
Legenda: Ag = Angiolo Gracci; FG = Fondo Gracci-La Resistenza continua.
2 Centinaia gli scritti di Angiolo Gracci disseminati in periodici e bollettini prodotti da partiti e associazioni della sinistra. Tra i suoi lavori d’insieme si segnalano: Brigata Sinigaglia, Roma, Ministero dell'Italia occupata, 1945; 2ª ed. Firenze, Libreria Feltrinelli, 1976; 3ª ed. Napoli, Laboratorio politico, 1995; 4ª ed. Napoli, La Città del Sole, 2006 con appendici; La rivoluzione negata. Il filo rosso della Rivoluzione italiana. Memoria storica e riflessioni politiche nel Bicentenario 1799-1999, Napoli, La Città del Sole, 1999. Sulla Resistenza e l’antifascismo da vedere la raccolta postuma di scritti e interventi È ancora Resistenza, a cura di «Nuova Unità», s.l., Antinebbia, 2006. Sull’arcipelago di gruppi e formazioni politiche marxiste-leniniste e aventi come riferimento principale l’ideologia maoista nate a partire dai primi anni Sessanta resta fondamentale Roberto Niccolai, Quando la Cina era vicina: la rivoluzione culturale e la sinistra extraparlamentare italiana negli anni ’60 e ’70, Pisa, BFS, 1998 e Parlando di rivoluzioni: ventuno protagonisti dei gruppi, dei movimenti e delle riviste degli anni ’60 e ’70 descrivono la loro idea di mutamento sociale, Pistoia, Centro di documentazione di Pistoia, 1998 che contiene anche un’intervista allo stesso Gracci. Sull’impegno che per più di un decennio lo vide protagonista e animatore della rivista «La Resistenza continua» e dell’omonima organizzazione cfr. Philip Cooke, La Resistenza continua: un movimento sociale degli anni settanta, in «Il Ponte», n. 4 (2004).
3 Per un breve profilo biografico: A. Gracci (Gracco), Brigata Sinigaglia, Napoli, La Città del Sole, 2006 (4ª ed.), pp. 21-22. Per conto della Lega delle cooperative Gracci partecipa ai lavori della Commissione nazionale legislativa che studiava ed elaborava progetti di legge da presentare in Parlamento su assistenza, difesa e potenziamento della cooperazione.
4 A. Gracci a Brunello Bruni, segretario dell’Anpi di Livorno, 30 maggio 1960, in FG, b. 2, fasc. 23.
5 Marco Grispigni, Luigi Musci (a cura di), Guida alle fonti per la storia dei movimenti, Roma, Ministero per i beni e le attività culturali, Direzione generale per gli archivi, 2003.
6 Il riversamento su supporto elettronico del materiale audio è stato curato dall’Istituto Ernesto De Martino di Sesto Fiorentino.
7 Procedimento disciplinare contro un avvocato maoista, in «La Nazione», 16 novembre 1969. L’articolo si riferisce ad una manifestazione di protesta nel Palazzo di Giustizia di Genova nel corso di un processo contro 22 militanti imputati di reati di “oltraggio e resistenza” per i disordini seguiti al ritrovamento, il 13 maggio 1969, di un ordigno durante il comizio di Melina Mercuri contro la dittatura dei colonnelli in Grecia. Gracci aveva lasciato l’aula distribuendo volantini e unendosi alle contestazioni del pubblico e degli imputati. Del collegio difensivo facevano parte anche Bianca Guidetti Serra di Torino e Paolo Leon di Milano. Il Consiglio dell’ordine forense di Firenze aprì immediatamente un provvedimento disciplinare per «comportamento non conforme alla dignità e al decoro professionale». Già alla fine del 1966, prevedendo il carico di impegni politici e processuali che si sarebbero accumulati, in una lettera ad un collega notava: «…la mia professione risentirà negativamente della scelta operata» (Gracci a Francesco Naso, 10 novembre 1966).
8 Gracci a Oreste Massari, 22 giugno 1968 in FG, b. 195 , fasc. 1211.
9 Gracci a Piero Tedoldi, 15 settembre 1968 in FG, b. 196, fasc. 1215.
10 Gracci a Paolo Leon, 11 luglio 1969 in FG, b. 196, fasc. 1215. La causa si conclude con il licenziamento del giovane operaio e con la ditta che liquida 400.000 lire, pari a 5 mensilità. La federazione milanese del Pcd’I m-l linea rossa in sede politica decise di non chiamare a testimoniare i compagni di lavoro di Tedoldi per evitare rappresaglie che la cellula di fabbrica non sarebbe stata in grado di controllare.
11 Su Rosario Migale e le lotte a Cutro e Isola Capo Rizzuto da vedere: Pino Fabiano, Contadini rivoluzionari. La figura di Rosario Migale nella storia dell’antagonismo politico, Napoli, La Città del Sole, 2011, e Rosario Migale, Dannata terra. Lotte contadine in Calabria tra il 1967 e il 1972, intervista a cura di Pino Fabiano, in «Zapruder», n. 16 (maggio-agosto 2008), pp. 110-121.
Inserito il 19/09/2024.
Il comandante “Gracco”, avvocato militante
🔴 di Paolo Mencarelli 🔴
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Il comandante “Gracco”, avvocato militante
L’attività di Angiolo Gracci in veste di avvocato difensore in processi politici e sociali dal 1966 al 1989
di Paolo Mencarelli
Seconda parte
Con la crisi dei gruppi dei primi anni Settanta, l’interesse di Gracci e della parte del Pcd’I m-l autodenominatasi “linea rossa” dopo la scissione avvenuta nel congresso straordinario del partito nel dicembre 1968, si spostò decisamente proprio verso le lotte sociali contro i licenziamenti e in difesa del contratto nazionale dei metalmeccanici in Italia meridionale, spesso in aree ad alta presenza di mafia e criminalità organizzata. Tra queste da citare almeno i processi successivi riferibili ad eventi quali lo sgombero di baracche abusive alla periferia di Messina nel novembre 1971, l’occupazione dell’industria “Berga sud” di Salerno (luglio 1974), alla lotta delle operaie metalmeccaniche e alimentariste, accusate per un picchetto davanti al cancello dello scatolificio della Piana di Eboli culminato in quattro mesi di occupazione della “Mellone” (ottobre 1976-gennaio 1977), a quella degli operai cantieristi della “Sir/Rovelli” di Battipaglia sfociata nello sciopero generale del 26 ottobre 1976 organizzato da movimenti sindacali di base extraconfederali.
Nella maggior parte di questi processi gli imputati (non di rado donne nel caso Messina ed Eboli) venivano accusati di violenze legate soprattutto a scontri con le forze dell’ordine e picchetti duri davanti ai cancelli degli stabilimenti. Il problema della violenza, subita o esercitata, è sempre riportato negli appunti per le arringhe difensive ad una visione rigidamente classista che in modo quasi esemplare è espressa nel caso del processo relativo a tre giovani donne messinesi che si erano opposte allo sgombero delle loro baracche. La marcata e quasi ossessiva insistenza sul contesto sociale e politico di origine delle imputate si traduce, nella vibrante arringa difensiva, in una serie incalzante di domande retoriche:
Cittadini di seconda e terza categoria? Carne di scarto e carne umana di prima o seconda qualità? Questa è una società divisa in classi? […] Le imputate: tre donne tre madri tre spose di operai tre baraccate tre incensurate […] che hanno chiesto giustizia, che rappresentano 30.000 baraccati di Messina. […] Chi sono questi imputati? Quali interessi e valori rappresentano? Sono nati liberi e uguali agli altri o sono nati diversi e ‘meno liberi’ ‘più schiavi’ ‘più deboli’ e indifesi degli altri? La loro ‘incensuratezza’ ha lo stesso valore, ha pagato lo stesso prezzo per essere raggiunta e difesa dell’incensuratezza di altri esseri appartenenti ai c.d. ‘strati superiori’ della società?12
Anche quando, come in questo caso, ad essere attaccata era la testimonianza di un agente di polizia, il ruolo delle forze dell’ordine, proprio a partire dall’umile condizione sociale dello stesso agente, veniva comunque sempre rapportato al mandato politico (la difesa degli interessi della “borghesia capitalista” al potere) di cui sarebbero nient’altro che il braccio esecutivo e non visto, come spesso nella pubblicistica dell’estrema sinistra dell’epoca, come in quanto tale antagonistico. Significativo, anche perché assai ricorrente nelle sue arringhe, quanto scritto in preparazione alla difesa di alcuni studenti fiorentini: «Odio, ostilità verso la polizia? No, NO, odio, ostilità verso ciò di cui la polizia non è altro che uno strumento!! La violenza è altrove. Come la violenza dei ‘manipoli’ aveva ben altra radice che non nella volontà dei centurioni.»13
Un atteggiamento che si ripete anche quando Gracci e il collega Attilio Baccioli tentano di dimostrare l’irregolare comportamento della polizia nel corso della manifestazione studentesca tenutasi a Pisa il 23 marzo 1968. Nella difesa degli studenti, imputati anche per altri episodi avvenuti durante una serie di manifestazioni tra la fine del ’67 e i primi mesi del ‘68, era intervenuto nel collegio difensivo composto da 25 legali tra cui Bianca Guidetti Serra e nel comitato di solidarietà anche Giovanni Sorbi, avvocato pisano proveniente come Gracci da esperienze resistenziali, notando:
Sembra che il risultato di questa azione repressiva, senza precedenti nella storia dei movimenti studenteschi di questi ultimi mesi, sia stato innanzitutto quello di accrescere la solidarietà, rafforzare la volontà, e fornire attraverso questa dura e dolorosa vicenda, elementi di analisi e di giudizio ancora più chiari sulla situazione attuale. […] Potrà essere veramente decisivo un inserimento di questa massa di giovani, per la maggior parte studenti, nella più grande massa delle forze del lavoro, di modo che possano ravvivare la lotta e nello stesso tempo giovarsi di passate esperienze.14
Osservazioni di questo tipo sono ben presenti nella corrispondenza con avvocati, come gli stessi Sorbi e Guidetti Serra, vicini a Gracci per anni nella difesa di imputati provenienti dalle file del movimento studentesco e di contestazione. La simpatia e la solidarietà nei confronti degli imputati è condivisa anche in genere da avvocati meno organici alle organizzazioni simili a quelle in cui militava Gracci, almeno questo si può desumere assai empiricamente nei casi citati e nella fitta corrispondenza tra colleghi.
Un terreno di forte e pluridecennale impegno politico per Gracci fu anche quello relativo alla lotta contro le basi militari Nato e Usa. A partire dai processi contro il Fronte antimperialista d’Italia, associazione collaterale al Pcd’I m-l, attiva già dai primi mesi del 1967 e poi travolta dalla crisi dissolutiva del partito, non mancano processi legati ad iniziative quali, ad esempio, la marcia per la pace Trieste-Aviano contro le “servitù militari” del 27 luglio 1975. Manifestazione per la quale vennero processati per “blocco stradale” (legge Scelba che prevedeva dai 2 ai 12 anni di reclusione) di 32 militanti, tra cui l’attuale parlamentare Francesco Rutelli, di movimenti antimilitaristi quali Lega obiettori di coscienza, Lega per il disarmo unilaterale e Movimento nonviolento, poi assolti nell’ottobre dello stesso anno per insufficienza di prove.
Altro elemento fondamentale, vera e propria costante nel suo lavoro giuridico e politico, fu il riferimento alla Costituzione repubblicana, alla mancata attuazione dei suoi principi fondamentali. In particolare assai frequente il riferimento soprattutto al “diritto di resistenza” formulato nel progetto di Costituzione all’Assemblea costituente (comma 2 art. 50 “Quando i pubblici poteri violino le libertà fondamentali ed i diritti garantiti dalla Costituzione, la resistenza all’oppressione è diritto e dovere del cittadino”), ma successivamente non inserito nel testo definitivo per l’opposizione della DC, malgrado la proposta di inserimento di tale diritto sia stata inizialmente sostenuta proprio da un esponente democristiano quale Giuseppe Dossetti. Un “diritto di resistenza”, ispirato all’art. 21 della Costituzione francese del 1946 e che risaliva ad una plurisecolare tradizione del pensiero politico liberale e democratico fino a Locke, che per Gracci restava tuttavia “valido e operante” nel momento in cui scandali, stragi e trame oscure finivano per rendere evidente, a suo dire, la violazione sistematica e ripetuta delle libertà e dei diritti fondamentali voluti dalla “Prima Resistenza” e garantiti nella parte programmatica della Costituzione. Diritti fondamentali in nome dei quali era altrettanto pienamente legittimo chiamare i lavoratori, i giovani, le donne ad esercitare il diritto e dovere di combattere un “regime fuorilegge” in nome di una “Seconda Resistenza”. Un richiamo questo costante nel corso dei decenni sia negli interventi politici che nelle arringhe difensive.
È evidente perciò che questo riferimento, che per Gracci si collegava all’idea di una “Resistenza tradita” e a quella di una “Costituzione inattuata” di cui (pur ovviamente con impostazioni politico-culturali diverse) avevano parlato due figure a lui molto care quali Pietro Secchia e Piero Calamandrei, diventava decisivo proprio per denunciare l’“illegalità” delle classi dirigenti, il loro non rispetto dei principi fondamentali del patto costituzionale e il corrispondente diritto dei cittadini a manifestare e ad opporsi all’ordine costituito, se non a rovesciarlo con ogni mezzo necessario, proprio in nome della sua “illegittimità”. Se Pietro Secchia rappresentava ai suoi occhi il dirigente che più coerentemente si era battuto per mantenere il Pci su di una linea rivoluzionaria e classista e a cui non a caso avevano guardato i gruppi dissidenti su posizioni filomaoiste dentro e fuori il partito alla metà degli anni Sessanta, Piero Calamandrei, di cui aveva frequentato le lezioni da studente universitario, per Gracci era un maestro soprattutto nel richiamo alla mancata realizzazione del progetto sociale della Costituzione da parte di classi dirigenti da subito inadempienti15. Non a caso nel 1984 questo approccio politico-giuridico sarà alla base di una petizione popolare da lui promossa, a cui aderirono tra gli altri uno dei suoi più stretti collaboratori, l’avvocato Giovanni Sorbi, e padre Ernesto Balducci, animatore della rivista del dissenso cattolico «Testimonianze» ed amico personale, per la messa in stato di accusa di Giulio Andreotti per “Alto tradimento” in seguito la cessione agli USA della base militare de La Maddalena.
La Costituzione (“patto di compromesso tra le classi”, secondo Gracci) viene inoltre richiamata in molti processi legati ad occupazioni di fabbriche o a licenziamenti di operai in riferimento al “Diritto al lavoro”. L’effettiva difesa di esso, stanti quelle che a lui sembravano le inadempienze e insufficienze dell’ordinamento giuridico vigente rispetto alla piena attuazione del dettato costituzionale, sarebbe spettata principalmente se non esclusivamente agli stessi lavoratori attraverso le proprie azioni di lotta. In generale già dai primi processi della metà degli anni Sessanta viene evidenziata da Gracci proprio l’esigenza di “utilizzare” la parte della Costituzione che può costituire «fondamento di agitazione, di lotta e, attraverso questa ultima, di superamento della Costituzione stessa così come ora si presenta» e che può quindi fornire «…materiale storico-politico-giuridico per fare una generale critica rivoluzionaria del sistema»16. L’impegno nei comitati in difesa della Costituzione della metà degli anni Novanta fino agli ultimi anni della sua attività è un’altra testimonianza, pur con accenti ovviamente diversi ma in sostanziale continuità con quelli degli anni Sessanta-Settanta, di questa impostazione.
Almeno un accenno merita tutta la documentazione riguardante la costituzione e il funzionamento degli organismi difensivi come il Soccorso rosso (SR) e in generale i rapporti con altri avvocati impegnati in processi politici prima accennati. I nomi di Giovanni Sorbi per la realtà pisana, di Bianca Guidetti Serra per quella torinese o di Giuliano Spazzali per quella milanese sono tra i più presenti insieme ad altri avvocati vicini all’organizzazione di Gracci come Paolo e Leopoldo Leon, Enrico Baccino o Attilio Baccioli17.
Già immediatamente dopo il congresso fondativo del Partito comunista d’Italia m-l Gracci si era attivato presso gli organismi dirigenti per la rapida costituzione di un Soccorso rosso «con criteri moderni e adeguati […] tale da dimostrare alle larghe masse popolari lo spirito rivoluzionario e il senso di solidarietà proletaria che ci animano»18. Composto da avvocati iscritti e simpatizzanti e strutturato in un ufficio direttivo e un collegio permanente di difesa, in grado di garantire la difesa di alcuni militanti implicati negli scontri a margine degli scioperi operai di Trieste e soprattutto Genova (ottobre 1966) per la crisi occupazionale derivante da licenziamenti nell’industria cantieristica, il Soccorso rosso del Pcd’I m-l restò una struttura assai precaria e insufficiente rispetto all’ondata di processi di cui avrebbe dovuto occuparsi e soprattutto nel corso del 1968 risentì anche delle tensioni presto divenute laceranti all’interno del gruppo dirigente. In ogni caso proprio questo processo ai dimostranti operai genovesi costituì un primo banco di prova per la struttura di difesa legale del partito e il giornale dell’organizzazione «Nuova Unità» che se ne occupò diffusamente con numerosi articoli usciti tra l’ottobre e il dicembre 1966, in alcuni casi firmati da Gracci, non mancò di esaltare la “modestia” e il “coraggio” dimostrati dagli imputati ai quali poteva addirittura essere attribuito l’onore di avere segnato l’inizio di una “tradizione di lotta” del partito.
Il Soccorso rosso legato al Pcd’I fu comunque un organismo sempre assai lontano dallo svolgere tutte le funzioni auspicate da Gracci, il quale accusò più volte alla fine del 1968 i vertici del partito di “trascuratezza”, “sottovalutazione” e “negligenza”, poco prima della crisi dissolutiva dell’organizzazione e della sua frammentazione in microgruppi tra loro in ferocissima competizione e dopo decine di procedimenti legali portati avanti anche con anticipi di spesa personali. Ma il processo agli operai genovesi accusati di blocco stradale è importante anche perché in esso Gracci ebbe modo di mettere alla prova per la prima volta un tipo di linea difensiva, poi sistematicamente utilizzata negli anni ’70 e ’80, che puntava ad enfatizzare i motivi di continuità con il fascismo presenti nel codice penale.
Non a caso tra i motivi fondamentali di appello alla sentenza di primo grado che condannava a un anno di reclusione gli imputati Gracci sollevò eccezione di incostituzionalità sul d.l. del 22 gennaio 1948 n. 66 poi tradotto in legge che introduceva il reato di “blocco stradale” confermando le disposizioni in materia di ordine pubblico già in vigore durante il Ventennio. A questo proposito peraltro Gracci si affrettò a contattare Umberto Terracini nel tentativo di ricostruire quale era stato l’iter legislativo del provvedimento in sede parlamentare19.
Non mancano anche materiali relativi all’attività svolta dai “comitati contro la repressione” e a quelli in solidarietà a singoli imputati, particolarmente numerosi a partire dai primi anni Settanta. Soprattutto nei primi mesi del 1970 alcune organizzazioni marxiste-leniniste, tra cui lo stesso gruppo legato a Gracci, a volte con la partecipazione di Potere operaio e Lotta continua, promuovono “comitati unitari contro la repressione” dalla durata più o meno effimera, spesso lacerati da contrasti interni tra le organizzazioni e che solo raramente sembrano aver ottenuto risultati concreti e durevoli.
Anche nel contesto fiorentino proprio sul tema della repressione agirono parallelamente, tra polemiche reciproche e alcuni tentativi di collegamento, l’area politica extraparlamentare attraverso il locale “Comitato contro la repressione” e realtà associative come il Movimento Democrazia e Giustizia, animato da avvocati e giuristi vicini a Magistratura democratica o ancora come il Consiglio regionale toscano della Resistenza, espressione dei partiti antifascisti parlamentari.
Anche Gracci prese parte direttamente a questi tentativi di contatto e coordinamento soprattutto con il Movimento Democrazia e Giustizia che si era attivato in sua difesa nei confronti del provvedimento di sospensione da parte del Consiglio dell’ordine forense di Firenze.
Il 17 gennaio 1970 a Firenze, nella sede della provincia di Palazzo Medici Riccardi, organizzato dalla sezione fiorentina di Magistratura democratica e dal Movimento Democrazia e Giustizia si tenne un pubblico dibattito su “Giustizia e Repressione”. Nel volantino di convocazione dell’iniziativa si enucleavano i temi da discutere in questi termini: “Giustizia come repressione politica o giustizia contro la repressione politica”, “È questa la repubblica nata dalla Resistenza? Attuazione e conquista delle libertà costituzionali, oppure involuzione autoritaria?”. Alla presenza di intellettuali, magistrati e docenti universitari Gracci pronunciò un intervento polemico verso l’impostazione del dibattito da lui definito di “contestazione nel sistema”, ricordando che bisognava risalire al “disarmo materiale e ideologico” del dopoguerra per capire la natura della repressione in corso. Sono sostanzialmente gli stessi concetti espressi all’interno di interventi in assemblee studentesche come quello tenuto a Palermo nella Facoltà di Fisica della locale università il 23 febbraio 1970:
…dopo il disarmo di 300.000 partigiani, dopo la soppressione del diritto di resistenza dal testo del Progetto della Costituzione repubblicana, vennero subito le leggi ‘speciali’ ultrafasciste, nello stesso gennaio 1948, contro il diritto delle masse a manifestare liberamente (legge Scelba sui blocchi stradali), ad esprimersi e fare propaganda (legge Scelba sulla stampa), a mantenere le organizzazioni partigiane (legge Scelba sulle associazioni partigiane).20
Sempre su iniziativa del fiorentino Movimento Democrazia e Giustizia e in collaborazione con il Consiglio regionale toscano della Resistenza seguì anche un convegno il 14 marzo 1970 “Per la libertà contro il regime” che si inserisce nell’attività di una parte della magistratura che intendeva opporsi a un uso ritenuto indiscriminato del codice penale rispetto alle richieste provenienti dai movimenti sociali e politici. Il testo di convocazione del convegno chiariva bene il senso dell’iniziativa:
È in atto oggi in Italia una forte spinta repressiva volta ad impedire la prosecuzione delle lotte operaie e studentesche ed a ristabilire un nuovo equilibrio politico e sociale, nel mondo del lavoro, ritenuto necessario in questo momento di delicata riorganizzazione del sistema produttivo. Le leggi fasciste o di ispirazione autoritaria, la struttura autoritaria della Magistratura sono gli strumenti più funzionali della politica repressiva della classe dirigente.21
È in questo clima che, soprattutto dopo l’attentato di Piazza Fontana del 12 dicembre 1969 e in particolare tra il 1970 e il 1973, si moltiplicano i comitati di solidarietà in sostegno di militanti imputati (Bruno Fiorenzi, Domenico Aleotti, Dario Bicego solo per citarne alcuni) la cui vicenda viene ritenuta esemplare sulla scia del “caso Valpreda”22.
Significativa in questo senso la diffusione di un ciclostilato dall’eloquente titolo “Come comportarsi nei confronti della polizia e della magistratura”, che testimonia del clima di tensione che pervade l’area della sinistra rivoluzionaria e la diffusione al suo interno della categoria di “fascistizzazione dello Stato”, che peraltro almeno fino alla metà degli anni Settanta non lascia indifferente una parte del mondo politico e culturale antifascista e del movimento operaio23.
Altro elemento interessante da rilevare è l’atteggiamento verso i militanti difesi e i reati di cui venivano accusati. Pur nella diversità dei giudizi politici sulle forme di lotta adottate, per Gracci non c’è, materialmente e dal punto di vista politico-giuridico, nessuna soluzione di continuità nella difesa degli imputati da reati quali “blocco stradale”, “vilipendio delle forze armate” o “associazione sovversiva e banda armata”. Se il terrorismo viene comunque respinto e condannato fermamente «…come un’ideologia e una pratica di lotta estranee agli interessi della classe operaia e delle masse popolari», bollato come «spontaneismo piccolo-borghese» secondo il formulario del Partito comunista d’Italia m-l, non c’è dubbio, per Gracci, che la fondamentale illegalità e violenza repressiva siano state esercitate dall’immediato secondo dopoguerra in poi dalle classi dirigenti al potere e dagli interessi capitalistici di cui erano espressione in stretto rapporto con l’azione destabilizzante svolta dagli USA. Di qui l’insistenza sul “filo nero” delle stragi da Portella della Ginestra (1947) fino alla stazione di Bologna (1980) costantemente richiamate nelle arringhe difensive dei militanti della lotta armata e insieme le denunce, sempre con gli accenti fortemente polemici che contraddistinguevano il suo stile, sulla “incostituzionalità” di provvedimenti giudicati liberticidi quali la cosiddetta “Legge Reale” (L. 152, 22 maggio 1975) e tutte quelle norme della legislazione d’“emergenza” antiterrorismo (L. 15, 6 febbraio 1980), ovvero la cosiddetta “Legge Cossiga”.
L’impegno come avvocato difensore di esponenti di gruppi e organizzazioni armate si era intanto tradotto fin dai primi anni Settanta nella partecipazione ai primi processi al Circolo XXII aprile e ai Gap (Gruppi armati partigiani) operanti nel Genovese e successivamente, per reati commessi soprattutto tra il 1978 e il 1980, a militanti accusati di far parte di formazioni quali Prima linea e Brigate rosse o ancora a collettivi politici quali quello operante a Reggio Emilia con emittenti “di movimento” come Radio Tupac. Nel processo tenuto a Bergamo nel giugno 1982 contro 132 militanti accusati di “associazione sovversiva” e “banda armata”, per azioni svolte alla fine degli anni Settanta nell’ambito di gruppi legati a Prima Linea, Gracci unitamente ad altri colleghi del collegio difensivo non mancò di denunciare le modalità (che successivamente diverranno usuali in processi di questo tipo) con cui, per ragioni di ordine pubblico, veniva svolto il dibattimento: “gabbioni” per i detenuti, aula giudiziaria fuori dal perimetro urbano, schedatura del pubblico, ecc. Questo fu anche il contesto in cui, nell’arringa difensiva davanti alla Corte di Assise di Bergamo, Gracci sollevò l’“eccezione di incostituzionalità” delle cosiddette “leggi speciali” sopra ricordate viste come l’“ultima conferma di un potere fuorilegge” in cui ancora una volta, accanto alla letteratura giurisprudenziale, è richiamato con forza il nome di Piero Calamandrei. La denuncia sulle condizioni di detenzione nelle carceri speciali di militanti condannati per azioni commesse negli anni Settanta, ritenute inumane e talvolta caratterizzate da violenze psicologiche e fisiche fino a presunte pratiche di tortura, fu un’attività costante spesso in collaborazione con altri colleghi, che si tradusse sia in denunce pubbliche e legali sia nella promozione e partecipazione ad assemblee pubbliche e convegni quali quello organizzato alla Badia fiesolana da padre Ernesto Balducci (con cui, come già accennato, aveva stretto una pluridecennale amicizia) nel 1984, e infine nel sostegno a comitati come quello per il rientro in Italia di Silvia Baraldini, di cui animò la sezione fiorentina.
Fitta anche la corrispondenza soprattutto con esponenti delle Br, alcuni dei quali, a partire notoriamente dal caso di Renato Curcio, avevano anche nella loro biografia politica brevi esperienze all’interno del Pcd’I m-l. Proprio la partecipazione al maxiprocesso per “insurrezione armata contro i poteri dello Stato e guerra civile”, tenuto a Roma nell’ottobre 1989 in difesa di Prospero Gallinari, Francesco Lo Bianco, Alessandro Pera e Francesco Piccioni, sarà l’epilogo, l’ultimo grande sforzo ormai alla soglia dei settanta anni con cui decenni di esperienze politiche e legali venivano a condensarsi in una vibrante arringa difensiva (racchiusa in un testo dattiloscritto di oltre 200 pagine) al termine della quale veniva ancora una volta sollevata l’eccezione di costituzionalità relativa agli art. 284 e 286 del codice penale “Mussolini-Rocco” e la consueta messa in stato di accusa della classe dirigente24.
Figura certo assai particolare per carattere, formazione culturale e politica di avvocato difensore e militante comunista, Angiolo Gracci (Gracco) nella sua intensissima attività riassume comunque, se non in forma esemplare certo viva e con una interna coerenza riconosciutagli anche dagli avversari, l’esigenza di legare indissolubilmente impegno politico e professione forense attraverso una partecipazione generosa al ciclo di lotte del “lungo sessantotto” italiano.
(2/2. Fine)
Paolo Mencarelli
Note
12 FG, b. 213, fasc. 1330 appunti mss.
13 Appunti mss. di Gracci del novembre 1968 in FG, b. 196, fasc. 1225. Gli studenti erano stati imputati per gli scontri in Piazza Stazione con la polizia in margine allo sciopero generale per le pensioni del 14 novembre 1968.
14 Giovanni Sorbi a Gracci, 18 aprile 1968, in FG, b. 194, fasc. 1194.
15 Fernando Dubla, Secchia, il PCI e il ’68, Roma, Datanews, 1998, con prefazione di Gracci in cui, con il consueto stile appassionato, ricostruisce l’incontro con il dirigente comunista su incarico del Pcd’I m-l nel tentativo, rivelatosi infruttuoso, di avere se non la partecipazione diretta almeno l’approvazione dello stesso Secchia alla nuova formazione politica.
16 Gracci a Fosco Dinucci, 7 dicembre 1966, in ISRT, FG, b. 13, fasc. 116.
17 Bianca Guidetti Serra, Bianca la rossa, Torino, Einaudi, 2009 ripercorre la sua esperienza soprattutto nel cap. 11 Il lungo sessantotto nei tribunali, pp. 157-176 e nel cap. 13 Processo alle Brigate rosse, pp. 197-214.
18 Gracci a Paolo Leon, 24 ottobre 1966, in ISRT, FG, b. 13, fasc. 116. Il “Comitato nazionale del Soccorso rosso del Partito comunista d’Italia m-l” venne formalmente costituito a Roma il 12 febbraio 1967.
19 Umberto Terracini a A. Gracci, 1 febbraio 1967, in FG, b. 13, fasc. 76. Terracini rispose che Gracci aveva ragione a evidenziare “il modo surrettizio col quale quel decreto venne insinuato nella procedura di conversione” specificando però il fatto che i parlamentari si trovarono di fronte a centinaia di d.l. emessi dal 25 luglio 1943 all’inizio del 1948 da convertire in legge e assicurandolo infine che avrebbe seguito con interesse lo svolgimento del processo.
20 FG, b. 104, fasc. 666.
21 FG, b. 114, fasc. 728.
22 Del “Caso Fiorenzi” analizzato come esempio paradigmatico di uso repressivo del codice penale da parte di una magistratura ancora permeata, secondo il periodico, di cultura autoritaria, si occupò con attenzione «Il Ponte», n. 4-5, 30 aprile-31 maggio 1970, pp. 546-549 all’interno di un articolo non firmato Il pericolo sovversivo. Lo stesso numero ospita un Progetto di riforma stralcio del codice penale (pp. 569-577) a cura del Movimento Democrazia e Giustizia presentato nel convegno citato del 14 marzo 1970. Sempre sui tentativi di riforma del Codice penale si sofferma Guido Crainz, Il paese mancato. Dal miracolo economico alla crisi degli anni ottanta, Roma, Donzelli, 2005, pp. 398-400.
23 FG, b. 104, fasc. 658. Ciclostilato senza data, ma attribuibile al 1970.
24 FG, b. 249, fasc. 1467.
Inserito il 19/09/2024.
Il 17 luglio 1944, mentre i sovietici incalzavano inesorabilmente le truppe d’invasione tedesche e italiane e la linea del fronte era già in Europa orientale diretta ormai verso Berlino, 57.600 prigionieri tedeschi catturati sul fronte bielorusso vennero fatti sfilare per le strade di Mosca prima di essere trasferiti nei campi di prigionia vicini agli Urali.
I prigionieri tedeschi pronti a iniziare la marcia.
Fonte della foto: https://www.yaplakal.com/forum2/topic2804523.html
Dal giornale «Pravda»
di Michail Kostrikov
Il 17 luglio 1944 lo stivale tedesco mise finalmente piede sul suolo di Mosca. Uno stivale abbastanza squallido, per la verità. Decine di migliaia di militari della Wehrmacht e delle SS – soldati, ufficiali e un gruppo di generali – marciarono per le strade della capitale dell’Unione Sovietica. Sicuramente aspettavano questo momento fin dall’attacco all’URSS. È noto che il Führer si era preparato a celebrare personalmente la parata delle truppe tedesche nel 1941 a Mosca. Avrebbe dovuto svolgersi dopo la caduta della città. Però né la leadership del Terzo Reich né gli stessi partecipanti alla marcia si aspettavano che questa “parata” si sarebbe svolta esattamente così. Senza armi né stendardi, sotto la scorta dei soldati dell’NKVD e sotto lo sguardo severo di molti moscoviti, marciavano i resti del gruppo di Corpi d’armata “Centro”, sconfitti durante l’operazione offensiva bielorussa dell’Armata Rossa.
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80 anni fa la Parata dei Vinti
di Michail Kostrikov
I primi treni che trasportavano prigionieri tedeschi cominciarono ad arrivare a Mosca il 14 luglio. È noto che l’umore tra i nazisti era, per usare un eufemismo, così così. Cominciarono a circolare voci secondo cui le autorità sovietiche stavano preparando la loro esecuzione di massa.
Ebbene, i tedeschi avevano tutte le ragioni per questo tipo di panico. Tuttavia, non perché nell’URSS fosse consuetudine effettuare ritorsioni contro i prigionieri di guerra. Al contrario, oggi si sa che non vi fu una sola esecuzione di massa di soldati tedeschi. Ma tra gli stessi nazisti questa era la pratica più diffusa (a questo proposito è opportuno anche liquidare gli ostinati sostenitori della “pista sovietica” dell’esecuzione dei militari polacchi, ndr). Quindi i tedeschi lo pensarono semplicemente da soli: ricordavano bene come essi stessi trattavano i prigionieri di guerra dell’Armata Rossa e l’orrore che infliggevano ai civili sovietici. È del tutto naturale che non si aspettassero nulla di buono in risposta.
I treni con i prigionieri arrivavano uno dopo l’altro lungo i binari della direzione bielorussa. In totale, in tre giorni giunsero nella capitale 25 treni. Consegnarono più di 57.000 persone, fatte scendere alle stazioni Belorusskaja-Tovarnaja e Begovaja.
Nonostante le narrazioni liberali secondo cui l’intera URSS stalinista era un vero e proprio Gulag, non c’erano luoghi speciali nella capitale per ospitare un tale numero di persone. Anche se il lavoro dei prigionieri veniva effettivamente impiegato nella costruzione, ad esempio, del Canale di Mosca, quelle “zone” per la loro proporzione non potevano essere paragonate al numero dei tedeschi catturati giunti in quei giorni. Quindi si dovette improvvisare con il loro alloggiamento.
Come luoghi di detenzione temporanea furono selezionate alcune strutture situate relativamente vicine al luogo di scarico. Queste includevano l’ippodromo in via Begovaja, lo stadio di calcio Dinamo sul Leningradskoe Šosse (ora Prospekt), nonché parte del territorio della famosa Chodynka, compreso il campo di dressage del reggimento di cavalleria della divisione NKVD intitolata a F.E. Dzeržinskij.
Qui ci fu il primo shock per i tedeschi. Non vennero picchiati e non sarebbero stati fucilati. Al contrario, furono forniti loro cibo caldo e acqua. E comunque va fatta una precisazione. I prigionieri non soffrirono di sete: per risolvere questo problema erano intervenute le squadre di vigili del fuoco della capitale. Ma ai prigionieri non venne fornita acqua per lavarsi e ripulirsi. Da un lato ciò avrebbe complicato non poco la situazione per le autorità sovietiche. Ma c’era anche un obiettivo nascosto in questo: i prigionieri non dovevano avere un aspetto troppo curato.
I partecipanti alla parata degli sconfitti marciarono quindi più o meno nelle stesse condizioni in cui erano stati catturati. Coloro che si erano arresi rapidamente avevano un aspetto più o meno dignitoso, mentre coloro che avevano corso attraverso le foreste e le paludi bielorusse nel tentativo di uscire dai “calderoni” [così in russo vengono definite le sacche in cui gruppi di soldati vengono circondati dalle truppe nemiche, ndt] in molti casi avevano un aspetto pietoso: uniformi sporche e sbrindellate, scarpe rotte o mancanti, e alcuni non avevano indosso nemmeno la biancheria intima.
Venne fatta un’eccezione per i generali e i colonnelli prigionieri. A costoro fu consentito non solo di ripulire le uniformi, ma anche di indossare le decorazioni. Ciò non salvò alcuni di essi, colpevoli di crimini di guerra, dal futuro processo e dall’esecuzione. Tuttavia il gesto di cavalleria da parte sovietica fu evidente. Inoltre, non infierirono sui feriti e non li trascinarono nella marcia. Già prima di essere inviati a Mosca, i prigionieri erano stati sottoposti a una visita medica e furono scartati tutti coloro che non erano fisicamente in grado di sopportare l’evento programmato. Infatti, solo un terzo del numero totale dei nazisti catturati durante l’operazione bielorussa fu selezionato per la marcia.
Ora entriamo un po’ più a fondo nella storia. Qualcuno potrebbe porsi una domanda: perché una parata del genere non si era tenuta prima, ad esempio dopo le battaglie di Mosca o Stalingrado? Dopotutto, era necessario incoraggiare i nostri connazionali e sollevare il loro morale.
La marcia degli sconfitti del 1944 a Mosca non fu la prima di questo genere. Nel 1914 una colonna di prigionieri austriaci attraversò il centro della città, compresa la Piazza Rossa. Il numero esatto è sconosciuto. Tuttavia, il ricordo di quella marcia fu cancellato dal fatto che a seguito della prima guerra mondiale caddero entrambi gli imperi, quello russo e quello austro-ungarico. Dunque, allora i russi erano stati precipitosi nella celebrazione del trionfo. Stalin non voleva certo ripetere gli errori del passato e aveva ragione: nell’inverno 1941-1942 nulla era ancora deciso.
Per quanto riguarda la vittoria nella battaglia di Stalingrado, in effetti, furono catturati anche un gran numero di prigionieri. Durante l’operazione “Anello” per distruggere il gruppo nazista circondato a Stalingrado, l’Armata Rossa catturò circa 91,5 mila soldati nemici. Perché a nessuno venne l’idea nel 1943 di organizzare la loro marcia come prova della vittoria?
Qui non si tratta del fatto che nel 1944 avevano indovinato e deciso, mentre nel 1943 non avevano idea di come sarebbe finita. Va tenuto presente che le circostanze delle due vittorie sovietiche furono molto diverse. La 6ª armata tedesca a Stalingrado si arrese dopo due mesi di combattimenti, circondata e isolata durante un rigido inverno. La condizione dei prigionieri era deplorevole.
Dopo la guerra, ciò servì come base per una serie di speculazioni antisovietiche: si presumeva che la maggior parte dei militari catturati non fosse sopravvissuta alla prigionia. Fu fatta anche una cifra: solo 5000 sopravvissuti. Ciò è tutt’altro che vero, ma a quel tempo il tasso di mortalità tra i prigionieri tedeschi era effettivamente elevato. C’erano dei fattori a spiegare ciò: un numero enorme di persone congelate, esauste per la malnutrizione, malati di tifo e di una serie di altre malattie. All’inizio dell’estate del 1943 era morto circa il 30% dei prigionieri.
L’alto tasso di mortalità non passò inosservato da parte della leadership del governo sovietico e una commissione appositamente creata ne esaminò le cause. Furono istituiti sette ospedali per malati e feriti. Furono inoltre adottate numerose misure per migliorare l’approvvigionamento alimentare. È chiaro che in quel momento non c’era tempo per organizzare marce: c’erano problemi molto più urgenti.
Nel caso dell’operazione “Bagration” la situazione era sostanzialmente diversa, e ciò non era dovuto solo alla stagione estiva. La sconfitta dei Corpi d’armata “Centro” fu fulminea. Si trattò di una vera e propria guerra lampo. Ricordiamolo: l’offensiva sovietica iniziò sul fianco settentrionale il 23 giugno e su quello meridionale il 24. Alcune unità tedesche furono circondate e si arresero già nei primi giorni. Le forze principali, spinte nel “calderone” a est di Minsk, capitolarono l’8 luglio, appena due settimane dopo l’inizio dell’operazione sovietica.
Questa vittoria dell’Armata Rossa fu davvero eclatante. L’operazione “Bagration” resta fino ad oggi la più grande sconfitta militare dell’esercito tedesco nella sua storia. Ma questo lo sappiamo oggi. E poi non solo Berlino, ma anche gli alleati dell’URSS non potevano credere immediatamente al crollo del gruppo di Corpi d’armata “Centro”, composto da quasi un milione di soldati.
Allo stesso tempo, le truppe anglo-americane che sbarcarono in Normandia, nel nord della Francia, il 6 giugno avevano incontrato problemi. L’operazione “Overlord” si fermò, anche se all’inizio un gruppo di un milione e mezzo di truppe alleate si confrontò solo con 380.000 tedeschi. Anche il vantaggio tecnologico era lungi dall’essere dalla parte dei nazisti. Tuttavia i primi risultati dell’offensiva americana e britannica furono molto modesti.
Ciò ha dato origine a una certa sfiducia e diffidenza nei confronti del trionfo delle truppe sovietiche. Dov’era il mezzo milione di perdite irrecuperabili che aveva avuto la Germania? Ma quali 158.000 prigionieri? Quali 21 generali catturati? Ce n’erano 47 nel gruppo dei Corpi d’Armata “Centro”, e alcuni erano morti. E prima, dall’inizio della guerra, erano stati catturati dai sovietici complessivamente solo 22 generali tedeschi. No, non può essere: quello tedesco era il miglior esercito del mondo! Anche oggi nella storiografia occidentale si cerca retroattivamente di nascondere la portata del disastro della Wehrmacht in Bielorussia. Tuttavia, il filmato della parata degli sconfitti nella capitale dell’URSS funzionava otto decenni fa, e oggi difende anche la verità della storia. Quindi non c’è nessuna vergogna per noi oggi nell’imparare dai propagandisti sovietici.
È impossibile dire con certezza chi sia stato l’autore dell’idea di organizzare una parata degli sconfitti a Mosca. Ma si può fare un’ipotesi. Questa operazione aveva il nome in codice “Grande Valzer”. Un musical americano premio Oscar, girato nel 1938 dal regista Julien Duvillier, aveva lo stesso nome. Questo film uscì nei cinema sovietici nel 1940. Cosa c’entra il cinema americano con tutto ciò? Era piaciuto a molti spettatori sovietici, e tra essi c’era uno che lo aveva visto più di una dozzina di volte: Iosif Stalin.
E poi l’operazione “Grande Valzer” fu eseguita il più rapidamente possibile: passò meno di una settimana dal momento in cui i nazisti si arresero vicino a Minsk alla sua realizzazione. Tutti i più grandi campi per prigionieri di guerra tedeschi nell’URSS erano situati a est della capitale. Quindi i treni con nuovi prigionieri non potevano evitare il nodo ferroviario di Mosca. Infatti, lungo il percorso si fermavano semplicemente qualche giorno e poi seguivano la tappa.
Il passaggio delle colonne di prigionieri di guerra attraverso il centro della capitale fu guidato dal comandante del distretto militare di Mosca, il colonnello generale P.A. Artem’ev. Aveva preso parte direttamente alla battaglia di Mosca nel momento più difficile, dopo l’accerchiamento delle truppe sovietiche vicino a Vjaz’ma. Il 12 ottobre 1941 aveva preso il comando della zona di difesa di Mosca. Quindi, era stato necessario ricostruire il fronte davanti alla capitale, garantire un collegamento ininterrotto con le riserve, costruire nuove fortificazioni e Artem’ev aveva affrontato questi compiti. Aveva comandato anche la parata delle truppe sovietiche il 7 novembre 1941 sulla Piazza Rossa.
Ora, sotto il comando del colonnello generale Artem’ev, le truppe dell’NKVD scortavano colonne di prigionieri tedeschi per le strade di Mosca. Il loro passaggio venne diviso in due fasi. Il numero di prigionieri nei due raggruppamenti era diverso. Anche i percorsi erano diversi.
I moscoviti, ovviamente, vennero a conoscenza dell’arrivo in città dei prigionieri di guerra tedeschi. Era semplicemente impossibile nascondere un tale numero di persone. Tuttavia, le autorità sovietiche si erano astenute dalle informazioni ufficiali fino all’ultimo momento e solo alle 7 del mattino del 17 luglio fu trasmesso alla radio il primo annuncio sulla prevista parata dei vinti.
La mattina della marcia, i tedeschi iniziarono a essere divisi in gruppi di 600 persone, portati fuori dai centri di detenzione temporanea e messi in fila all’inizio del Leningradskoe Šosse. La colonna era composta da file di 20 persone. I primi a partire furono 19 generali tedeschi e 6 colonnelli. Seguivano gruppi di ufficiali per un totale di più di 1.200 persone, e poi tutti gli altri, compresi i soldati semplici, che chiudevano la fila.
Nel primo gruppo marciarono 42.000 uomini. Camminarono lungo il Leningradskoe Šosse fino alla stazione Belorusskij e proseguirono lungo via Gor’kij. Boris Polevoj parlò delle dimensioni di questa colonna nel suo articolo Hanno visto Mosca, scritto per la «Pravda»: «Camminavano in ampie file di 20 persone. Riga dopo riga, un flusso continuo, ininterrotto. E quando la testa della colonna si voltò verso piazza Majakovskij, la coda continuò a dipanarsi sull’autostrada Leningradskoe». Passando dalla parte settentrionale del raccordo anulare dei Giardini, la colonna di prigionieri tedeschi raggiunse la stazione di Kursk, dove 18 convogli li aspettavano per trasportarli nei campi di prigionia. Il tempo totale per completare il percorso, secondo varie fonti, variò da 2 ore e 25 minuti a 2 ore e 45 minuti.
Alla seconda fase della marcia prese parte una colonna più piccola, composta da 15.600 soldati. Camminarono anch’essi lungo il Leningradskoe Šosse e via Gor’kij, ma svoltarono nella parte meridionale dell’anello dei Giardini per raggiungere il ponte di Crimea e attraversare la Moscova. Il percorso fu stabilito in modo che i tedeschi potessero vedere un’enorme mostra di mezzi militari trofei di guerra esposti nel Parco Culturale M. Gor’kij. Quindi la colonna lasciò l’anello dei Giardini e si diresse lungo via Bol’šaja Kalužskaja, che oggi è diventata parte del Leninskij Prospekt. Nella zona dei Monti Lenin i prigionieri svoltarono di nuovo e raggiunsero la stazione di Kanačikovo, dove erano stati predisposti 8 treni.
In questo caso, il percorso si rivelò molto più lungo e la marcia durò circa quattro ore e mezza. Tuttavia, ci furono solo quattro prigionieri rimasti indietro rispetto alla colonna perché bisognosi di assistenza medica. Ciò dimostra ancora una volta quanto responsabilmente le autorità sovietiche avessero affrontato i preparativi per la marcia.
I prigionieri erano accompagnati da personale militare delle truppe sovietiche dell’NKVD di tre divisioni: il 36° e il 37° reparto e la divisione intitolata a F.E. Dzeržinskij, compreso il suo reggimento di cavalleria. I cavalieri con le sciabole snudate attorno alle colonne tedesche, immortalati in fotografie e filmati, appartenevano alla Dzeržinskij. Il contingente non solo impedì possibili tentativi di fuga (in realtà non ce ne furono durante la marcia), ma assicurò anche che non venisse usata violenza contro i prigionieri.
È giunto il momento di parlare di come i moscoviti reagirono alla parata dei vinti. Foto e filmati indicano un grande afflusso di residenti della capitale che affollarono i marciapiedi e i bordi delle carreggiate lungo l’intero percorso delle colonne. Secondo testimoni oculari, l’inizio della marcia dei prigionieri tedeschi fu accompagnato da un silenzio quasi mortale. «I moscoviti erano eccezionalmente disciplinati», scrisse Boris Polevoj. «I loro sguardi erano pieni di disprezzo e odio, ma solo occasionalmente si udivano grida tra la folla». Questa testimonianza è confermata da Leonid Leonov in un articolo pubblicato sulla «Pravda» intitolato Tedeschi a Mosca: «Un silenzio pieno di disprezzo regnava nelle strade di Mosca, saturate dal passo strascicato di più di centomila piedi».
Successivamente, in alcuni luoghi, le emozioni fecero irruzione. Boris Polevoj ha descritto uno di questi casi. Vicino a piazza Majakovskij sulla colonna si avventò una donna gridando “Assassini! Maledetti assassini!”. Non venne fermata dalle guardie, ma da altri moscoviti. Si scoprì che si trattava di Elena Voloskova, una tessitrice di Trechgorka. A Smolensk i nazisti avevano ucciso l’intera famiglia di suo figlio: sua nuora e i suoi tre nipoti.
Un’altra testimonianza interessante può essere trovata nel libro di V.L. Lavrinenkova e N.N. Belovola Spada d’Onore – una raccolta di ricordi sulla partnership militare dei piloti sovietici e francesi del reggimento Normandia-Niemen. C’è un estratto da una lettera di un’amica di uno dei piloti francesi, una donna francese che si trovava a Mosca e fu testimone oculare della sfilata dei vinti. Riportiamo parte di questa testimonianza:
«Di recente, Alex, tutta la missione militare ha assistito a uno spettacolo indimenticabile: migliaia di nazisti prigionieri venivano condotti attraverso Mosca. Ciò è stato annunciato in anticipo alla radio e alla popolazione è stato permesso di stare dietro i cordoli dei marciapiedi. I tedeschi dovevano attraversare tutta la città (come se fossero arrivati a Parigi alla Gare de Lyon, e poi a piedi fino alla Gare de l’Est). Camminavano in un silenzio di tomba: donne, anziani e bambini li guardavano con orgoglio, con dignità e con disprezzo.
L’intera missione militare della “France combattante” in URSS era in pieno dispiegamento sulla Sadovaja, di fronte alla stazione della metropolitana. Il generale Petit e tutti i nostri ufficiali erano in uniforme militare.
Il popolo sovietico non emetteva alcun suono, nessuno si muoveva. C’è stato un solo incidente durante la marcia. Un vecchio, incapace di trattenere i suoi sentimenti, sfondò il cordone, si precipitò dal primo nazista, lo maledisse con parole terribili e gli sputò in faccia.
Ma per noi francesi, caro Alex, il momento più emozionante di quella giornata è stata la fine della sfilata, quando ha marciato una colonna di prigionieri nostri connazionali dell’Alsazia e della Lorena. Tutti avevano sulle loro giacche una specie di coccarda tricolore, e quando ci raggiunsero e videro il generale Petit in piedi sul retro di un camion con le sponde ripiegate, cominciarono a gridare: “Vive la France, mio generale! Non eravamo volontari! Siamo stati chiamati con la forza. Lunga vita alla Francia!”
Ernest Petit non mostrò per loro la minima simpatia. Al contrario, sputò con rabbia e disse a denti stretti: “Mascalzoni! Chi ha rifiutato di collaborare coi nazisti è con noi”».
I rapporti dell’NKVD menzionano il canto di slogan antifascisti, nonché occasionali grida offensive. Ci sono stati tentativi di lanciare qualcosa contro i prigionieri, ma si sono rivelati isolati. La stragrande maggioranza dei moscoviti ha mantenuto la propria dignità e compostezza, guardando negli occhi coloro che erano venuti per uccidere e schiavizzare, per conquistare la terra del loro paese. Non per niente il poeta ha detto che i sovietici hanno un proprio orgoglio.
Michail Kostrikov*
(Traduzione di Leandro Casini)
* Michail Kostrikov è candidato in Scienze storiche.
(Tratto da: Michail Kostrikov, Parad pobeždënnych, in «Pravda», n. 74 (31567), 16-17 luglio 2024; disponibile sul sito del KPRF https://kprf.ru/history/soviet/227599.html).
Inserito il 09/08/2024.
Per approfondire
Marina Jarre
Il silenzio di Mosca
(Einaudi, 2008)
Il silenzio di Mosca è quello che accolse le decine di migliaia di prigionieri tedeschi che 80 anni fa sfilarono per le strade di Mosca. Marina Jarre ne trae un racconto tra memoria e smemoratezza, nel ricordo di tragedie che sembrano lontane ma sono purtroppo ancora attuali, dato che quelle terre continuano a essere martoriate da conflitti fratricidi spinti da nazionalismi e interessi economici di stampo imperialista.
Danilo Dolci (con il maglione bianco) durante una manifestazione in Sicilia.
Fonte della foto: https://www.triesteallnews.it/2022/10/danilo-dolci-le-battaglie-del-sociologo-triestino-raccontato-ne-il-profumo-delle-zagare/
Dal periodico «Sinistra sindacale»
di Giorgio Riolo
Il centenario della nascita di una di quelle figure profetiche che hanno contribuito a dare voce ai senzapotere.
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DANILO DOLCI e la Sicilia come metafora del mondo offeso
di Giorgio Riolo
Il centenario della nascita di Danilo Dolci (1924- 1997) è l’occasione per richiamare alcuni tratti distintivi della storia d’Italia dall’Unità alla fine del Novecento. Ed è l’occasione, per noi, di rifarci ad alcuni fondamentali, un poco dimenticati.
Quando il cristiano, non cattolico, poi sempre più mosso da spiritualità laica, civile, Dolci si reca a Trappeto-Partinico nel 1952, cosa trova? Trova il terzo mondo in casa nostra. Il terzo mondo non solo in Asia, Africa, America Latina. Trova la sempre presente “questione meridionale”. Una realtà fatta di soprusi, di estrema povertà, di rassegnazione in basso nei confronti dell’arroganza del potere dei signorotti locali, di istituzioni e di apparati di Stato collusi con la mafia, di chiesa-istituzione con molti retaggi di clerico-fascismo, anch’essa collusa con la mafia (campione il cardinale di Palermo, Ernesto Ruffini), di regime democristiano che praticava sistematicamente il voto di scambio, con l’uso clientelare-mafioso della spesa pubblica e dei posti di lavoro nella pubblica amministrazione. E il collateralismo dell’economia privata intrecciata agli appalti e al potere democristiano stesso.
Dolci trova la fame, la denutrizione, la disoccupazione o il lavoro umiliato, oppresso all’estremo. Il lavoro con l’immagine che racchiude un mondo, l’incontro in piazza del paese tra bracciante e padrone. Con il padrone che passa e dà la poca paga nelle mani dietro la schiena del bracciante. Non a viso aperto. Quasi fosse una concessione, una elargizione, il rapporto criminale feudale: tu non esisti.
Trova anche le fogne a cielo aperto, e trova l’uso mafioso-clientelare dell’acqua come bene scarso, senza che si ponga mano a costruire adeguate infrastrutture, acqua scarsa da utilizzare per angariare ulteriormente le classi subalterne. Trova la mortalità infantile e le malattie tipiche dei bambini del Sud del mondo. Il tifo e il tracoma di Palma di Montechiaro (Agrigento) divennero allora l’emblema della miseria e dell’arretratezza della nostra terra, rendendo sinistramente celebre l’Italia e la Sicilia nel mondo.
In definitiva Dolci trova la terra, il contesto umano, sociale e politico dove viene realizzata la prima “Strage di Stato” a Portella della Ginestra il primo maggio 1947.
I.
Questo rapido compendio per ribadire ulteriormente come la personalità di Danilo Dolci, con la sua testimonianza e con la sua militanza civile, risalti ancor più proprio in relazione al contesto in cui viene a vivere e a operare. La sua impostazione della “inchiesta”, del confronto continuo (il famoso metodo educativo maieutico) con i braccianti, i ‘jurnatari’, i contadini, i pastori, i pescatori, con le donne misere di questo mondo oppresso, ulteriormente oppresse dal sempiterno patriarcato. Il confronto nel ricercare assieme possibili soluzioni e possibili forme di lotta efficaci (la non-violenza, lo “sciopero alla rovescia”, lo sciopero della fame, ecc.) risultarono dirompenti ed educarono molti giovani tra anni Cinquanta e Sessanta, ma soprattutto i giovani che tra fine anni Sessanta e inizio anni Settanta erano alla ricerca di un impegno sociale e politico all’altezza dei problemi di quel tempo. Naturalmente con la spinta del ’68 che imprimeva una accelerazione in questa direzione.
Dolci influenzò molto. E soprattutto attrasse l’attenzione. Il sostegno nei suoi celebri processi subiti, con annessa carcerazione in un caso, il sostegno di intellettuali di grande levatura, italiani e stranieri. L’elenco è lungo. Elio Vittorini, Carlo Levi, Alberto Moravia, Cesare Zavattini, Lucio Lombardo Radice, Renato Guttuso, Enzo Sellerio, Jean-Paul Sartre, Bertrand Russell, Jean Piaget, ecc.
Un caso a parte è la “incomprensione” tra Dolci e Leonardo Sciascia. Due che, detto per inciso, assieme ad altri, personalmente mi hanno aiutato molto nella presa di coscienza di tutta la fenomenologia della questione meridionale, della mafia, del regime democristiano, delle forme del potere. In un paese come l’Italia, molto cattolico e poco cristiano, sotto regime democristiano e malgrado la forte presenza comunista e socialista e malgrado la forte presenza sindacale, presenze queste che, ricordiamolo, hanno aiutato molto l’azione da “società civile” di Dolci, l’appoggio materiale c’è stato, ma non come quello che Dolci ricevette da istituzioni e persone in Svizzera, in Svezia, in Danimarca, in Germania, ecc. Con i media di questi paesi molto attivi nelle interviste, nei servizi a lui dedicati.
La sua attività di educatore, di sociologo, di poeta fu accompagnata da un’importante attività di costruttore di iniziative come la costruzione della diga sul fiume Jato, quale parte della soluzione del problema dell’acqua, di costruttore di istituzioni, come il Centro Studi a Partinico e poi il Centro Educativo di Mirto (Partinico).
Fu anche accompagnata da una notevole attività di scrittore e di saggista. Molte opere rimangono ancora oggi. Certo allora pubblicate anche da importanti editori come Einaudi, Laterza, Feltrinelli. Oggi alcune di queste opere riproposte dalla benemerita Sellerio. Banditi a Partinico, Inchiesta a Palermo, Spreco, Racconti siciliani, Inventare il futuro ecc.; e poi le raccolte di poesie Il limone lunare e Creatura di creature.
II.
Nella celebrazione del centenario si è molto sottolineato il tratto distintivo di Danilo Dolci del metodo non-violento (il “Gandhi italiano”), il suo rapporto con Aldo Capitini, l’aver egli improvvidamente accusato Bernardo Mattarella, padre dell’attuale Presidente della Repubblica, allora uno dei ras democristiani, componente della potente oligarchia Dc (solidale-conflittuale, alla Todo Modo di Leonardo Sciascia).
Mattarella certamente non alla stregua dei vari oligarchi, campioni nel connubio mafia-politica, Giovanni Gioia, Salvo Lima, Vito Ciancimino, ecc. Ma pur sempre complice di quel mondo così corrotto e corruttore, così antipopolare pur nel populismo da sagrestia, da elargitore di “favori”, da “baciamo le mani” ecc.
A noi oggi preme invece sottolineare che l’indignazione e il coraggio muovono le persone buone. Le persone “di tenace concetto”, locuzione da un’opera di Sciascia. Non è buonismo. È spesso il loro il supplemento di soggettività e di protagonismo che è richiesto proprio come compensazione della mancanza di indignazione e di coraggio in una società così aspra, feroce, intimorita, minacciata come quella siciliana. Alla mercé delle dinamiche del potere nazionale e alla mercé dei gruppi dominanti locali.
Con l’enorme “zona grigia” di piccola e media borghesia, della onnipresente piccola borghesia impiegatizia e professionistica (Gaetano Salvemini e poi ripreso da Antonio Gramsci), di chi è pronto al compromesso, di chi è pronto a trovare il modo, e l’interesse, a convivere in un contesto così francamente invivibile.
Nel mare di rassegnazione delle classi subalterne impotenti, annichilite, umiliate, rese analfabete, senza voce, Danilo Dolci ha cercato con la sua testimonianza di rendere “soggetti” queste classi subalterne. E a giusto titolo pertanto egli rientra tra quelle figure profetiche, assieme a don Milani e a tante altre personalità, che hanno ispirato e continuano a ispirare, che hanno contribuito a emancipare, a dare voce “ai poveri cristi”, a dare un poco di potere, anche se spesso effimero, a esseri umani, donne e uomini, i senzapotere.
Giorgio Riolo
(Tratto da: Giorgio Riolo, Danilo Dolci e la Sicilia come metafora del mondo offeso, in «Sinistra Sindacale», n. 14/2024, 15 luglio 2024).
Inserito il 27/07/2024.
È sorprendente come da 40 anni resista in Andalusia una comunità rurale nata dagli espropri dei latifondi nobiliari: le decisioni vengono prese in maniera collettiva, le case si riscattano pagando un mutuo di 15 euro al mese, si redistribuisce il reddito collettivo della cooperativa e ci si divide il lavoro in modo da annullare la disoccupazione. Il sindaco comunista della Municipalità di Marinaleda, con il sostegno della Giunta regionale dell’Andalusia, è il maggiore artefice di questo esperimento finora riuscito.
Presentiamo alcuni articoli su questa realtà e la trascrizione di una trasmissione di Rai Radio1 dedicata a un giovane calciatore del Barcellona che è arrivato alle vette del calcio spagnolo proprio grazie a Marinaleda e al suo sindaco Juan Manuel Sanchez Gordillo.
Nel 2023 Gordillo, dopo 40 anni di governo del paese, ha rinunciato a presentarsi alle elezioni municipali per motivi di salute, e vedremo se i suoi successori riusciranno a portare avanti l’esperimento socio-politico di Marinaleda in una Spagna cambiata e in una Andalusia non più rossa come un tempo.
Il murale del Che a Marinaleda.
Fonte della foto: https://it.granma.cu/mundo/2019-12-31/la-fine-della-gloriosa-marinaleda
Dal blog di Fabio Balocco sul sito de «il Fatto Quotidiano»
di Fabio Balocco
«Il paese si chiama Marinaleda, circa 2.700 abitanti. Dal 1979, a Marinaleda la giunta è guidata da Juan Manuel Sánchez Gordillo, una figura storica all’interno del Sindacato dei lavoratori agricoli, il Soc, cuore del Sindacato andaluso dei lavoratori (Sat).
Da quando lui è al governo, la popolazione, dapprima assai povera, ha occupato terreni abbandonati di latifondisti per metterli a reddito, ed in seguito una grossa tenuta è stata ceduta dal proprietario al comune perché fosse assegnata alla popolazione più povera».
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Spagna, Marinaleda: ma allora il socialismo non è un’utopia?
di Fabio Balocco
Solo oggi, colpevolmente, vengo a conoscenza, grazie ad un articolo apparso su La Repubblica, di una piccola comunità in Andalusia dove non esiste la disoccupazione, ed in più la gente vive di ciò che ricava dalla coltivazione della terra e dalla trasformazione dei frutti della stessa.
Il paese si chiama Marinaleda, circa 2.700 abitanti. Dal 1979, a Marinaleda la giunta è guidata da Juan Manuel Sánchez Gordillo, una figura storica all’interno del Sindacato dei lavoratori agricoli, il Soc, cuore del Sindacato andaluso dei lavoratori (Sat).
Da quando lui è al governo, la popolazione, dapprima assai povera, ha occupato terreni abbandonati di latifondisti per metterli a reddito, ed in seguito una grossa tenuta è stata ceduta dal proprietario al comune perché fosse assegnata alla popolazione più povera. Fin dall’inizio del suo mandato quasi tutta la popolazione in grado di lavorare si è dedicata appunto alla coltivazione ed alla trasformazione dei frutti della terra riunendosi nella Cooperativa Humar – Marinaleda SCA, creata dagli stessi lavoratori. In più sono sorti un piccolo commercio ed una piccola distribuzione locale.
A Marinaleda oggi si producono, conservano ed esportano (anche in Italia e persino in Venezuela) peperoni, carciofi, legumi, olio d’oliva. La disoccupazione è allo 0%, mentre nel resto dell’Andalusia la media è il 34% ed arriva al 63% fra i giovani con meno di 25 anni. Il salario è lo stesso per tutti, qualunque sia la mansione: 47 euro al giorno per sei giorni la settimana. E se in qualche stagione il raccolto non è soddisfacente per via delle intemperie, si lavora meno ma si lavora tutti.
Sempre improntato ad un principio solidaristico anche il diritto alla casa. Il sistema di welfare messo su negli anni permette ai cittadini di costruirsi una casa con un anticipo di 15 euro. Basta mettere a disposizione la propria forza lavoro. Nessun mutuo e nessun interesse da versare ad istituti di credito: il terreno e il progetto li mette il Municipio, il denaro lo presta a tasso zero il governo andaluso e la quota mensile da versare per l’acquisto la decidono in assemblea gli stessi cittadini autocostruttori.
I servizi alla cittadinanza: l’asilo è aperto dalle 7 alle 16 e la mensa scolastica costa 12 euro al mese, la piscina 3 euro per tutta l’estate. E la cura degli spazi comuni compete a tutti i cittadini: durante le cosiddette “domeniche rosse” la popolazione si dedica a pulire strade, aiuole e giardini. La Polizia locale si decise di non istituirla, sia per risparmiare soldi pubblici, sia perché non esiste criminalità.
La gestione della cosa pubblica è estremamente partecipativa e si svolge attraverso Assemblee Generali, che si riuniscono 25/30 volte l’anno per dare voce alla popolazione ed alle sue istanze, e Gruppi d’Azione che si prefiggono di risolvere gli specifici problemi.
Deputato del Parlamento andaluso dal 2008 nel partito Izquierda Unida (“Sinistra Unita”), il sindaco Juan Manuel Sanchez Gordillo decise di devolvere il suo compenso da parlamentare alla comunità di Marinaleda. Nel discorso di insediamento egli pronunciò le seguenti parole: “Davanti alla legge prometto e mi riprometto di lottare con tutte le mie forze per sovvertire il sistema di produzione capitalistico.”
Il simbolo di Marinaleda è una colomba che vola sul paese ed intorno la scritta: “Marinaleda – Un’utopia verso la pace”. Le vie della città sono dedicate ora a Salvador Allende ora a Che Guevara, ora a solidarietà, o fraternità, o speranza.
Certo, mi rendo conto che una cosa è governare una piccola località ed un’altra un intero paese. Però credo che davvero dall’esperienza di Marinaleda si possano comunque trarre ottimi spunti. E quante piccole località potrebbero seguirne l’esempio? Nel frattempo, qualcuno può girare per favore questo post ai capi della nostra pseudo sinistra?
13 gennaio 2014
Fabio Balocco
(Tratto da: https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/01/13/spagna-marinaleda-ma-allora-il-socialismo-non-e-unutopia/840936/).
Inserito il 27/06/2024.
Dal sito «propositivo.eu»
di Antonella Savino
«Via della Solidarietà, Via Fratellanza: non sono le tappe di un gioco da tavolo, ma i nomi delle strade in una cittadina a disoccupazione zero. L’affitto in Via Che Guevara costa soltanto 15 euro, perché, secondo il primo cittadino, la casa è un diritto, non un affare».
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Marinaleda, il comune che si è autocostruito
di Antonella Savino
Via della Solidarietà, Via Fratellanza: non sono le tappe di un gioco da tavolo, ma i nomi delle strade in una cittadina a disoccupazione zero. L’affitto in Via Che Guevara costa soltanto 15 euro, perché, secondo il primo cittadino, la casa è un diritto, non un affare.
Marinaleda si trova nel sud della Spagna, in una regione degradata da dozzine di edifici industriali vuoti e fabbriche dismesse. Ciò che sembra aver trasformato un triangolo di campagna sivigliana nei 25 chilometri quadrati più rivoluzionari d’Europa è la sua giunta comunale, guidata da Juan Manuel Sánchez Gordillo dal 1979. Il paese si fa notare grazie alla Cooperativa Humar, l’impresa agricola che consente di dare un impiego a tutte le famiglie del territorio: questa attività è in grado di assumere l’intera popolazione lavorativamente attiva del villaggio e garantisce uno stipendio mensile di 1.128€ a tutti i suoi dipendenti. Il compenso di 47€ giornaliere, infatti, si ottiene lavorando sei giorni alla settimana, per 35 ore settimanali, qualunque sia la mansione svolta.
La gestione comunale del paese si muove controcorrente anche in altri campi. La polizia di Stato non è stata ritenuta un servizio indispensabile, per esempio, per cui a Marinaleda con c’è la questura. Le questioni amministrative si discutono quasi mensilmente in gruppi d’azione. Oltre a partecipare alle Assemblee Generali del Municipio, la cittadinanza è coinvolta in diversi servizi, tra cui pulire strade e giardini. In questo modo il Comune può permettersi di abbassare la retta per la mensa scolastica a 12€ al mese. La linea politica della giunta interviene anche per dare ristoro nella calda estate andalusa: il primo tuffo nella piscina pubblica costa 3 euro, ma poi l’ingresso è libero per tutta la stagione.
Per quanto riguarda le soluzioni abitative, l’Amministrazione municipale propone un affare: il Comune ci mette il terreno edificabile, il materiale per costruire lo stabile, gli operai, gli architetti per progettare 90 metri quadri di unifamiliare con balcone e 100 metri quadri di giardino. Tutto gratis. Il cittadino diventa proprietario dell’abitazione versando ogni mese il costo di due biglietti del cinema, con il vincolo di contribuire alla costruzione dell’edificio. Inoltre la casa non può essere venduta, perché il punto di forza della pianificazione urbanistica di Marinaleda è che si oppone alla speculazione. Su 2650 abitanti 350 famiglie si sono autocostruite la casa.
Questo piano economico e organizzativo nasce da una presa di posizione politica radicale, fomentata dal sindaco Juan Manuel Sánchez Gordillo. Militante del partito comunista spagnolo fin da giovane, lui stesso si definisce un nemico giurato del capitalismo. Padre di tre figli, 62 anni, una barba folta e cespugliosa, è stato il primo volto democratico che Marinaleda ha eletto una volta tramontata la dittatura franchista. Negli ultimi 35 anni non ha mai smesso la fascia di primo cittadino del suo paese e allo stesso tempo Sánchez Gordillo dirige il sindacato dei lavoratori CUT-BAI. Fino a qualche anno fa insegnava storia, secondo alcuni con eccessivo fervore politico. È persino sopravvissuto a due attentati da parte di esponenti di estrema destra. A causa delle sue manifestazioni di protesta al limite con la legalità, la stampa internazionale ha sempre mantenuto in bilico il suo personaggio pubblico tra la figura di Robin Hood e quella di Don Chisciotte: da una parte il sindaco ribelle è visto come un araldo della redistribuzione economica attraverso la cooperazione, dall’altra è considerato l’organizzatore di espropriazioni territoriali e materiali.
Sánchez Gordillo procede nel suo mandato politico con pragmatismo e accusa l’esecutivo conservatore di Rajoy per la profonda recessione in cui si trova la Spagna. “La linea politica di questo governo non è rivolta ai problemi delle persone; è rivolta verso i problemi delle banche”, afferma l’alcalde di Marinaleda. È convinto che un altro mondo non è possibile: è necessario. Per questo ha scelto di lottare con tutte le sue forze per sovvertire il sistema di produzione capitalistico. Considera la sua carica politica un servizio alla comunità, per cui non desidera ricevere alcun compenso economico. Lo dimostra devolvendo il suo stipendio da parlamentare alla comunità di Marinaleda, fin dalla sua elezione a deputato nel Partito comunista spagnolo Sinistra Unita (IU), avvenuta nel 2008.
Come mai in Europa non si sono diffusi gli affitti low-cost e le cariche politiche trattengono salari elevati? “Il modello non viene esportato, perché non c’è volontà politica, non interessa”, dice Sánchez Gordillo. Forse case e stipendi standardizzati non fanno gola a chi non deve combattere per avere anche solo uno dei due. L’idea di lavorare a rotazione per garantire a tutti i membri della comunità un introito non seduce. È troppo provocante.
Una persona razionale non può aspettarsi un effetto valanga da questa esperienza andalusa. Marinaleda è, come è stata definita dai suoi stessi cittadini, un’utopia verso la pace. Tantomeno una popolazione complessiva che non raggiunge i 3.000 abitanti può essere un modello paragonabile ad alcuna realtà nazionale. Dello Stato italiano, Marinaleda ha soltanto i colori della bandiera. Eppure quest’oasi socialista è l’occasione per mettere in discussione il concetto sociale e politico di cui si fa portavoce. La decrescita è un modello economico che può opporsi al capitalismo con provocazioni che sollecitano risposte concrete. Ma soprattutto questa inversione di tendenza avrebbe bisogno di cittadini disposti a cambiare stile di vita, oltre che un organizzazione comunitaria. Pochi elettori abbraccerebbero una dimensione sociale più partecipativa e solidale di quella in cui sono già immersi.
Juan Manuel Sánchez Gordillo è un personaggio controverso che vale la pena di considerare quando indica la stella polare della partecipazione politica per una comunità solidale. La collaborazione sociale che ha attuato a Marinaleda è esemplare, anche se al di fuori del paese resta un’utopia. Nel sistema del consumo piace sapere che si tenti di ottenere eguaglianza sociale, ma non che qualcuno ci è riuscito.
A volte le utopie fanno più comodo se rimangono tali. Eppure nei pressi di Siviglia c’è un paese dove si coopera per raggiungere un benessere equo per tutti. C’era una volta? No, ancora c’è.
15 marzo 2014
Antonella Savino
(Tratto da https://www.propositivo.eu/marinaleda-un-utopia-verso-la-pace).
Ansu Fati e il sindaco comunista di Marinaleda Juan Manuel Sanchez Gordillo.
Fonte della foto: https://forocoches.com/foro/showthread.php?t=9212467
Dal programma di Rai Radio1 «Numeri Primi»
di Francesco Graziani
Esproprio, milioni, Barcellona, Che fare?… È arrivato dall’Africa, è cresciuto in un paese dove il mutuo per la casa ha rate da 15 euro al mese e dove il lavoro ti viene assegnato dall’Assemblea cittadina. A Marinaleda, in Spagna, tutti dividono quello che hanno. E ora che farai dopo che hai firmato il tuo primo contratto milionario con il Barcellona? Questa è la storia di Ansu Fati.
Enrico Berlinguer (1922-1984).
Fonte della foto: https://www.tecnicadellascuola.it/cento-anni-fa-come-oggi-25-maggio-nasceva-enrico-berlinguer
Dal quotidiano «il manifesto»
di Luciana Castellina
La «svolta» del 1980 aprì un confronto nel Pci più aspro e profondo di quello degli anni Sessanta e divise la maggioranza che governava il partito.
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Il caso Berlinguer
L’addio al Compromesso poteva impedire il crollo
di Luciana Castellina
Iniziative in memoria di Enrico Berlinguer si vanno moltiplicando in questo anniversario della sua scomparsa. Anche da parte del Pd, quasi si fosse reso conto d’improvviso che quel segretario del Pci è tutt’ora figura molto popolare. Persino i suoi occhiali come immagine che illustra la tessera per l’anno prossimo. Sebbene capisca e condivida la commozione con cui vengono accolte, queste commemorazioni non mi piacciono.
Peggio: penso siano un’operazione censoria, che cancella una parte assai significativa della vicenda politica della sinistra italiana, quella che è stata chiamata «la seconda svolta di Salerno», di cui i più giovani sanno pochissimo ma che dovrebbe però esser ben ricordata dalle generazioni che a quel tempo erano già mature. Credo sia un peccato, perché una riflessione generale su quel passaggio sarebbe utile a tutti.
La data di quella svolta politica di Berlinguer è infatti quella in cui si aprì nel Pci il confronto più aspro, ben più profondo di quello che lungo tutti gli anni Sessanta oppose gli «ingraiani» alla linea ufficiale del Partito, e, soprattutto, ben più gravido di conseguenze perché produsse una assai severa divaricazione all’interno stesso della maggioranza che l’aveva unitariamente governato sin dalla scomparsa di Togliatti. A produrla fu un sofferto ripensamento di Berlinguer sulla linea da lui avviata del «compromesso storico». Anche la seconda «svolta», dopo quella di Togliatti appena rientrato nel 1944 dall’esilio sovietico, ha legato il suo nome alla città di Salerno, ma per un evento del tutto imprevisto e casuale: il terremoto del novembre del 1980 in Irpinia. Una scossa fortissima che devastò una amplissima area del paese e che portò alla ribalta il livello di corruzione e di degenerazione che aveva ormai finito per caratterizzare il “regime” democristiano. Un altro terremoto, questa volta politico. Che come prima conseguenza aveva quella di rendere non più proponibile l’ipotesi di un compromesso con la Democrazia cristiana quale erano stati i governi di unità nazionale. Non si trattò di uno sfogo improvviso, ma del prodotto di fatti che rendevano ormai impossibile proseguire su quella linea. E infatti a questa conclusione Berlinguer era giunto già prima, innanzitutto per via delle elezioni del 1979, quando il Pci aveva subito una perdita di voti non grande ma significativa, perché il calo, rispetto al grande balzo in avanti del 1976, si era verificato in particolare nelle aree operaie e fra i giovani, indicando un indebolimento della identità di classe del partito.
In quegli anni stava diventando evidente un processo nuovo e ben più preoccupante di cui Berlinguer si era reso conto: la fine del ciclo espansivo del capitalismo e dunque il venir meno dei margini che avevano reso possibile il compromesso sociale del primo dopoguerra. Un dato che la crisi petrolifera del 1970 aveva reso chiaro e che infatti segnò l’inizio della pesante controffensiva avviata da Thatcher e Reagan, un vero cambio d’epoca che oggi risulta anche più evidente e che tutt’ora tuttavia il Pd sembra sottovalutare (fu proprio «il manifesto» che produsse un lungo e importantissimo dibattito cui parteciparono i più celebri economisti dell’epoca, una serie di articoli a partire da uno introduttivo di Lucio Magri, poi raccolti in un volume curato da Valentino Parlato, Spazio e ruolo del riformismo).
Berlinguer aveva già reagito con una fermezza ben lungi dall’esser condivisa da tutto il gruppo dirigente del Pci. Innanzitutto con la solidarietà espressa agli operai della Fiat colpiti prima dal licenziamento di ben 13mila di loro e subito dopo dall’accettazione del peggior compromesso mai avallato dalla Fiom, cassa integrazione per 23mila dipendenti.
La convocazione straordinaria della direzione del partito a Salerno, epicentro delle iniziative in favore della popolazione colpita dalla scossa, fu certamente pensata per dare il giusto rilievo al mutamento di linea politica che Berlinguer aveva deciso: la proposta di una linea di alternativa, o quanto meno di una eventuale convergenza con la Dc ma in una compagine che riconosceva la centralità del Pci. A sottolineare il senso della «svolta» vennero subito dopo una serie di interviste, e di scelte di Berlinguer che ne approfondirono il significato. Riporto, per la sua chiarezza, una sua frase: «I partiti hanno degenerato, sono solo macchine di potere e di clientela, scarsa o mistificante conoscenza della vita e dei problemi della gente, ideali e programmi pochi e vaghi, sentimenti e passione civile zero. Gestiscono interessi spesso contraddittori, talvolta loschi, comunque senza rapporto con i bisogni emergenti. Senza smantellare tale macchina politica ogni risanamento economico, ogni riforma sociale, ogni avanzamento morale e culturale è precluso in partenza».
Una cruda denuncia della crisi della democrazia nel nostro paese che fu invece interpretata come si ricorderà come «moralismo». Così come la sua condanna del consumismo, evidente accenno alla catastrofe ecologica che si stava cominciando a delineare, fu bollata come funesto giudizio di un vecchio bacchettone.
Aggiungo, soprattutto per i più giovani che non ne hanno memoria, che lo strappo con Mosca, maturo già al tempo dell’intervento sovietico a Praga nel 1968, venne attuato da Berlinguer con modalità inconsuete: un’esplosiva dichiarazione alla Tv in cui egli dice che «la spinta propulsiva» della Rivoluzione d’ottobre, «il più grande evento rivoluzionario della nostra epoca, si è esaurita». Non dunque che sarebbe stato meglio non ci fosse stata, come è poi stata la vulgata nelle successive reincarnazioni del Pci. Quel riconoscimento, che prelude al crollo del Muro avvenuto quando lui era già scomparso, per Berlinguer avrebbe dovuto evitare che si aprisse una deriva, poi purtroppo invece verificatasi, di «nuovismo liquidazionista». L’indicazione di Berlinguer era assai diversa, quella che poi fu chiamata «Terza via» (naturalmente non aveva nulla a che vedere con quella che poi fu incarnata da Blair), ma era in linea con il movimento pacifista che proprio negli anni Ottanta arrivò al massimo della sua forza indicando l’obbiettivo del disarmo e dell’autonomia dell’Europa.
Decisivo fu per tutti noi – Pdup e Fgci che si era spostata a sinistra – il telegramma di solidarietà che Berlinguer ci mandò in occasione delle botte che prendemmo al primo blocco della base di Comiso. Da quel momento tutta la Sicilia, guidata da Pio La Torre, appoggiò con grande forza i pacifisti italiani ed europei che giunsero per anni nell’isola impugnando lo slogan: «Per un’Europa senza missili dall’Atlantico agli Urali». Quel movimento aiutò non poco la firma dell’accordo cui si giunse nel 1985 ad Helsinki sul disarmo. Cui mancò, ovviamente, la firma degli Stati Uniti.
Fu questo tentativo di Berlinguer di conservare, nel nuovo contesto internazionale prodotto dalla scomparsa dell’Urss, una forza in grado di contrastare l’allineamento dell’Italia ad una perdente modernizzazione, sbandierata da Craxi, che indusse il Pdup ad accettare nel 1983 l’accordo elettorale. I suoi candidati furono inseriti (con successo) nelle liste del Pci non come indipendenti ma con la sigla del proprio partito. Accogliemmo poi l’invito che Berlinguer venne personalmente a proporci al nostro congresso del 1984 di rientrare nel Partito. Ai massimi livelli.
Poiché come sapete nel Pdup era restata la maggioranza dei compagni dell’area «manifesto», nonostante l’incrinatura intervenuta nel 1978 fra organizzazione territoriale e redazione del quotidiano, mi è parso giusto ricordare su queste pagine che sia io sia una grande quantità di compagni riconoscono come politicamente (anche se non più giuridicamente) nostra l’intelligenza e la lungimiranza del compagno Enrico Berlinguer.
Luciana Castellina
(Tratto da «il manifesto», 7 giugno 2024).
Inserito il 14/06/2024.
Hans Modrow (1928-2023).
Autore della foto: Hartmut Reiche. Di Bundesarchiv, Bild 183-1989-1113-054 /Hartmut ReicheDescrizionefotoreporter e fotografo tedescoAuthority file: Q110733560/ CC-BY-SA 3.0, CC BY-SA 3.0 de
Fonte della foto: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5424841
di Hans Modrow
Come si era ridotta l’economia pianificata sovietica alle soglie della perestrojka? Hans Modrow, dirigente della DDR negli anni Ottanta, ne parla brevemente nel suo libro di memorie sulla fine del primo stato socialista sul suolo tedesco.
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Anni ’80: la crisi della pianificazione sovietica
Piano… pianissimo, anzi, indietro!
di Hans Modrow
Alla metà degli anni Ottanta, l’economia civile sovietica era ai minimi storici. Le fabbriche erano controllate, sia sul piano amministrativo sia su quello burocratico, dallo stato ed erano economicamente e giuridicamente isolate l’una dall’altra: non esistevano né un mercato né alcuna relazione tra produttore e consumatore. Non c’era nessun proprietario, di conseguenza nessuno sentiva come proprio ciò che faceva e i direttori erano amministratori senza responsabilità. Ecco come appariva questa situazione in dettaglio:
1) L’autorità centrale di pianificazione non disponeva di informazioni sufficienti su quali prodotti fossero effettivamente necessari al paese e in quali quantità. C’erano degli obiettivi specificati nel piano per cui si doveva continuare con il tipo e la quantità della produzione precedente. Il livello della produzione era assunto come obiettivo primario e se scendeva sotto le direttive il piano veniva corretto.
L’obiettivo del piano veniva sistematicamente aumentato ogni anno dal due al quattro percento, ma le direttive non venivano mai soddisfatte. Lo stato effettivo della produzione alla fine dell’anno era assunto (dopo la correzione del piano) come completa realizzazione del piano. Ciò portò all’assurda situazione per cui, mentre anno dopo anno il “piano” si realizzava, il piano quinquennale complessivo non poteva però mai essere raggiunto.
Questa situazione insostenibile era aggravata dal fatto che i dirigenti delle fabbriche, seppure non riuscissero a rispettare il piano, obbligatorio per legge, fingevano allora di raggiungere la crescita richiesta del due o del quattro percento e richiedevano, di conseguenza, maggiori forniture agli uffici di pianificazione. Le consegne delle forniture inviate dagli uffici centrali di pianificazione erano di solito inferiori alle quantità ordinate (dopotutto, c’era carenza ovunque), quindi i dirigenti delle fabbriche richiedevano più di quanto fosse effettivamente necessario, seguendo il principio secondo cui ordinando dieci, forse si riusciva a ottenere il due di cui si aveva realmente bisogno. Poiché questi trucchi erano noti alle autorità di pianificazione, queste non potevano fare una stima adeguata di ciò di cui avevano realmente bisogno le rispettive unità produttive, e finivano quindi con l’ignorare del tutto le richieste. In poche parole, questo tipo di pianificazione era completamente inutile. La produzione non soddisfaceva i bisogni reali, le carenze o la sovrapproduzione costituivano gli indicatori determinanti, ma non c’era nessuno che fosse ritenuto responsabile per lo spreco e lo sperpero di ricchezza e lavoro. L’assenza di responsabilità organizzata regnava in tutto il paese. Il peggior impatto si ebbe nell’agricoltura, dove andava perso regolarmente circa un terzo dei raccolti. Tale perdita doveva essere compensata annualmente con l’importazione di diversi milioni di tonnellate di cereali, principalmente dagli Stati Uniti, ai quali venivano destinate sempre di più le già scarse riserve di valuta estera.
2) Il comitato dei prezzi di Stato determinava i prezzi delle merci, che erano quindi più o meno arbitrari. Da un lato, il costo dei prodotti importati doveva rimanere stabile per ragioni politiche, indipendentemente dal fatto che le materie prime fossero diventate più o meno costose, o che la produzione diventasse più efficace attraverso l’automazione o meno. Dall’altro, i prezzi dei beni di consumo di qualità relativamente elevata tendevano ad aumentare per almeno due motivi: primo, perché non ce n’era una quantità sufficiente per soddisfare la domanda, e in secondo luogo perché si doveva far credere ai consumatori di aver acquistato qualcosa di molto speciale (anche se questo accadeva di rado).
I prezzi non erano dunque determinati dall’offerta e dalla domanda, cioè dal mercato, dal valore d’uso di una merce o dai costi di produzione, ma dall’arbitrio soggettivo dell’autorità.
3) Anche la qualità dei prodotti aveva scarso effetto sulle vendite: lo stato garantiva infatti l’acquisto di ogni prodotto. I reclami erano pressoché impossibili. Per quanto riguardava le macchine agricole, per esempio, erano avvenuti molti miglioramenti, ma erano stati i kolchoz e i sovchoz stessi a metterli in atto. Inoltre, ogni unità agricola si vedeva obbligata a mantenere la propria riserva di pezzi di ricambio, ottenuta tramite il baratto: grano in cambio di ruote dentate, patate in cambio di cemento, tavole in cambio di lame, ecc. Questa economia sotterranea, al di fuori del normale commercio, non solo privava il “mercato” di notevoli quantità di merci, ma impiegava anche una grande quantità di personale. I lavoratori venivano continuamente distolti dai loro compiti nei cantieri, nelle strutture agricole, nelle fabbriche, per occuparsi dello scambio o dell’acquisizione di beni. Alla fine del mese, gli stipendi venivano pagati in parte in contanti, in parte in beni o in tessere di razionamento per beni e servizi.
Questi e altri fattori portarono, anche in aziende paragonabili tra loro, a livelli di redditività molto diversi. L’autorità di pianificazione e gestione economica centrale si preoccupava poi della compensazione. Le aziende in rosso perdevano così ogni stimolo a uscire da questa condizione: chi rifiuterebbe volontariamente delle sovvenzioni? Una seconda sovvenzione era destinata agli investimenti, ma raramente arrivava a coprire il cinquanta percento dei reali bisogni. In circostanze normali ciò avrebbe suscitato una maggiore creatività da parte dell’amministrazione delle imprese, che si sarebbe posta come obiettivo quello di colmare il divario con l’aiuto di innovazioni tecnologiche e ricorrendo a ogni risorsa tecnica. Ma questo era escluso: le imprese non avevano nessuna autonomia e difficilmente erano in grado di pianificare e lavorare a livello di economia aziendale, perché, oltre a tutto il resto, dipendevano dalle autorità preposte alla pianificazione di stato. Ogni segretario di partito, ogni istituzione territoriale, fosse essa di partito o di stato, era autorizzata a interferire negli affari interni delle aziende. Gli ordini dei “superiori” avevano una priorità maggiore rispetto al piano e alla redditività. A subirne le conseguenze, tuttavia, erano esclusivamente le imprese.
Hans Modrow
(Tratto da: Hans Modrow, La perestrojka e la fine della DDR. Come sono andate veramente le cose, Milano-Udine, Mimesis Edizioni, 2019, pp. 36-38).
Inserito il 01/04/2024.
Sovietici in coda per la penuria di prodotti durante la perestrojka.
Fonte della foto: https://cont.ws/@mastodont/2710174/full
Un documentario sulla storia locale
a cura dell’ANPI di Empoli
A Empoli, città tradizionalmente rossa, i fascisti faticarono non poco e radicarsi. Piccola Storia nella Grande Storia è un documentario realizzato da Giorgia Mariano e Manuel Carraro per l’ANPI di Empoli, nell’ambito del progetto Investire in Democrazia 2024.
Si tratta di una preziosa, ancorché sommaria, ricostruzione della storia del movimento operaio e della Resistenza empolese.
In futuro il nostro sito tornerà a parlare di un episodio fondamentale e controverso della storia dell’antifascismo empolese, i cosiddetti “fatti di Empoli”, con ulteriori materiali scritti e filmati.
Il generale vietnamita Vo Nguyen Giap (1911-2013).
Fonte della foto: https://www.wumingfoundation.com/giap/2011/08/centanni-di-vo-nguyen-giap/
Dal sito di «Wu Ming»
di Wu Ming
«Sia chiaro: per noi “Giap” non è tanto la Grande Personalità, il Nome Famoso, l’Eroe, il “battilocchio” la cui contemplazione distoglierebbe lo sguardo dai processi collettivi e di lungo corso. Al contrario, per noi “Giap” è molteplicità, “Giap” sta per le miriadi di persone che, ciascuna a suo modo, hanno contribuito alla decolonizzazione, alla lotta planetaria contro razzismo e colonialismo, alla presa di coscienza degli spossessati di vaste aree del mondo. Per noi “Giap” è il secolo, la parte del XX secolo che vale la pena continuare a interrogare, con spirito critico ma senza revisionismi cialtroneschi. Né replicare né rinnegare, assumersi la responsabilità del phylum che ci porta all’oggi, senza affannarsi a strappare pagine dall’album di famiglia per paura che le vedano gli sbirri della memoria. Vengano pure a perquisirci: noi non abbiamo vergogne» (Cent’anni di Vo Nguyen Giap, 2011).
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di Wu Ming
«Sia chiaro: per noi “Giap” non è tanto la Grande Personalità, il Nome Famoso, l’Eroe, il “battilocchio” la cui contemplazione distoglierebbe lo sguardo dai processi collettivi e di lungo corso. Al contrario, per noi “Giap” è molteplicità, “Giap” sta per le miriadi di persone che, ciascuna a suo modo, hanno contribuito alla decolonizzazione, alla lotta planetaria contro razzismo e colonialismo, alla presa di coscienza degli spossessati di vaste aree del mondo. Per noi “Giap” è il secolo, la parte del XX secolo che vale la pena continuare a interrogare, con spirito critico ma senza revisionismi cialtroneschi. Né replicare né rinnegare, assumersi la responsabilità del phylum che ci porta all’oggi, senza affannarsi a strappare pagine dall’album di famiglia per paura che le vedano gli sbirri della memoria. Vengano pure a perquisirci: noi non abbiamo vergogne» (Cent’anni di Vo Nguyen Giap, 2011).
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[Dal capitolo 32 di: Vitaliano Ravagli – Wu Ming, Asce di guerra, 2000]
Nell’ottobre del 1952 due divisioni del Vietminh occupano un villaggio Tai nella regione di Lai Chau, sul confine tra Laos, Cina e Tonchino settentrionale.
Il villaggio sorge in una valle lunga venti chilometri e larga undici, tagliata in due dal fiume Nam Yum, ed è appena stato evacuato da un battaglione laotiano collaborazionista. Nella lingua dei Tai si chiama Muong Thanh, ma i vietnamiti lo conoscono come Dien Bien Phu.
Da qualche mese il generale Giap sta pensando di passare il confine ed entrare in Laos, dove le guarnigioni francesi sono quasi tutte isolate e vulnerabili, a parte quelle di stanza a Vientiane e Luang Prabang. Giap non vuole impossessarsi del Laos, bensì provocare e intrappolare i francesi lungo il confine, dove le loro linee di rifornimento sono precarie.
Nell’aprile 1953 Giap penetra in Laos. È un’offensiva in grande stile: le divisioni Vietminh passano vicino alle fortificazioni francesi nella Piana delle Giare, cosparsa di monumenti funerari preistorici, e puntano su Luang Prabang, dove i cittadini sono stati allertati da un chiaroveggente cieco. Ma a un certo punto, per non farsi sorprendere dai monsoni, l’esercito di Giap ripiega e torna in Vietnam. Ha dimostrato di poter entrare nel Laos quando vuole, e può sempre riprendere l’affondo con la stagione secca.
I francesi si convincono che Dien Bien Phu è il punto strategico in cui bloccare l’offensiva Vietminh contro il Laos.
A maggio, il generale Salan viene sostituito dal generale Henri Navarre, ufficiale di carriera, reduce delle due guerre mondiali, che si dichiara ottimista sulle sorti del conflitto e proclama: «Vediamo chiaramente la vittoria come la luce in fondo a un tunnel.»
Navarre pensa di avere una missione: impedire a ogni costo l’invasione del Laos.
Il sottoposto di Navarre è René Cogny, lauree in legge e scienze politiche. Un altro consigliere è il colonnello Louis Berteil. Questo trittico di cervelli partorisce un piano ambizioso: prendere Dien Bien Phu e stabilirvi il punto d’appoggio per sfondare le retrovie di Giap.
A luglio, Navarre va a Parigi e sottopone il piano al primo ministro Joseph Laniel.
Il 28 ottobre, il Laos firma un trattato di alleanza e associazione con la Francia, che ne riconosce l’indipendenza e s’impegna a rispettarne la sovranità “in seno all’Unione Francese”.
La firma del trattato rafforza l’idea che il Laos vada difeso a ogni costo.
Nel frattempo, Navarre è tornato in Indocina, e dà inizio alla cosiddetta “Operazione Castoro”: cinque battaglioni francesi conquisteranno Dien Bien Phu.
Il colonnello Jean-Louis Nicot, capo dei trasporti aerei in Indocina, ammonisce che il cattivo tempo potrebbe ostacolare le operazioni. Nel frattempo, anche Cogny ha maturato dei dubbi e dice che Dien Bien Phu potrebbe diventare “un tritacarne”.
Navarre ormai è partito per la tangente, non sente ragioni, è convinto che il Vietminh non sarà in grado di fronteggiare un attacco su vasta scala.
In realtà, grazie a una serie di diversivi, Giap ha creato l’impressione che il grosso delle sue divisioni sia impegnato altrove: attentati ai convogli francesi sulle tratte che collegano il porto di Haiphong all’interno del paese, e ripetute incursioni nel Laos meridionale (“il manico della padella”). Giap sta preparando uno “scacco matto”: con la strategia degli attacchi sparsi blocca il Corpo di Spedizione francese in diverse regioni, e fa sì che non si possa fortificare un singolo punto senza sguarnirne un altro. Nel frattempo, i distaccamenti Vietminh si organizzano intorno a Dien Bien Phu.
Sa che i francesi si troveranno in posizione svantaggiosa, isolati, dipendenti dai rifornimenti aerei, mentre i suoi uomini si apposteranno sulle montagne che sovrastano la vallata, e potranno ricevere armi e rifornimenti dalle retrovie.
Il 20 novembre 1953, sei battaglioni del Corpo di Spedizione si paracadutano nella valle di Muong Thanh, e vi si insediano.
Al comando delle operazioni c’è un ufficiale di cavalleria, Christian Marie Ferdinand de la Croix de Castries, donnaiolo aristocratico, di discendenza militare fin dalle Crociate.
Nel frattempo tra i leader delle grandi potenze matura la convinzione che il conflitto in Indocina possa essere ricomposto, come è appena successo in Corea.
Stalin è morto da poco, e la nuova dirigenza sovietica vorrebbe attenuare le tensioni internazionali.
L’opinione pubblica francese è stanca della sale guerre, la sporca guerra, e preme su Laniel perché cerchi “una soluzione onorevole”.
I comunisti cinesi, al potere da soli quattro anni, sono ansiosi di svolgere un importante ruolo internazionale, per proporsi in chiave “moderata” e ottenere il riconoscimento dei paesi europei. Zhou Enlai, primo ministro, è dell’opinione che, cacciati i francesi, arriveranno a premere sul confine meridionale i ben più temibili americani, che non riconoscono la Cina popolare. Zhou è per concedere ai francesi un ruolo nelle loro ex-colonie del sud-est asiatico, anche scavalcando il Vietminh.
Tutt’altra tendenza manifestano gli usa: John Foster Dulles, segretario di stato di Eisenhower, insiste sulla linea del “contenimento” del comunismo, pensa che in Corea la partita sia ancora aperta nonostante la “tregua”, preme sui francesi perché rimandino ogni iniziativa diplomatica e migliorino le loro posizioni in Indocina. Concede loro un prestito di 500 milioni di dollari. I francesi accettano i soldi ma rimangono scettici sulla prosecuzione a oltranza del conflitto.
Nemmeno Ho Chi Minh è convinto che sia già il momento di trattare: preferisce piegare l’opinione pubblica francese e imporre lui le condizioni. Ma deve tenere conto delle esigenze cinesi: dopotutto, il Vietminh si avvale di consiglieri militari inviati da Pechino, e molti guerriglieri vietnamiti si sono addestrati in campi cinesi. Soprattutto, Zhou Enlai ha fornito al Vietminh cinquantamila tonnellate di materiali militari e vettovaglie. Infine, se la Francia ha paura è anche grazie ai duecentomila soldati cinesi schierati a ridosso del confine col Vietnam.
Il 29 novembre 1953 Ho Chi Minh comunica al mondo la sua disponibilità a porre fine alla guerra “con mezzi pacifici”.
Ma intanto s’avvicina lo scontro finale.
I francesi hanno già perso prima di combattere. La disfatta matura nel loro Quartier Generale di Saigon: Navarre non ha capito niente della strategia e del potenziale bellico di Giap, e non prende in considerazione alcuna ipotesi che non si adatti ai suoi preconcetti.
Secondo Navarre, Giap non può contare su ingenti forze, quindi si rifiuta di spostare i grandi distaccamenti francesi dal Vietnam centrale a Dien Bien Phu.
Ma Giap ha trascorso più di tre mesi a schierare gli uomini. A partire da novembre, da quando i parà francesi si sono sistemati nella valle, Giap sposta verso Dien Bien Phu trentatré battaglioni di fanteria, sei reggimenti di artiglieria e un reggimento del Genio. Alcuni di questi spostamenti durano 7-8 settimane, i soldati attraversano a piedi montagne e giungle, marciano di notte e dormono di giorno per evitare i bombardamenti.
All’inizio del ’54, a Dien Bien Phu ci sono cinquantamila combattenti vietnamiti, più altri ventimila lungo le linee di rifornimento. Invece i francesi sono tredicimila, metà dei quali sono nord-africani o indocinesi lealisti, poco e male addestrati al combattimento. Il resto sono quasi tutti legionari.
Navarre non crede che Giap possa disporre di un’artiglieria, figurarsi di una contraerea. Ma l’artiglieria è stata trascinata a mano o portata in bicicletta, un’impresa titanica. Il Vietminh dispone di ventiquattro obici da 105 mm., tutti di fabbricazione statunitense, trofei di guerra della Corea.
Navarre crede di poter usare i carri armati, che invece verranno bloccati dalla fitta boscaglia e, durante le piogge monsoniche, affonderanno in profondi acquitrini.
Insomma, l’esercito francese si trova soverchiato in un rapporto di cinque a uno, intrappolato in un buco di culo fangoso, cannoneggiato dalle colline circostanti (impossibilitato a contrattaccare perché le postazioni Vietminh sono perfettamente mimetizzate) e soprattutto isolato, senza possibilità di ricevere vettovaglie né di evacuare i feriti, perché gli obici di Giap devasteranno la pista d’atterraggio, bloccando tutti i voli in entrata e in uscita.
Come aveva predetto Cogny, Dien Bien Phu sarà “un tritacarne”.
Poco prima dell’alba del 13 marzo, l’assedio si trasforma in attacco. Gli obici aprono il fuoco, sorprendendo e paralizzando i francesi.
Castries ha fatto costruire quattro basi d’artiglieria, battezzate coi nomi di sue ex-amanti: Gabrielle, Anne-Marie e Béatrice sul lato nord della valle, Isabelle sul lato sud.
Giap scaglia la sua “onda umana” contro Gabrielle, Anne-Marie e Béatrice. Isabelle è troppo lontana per aprire un fuoco di copertura, inoltre è difesa da un terzo dell’intera forza francese, che non osa spostarsi nel timore di un altro attacco. Béatrice cade immediatamente, Gabrielle e Anne-Marie il giorno successivo. La pista d’atterraggio è completamente distrutta dagli obici.
Il vicecomandante francese, colonnello Charles Piroth, esperto di cannoni con un braccio solo, aveva dichiarato: «Nessun cannone Vietminh riuscirà a fare fuoco tre volte prima di essere distrutto dalla mia artiglieria.» All’alba del 15 marzo, Piroth stacca con i denti la linguetta di una bomba a mano e si fa saltare in aria. La sera prima lo hanno sentito dire: «Sono completamente disonorato.»
Quella dell’onda umana è una tattica tipica della guerra di Corea, e infatti l’hanno suggerita due consiglieri cinesi, Wei Guoqing e Li Chenghu. È una tattica costosissima in termini di vite umane, lo stesso Mao è contrario a ricorrervi. La forza di un esercito popolare dipende dalla coscienza politica di ogni singolo combattente, ciascun uomo è importante, non lo si può usare come carne da cannone.
Nei primi tre giorni di assalto, il Vietminh conta 2000 morti e 7000 feriti.
Giap decide di interrompere l’offensiva, lasciar perdere i suggerimenti dei cinesi e passare a una “strategia di attrito”. Nelle settimane seguenti, fa scavare gallerie e trincee fino a circondare la guarnigione francese con centinaia di chilometri di passaggi sotterranei.
Quest’impresa non sarebbe possibile senza l’impegno di 33.500 dân công (patrioti operai). Con più di 2700 biciclette modificate (chiamate xe thô), quasi altrettante giunche e più di 17.000 cavalli, i dân công portano al fronte ventimila tonnellate di riso, oltre a munizioni e beni di prima necessità. È grazie a questa mobilitazione che Giap può fare attrito . Tra il gennaio e il maggio del ’54, i dân công contribuiranno alla causa anti-francese con cinque milioni di giornate di lavoro.
Si avvicinano le piogge monsoniche, e i francesi sperano che il Vietminh affogherà nel fango. Succede il contrario: le nuvole basse impediscono all’aviazione francese di bombardare le retrovie di Giap e ostacolano i lanci di rifornimenti ai francesi assediati. A parte il problema di visibilità, c’è anche la contraerea Vietminh, che costringe gli aerei a volare troppo alti, così i lanci sono sempre più imprecisi. Molte vettovaglie, munizioni e, in almeno un caso, informazioni segrete destinate ai francesi assediati, atterrano in pieno territorio Vietminh.
Nel frattempo, molti indocinesi, e persino qualche regolare francese, disertano il Corpo di Spedizione. I legionari li chiamano, spregiativamente, “i sorci del Nam Yum”, perché spesso, al momento di fuggire, guadano il fiume portando con sé i viveri appena paracadutati.
È il momento dell’extrema ratio: il governo francese chiede aiuto agli americani. L’ammiraglio Arthur Radford propone che sessanta bombardieri B-29, scortati da cacciabombardieri della Settima Flotta USA, decollino dalle Filippine e facciano incursioni notturne contro il perimetro Vietminh intorno alla valle. Il progetto ha un nome: “Operazione avvoltoio”.
Il generale Paul Ély, capo di stato maggiore francese, comunica la notizia al suo governo, comprensibilmente contento. Ma il capo di stato maggiore americano, Matthew Ridgway, è contrario a un coinvolgimento diretto sul fronte asiatico: ancora scottato dalla Corea, teme l’intervento dei cinesi e l’ipotesi di dover spostare in Vietnam dalle sette alle dodici divisioni, distogliendole da altri settori strategici.
Il presidente Eisenhower è d’accordo con lui e rinvia la decisione al Congresso e agli Alleati. Senza il loro appoggio non intende muovere un dito.
Benché il vicepresidente Nixon e il segretario di stato Dulles facciano pressioni sui parlamentari, il Congresso non dà l’autorizzazione.
Nel frattempo, un gruppo di studio del Pentagono conclude che tre armi atomiche tattiche, “opportunamente impiegate”, sarebbero sufficienti ad annientare il Vietminh. Radford è entusiasta di quest’idea e spinge perché la si proponga ai francesi. Secondo alcune fonti, lo stesso Dulles è favorevole all’ipotesi atomica, ma i vertici del Dipartimento di stato non solo sono contrari, ma terrorizzati anche solo dall’eventualità che circoli una voce del genere. Un anonimo funzionario ammonisce: «Se la vicenda trapelasse, scatenerebbe un gigantesco grido di disapprovazione in tutti i parlamenti del mondo libero.»
La guarnigione francese a Dien Bien Phu è ormai condannata, e con essa il dominio coloniale francese in Indocina. Tutti lo sanno, ciò che conta è limitare i danni. È l’ora dei negoziati.
Si fissa per l’8 maggio l’avvio della conferenza di Ginevra sul problema dell’Indocina, a cui parteciperanno delegazioni di Francia, Stati Uniti, URSS, Cina, oltreché, naturalmente, del Vietminh.
Con sorprendente tempismo, Giap espugna Dien Bien Phu il 7 maggio. L’assedio è durato cinquantacinque giorni. Dalla parte dei francesi, si contano 1.142 morti, 4.436 feriti e 1.606 dispersi. Le perdite del Vietminh ammontano a 7.900 morti e più di 15.000 feriti.
A Ginevra, si comincia a discutere.
Wu Ming
(Tratto da: https://www.wumingfoundation.com/giap/2013/10/vo-nguyen-giap/).
Soldati italiani fucilano dei partigiani sloveni, villaggio di Dane, 31 luglio 1942. Questa foto viene spesso usata, anche da autorevoli giornali, con una didascalia errata, che indica vittime italiane e carnefici jugoslavi.
Fonte della foto: https://www.malorarivista.it/2021/02/07/le-foibe-spiegate-bene-intervista-a-eric-gobetti/
Dal sito «malorarivista.it»
Eric Gobetti intervistato da Oreste Veronesi
Con il saggio E allora le foibe?, pubblicato nel gennaio 2021 da Laterza, lo storico Eric Gobetti ripercorre la storia dell’Alto Adriatico alla fine della seconda guerra mondiale sfatando narrazioni tossiche e ricostruendo con sintesi e linguaggio accessibile le più complesse vicende che hanno caratterizzato il confine orientale.
«Decine di migliaia», poi «centinaia di migliaia», fino a «oltre un milione»: a leggere gli articoli dei giornali e a sentire le dichiarazioni dei politici sul numero delle vittime delle foibe, è difficile comprendere le reali dimensioni del fenomeno. Anzi, negli anni, tutta la vicenda dell'esodo italiano dall'Istria e dalla Dalmazia è diventata oggetto di polemiche sempre più forti e violente.
Questo “Fact Checking” non propone un’altra verità storica precostituita, non vuole negare o sminuire una tragedia. Vuole riportare la vicenda storica al suo dato di realtà, prova a fissare la dinamica degli eventi e le sue conseguenze. Con l’intento di evidenziare errori, mistificazioni e imbrogli retorici che rischiano di costituire una “versione ufficiale” molto lontana dalla realtà dei fatti. È un invito al dubbio, al confronto con le fonti, nella speranza che questo serva a comprendere quanto è accaduto in quegli anni terribili.
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Le foibe spiegate bene
Intervista a Eric Gobetti a cura di Oreste Veronesi
Il 7 febbraio 2019 il consiglio comunale di Verona ha approvato la mozione 862 che impegna il Comune a disincentivare eventi che minimizzano o “siano oggetto di teorie negazioniste o giustificazioniste” delle foibe. Negli stessi mesi in tutte le scuole venete è stato distribuito dalla Regione il fumetto Foiba rossa, edito dalla casa editrice di estrema destra Ferro Gallico. Da diversi anni le vicende del confine orientale alla fine della seconda guerra mondiale sono strumentalizzate da gruppi neofascisti i cui argomenti sono ripresi dai più alti livelli istituzionali. Per fare chiarezza sul tema, di cui ricorre il 10 febbraio il “Giorno del Ricordo”, abbiamo intervistato lo storico Eric Gobetti autore del volume E allora le foibe? (Laterza, 2021).
Il termine “Foibe” si è diffuso nel dibattito pubblico caratterizzando fenomeni molto diversi tra loro. Ma di cosa parliamo quando usiamo questo termine?
Il fenomeno delle foibe è legato a due momenti specifici, scollegati tra loro e nemmeno collegati del tutto alle foibe nel senso proprio del termine, ovvero le cavità carsiche dove vengono gettati i corpi dopo l’uccisione. Con questa funzione vengono usate soprattutto nel 1943 per occultare i cadaveri e diminuire la probabilità di rappresaglie sui villaggi da parte dei tedeschi. Ma vengono usate molto meno del 1945 quando la maggior parte delle vittime muore nei campi di prigionia jugoslavi. Però sono due fenomeni molto specifici e precisi. Il primo accade nell’arco di meno di un mese fra l’8 settembre 1943 e gli inizi di ottobre, e il secondo nella primavera del 1945, dopo la liberazione della zona dell’alto adriatico.
Nel libro sostieni che è stato un tema tabù per lo schieramento conservatore. E a leggere la tua ricostruzione, anche oggi affrontare storicamente quei fatti sembra essere un tabù. Significherebbe riconoscere più le responsabilità fasciste e dell’imperialismo italiano che quelle dei partigiani e delle popolazioni della Jugoslavia?
È ovvio che se si vuole raccontare questa storia in maniera corretta e comprensibile non si può iniziare dall’arrivo dei partigiani. La storia comincia prima e per capire le motivazioni di quelle vicende bisogna capire cosa li anima, qual è il loro obiettivo, perché sono così arrabbiati. Innanzitutto bisogna comprendere quella vicenda all’interno della seconda guerra mondiale, che fa decine di milioni di morti solo in Europa. E poi bisogna inquadrarla nel contesto storico di quei territori, che hanno vissuto una stagione di violenza che comincia con la fine della prima guerra mondiale. Anche prima del 1918 c’erano momenti di tensione, però la convivenza delle popolazioni nella lunga epoca dell’impero austro-ungarico era stata sostanzialmente pacifica. Dal 1918 le cose cambiano perché questo territorio entra a far parte di uno stato-nazione, l’Italia, che diventa presto uno stato fascista e impone con la violenza l’appartenenza a un’unica identità nazionale. Quindi questa storia di violenza inizia con il nazionalismo italiano. Tutto questo era difficile da affrontare nella Prima repubblica. Da una parte è vero che si voleva evitare di mettere in discussione il mito fondativo della repubblica, quello partigiano. Ma bisognava anche mettere in discussione l’operato dello stato fascista, e dell’esercito italiano. Era l’esercito italiano che aveva commesso quei crimini, creato campi di concentramento, ucciso civili. E bisognava per forza parlarne per capire la vicenda. Quindi non si volevano mettere in discussione questi due elementi. E paradossalmente anche oggi non è molto facile. Da una parte è stato molto difficile per le sinistre accettare di mettere in discussione l’operato della resistenza, che è un’operazione che va fatta, almeno moralmente. Dall’altra le istituzioni non hanno nessuna intenzione di sottoporre a critica l’operato del regio esercito, all’epoca fascista, che ha commesso quei crimini. Questo è davvero grave, perché riguarda le nostre istituzioni. Questo stato dovrebbe assumersi la responsabilità dei crimini fascisti, ad esempio con una visita al campo di concentramento Arbe, che si trova di fronte a Fiume, dove sono morti 1500 civili in gran parte sloveni.
L’uso del concetto delle Foibe serve a drammatizzare la narrazione di questo passaggio storico. Nel libro ne parli facendo riferimento al film Rosso Istria e al fumetto Foiba rossa.
Il film e il fumetto raccontano la stessa storia, quella di Norma Cossetto, che è ormai diventata una sorta di martire nazionale, usata strumentalmente come esempio di tutta la vicenda. L’estrema destra sta portando avanti una vera offensiva in questo senso, come dimostrano le intitolazioni di parchi, vie e giardini pubblici. Però questo personaggio è molto problematico. La famiglia di Cossetto è fascista e viene colpita in quanto rappresentante delle istituzioni fasciste: il padre di Norma è un podestà e lei è nei gruppi universitari fascisti. Il che non ne giustifica l’uccisione, naturalmente. Ma portare l’esempio di una persona uccisa per le sue posizioni politiche mette in crisi lo stereotipo che si è voluto costruire delle vittime in quanto italiane, quindi della pulizia etnica. Tuttavia mettendo insieme due storie, una vera, cioè il fatto che sia stata uccisa perché fascista, e una falsa, cioè che gli italiani venissero uccisi perché italiani, ne viene fuori che lei è stata uccisa perché italiana e quindi fascista: fascismo e italianità diventano la stessa cosa. Nel film è molto evidente, ma anche nel fumetto che porta come sottotitolo “storia di un’italiana”. Invece no, è una storia fascista. Questa confusione di piani fra italianità e fascismo porta alla celebrazione delle vittime fasciste. E per la Repubblica italiana, fondata sui valori antifascisti, è un fatto grave. Una parte significativa delle persone che hanno ricevuto la medaglia come infoibati erano fascisti conclamati se non addirittura militari che combattevano al fianco dei nazisti. Questa assimilazione fra italiani e fascisti poi non fa bene soprattutto agli esuli, che finiscono di nuovo per essere considerati fascisti anche se non lo erano. Quindi si identificano i fascisti come vittime e tutte le vittime come fasciste, addossandogli colpe che non hanno.
Parlando di esodo, nel tuo libro affronti questo tema partendo un aneddoto personale: l’incontro con Giuseppe Bulva, un vecchio ragazzo di 86 anni che si definisce fascista, ma che ha vissuto gran parte della sua vita in un paese socialista.
Questa è una storia singola che racconta una vicenda molto comune, e serve a guardare a quegli eventi nella complessità in cui si sono verificati: l’esodo non è frutto dell’espulsione della popolazione italiana da parte delle autorità jugoslave, come spesso viene rappresentata in Italia e in molti film, come Il cuore nel pozzo. L’esodo è un fenomeno molto lungo che comincia già durante la guerra e termina a metà degli anni Cinquanta, dopo la definitiva attribuzione dei confini del 1954. Ed è un fenomeno che ha molte ragioni, ma nulla a che fare con un’espulsione. Cosa che avviene invece nel territorio jugoslavo con la popolazione tedesca. I tedeschi sono riconosciuti come gruppo etnico nemico dello stato jugoslavo perché avrebbero appoggiato in toto l’occupazione nazista. Quindi vengono espulsi tutti, per legge. Cosa che non avviene con gli italiani. Non vengono considerati tout court fascisti e nei loro confronti c’è una politica di accoglienza, che veniva definita di fratellanza italo-slava. Dopodiché, nel libro lo dico chiaramente, si creano delle condizioni di tale difficoltà di vita da parte di queste persone, non solo per gli italiani ma per la maggioranza della popolazione, per cui chi può scegliere, cioè gli italiani che hanno la possibilità per legge di “optare”, come si diceva all’epoca, scelgono l’Italia per tante ragioni: le difficoltà di vita, ma anche la speranza di vivere in un territorio più accogliente per loro.
In questi anni sono stati pubblicati tanti libri sulle “Foibe”, eppure nel testo parli di un’“urgenza” da cui è scaturito il tuo. Puoi spiegarci da cosa nasce?
C’è un aspetto personale e uno più generale di utilità pubblica. L’aspetto personale ha un carattere professionale, legato alla distorsione con cui questi temi sono discussi nel dibattito pubblico. La ricerca storica è molto chiara, gli storici condividono tutti lo stesso quadro, eppure il dibattito pubblico è falsato, pieno di errori e confusione. C’è quindi la necessità di ribadire la rilevanza della ricerca storica, che è il mio mestiere. Ma c’è anche una necessità etico-morale, di fronte a un tema sempre più strumento politico dell’estrema destra italiana, che ne fa una sorta di bandiera per rendersi credibile. Il tentativo è allora quello di provare a spuntare quest’arma. Certo esistono già molti libri sul tema, ma questo forse è il primo che mette insieme sinteticamente i risultati della ricerca, ridotti all’osso per un lettore “medio”, e un’analisi delle contraddizioni del discorso politico e mediatico.
Quindi provi a colmare un vuoto, in cui il lavoro degli accademici possa parlare anche a un pubblico più ampio.
Il problema è che i lavori degli accademici non sono riusciti a raggiungere l’opinione pubblica e il discorso pubblico non è fatto dagli accademici. Quello che si vuole raccontare è in gran parte pura fantasia e non coincide con la ricerca storica. Ad esempio, se noi vogliamo presentare questa storia come una pulizia etnica diciamo una bugia. Tutti gli studiosi sanno perfettamente che non è una pulizia etnica. C’è una espulsione della storia dalla costruzione memoriale su questa vicenda. È grave perché è strumentalizzata dall’estrema destra, ma sarebbe grave anche se fosse funzionale alla memoria della repubblica. Perché raccontare falsità non porta da nessuna parte.
Credi sia ancora possibile affermare una pratica democratica e storiograficamente rigorosa nel dibattito su questi argomenti?
Non credo abbia senso perdere le speranze. Credo si stia sempre più diffondendo un atteggiamento dubitativo su questi temi. E forse è questa la ragione del successo di questo libro, che prova a dire a un pubblico comune: proviamo a ragionare insieme su quello che è successo. Inoltre credo ci sia la possibilità di influire sulle politiche della memoria. Ad esempio io ho sottoposto a critica gli interventi dei presidenti della repubblica, in particolare Napolitano e Mattarella, che hanno parlato di pulizia etnica, facendo notare come sia un termine sbagliato, messo in discussione da tutti gli studiosi. Non vuol dire per questo che critico il loro intero operato o loro stessi come politici. È una critica costruttiva, li invito a rivedere le proprie posizioni in merito a questo tipo di narrazione.
È necessario e doveroso costruire delle politiche della memoria europee, che abbiano una prospettiva transnazionale. Nell’Unione Europea di oggi non è possibile continuare con politiche della memoria rivolte solo al proprio Paese. Lo si vede in tutti i rapporti internazionali. Nei discorsi ai memoriali che vengono fatti a livello europeo non ci sono più discorsi nazionalisti. L’Italia è uno dei pochi paesi che mantiene, su questa vicenda in particolare, un atteggiamento fortemente nazionalista che non a caso suscita continue proteste in Slovenia e Croazia. È ovvio che bisognerà trovare una mediazione, che non deve essere la costruzione di una memoria condivisa, che è impossibile, ma una memoria integrata. Si devono integrare le diverse memorie nazionali e creare una memoria europea, che sia costruita da più memorie differenti. Mi auguro che anche l’Italia prima o poi faccia questo passo. Per farlo deve usare anche libri come il mio. Sono uno studioso che conosce le lingue jugoslave, che ha studiato in quegli archivi, conosce quei territori. Questo mi consente di adottare anche un altro punto di vista. All’inizio del libro dico proprio questo: noi parliamo di “confine orientale”, ma quello è il “nostro” confine orientale, per qualcun altro sarà “occidentale” o “meridionale”. Proviamo ad accettare anche altri punti di vista e troveremo il modo di pacificare le memorie.
7 febbraio 2021
Intervista a cura di Oreste Veronesi
(Tratto da: Oreste Veronesi: Le foibe spiegate bene. Intervista a Eric Gobetti, in: https://www.malorarivista.it/2021/02/07/le-foibe-spiegate-bene-intervista-a-eric-gobetti/ visitato il 5 febbraio 2024).
Inserito il 07/02/2024.
Jan Palach (1948-1969).
Fonte della foto: https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=384,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2024/01/19storie-jan-palach-gettyimages-2661613-309x512.jpg
Dal quotidiano «il manifesto»
di Tommaso Di Francesco
Il 19 gennaio 1969 moriva a Praga il giovane che tre giorni prima si era trasformato in torcia umana lanciando l’appello «Ricordatevi dell’agosto», quello del 1968 che aveva visto l’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia che applicavano la teoria della «sovranità limitata» dell’Urss di Leonid Brežnev contro il tentativo riformatore della Primavera di Praga promosso dai comunisti cecoslovacchi guidati da Alexander Dubček.
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Il fuoco acceso di Jan Palach
di Tommaso Di Francesco
55 anni fa un giovane si trasformava in torcia umana a Praga, lanciando l’appello «Ricordatevi dell’agosto», quello del 1968 che vide l’invasione dei carri armati del Patto di Varsavia che applicavano la teoria della «sovranità limitata» dell’Urss di Leonid Brežnev.
Un’aggressione militare per cancellare l’esperienza del «socialismo dal volto umano» che aveva visto protagonista Alexander Dubček e insieme a lui la rinnovata leadership dei comunisti cecoslovacchi. I giovani amavano questo rinnovamento. «Era figlio della Primavera e il cedimento al diktat di Mosca… dopo l’occupazione, aveva costituito un trauma tremendo. Erano stati proprio i giovani i più entusiasti sostenitori del cambiamento del “socialismo dal volto umano” che si era manifestato nei primi otto mesi del ’68. Erano stati loro, vissuti in un regime poliziesco e repressivo verniciato di socialismo, che avevano capito come fosse giunta la loro ora, l’ora di sbarazzarsi di quel sistema che Dubček nelle sue memorie definirà “antidiluviano”», ricorda lo storico della Primavera di Praga Francesco Leoncini. Ed era amato dalla classe operaia che vedeva per la prima volta l’ingresso della democrazia nelle fabbriche: a fine 1969 si contavano ancora più di 300 consigli operai in tutto il Paese.
Un grande movimento che non era una «revisione», come sprezzantemente molti gruppi dell’estrema sinistra italiana commentavano. Diversamente da «Il Manifesto» che di fatto nacque con l’editoriale della rivista del settembre ’69 – non firmato ma di Lucio Magri – Praga è sola che costituì una delle ragioni della nostra radiazione dal Pci; restando poi come «il manifesto», per iniziativa in primo luogo di Rossana Rossanda, attenti in tutta la nostra storia alle dinamiche drammatiche del socialismo reale.
Che cosa accadde dunque quel giorno del 16 gennaio 1969. Nelle prime ore del pomeriggio un giovane aveva vagato a lungo nelle vie adiacenti a piazza Venceslao, aveva bevuto per intontirsi, poi si era avvicinato sereno alla scalinata del Museo nazionale. Si era tolto il soprabito e aveva stappato una bottiglia. Nessuno intanto si accorgeva dei suoi gesti. Aveva versato il contenuto della bottiglia (era benzina) su tutto il corpo e poi, dopo aver acceso un fiammifero, si era dato fuoco. Di corsa, avvolto da una fiamma già alta, si era poi lanciato verso il monumento di San Venceslao a cavallo che sovrasta la piazza, davanti al Museo.
Qualcuno provò a fermarlo, ma Jan continuò fino alla fine la sua protesta. Con ustioni che ricoprivano tutto il corpo, Jan Palach morì tre giorni dopo in ospedale. Prima di morire volle accanto a sé il suo più caro amico, Holeček, dirigente degli studenti di filosofia di Praga, a cui Jan raccomandò – ammonendo sul limite estremo della sua azione – queste parole: «Che nessun altro giovane commetta lo stesso gesto: bisogna vivere per quegli ideali per cui ho sacrificato la vita» e un breve testo, il suo testamento ultimo, in cui spiegava le motivazioni del suicidio: contro la censura di stato e di partito che ormai strangolavano quello che rimaneva della straordinaria esperienza di massa della Primavera di Praga.
Il paese, il mondo, restarono sgomenti. Seguirono manifestazioni di protesta in tutta la Cecoslovacchia. Quel suicidio, quel farsi «torcia umana» era dettato dalla «disperazione di un popolo» – così era scritto nella motivazione politica del suicidio. Richiamava alla memoria i roghi di Saigon, quelli delle decine di bonzi che nelle strade dell’allora capitale del Vietnam del Sud protestavano così contro l’aggressione militare degli Stati Uniti al «piccolo» popolo del Sud-est asiatico. Apparve dunque come un gesto al limite, lontano, si disse allora, dalla cultura occidentale e cecoslovacca in particolare, che pure aveva ed ha nel rogo dell’eretico Jan Hus, fatto bruciare vivo nel 1415 dal Concilio di Costanza, il suo massimo simbolo di riscatto culturale e religioso contro l’oppressione.
Solo nel gennaio del 1990 si scoprì che il Vietnam non era per Jan Palach solo una drammatica suggestione e nemmeno il solo contesto storico di sangue dentro il quale si consumava l’ennesima spartizione della violenza nella Guerra fredda: la Bbc e poi la tv italiana mandarono in onda la registrazione inedita delle ultime parole di Jan Palach prima di morire. Diceva che l’aveva fatto per la Cecoslovacchia calpestata dai carri armati di Brežnev, ma anche per il Vietnam bombardato dai B52 americani. «Basta bombe… basta bombe…», ripeteva nello sfinimento della morte. Quel rogo intanto parlava al cuore e alla ragione dei comunisti della Primavera ’68, che dopo l’invasione del Patto di Varsavia, vivevano la dura «normalizzazione», le cui tappe erano state una sequenza d’infamie.
Mosca che «sequestra» i dirigenti del partito; il XIV congresso comunista clandestino, quello che aveva rilanciato la Primavera, e che verrà autosconfessato. Cominciano le epurazioni, Dubček diventa poco più che un paravento e nell’aprile ’69 viene destituito, e sarà poi espulso con altre centinaia di migliaia di comunisti riformatori nel ’70-’71.
Ma in quel gennaio drammatico lo stesso Dubček, Smrkovskij e il presidente della repubblica, Svoboda, investiti in prima persona del «gesto» che li accusava di cedere, passivi, al diktat di Mosca, trovarono il coraggio di inviare alla madre di Jan Palach questo lungo telegramma: «Noi ci siamo profondamente commossi apprendendo che vostro figlio è morto. Noi sappiamo che è un desiderio ardente e vero per il suo paese, per il suo avvenire felice, che ha portato vostro figlio a compiere questo gesto. I suoi obiettivi erano gli stessi per i quali noi lottiamo con tutte le nostre forze, per i quali tutti noi vogliamo e dobbiamo vivere.
Il sacrificio di vostro figlio Jan è un avvenimento tanto più tragico in quanto la nostra patria avrebbe avuto bisogno della sua saggezza e del suo carattere puro, così come essa ha bisogno delle braccia e del cervello di tutti gli uomini onesti». La purezza di Jan era conosciuta dai giovani del movimento della facoltà di filosofia di Praga, che amavano la sua timidezza e la sua risolutezza. Nella mostra allestita nel 2009 a Praga al Karolinum, sede dell’Università Carlo, apparve una scoperta negli archivi: la lettera scritta da Palach a un amico dieci giorni prima della morte, nella quale incita gli studenti a occupare la sede di Radio Praga.
Lui che amava definirsi «comunista e luterano» e che nel suo primo anno di studio aveva già presentato una tesina Sull’umanesimo in Marx giovane. Lui, così timido, che però non aveva esitato ad estrarre a sorte il proprio nome tra quelli di molti altri giovani risoluti a morire. Infatti a dimostrare il drammatico, profondo riscontro del gesto di Jan nel grande movimento che aveva vissuto la speranza della Primavera e che ora ripiegava in un «inverno senza vie d’uscita», altri 20 giovani cecoslovacchi seguirono il suo gesto disperato, anche contro le sue ultime volontà: subito si diedero fuoco due giovani operai a Pilsen e a Brno.
Ora, 55 anni dopo, il rogo di Praga ’69 «illumina» la nostra buia stagione. Perché sono troppi i funerali celebrati e tanti i carri armati attivi, mentre la Cecoslovacchia – grazie ad una secessione certo non balcanica, ma dall’alto e brutale – non esiste più. Così, nonostante la consuetudine corrente di cancellare la storia recente, ecco che di fronte alla miseria del presente si ravviva la memoria sulle ragioni del socialismo dal volto umano nel quale Jan Palach credeva. Per questo ogni strumentalizzazione del suo protagonismo da destra – quella italiana in particolare, prima con Berlusconi poi con il fascista La Russa – è insieme un’offesa e una menzogna.
Tommaso Di Francesco
(Tratto da: Tommaso Di Francesco, Il fuoco acceso di Jan Palach, in «il manifesto», 19 gennaio 2024).
Inserito il 25/01/2024.
Lorenzo Orsetti (Orso Tekoşer) (1986-2019).
Fonte della foto: https://www.redstarpress.it/lorenzo-orsetti-orso-tekoser/
Dal sito «redstarpress.it»
di Lorenzo Orsetti (Orso Tekoşer)
L’antifascista fiorentino Lorenzo Orsetti (Orso) ha trovato la morte in Siria nel 2019 per mano dell’ISIS. A fianco della milizia curda dell’YPG, egli ha combattuto per la libertà di un popolo e per una federazione pacifica fra le varie etnie che compongono la popolazione della Siria.
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Lorenzo Orsetti – Orso Tekoşer
Militante antifascista, Lorenzo Orsetti – Orso Tekoşer è nato a Bagno a Ripoli (FI) il 13 febbraio del 1986 ed è caduto martire ad Al-Baghuz Fawqani, il 18 marzo del 2019, combattendo contro la milizia fascista dell’Isis e per la causa della rivoluzione confederale nella Siria del Nord-Est, nelle file delle Unità di Protezione Popolare (YPG).
Nella lettera in cui ha espresso le sue ultime volontà, Orso ha scritto:
«Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà. Quindi nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo, e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio. Vi auguro tutto il bene possibile, e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo. Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza. Sono tempi difficili lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza, mai! Neppure per un attimo. Anche quando tutto sembra perduto, e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza, e di infonderla nei vostri compagni. È proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve. E ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi quella goccia. Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole».
(Tratto da: https://www.redstarpress.it/lorenzo-orsetti-orso-tekoser/).
Inserito il 30/12/2023.
Lajka, prima cosmonauta sovietica.
Fonte della foto: https://rg.ru/2021/11/03/pervym-kosmonavtom-stala-lajka.html
Dal sito «ricorrenzeoggi.it»
di Sandro Pollini
3 novembre 1957: 66 anni fa l’Unione Sovietica lanciava lo Sputnik-2 con a bordo il primo essere vivente in un viaggio spaziale. Il sacrificio della cagnolina randagia pose una pietra miliare nella storia dei viaggi nel cosmo.
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Lajka: vita e morte della cagnetta cosmonauta
di Sandro Pollini
3 novembre 1957: 66 anni fa l’Unione Sovietica lanciava lo Sputnik-2 con a bordo il primo essere vivente in un viaggio spaziale. Il sacrificio della cagnolina randagia pose una pietra miliare nella storia dei viaggi nel cosmo.
Il progresso della scienza richiede spesso grandi sacrifici. La storia dei viaggi spaziali non fa eccezione, con incidenti e vittime illustri sia tra gli astronauti americani che tra i cosmonauti sovietici. Tra questi ultimi possiamo a buon titolo annoverare anche la cagnetta Lajka. Fu questa bastardina, trovata randagia a Mosca, che ebbe il dubbio onore di essere scelta come primo essere vivente da inviare nello spazio orbitale. Il lancio sarebbe stato effettuato con lo Sputnik-2, successore del primo satellite inviato nell’orbita terrestre dall’URSS appena un mese prima.
Lajka, metà Terrier e metà Husky, non era l’unico animale scelto per i test preparatori al lancio. Altre due cagnette furono addestrate insieme a lei, Albina e Mushka. La scelta cadde su tre femmine per una ragione estremamente pratica: le cagnette non hanno bisogno di alzare la zampa per orinare e questo avrebbe facilitato la loro permanenza negli spazi angusti del satellite.
Il lancio dello Sputnik-1, primo oggetto artificiale nell’orbita terrestre, era stato un indubbio successo per il programma spaziale sovietico. Con questo traguardo l’URSS aveva battuto sul tempo i rivali americani, ma l’obiettivo di entrambe le superpotenze rimaneva l’invio nello spazio di una navicella con equipaggio umano. Per raggiungere anche questo traguardo prima della potenza rivale, l’Unione Sovietica decise di effettuare dei test con esseri viventi.
Le tre cagnoline prescelte vennero sottoposte a un duro addestramento, con lunghe permanenze in spazi ristretti e centrifughe che simulavano le condizioni critiche del lancio. Una sofferenza psicologica e fisiologica notevole. La prima a effettuare un volo di prova fu Albina, ma solo nella fascia suborbitale dell’atmosfera. Mushka fu utilizzata invece per verificare i sistemi vitali di bordo.
Lajka era già stata scelta dal direttore del programma Oleg Georgovich Gazenko come la predestinata a diventare il primo essere vivente nello spazio. Lo Sputnik-2 con a bordo Lajka partì dal cosmodromo di Bajkonur in Kazakistan il 3 novembre 1957. La temperatura interna era di 15 gradi Celsius, non proprio primaverile ma più che sopportabile. A bordo c’erano anche cibo e acqua in forma di gel che avrebbero dovuto consentire al povero animale di sopravvivere quanto più possibile.
Un sacrificio inutile?
La capsula era attrezzata con sensori che monitoravano i segnali vitali del passeggero come la pressione sanguigna, i battiti cardiaci e la frequenza respiratoria. Il rientro però non era previsto in quanto lo Sputnik-2 era sprovvisto di scudo termico e si sarebbe comunque distrutto nell’impatto con l’atmosfera. La sorte della cagnetta era perciò segnata fin dall’inizio. Dopo il lancio la centrale ricevette segnali per circa sette ore, per poi non captare più niente.
Il programma prevedeva che Lajka spirasse senza sofferenze con un veleno somministrato con il cibo. Le fonti sovietiche dell’epoca dichiararono infatti che la cagnetta era sopravvissuta per quattro giorni. Secondo ricerche più recenti, è assai probabile che sia morta poche ore dopo il lancio a causa del surriscaldamento della cabina o di asfissia per un guasto all’impianto di aerazione.
Da un punto di vista tecnico e di immagine il lancio dello Sputnik-2 fu un successo. L’URSS aveva ancora una volta anticipato gli Stati Uniti nella corsa allo spazio con un satellite che, ad appena un mese di distanza dal primo, aveva raggiunto un’orbita più alta e per di più con un animale a bordo. Per il progresso delle conoscenze sulle condizioni degli esseri viventi nello spazio, il sacrificio di Lajka fu probabilmente inutile. Come ammesso in seguito dallo stesso direttore Gazenko, le informazioni ricavate furono meno significative di quanto si pensasse e la morte prematura dell’animale compromise l’esperimento.
Con gli occhi di oggi, una scelta simile sarebbe inaccettabile anche grazie alle alternative che la scienza ha nel frattempo sviluppato rispetto ai test con animali. La morte di Lajka provocò già allora alcune proteste di fronte alle ambasciate sovietiche e, se non altro, contribuì a porre all’attenzione pubblica il problema etico degli esperimenti sugli animali.
Sandro Pollini
(Tratto da: Sandro Pollini, 66 anni fa l’Unione Sovietica lanciava lo Sputnik-2 con a bordo Laika: vita e morte della cagnetta cosmonauta, in https://www.ricorrenzeoggi.it/3-novembre-1957-laika-nello-spazio/ [NB. Il sito ricorrenzeoggi.it non è più attivo]).
Inserito il 20/12/2023.
Vittorio Arrigoni, “Vik” (1975-2011).
Autrice della foto: Eva Bartlett.
Fonte della foto: https://www.fondazionevikutopia.org/images/vik/img1.jpg
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Vittorio Arrigoni, soprannominato “Vik”, nasce a Besana in Brianza il 4 febbraio 1975 e vive a Bulciago (Lc).
Le sue prime esperienze come volontario si svolgono principalmente nei Paesi dell’Est europeo e nell’Africa sub sahariana con l’Ong IBO, Soci Costruttori e lo YAP (Youth Action for Peace).
Nel 2002 raggiunge Gerusalemme Est per un primo campo di lavoro in Palestina e successivamente ritorna nei Territori Occupati dove, con altri compagni, inizia quella che diventerà la sua principale ragione di vita: la difesa dei diritti umani attraverso azioni pacifiche di interposizione, proteggendo i piccoli scolari davanti ai tank israeliani, i contadini nella raccolta delle olive, manifestando con i palestinesi contro il muro di separazione, aiutando gli anziani ad attraversare i check point.
Nel 2006 è in Congo, per le prime elezioni libere presidenziali dopo trent’anni, come osservatore internazionale con l’Associazione Beati i Costruttori di Pace di Padova accreditata dall’ONU e l’anno dopo è in Libano, nel campo profughi palestinesi di Beddawi.
Messo sulla lista nera degli indesiderabili da Israele che gli impedisce l’ingresso alle frontiere, dopo due tentativi di ingresso nel 2005, per i quali viene picchiato e incarcerato, entra a Gaza via mare il 23 agosto 2008 con le navi Liberty e Free Gaza, che rompono il blocco via mare che dal 1967 Israele impone alla Striscia. Con gli internazionali rimasti, dell’International Solidarity Mouvement, accompagna i pescatori in mare e i contadini nei campi perché la loro presenza sia da deterrente alle navi da guerra e ai cecchini sulle torrette. Quando, il 27 dicembre 2008, Israele lancia l’operazione “Piombo Fuso”, Vittorio è l’unico italiano presente nella Striscia. È dappertutto: a raccogliere feriti, sulle ambulanze cecchinate, negli ospedali, ha visto morire gli amici e pianto le centinaia di bambini massacrati. Racconta i giorni della sanguinosa offensiva israeliana in articoli pubblicati da «il manifesto», scritti in condizioni pressoché impossibili. Raccolti nel libro Gaza. Restiamo Umani, i suoi racconti di Gaza sotto le bombe hanno permesso di conoscere cosa è accaduto veramente in quel lembo di terra palestinese. Vittorio è ritornato nella Striscia a marzo 2010. Con i compagni dell’ISM, continuando la sua missione di attivista per i diritti umani e di testimone, continuando a scriverne sul suo blog «Guerrilla Radio» e su «PeaceReporter».
Vittorio è stato ucciso a Gaza il 15 aprile 2011, a soli 36 anni, da un presunto gruppo di estremisti salafiti.
Le motivazioni sono tuttora oscure.
Il processo si è concluso il 17 settembre 2012 con due condanne all’ergastolo.
La pena di morte non è stata comminata a seguito della precisa richiesta avanzata al Tribunale dai familiari di Vittorio.
(Tratto da: https://www.fondazionevikutopia.org/vik.php).
Inserito il 22/10/2023.
di Vittorio Arrigoni
Vittorio è da poco rientrato nella Striscia, dopo l’ennesima espulsione da parte di Israele.
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«E alla fine sono tornato.
Non sazio del silenzio d’assenzio di una felicità incolta
accollata come un cerotto mal riposto su di una bocca che urla.
Non potevo fare altrimenti.
Essere ferito, venir rapito, derubato della propria missione, incatenato e imprigionato in un lurido carcere israeliano,
quindi deportato a forza su di un aereo verso Milano
senza neanche la pietà di mettere ai miei piedi nudi e martoriati dalle catene un paio di scarpe,
non è certo la conclusione auspicabile per il compito solenne e di riscatto umano che ha impegnato gli ultimi mesi della mia barocca vita.
Il leone accumula stagioni e cicatrici,
non ha certo il passo slanciato di una volta,
ma non abbassa di un pelo la criniera.
Poggiando il primo piede sulla terra di Gaza, per la seconda volta, sbarcando, come un Armstrong esiliato,
ho ruggito, eccome,
devono esser tremati i vetri delle finestre pure a Tel Aviv.
Fiero del mio passato, non curante del mio presente.
Perché è questo il tempo di spendersi, piuttosto che accaparrarsi un futuro agiato e comodamente distorto,
a quelle vittime innocenti a cui non abbiamo concesso neanche l’ascolto, per un attimo,
delle loro grida di dolore.
Spendersi affinché ogni diritto umano sia rispettato.
Tutto il resto non ha più importanza, semmai ne abbia mai avuta una.
Bisogna saper riconoscere la matrice della propria anima,
anche se ciò è spaventevole e significa solitudine, ostracismo, utopia, Don Chisciotte,
ingratitudine anche da chi verso cui si è dato tanto, si è speso tutto.
Ad aspettare nel fuoco si rischia di bruciarsi.
Ecco allora il perché della scelta dei miserabili, dei reietti, dei condannati,
essi sono ancora capaci di lealtà, di gesta aggraziate e di generosità audace, alle soglie della fine del mondo.
Reietto e miserabile la vita mi ci ha costretto,
sono tornato a casa.
Natale a Gaza pare un funerale.
E non esclusivamente perchè oggi ad un funerale effettivamente ci sono stato,
il vicino di casa di Fida, nostra coordinatrice ISM,
è stato ridotto in brandelli, in tanti piccoli pezzettini di carne lacera da un colpo di carroarmato israeliano.
Piove lacrime amare il cielo di Gaza in questi giorni di lutto e terrorismo da oltreconfine.
Si ascoltano i rutti delle minacce di imminente strage da Lvni e si trema dal freddo
(senza + gas, senza + gasolio, senza + energia elettrica).
Si odono i cingoli di Netanyahu sulle ossa dei palestinesi ammazzati ieri e di quelli a venire.
Livni e Netanyahu in marcia funebre verso le prossime elezioni israeliane,
il teorema è semplicistico, ma purtroppo realistico,
vincerà chi porterà in dote ai propri elettori più teste palestinesi mozzate.
One head one vote.
A Gaza è come se si fosse in autunno,
e io sono nato sotto il segno dell’autunno.
Per cui se fuori piove,
perdonatemi,
a volte piove anche dentro.
Restiamo umani.
Vostro Vik dalle tenebre dell’assedio.»
(Tratto da: https://www.fondazionevikutopia.org/vik.php).
Inserito il 22/10/2023.
Dal giornale «Pravda»
1993. Un braccio di ferro istituzionale tra il Presidente della Russia Boris El’tsyn e il Parlamento, durato mesi e giunto a un punto di rottura a metà settembre, portò migliaia di persone a barricarsi dentro e intorno al Soviet Supremo, l’organo di massima rappresentanza popolare del Paese. Il Presidente russo a sua volta mandò le truppe a circondare il Parlamento, e lo scontro culminò nei giorni 3 e 4 ottobre in un bagno di sangue: prima i militari fecero fuoco sui manifestanti che chiedevano il rispetto della legalità costituzionale e l’accesso dei leader del Parlamento ai mezzi d’informazione, poi i carri armati bombardarono direttamente l’edificio che ospitava il Soviet Supremo, la cosiddetta “casa bianca”, che divenne così bianconera.
Su queste basi Boris El’tsyn, osannato dall’Occidente come un democratico, costruì il proprio presidenzialismo autoritario e criminale.
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30 anni fa l’Ottobre Nero di Boris El’tsyn
Nell’ultimo numero della «Pravda» prima della sua messa al bando, datato 2 ottobre 1993, c’era una piccola nota nascosta in un angolo della parte bassa – nel “seminterrato” per così dire – della prima pagina dal titolo «Il giorno X sarà il 4?». La riportiamo integralmente:
«Il giorno X sarà il 4?
Come ha detto ieri in una conferenza stampa presso uno dei consigli distrettuali di Mosca il deputato del popolo Igor Michajlovič Bratiščev, il giorno precedente M. Poltoranin ha avuto un incontro segreto con i direttori dei giornali fedeli a Boris El’tsyn. Durante l’incontro il più stretto consigliere di El’tsyn ha avvertito: bisognerà mantenere la calma verso ciò che accadrà il 4 ottobre.
Che cos’altro sta preparando per il popolo questo regime in bancarotta?».
L’avvertimento di Igor Michajlovič, riportato dalla «Pravda», si rivelò profetico. La mattina del 4 ottobre la compagnia televisiva americana CNN fece una diretta mondiale da Mosca. Carri armati, veicoli da combattimento della fanteria e veicoli corazzati spararono direttamente contro l’edificio del Soviet Supremo…
Oggi è evidente che i negoziati condotti negli ultimi giorni di settembre sulla cosiddetta “opzione zero” (vale a dire sul ritiro delle parti dalle posizioni precedenti la firma del decreto illegale n. 1400 di El’tsyn) nascondevano i preparativi per la resa dei conti. La notte del 30 settembre comparvero a Mosca veicoli blindati delle truppe del Ministero dell’Interno. La cricca guidata da El’tsyn era pronta allo spargimento di sangue.
Tuttavia molte cose non andarono secondo i piani. Come dopo il sanguinoso Primo Maggio, in risposta allo scioglimento della manifestazione del 2 ottobre ci fu un aumento del numero di manifestanti nelle strade di Mosca. Nel pomeriggio del 3 ottobre l’Assemblea Nazionale si riunì in Piazza Oktjabr’skaja. Gli eltsynisti misero in atto un nuovo tentativo di repressione dei sostenitori del Soviet Supremo. Ma il numero di manifestanti accorsi quella domenica fu davvero senza precedenti. Si parlava di centinaia di migliaia di persone.
La risposta all’ennesima manifestazione di violenza da parte delle forze punitive fu una rivolta popolare. Un’enorme valanga umana, spazzando via i cordoni delle truppe dell’Interno, attraversò il raccordo anulare Sadovoe Kol’tso fino alla Casa dei Soviet e sbloccò l’accerchiamento. Il numero dei manifestanti aveva chiaramente sbalordito gli eltsynisti: a un certo punto il cordone militare intorno alla Casa dei Soviet si dette addirittura alla fuga, abbandonando veicoli e munizioni.
Ora a El’tsyn rimaneva solo la scelta tra andarsene e soffocare la rivolta nel sangue. Le provocazioni erano già in pieno svolgimento: si sparava, da entrambe le parti c’erano dei feriti.
La sera del 3 ottobre un corteo di manifestanti si avvicinò all’edificio del centro televisivo «Ostankino» chiedendo che fosse concesso spazio all’opposizione nelle trasmissioni radiotelevisive nazionali. Poi, in seguito a una provocazione si verificò una tragedia. All’interno dell’edificio del centro televisivo, dove non c’erano manifestanti, esplose un ordigno e un soldato delle truppe dell’Interno rimase ucciso. Subito dopo venne aperto il fuoco sui manifestanti con armi leggere e mitragliatrici montate su mezzi corazzati. Il distaccamento «Vitjaz’» mostrò chiaramente come è possibile trasformarsi in pochi minuti da forze speciali in forze punitive.
Nella sparatoria trovarono la morte almeno 46 persone. Tra loro c’era la diciannovenne Natal’ja Petuchova. Stando ai ricordi di chi la conosceva, era una ragazza brillante e dotata: scriveva poesie, dipingeva, praticava sport e balletto.
Possedendo uno spiccato senso di giustizia, lei stessa si era unita ai ranghi dei difensori della Casa dei Soviet. La ragazza ricevette ferite multiple da arma da fuoco al centro televisivo «Ostankino» e fu condotta in una vicina stazione di polizia. La causa della morte di Nataša fu una ferita da proiettile alla testa con una bruciatura attorno al foro: a giudicare da ciò, la ragazza venne uccisa a bruciapelo. Inoltre, furono trovati segni di percosse sul viso e sul corpo.
La mattina seguente, grazie agli sforzi delle troupe televisive americane, il mondo intero assistette al sanguinoso trionfo del “democratico” El’tsyn. Sue vittime furono, secondo i dati ufficiali, oltre 150 persone uccise e circa mezzo migliaio gravemente ferite. Secondo dati non ufficiali, il numero dei morti potrebbe raggiungere i duemila. Il più giovane dei caduti fu Konstantin Kalinin, 14 anni: crivellato di proiettili, e con segni di percosse sul viso e sul corpo.
L’indagine ha successivamente stabilito che nessuna persona è stata uccisa dalle armi dislocate nell’edificio del Soviet Supremo. Ma ci furono perdite anche tra le forze repressive che presero d’assalto la Casa dei Soviet. Per lo più furono causate dal “fuoco amico”, il cui più eclatante “successo” fu la distruzione di un veicolo corazzato delle truppe dell’Interno colpito da un lanciagranate dei paracadutisti. Inoltre, sia tra i civili che tra i militari ci furono coloro che morirono a causa dei colpi di cecchini, la cui identità rimane sconosciuta anche oggi.
[Traduzione di Leandro Casini]
(Tratto da: «Čërnyj oktjabr’»: 30 let, in «Pravda», n. 107 (31456), 3-4 ottobre 2023).
Inserito il 03/10/2023.
«Il colpo di Stato di settembre di Boris El’tsyn»
«Pravda», n. 184, giovedì 23 settembre 1993.
«Salvare la Costituzione significa salvare la Patria»
«Pravda», n. 185, venerdì 24 settembre 1993.
«La Russia contro la dittatura»
«Pravda», n. 186, sabato 25 settembre 1993.
«La prima neve di Mosca odora di lacrimogeni e sangue»
«Pravda», n. 189, giovedì 30 settembre 1993.
«La politica è finita. È iniziata la dittatura»
«Pravda» - Edizione di Mosca, n. 20, venerdì 1 ottobre 1993.
«Il Blitzkrieg contro la Russia non è passato. Proprio come nel ’41»
«Pravda», n. 191, sabato 2 ottobre 1993.
Rudi Dutschke (1940-1979).
Fonte della foto: https://www.radiopopolare.it/rudi-dutschke-50-anni-fa-lattentato-a-berlino/
di Franco Milanesi
Un ritratto del leader e intellettuale di riferimento della SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la Lega degli studenti socialisti, e importante figura dell’antagonismo anticapitalistico tedesco.
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Rudi Dutschke
A partire dal 1966 sui giornali di Axel Springer, in particolare sul popolarissimo «Bild», vennero pubblicati diversi articoli in cui il movimento studentesco, che si stava sviluppando in Germania a partire dalla Freie Universität di Berlino, veniva descritto come la testa di ponte del comunismo sovietico nell’Occidente liberale. Il giornale invitava il governo federale a prendere provvedimenti repressivi verso gli studenti e i leader di quella che veniva descritta come una sorta di rivolta antioccidentale. Nel clima infiammato da questa campagna di stampa, il 2 giugno 1967, mentre migliaia di giovani manifestavano a Berlino Ovest contro la visita di stato dello Scià dell’Iran, un giovane studente di letteratura tedesca, Benno Ohnesorg, veniva colpito a morte da una pallottola sparata dalla polizia. Dopo questo assassinio la radicalizzazione del movimento studentesco crebbe progressivamente e la contrapposizione tra i giornali di Springer e la SDS (Sozialistische Deutscher Studentenbund), la lega tedesca degli studenti socialisti, si fece sempre più aspra. A capo della SDS era Rudi Dutschke, leader e intellettuale di riferimento della sinistra studentesca. Nato nel 1940 nella DDR, era stato costretto, a causa del suo rifiuto di prestare servizio militare, a spostarsi nella Germania Ovest pochi giorni prima della costruzione del muro di Berlino nell’estate del 19611. Dutschke aderisce a Subversive Action, un piccolo gruppo che a sua volta derivava da una cellula militante bavarese aderente all’internazionale situazionista. Nel clima vivace di Berlino Ovest il ventenne Rudi frequenta la Freie Universität seguendo prevalentemente i corsi di sociologia, legge Sartre e Heidegger (mostrando di apprezzare soprattutto la fenomenologia esistenziale di Essere e tempo), percorre i sentieri di Karl Barth e di altri teologi (era stato anche membro della gioventù evangelica nella DDR) e si immerge in Marx e nella tradizione marxista, Lukács, Bloch, i francofortesi, autori che segnano in profondità la sua formazione culturale all’origine di uno sguardo politico capace di immergersi nella vita con una non ordinaria pluralità di chiavi di lettura.
Nel clima della guerra fredda, Dutschke articola la critica ai tre macrosistemi dominanti (liberismo, comunismo autoritario, socialdemocrazia) sviluppandola lungo un’unica articolazione teorica, intesa come parte di una pratica che si sviluppa dentro le organizzazioni, nelle università, nel rapporto con le altre forze politiche.
La critica alla SPD e più in generale alla socialdemocrazia è netta. I partiti socialdemocratici «non pongono in discussione il quadro dei rapporti capitalistico-borghesi, ma si battono unicamente per la loro quota di prodotto sociale»2. La logica redistributiva perseguita dalla SPD presuppone pertanto i rapporti dati e li consolida in misura della consequenzialità tra concessioni «compatibili» e riduzione del conflitto. Il dispositivo economico liberista, potenziato dalla ripresa del dopoguerra, può pertanto essere inceppato attivando un conflitto di classe che oltre la prospettiva redistributiva perseguita dai sindacati e dai partiti parlamentari abbia come obiettivo proprio quella incompatibilità tra richieste salariali e accumulazione capitalistica.
L’azione extraparlamentare che spinge verso tale strategia ha di fronte a sé il blocco dei partiti, compreso quello comunista, che hanno scelto il pieno rispetto delle regole formali della democrazia borghese. Verso questo fronte della conservazione si devono attivare forme di lotta articolate: critica ideologico-culturale al sistema e alla sua gabbia egemonica; creazione di un immaginario antropologico alternativo, solidale, libertario e non mercificato; pensiero strategico per attivare dentro le istituzioni un antagonismo rivoluzionario tale da conquistare, passo dopo passo, la macchina economico-statuale che sostiene il sistema capitalistico.
«Se all’interno dei partiti comunisti, all’interno del campo rivoluzionario non divengono già visibili momenti della controsocietà, della nuova società, degli uomini nuovi con nuovi bisogni e nuovi interessi, allora la differenza tra PC e PSD è soltanto una differenza quantitativa e irrilevante, irrilevante nel senso della trasformazione sociale in direzione della democrazia diretta, in direzione del socialismo come possibilità e capacità degli uomini di svilupparsi al massimo sul piano creativo e in ultima istanza di divenire uomini nuovi»3.
La critica al riformismo si sviluppa all’interno di un’analisi del capitalismo novecentesco che presenta momenti di straordinaria profondità anticipando, in piena fase fordista, alcune letture che si svilupperanno in campo marxista soprattutto a partire dalle faglie di crisi del tardo Novecento. Dutschke insiste sulla presenza di un «piano politico del capitale» e utilizzando le categorie operaiste – pur diversamente articolate nel lessico neomarxista di Dutschke – constata come la classe dei capitalisti sia, dai suoi esordi storici, organicamente articolata dentro lo Stato, i partiti, le strutture sociali di potere, l’esercito, le burocrazie aziendali e istituzionali. «Attraverso lo stato, il tardo-capitalismo regola in misura sempre crescente il processo economico, in cui lo stato interviene direttamente in quanto potenza economica (distribuzione del credito, sviluppo delle infrastrutture, ecc.)»4, tanto che «lo scopo dello statalismo non è la nazionalizzazione dei mezzi di produzione, bensì la direzione statale del capitalismo privato»5. Lo Stato è la struttura portante di questo progetto in cui esso «assume sempre più chiaramente una funzione di equilibrio tra le frizioni e contraddizioni esistenti, di autonomia per la conservazione del sistema»6. A partire da questo saldo controllo socio-politico (istituzioni, produzione, riproduzione) può svilupparsi il progetto egemonico borghese penetrando dentro le masse con le procedure parlamentari, con l’etica del lavoro, l’adattamento, la passività, il consumo, lo svago, le illusioni riformistiche.
Il concetto di «lunga marcia dentro le istituzioni», spesso frainteso, muove, con grande realismo, da questo scenario. Esso indica la strategia di una lunga marcia (l’evocazione maoista non è certo casuale) verso la conquista degli istituti della rappresentanza democratico-borghese. Si obietterà, non a torto, che Dutschke esprime in tutte le occasioni una forte diffidenza, se non un aperto disprezzo, verso i partiti, lo Stato, il Parlamento. «Il Parlamento è un momento diretto nell’assoggettamento funzionale delle masse tenute nell’incoscienza, e dev’essere perciò da noi rifiutato in ogni caso»7, l’assemblea dei rappresentanti è infatti un sistema in cui ogni opposizione di classe è ingessata nelle regole di un «confronto» che mira a rappresentare gli interessi dei gruppi dominanti. Il Parlamento non è più il luogo di decisioni politiche che vengono prese tra i vari gruppi di interesse: «Possiamo intendere la democrazia borghese nella sua forma tardo-capitalistica come democrazia d’interessi, in cui i singoli gruppi d’interesse s’incontrano alla Borsa della politica, concludono compromessi, compromessi retti da punti di vista politici; i singoli gruppi d’interesse ricevono una determinata quota del prodotto sociale lordo»8.
Ma se è questo Parlamento che Dutschke rigetta – quello del sistema partitico legato all’alternanza di potere e non di sistema – «marciare» al suo interno significa innanzi tutto stravolgerne la funzione, il senso, il ruolo in una sorta di détournement situazionista poiché l’istituzione non è radicalmente altro dal movimento. Essa può esserne (anzi, deve esserne) la condensazione non cristallizzata, il momento organizzativo-operativo del flusso di potenza, potere e creatività che esprime il movimento stesso. L’istituzione può infatti diventare il luogo in cui il conflitto politico permane nel suo ruolo. Marcia – lunga, cioè non predefinita nel suo termine temporale – dentro le istituzioni non è affatto una formula omologabile all’opzione riformista. È il rivoluzionamento del presente con la piena consapevolezza di esservi dentro. L’attività extraparlamentare si sviluppa in questa direzione. Essa non è solo un agire frontalmente verso gli istituti dello Stato borghese ma è in quanto tale già prefigurazione rivoluzionaria nel momento in cui si è in grado di svilupparvi controsocietà. Conta, in altre parole, come si agisce, ci si muove, si opera dentro le istituzioni, con quale prospettiva, con quale capacità di condurvi lotta egemonica e tattica di conquista di massa.
«Se le masse sul piano della coscienza sono divenute extraparlamentari, vale a dire se nella coscienza si collocano già all’esterno del tardocapitalismo, allora la crisi del sistema è profonda, allora diviene possibile minare in misura sempre crescente le diverse istituzioni e i diversi ambienti dell’apparato»9. Ha scritto Giovanni De Luna: «La “lunga marcia attraverso le istituzioni” – forse la più incisiva istanza di trasformazione avanzata allora dal movimento, così come era stata elaborata dagli studenti tedeschi e in particolare dal loro leader Rudi Dutschke – si nutriva proprio di un’analisi attenta dell’operato concreto delle istituzioni statali e, in questo senso, si differenziava nettamente sia dalle teorizzazioni marxiste-leniniste sul peso dell’avanguardia esterna nell’organizzazione del movimento operaio, sia da quelle operaiste che contrapponevano la lotta contro lo sfruttamento a quella contro l’autoritarismo, la fabbrica contro l’università»10.
La rivoluzione vive nel proprio essere, nel farsi, nell’accadere giorno per giorno. Sarà un processo lento – «il nostro cammino sarà assai lungo»11 – e in parte imprevedibile ma, afferma Dutschke ricordando Shakespeare, «essere pronti è tutto»12.
La marcia nelle istituzioni, proposta nella fase crescente del movimento, appare dunque tanto come un’assunzione di realismo e responsabilità politica quanto come tattica innovativa, perché assume operativamente le istanze rivoluzionarie che si stavano sviluppando sul terreno del conflitto anticapitalistico e antiautoritario.
Dutschke, com’è noto, muove la sua azione politica dentro l’università, il luogo della forza lavoro in formazione. La storia della ricostruzione in Germania e lo straordinario decollo tecnico-industriale ed economico si spiegano, egli afferma, con un investimento massiccio sulla formazione in un quadro strategico di messa a sistema delle intelligenze produttive. «La scientificizzazione del processo produttivo provoca necessariamente una stretta relazione tra gli interessi dominanti della società e la formazione universitaria»13. Sono gli stessi concetti che circolano in quei mesi nelle università di Trento e Torino. La lotta antiautoritaria che si è sviluppata nelle aule, la presa di coscienza, la formazione di un’alternativa non solo economica ma di sistema che tracima dalla struttura scolastica invadendo l’intero terreno sociale: «La via per divenire rivoluzionari conduce dalle università direttamente alle istituzioni, per collaborare alla loro distruzione, per far sorgere nuovi gruppi di salariati, di operai, di contadini, ecc.»14. Di nuovo, dentro e contro, poiché la figura dello studente matura a partire dal proprio processo culturale e formativo una volontà di azione verso l’oltre lo stato di cose presente. Senza, per altro, negarsi come tale. L’incontro con la classe operaia significa fondere due diversità potenziando la comune strategia. Ha osservato Peppino Ortoleva che «la proposta di “andata al popolo” e di “negazione del proprio ruolo di studenti” avanzata dai gruppi di ispirazione marxista-leninista sarebbe apparsa ovunque più rassicurante, più facilmente praticabile, in fondo più generosa, che il tentativo articolato di tenere in vita la tensione fra particolarità e generalità proposto ad esempio da Dutschke con il progetto della “lunga marcia”»15. La «politicizzazione dell’Università come punto di partenza della politicizzazione e quindi del mutamento della società»16 è il compito attuale del movimento. Non è, quella studentesca, un’avanguardia nel senso leniniano. Essa non si pone a capo del processo trasformativo dentro un’organizzazione. Essa, al più, è un «diffusore» della coscienza anticapitalistica. «La nostra prospettiva di rivoluzionare l’ordine esistente consiste unicamente nella nostra capacità di rendere coscienti minoranze sempre più consistenti»17 per cui bisogna «mobilitare in senso antiautoritario una base relativamente vasta di studenti» e poi puntare a un «allargamento del campo antiautoritario all’area extra-universitaria», poiché, «senza un allargamento dei movimenti sovvertitori all’interno della società, non potremmo che naufragare. L’unità degli operai, impiegati, scolari, contadini e studenti rappresenterà da noi il presupposto decisivo per la rivoluzione globale»18. Non c’è pertanto in Dutschke alcuna enfasi operaista. L’attenzione ai ceti medi, alle lavoratrici femminili è nel segno di una ricomposizione complessiva del fronte antiautoritario. «Non esiste più nessun ambito che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo. Il movimento di tiepida opposizione è morto»19. Certo, la classe operaia resta il cardine di questo movimento antagonista ed è questo il motivo della sottolineatura non solo del permanere delle contraddizioni oggettive ma anche della funzione che possono svolgere piccoli conflitti come la riduzione dell’orario a parità di salario, in ragione dell’aumento vertiginoso della produttività. Ma permane all’interno di una composizione in cui nessuna forza assume a priori (cioè a partire da una centralità derivata da argomentazioni teoriche) un ruolo centrale. Ciò attirò presto le critiche degli operaisti e già nel febbraio del 1969 su «Contropiano» Francesco Dal Co rilevava il «limite fondamentale» di Dutschke nella «riduzione continua della presenza di classe, in seno allo sviluppo capitalistico, a un ruolo statico e oggettivo di “mera forza-lavoro”, condizione questa che difficilmente permette di cogliere il significato strutturale, il ruolo eversivo e dinamico ricoperto dalla classe operaia dentro il capitale»20, cioè, secondo la prospettiva operaista, l’autonomia e la «precedenza» dell’azione di classe rispetto alla risposta del capitale. Ciò priva l’analisi di Dutschke, per Dal Co, di qualsiasi «prospettiva politica» pur riconoscendo negli scritti del leader studentesco tedesco una specifica attenzione all’egemonia del capitale sul corpo sociale, sottomesso «interamente al contesto complessivo della repressione, che trova più clamorosa e funzionale espressione nella quotidiana mobilitazione dell’intera società contro l’idea della liberazione dal lavoro»21.
Dutschke ribadisce in varie occasioni la posizione centrale della classe operaia non trasformabile però in una priorità ontologica. «Non esiste un ruolo oggettivistico, preciso dei movimenti operai nelle metropoli, all’interno della totalità imperialistica; esiste una totalità imperialistica che ha temporalmente trasferito gli stessi movimenti operai in una componente integrale del sistema e che tenta di farli permanere in questo stato»22. Anzi, il rischio è sempre quello di «assolutizzare in modo metafisico il “proletariato” o “le masse”, di non comprendere la concreta e difficile dialettica tra i gruppi coscienti, radicali e minoritari, e le grandi masse»23.
Per Dutschke, lettore di Lukács, la classe è una realtà dinamica che prende forma solo nella lotta. La trasformazione delle masse salariate in classe rivoluzionaria è la meta e la tendenza del processo rivoluzionario, non il suo punto di partenza. Torna il tema, affatto centrale, della coscienza non come dato sovrastrutturale ma come processo materiale ed esistenziale. Essa non proviene né dal partito né dalle avanguardie di classe. È nella mescola da agire «diffuso» della mobilitazione, conflitti in atto, visione strategica che essa si forma e si consolida intaccando quella «coscienza socialdemocratica» che l’organizzazione capitalistica del mondo della vita ha saputo diffondere integrando in sé il sociale in tutte le sue espressioni. Questo è il «lavoro politico»: creare controistituzioni, controinformazione, nuclei autonomi. Da ciò si intuisce la «necessità di una prolungata rivoluzione culturale proprio nei paesi capitalistici sviluppati dell’Europa centrale, come condizione per la possibilità di una trasformazione rivoluzionaria della società»24. Questo è il ruolo del movimento studentesco: farsi possibile innesco di un processo di consapevolezza («presa di coscienza») verso la creazione di quell’uomo nuovo. Come dire: prima l’assunzione critica di un distacco soggettivo dall’orizzonte borghese; in concomitanza, l’azione collettiva rivoluzionaria. «Noi non siamo organizzati in un partito, siamo soltanto il nucleo organizzativo di un campo antiautoritario costituito da organizzazioni autonome. Nella fabbrica o nella scuola, nella scuola professionale o nell’università, nella chiesa o nel sindacato, in tutti questi ambiti si costituiscono organizzazioni autonome radicali che non accettano più l’integrazione della propria istituzione nel sistema»25. «I rivoluzionari permanenti – scrive Dutschke – continueranno l’infiltrazione in nuove istituzioni: questa è la lunga marcia attraverso le istituzioni»26, cioè «attività permanente nelle istituzioni d’importanza vitale per la rivoluzione (fabbriche, settori burocratici specializzati, aziende agricole, esercito)»27.
A partire dall’Università l’antagonismo anticapitalistico sviluppa appieno le proprie potenzialità proprio per l’imprevedibilità del suo darsi. «Una dialettica rivoluzionaria dei giusti passaggi deve concepire la “lunga marcia attraverso le istituzioni” come un’attività critico-pratica in tutti i campi sociali; essa ha per meta l’approfondimento critico-sovversivo delle contraddizioni, che è divenuto possibile in tutte le istituzioni interessate all’organizzazione della vita quotidiana, non esiste più nessun ambito sociale che nella fase di rivoluzione culturale del nostro movimento abbia l’esclusivo privilegio di esprimere gli interessi del movimento complessivo»28.
L’antiautoritarismo va letto in questa chiave classista, di diffusione capillare del conflitto dentro le forme istituite del sociale. «La forma dell’organizzazione autonoma agisce nelle sfere in cui vivono gli uomini che non accettano più le regole del gioco. Ciò significa che in ogni istituzione, dalla fabbrica all’università, dalla scuola alla chiesa, possono costituirsi organizzazioni autonome, possono formarsi avanguardie autonominatesi, che, senza essere costrette ad assoggettarsi alla pretesa monopolistica di un partito, possono intraprendere la lotta antiautoritaria all’interno della loro sfera specifica. A mio avviso, oggi, la lotta antiautoritaria è tendenzialmente una lotta rivoluzionaria e, quindi, una lotta socialista, poiché tutte le istituzioni del tardo capitalismo sono in sé autoritarie»29.
Nessuna «istituzione» è inattaccabile e indicazioni di grande interesse riguardano proprio le forze armate. «Andate nell’esercito, lavorateci, formatevi, create confusione nell’esercito, sviluppate la lotta antiautoritaria al suo interno, conducetevi un’azione sovversiva, lavorate per una strategia rivoluzionaria, il che può anche significare imparare a conoscere i mezzi e i metodi in vigore nell’esercito che sono necessari per la presa rivoluzionaria del potere»30. Così come nella burocrazia e nella magistratura, «frazioni essenziali dell’apparato», non inespugnabili ma fortini in cui si possono produrre nuclei di coscienza alternativa che ne rovescino il segno e la funzione in direzione antisistema.
Il successo del processo rivoluzionario dipenderà tanto dai rapporti di forza interni quanto dalle lotte del Terzo mondo che in una realtà globale assumeranno un peso rilevante sia in funzione della creazione di un immaginario alternativo nei paesi occidentali (torna il tema dell’antropologia politica) sia per il disequilibrio dei rapporti interstatuali, preludio e accompagnamento del disordine interno. In Dutschke questa alleanza è ribadita più volte: solo incrinando il sistema imperiale americano incardinato sull’Alleanza atlantica: «La Nato è un elemento integrante della teoria e della prassi dell’imperialismo globale nella sua forma dominante, nella forma dell’imperialismo statunitense»31; solo con una «coerente connessione rivoluzionaria globale in forma di strategia»32 le lotte in Occidente usciranno dai limiti asfittici del riformismo. La funzione della lotta coloniale è dunque per Dutschke fondamentale nell’innesto di un processo trasformativo. La formazione culturale di Rudi, come accadde per milioni di studenti da Berkley a Torino a Parigi verso la metà degli anni Sessanta, sovrappone Marx e Fanon, analisi di classe a livello nazionale e studio del neocapitalismo globalista. Il Vietnam è l’innesco di buona parte delle proteste studentesche ma manifestazione e scontri si svolgono in Germania anche in occasione della visita di Ciombe, primo ministro congolano e dello scià di Persia Reza Pahlavi e frequenti sono i riferimenti alle lotte del MIR in Perù, ai vietcong, a Cuba, ai diversi focolai anticapitalistici e antimperialisti. Sono, questi, «momenti di lotta sociale contro la nostra oligarchia dominante»33.
Ed è proprio lungo la prospettiva terzomondialista che si sviluppa la critica al blocco sovietico. Vi è, da un lato, un posizionamento sostanzialmente libertario di Dutschke che lo porta a rigettare tanto le repressioni interne, l’annientamento del dissenso, il conformismo culturale degli stati del cosiddetto socialismo reale. Ma è soprattutto la prospettiva internazionalista che smentisce il carattere originario dell’URSS incapace di fornire un appoggio ai movimenti di liberazione dall’imperialismo USA, come in America Latina, e di rispondere in modo autenticamente «sovversivo-rivoluzionario» alle istanze di antimperialistiche che provengono dall’intero mondo. Ciò significa non tanto fornire appoggio militare quanto trarre esempio dalle (poche) esperienze socialiste consolidatesi fuori dall’Europa. Cuba, Cina, Vietnam sono laboratori in cui l’alternativa di sistema, pur tra mille difficoltà, si è radicata e diffusa proprio in ragione del fatto che «socialismo non può voler dire raggiungere e sorpassare il capitalismo nel senso limitato e ottuso dell’efficienza della produzione materiale»34 come al contrario sta accadendo in URSS. La rivoluzione è un problema internazionale che deve rendere «possibile l’evoluzione creativa degli individui»35, mentre «il neocapitalismo e il socialismo statale autoritario (stalinismo) che contiene in sé pochi elementi comunisti, cooperano contro il comunismo rivoluzionario che deve abbattere ambedue i sistemi. I comunisti finora esistono soltanto in Cina, a Cuba e nel Vietnam»36.
Dunque, in Europa, i popoli che si sono ribellati allo stalinismo e che hanno insanguinato le strade di Berlino e Budapest invocando «la forma umana del socialismo»37 prefigurano una «democrazia operaia come potere immediato dei produttori»38.
Per il movimento anticapitalista occidentale la rivoluzione è dunque un percorso verso un rovesciamento di sistema in cui la violenza contro gli umani non è contemplata nella misura della possibilità che ancora offrono gli ordinamenti liberali di conquistare il potere. Ciò significa che «nessuno può escludere fin da ora l’insorgere della violenza all’interno del processo di trasformazione» poiché «la violenza è costituens del dominio e quindi anche la nostra risposta deve prevedere il ricorso a una violenza dimostrativa e provocatoria. La forma di questa controviolenza verrà determinata dal tipo di conflitto»39, cioè «l’intensità di questa violenza dipende effettivamente dalla controrivoluzione»40 che il potere scatenerà di fronte al diffondersi tra le masse di una coscienza e di una volontà di rovesciamento del dominio. Brandt, il primo ministro della Repubblica, è «una maschera» destituibile e verso cui un attentato sarebbe «sbagliato, disumano e controrivoluzionario»41.
Dutschke insieme a Hans-Jürgen Krahl aveva stilato un «documento dell’organizzazione» in cui si indicava la strategia metropolitana – coerente con la «teoria del focolaio» di Guevara – di una «guerriglia di sabotaggio e di rifiuto» complementare e sinergica con la più violenta «guerriglia rurale» che si stava sviluppando nel Terzo Mondo42. A tal fine deve essere praticato un «rifiuto organizzato», cioè disobbedienza e illegalità di massa, autoriduzione delle bollette, richieste «incompatibili» degli operai con «rivendicazioni offensive». Ne consegue una presa di consapevolezza dell’autonomizzazione delle masse, cioè di una riappropriazione sociale del politico, sforzo costituente verso nuove organizzazioni e istituzioni non burocratiche e non autoritarie, sperimentazione di forme di relazionalità aperta, creativa e anche gioiosa in cui alla fine lo stesso Parlamento risulterebbe superfluo in una realtà di autorganizzazione del sociale.
La prospettiva luxemburghiana restituisce una nuova realtà in cui «le assemblee dei Consigli di tutti i settori della vita sociale (sia delle aziende, sia delle scuole, delle università, delle amministrazioni, ecc.) potrebbero essere una cinghia di trasmissione strategica per una futura riunificazione della Germania»43.
L’obiettivo finale è un socialismo libertario e anticapitalista poiché «democrazia e capitalismo si escludono per definitionem»44. Riemerge, nella specifica tonalità di alcuni concetti, il rivoluzionario cresciuto nella gioventù evangelica. «La questione della trascendenza è anch’essa, per me, una questione di storia reale e cioè: in che modo si può trascendere la società esistente, in che modo si può elaborare un nuovo progetto di società futura. Si tratta forse di una trascendenza materialistica»45. Questa pulsione interna deve valere anche all’interno della società nuova possibile grazie alla strutturazione di un’antropologia che dovrà mantenere quel «grado di inquietudine critica raggiunto di volta in volta dallo spirito umano verso ogni forma di convivenza umana via via raggiunta», tensione che non consentirà «un acquietamento e un assestamento definitivo della storia umana»46. Dunque nessun approdo ultimo a una società perfetta, cristallizzata. L’antiautoritarismo di Dutschke «corregge» l’eschaton, sradica l’illusione di una teleologia della storia che conclude il percorso storico della perfettibilità nella perfezione.
Nel movimento studentesco europeo la Primavera di Praga offre nuove ipotesi di lavoro e nuove prospettive. Essa non è l’esito di quel movimento antiautoritario, classista, popolare e libertario auspicato da «Rudi il rosso» nella Repubblica Federale. Essa è un laboratorio, un esperimento elaborato in massima parte dai dirigenti comunisti, certo a partire da istanze sociali che potentemente esprimevano insofferenza verso il conformismo imposto con la forza dall’URSS ai paesi raccolto sotto la sua egida. Dutschke si reca immediatamente a Praga per parlare, capire, sostenere un processo che pare configurare una possibile alternativa comunista. Appena rientrato in Germania, l’11 aprile del 1968, a una settimana di distanza dall’uccisione a Memphis di Martin Luther King jr., viene colpito a Berlino, davanti alla sede della SDS in Kurfürstendamm, da Joseph Bachmann, un estremista di destra esaltato, come dichiarerà lui stesso, dalla campagna d’odio montata dai giornali di Springer. Rudi sopravvive ai tre colpi, due alla testa e uno alla spalla sinistra, che lo raggiungono. I danni provocati al cervello sono gravi ma non fermano la sua attività. Si reca in Francia e in Italia, infine in Danimarca ad Århus dove insegna sociologia. Bachmann, condannato a sette anni per tentato omicidio, si suicida in carcere nel 1970. Dutschke gli aveva scritto, manifestandogli la propria assenza di rancore e cercando di spiegargli le ragioni della scelta socialista.
Pur affaticato, indebolito da frequenti attacchi di epilessia, rientra nella Repubblica Federale, si avvicina al movimento antinucleare e prende contatti con i dissidenti della DDR organizzando manifestazioni pubbliche in loro favore. Viene delegato a Brema per partecipare all’atto di fondazione dei Grünen previsto per metà gennaio 1980. Pochi giorni prima dell’apertura del congresso, il 24 dicembre 1979, annega nella vasca da bagno di casa, ad Århus, colpito da una violenta crisi. Rudi Dutschke, l’uomo che si era ribellato con tutta la sua intelligenza e forza alla violenza del capitalismo, alla sua dinamica distruttiva verso l’individuo, la comunità, l’ambiente è sepolto al cimitero di Sant’Anna a Berlino-Dahlem.
Franco Milanesi
(Tratto da: https://www.machina-deriveapprodi.com/post/rudi-dutschke).
Note
1 Per il profilo biografico cfr. M. Karl, Rudi Dutschke – Revolutionär ohne Revolution, Neue Kritik, Frankfurt am Main 2003 e la biografia scritta dalla moglie G. Dutschke-Klotz, Rudi Dutschke. Wir hatten ein barbarisches, schönes Leben. Eine Biographie, Kiepenheuer und Witsch, Köln 1996.
2 Dutschke a Praga, De Donato, Bari 1968, p. 12.
3 Intervista a Rudi Dutschke del 23 marzo 1968 (a cura di Giorgio Backhaus) in «Quaderni piacentini», n. 34, maggio 1968, p. 5.
4 Ivi, p. 3.
5 R. Dutschke, La ribellione degli studenti, Feltrinelli, Milano 1968, p. 79.
6 Dutschke a Praga, cit., p. 15.
7 Ivi, pp. 19-20.
8 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 3.
9 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 7.
10 G. De Luna, Le ragioni di un decennio. 1969-1979. Militanza, violenza, sconfitta, memoria, Feltrinelli, Milano 2009, p. 78.
11 Dutschke a Praga, cit., p. 166.
12 Lettere a Rudi Dutschke, Sugar, Milano 1969, p. 11.
13 Dutschke a Praga, p. 141.
14 Lettere a Rudi Dutschke, cit., p. 16.
15 Peppino Ortoleva, Saggio sui movimenti del 1968, Editori Riuniti, Roma 1988, p. 173.
16 Dutschke a Praga, cit., p. 82.
17 Ivi, p. 92.
18 Ivi, pp. 109-110.
19 R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 130.
20 F. Dal Co, Riscoperta del marxismo e problematica di classe nel movimento studentesco europeo. Rudi Dutschke, in “Contropiano”, 2, 1968, p. 431.
21 F. Dal Co, Riscoperta del marxismo, cit., p. 437.
22 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 14.
23 R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 131.
24 La ribellione degli studenti, cit., p. 67.
25 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 10.
26 Lettere a Dutschke, cit., p. 18.
27 Ivi, p. 22.
28 La ribellione degli studenti, cit., p. 130.
29 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 6.
30 Ivi, p. 11.
31 Ivi, p. 12.
32 Ivi, p. 15.
33 R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 119.
34 Dutschke a Praga, cit., p. 105.
35 Ivi, p. 107.
36 Lettere a Dutschke, cit., p. 20.
37 Ivi, cit., p. 26.
38 R. Dutschke, La ribellione degli studenti, cit., p. 96.
39 Dutschke a Praga, cit., pp. 91-92.
40 Intervista a Rudi Dutschke, cit., p. 9.
41 Dutschke a Praga, cit., p. 58.
42 Cfr. W. Kraushaar, Il ’68 e gli inizi del terrorismo tedesco occidentale, in C. Cornelißen, B. Mantelli, P. Terhoeven, Il decennio rosso. Contestazione sociale e conflitto politico in Germania e in Italia negli anni Sessanta e Settanta, Il Mulino, Bologna 2012, pp. 203-223.
43 Dutschke a Praga, cit., p. 119.
44 Ivi, p. 101.
45 Ivi, pp. 177-178.
46 Ivi, p. 79.
Inserito il 26/3/2023.
Blindati sovietici nei pressi di Jalalabad, Afghanistan, 12 giugno 1988.
Autore della foto: A. Solomonov, RIA Novosti.
Fonte della foto: https://img-fotki.yandex.ru/get/15529/13354011.13d4/0_f8e1b_1ed6c6a9_orig.jpg
di Aleksandr Dobrovol’skij
Fin dall’inizio l’avventura militare afghana dell’URSS sembrò un paradosso. Ma questo evento della storia recente appare ancor più contraddittorio se si guardano i verbali e i documenti delle riunioni al vertice del Partito Comunista dell’Unione Sovietica. Si scopre che solo sei mesi prima che l’URSS fosse coinvolta nell’invasione del suo vicino meridionale, i capi del partito, L.I. Brežnev in testa, erano categoricamente contrari a tale azzardo. Ma poi, come per magia, ci fu una svolta di 180 gradi.
Una così strana metamorfosi viene tracciata attraverso i documenti e i verbali delle riunioni del Politbjuro del Comitato Centrale del PCUS che sono ora di pubblico dominio.
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Misteri d’Afghanistan: pochi mesi prima dell’inizio il PCUS era contro la guerra
Il Politbjuro ha poi agito in modo opposto alla propria decisione originaria
Il 15 marzo 1979 a Herat, una delle principali città dell’Afghanistan, scoppiò una ribellione antigovernativa. Fu in relazione a ciò che la dirigenza afghana chiese per la prima volta all’Unione Sovietica un intervento militare diretto.
Il 18 marzo l’allora leader afghano Nur Mohammad Taraki ebbe una conversazione telefonica con il primo ministro sovietico A.N. Kosygin. Taraki cercò di spiegare la situazione disperata in cui si trovava la dirigenza filosovietica dell’Afghanistan, e invocò con insistenza l’invio di truppe del vicino alleato sovietico nel proprio Paese. Questo “segnale di SOS”, a quanto pare, giunse del tutto inaspettato per il “numero 2” dell’URSS: le idee sulla realtà afghana al Cremlino erano, per usare un eufemismo, poco chiare. Da Mosca si rispose con un “sollecito” nel classico spirito rivoluzionario alla maniera dell’ottobre 1917: nella lotta per la “giusta causa” affidatevi ai lavoratori. Il leader afghano rispose che il proletariato a Herat era composto al massimo da 2000 persone…
Quel giorno stesso il Comitato Centrale del PCUS, con una risoluzione, formò una commissione speciale del Politbjuro sull’Afghanistan al fine di sviluppare decisioni operative e formulare proposte in merito.
Il giorno seguente, il 19 marzo, si tenne una riunione del Politbjuro del CC del PCUS in cui si discusse su cosa fare dopo l’appello proveniente dall’Afghanistan.
Leonid Il’ič Brežnev parlò in modo specifico del “problema afghano”: «È stata sollevata la questione della partecipazione diretta delle nostre truppe al conflitto scoppiato in Afghanistan. Penso che […] non sia giusto per noi in questo momento essere coinvolti in quel conflitto […] L’invio di nostre truppe in Afghanistan può danneggiare non solo noi, ma soprattutto loro […]».
Altri membri di spicco del partito si accodarono al parere del Segretario generale.
Ju.V. Andropov: «Io, compagni, ho riflettuto attentamente sull’intera faccenda e sono giunto alla seguente conclusione: dobbiamo valutare molto, molto seriamente la questione su quale sia lo scopo di un invio delle nostre truppe in Afghanistan. […] Ritengo che la rivoluzione in Afghanistan possa essere mantenuta solo con l’aiuto delle nostre baionette, ma ciò per noi è del tutto inaccettabile. Non possiamo correre questo rischio».
Andrej Gromyko: «Sostengo pienamente la proposta del compagno Andropov di escludere una misura come l’invio di nostre truppe in Afghanistan. […] Il nostro esercito, se entra in Afghanistan, sarà visto come un aggressore. Contro chi combatterà? Contro il popolo afghano prima di tutto, e bisognerà sparargli. […] Tutto ciò che abbiamo costruito con tanta difficoltà negli ultimi anni – nel senso della distensione, della riduzione degli armamenti e molto altro – tutto questo lavoro andrà perduto. […] Avremo contro di noi tutti i Paesi non allineati. In una parola, un’azione del genere ci porterebbe gravi conseguenze. […] Va tenuto presente che non possiamo giustificare legalmente l’introduzione di truppe. Secondo la Carta delle Nazioni Unite, un Paese può chiedere aiuto e noi potremmo inviare truppe nel caso in cui esso subisse un’aggressione dall’esterno. Ma l’Afghanistan non è stato sottoposto ad alcuna aggressione […]».
In conclusione, i leader del Cremlino respinsero all’unanimità l’idea di inviare truppe in Afghanistan.
Alla fine della primavera del 1979 la situazione nel Paese dell’Asia Centrale divenne ancora più complicata. Rivolte antigovernative scoppiarono l’una dopo l’altra in sei province e nell’area metropolitana della capitale. La dirigenza afghana si rivolse di nuovo all’URSS con una richiesta di assistenza militare. La questione venne discussa in una riunione del Politbjuro del CC del PCUS il 24 maggio 1979. In quell’occasione fu deciso di fornire solo supporto materiale e tecnico all’Afghanistan. Per quanto riguardava l’invio delle truppe, venne di nuovo presa la decisione di rifiutare. A questo proposito, all’ambasciatore sovietico a Kabul fu dato da Mosca l’ordine di incontrare in segreto i dirigenti afghani e riferire la seguente opinione dei leader del PCUS: «[…] Per quanto riguarda la richiesta della parte afghana […] e il possibile sbarco dei nostri aerei con truppe d’assalto a Kabul, azioni come questa – ne siamo profondamente convinti – sono irte di grandi complicazioni e possono comportare gravi conseguenze, non solo sul piano politico interno, ma anche su quello internazionale, perché saranno indubbiamente sfruttate da forze a noi ostili […]».
Tuttavia, le richieste dei “vicini” di inviare un contingente militare in Afghanistan continuarono. La situazione non era cambiata a settembre, dopo la presa del potere a Kabul da parte di Hafizullah Amin. Il nuovo capo del Paese, Segretario generale del Partito Democratico Popolare dell’Afghanistan, chiese di inviare almeno un battaglione di fucilieri motorizzati a guardia della sua residenza. E…
A questo punto pare proprio il caso di citare il proverbio russo “l’acqua consuma la pietra”. In totale, i ricercatori hanno contato circa una ventina di appelli delle autorità afghane protocollati nei documenti riguardanti l’aiuto militare. La dirigenza sovietica, sotto una tale pioggia di richieste da Kabul, iniziò a cedere.
Leggendo i documenti di questo periodo si resta semplicemente sorpresi: tutto è come in un numero di magia, il nero diventa bianco, il bianco diventa nero. I vertici del partito e del Paese, Segretario generale in testa, sembravano aver dimenticato le proprie tesi sull’inammissibilità categorica di inviare le nostre truppe in Afghanistan, sulle gravi conseguenze internazionali per l’Unione Sovietica che un simile passo avrebbe prodotto. Ora, invece, cominciava ad esserci una specie di “consenso” di massa ai vertici del partito.
Il cambio di linea iniziò con un piccolo passo, piccolo solo in apparenza. In una riunione del Politbjuro del CC del PCUS del 6 dicembre 1979 fu deciso di inviare in Afghanistan un distaccamento speciale. Su questa formazione militare si può sapere qualcosa di più da una nota inviata al Comitato Centrale dal presidente del KGB Jurij Andropov e dal capo di Stato Maggiore N. Ogarkov il 4 dicembre: «[…] Tenendo conto della situazione attuale e della richiesta di H. Amin, riteniamo opportuno inviare in Afghanistan un distaccamento del GRU [Glavnoe Razvedyvatl’noe Upravlenie, Direzione generale dell’intelligence, il servizio segreto militare dell’URSS, ndt] dello Stato Maggiore con una forza totale di circa 500 persone addestrate a tale scopo, in un’uniforme che non ne riveli l’appartenenza alle forze armate dell’URSS. […] Riteniamo possibile trasferirlo con aerei militari da trasporto nella prima metà di dicembre».
Poi, dopo pochi giorni si ebbe la “svolta” definitiva. Ormai si trattava di un’invasione su larga scala del territorio di un Paese vicino.
L’8 dicembre una ristretta cerchia di membri del Politbjuro si riunì nell’ufficio di Leonid Il’ič. Era proprio questa ristretta cerchia di esponenti principali del partito, particolarmente vicini al Segretario generale, a prendere con lui le decisioni sulle questioni più importanti. Eccoli, questi “boiardi”: il presidente del KGB Jurij Andropov, il ministro della Difesa Dmitrij Ustinov, il ministro degli Esteri Andrej Gromyko, il capo ideologo del partito Michail Suslov. Quella volta discussero della situazione nella Repubblica Democratica dell’Afghanistan e delle possibili opzioni per introdurvi le truppe sovietiche. La loro conclusione fu che senza i nostri soldati i «compagni afghani» non ce l’avrebbero fatta.
La decisione presa “dietro le quinte” dalla cerchia ristretta di dirigenti fu formalizzata nel verbale della riunione del Politbjuro del Comitato Centrale del PCUS del 12 dicembre 1979. L’intestazione del documento elenca i nomi dei dirigenti comunisti presenti, quelli che alla fine sancirono lo scoppio della guerra in Afghanistan: L.I. Brežnev, M.A. Suslov, V.V. Grišin, A.P. Kirilenko, A.Ja. Pel’še, D.F. Ustinov, K.U. Černenko, Ju.V. Andropov, A.A. Gromyko, N.A. Tichonov, B.N. Ponomarev.
Un dettaglio piccante: in questo documento epocale (parlando in lingua ufficiale, di estrema rilevanza), per un’ingenua abitudine cospirativa (o per falsa coscienza?), la dicitura «introduzione delle truppe sovietiche in Afghanistan» venne sostituita dalla parola «misure». Di conseguenza, la risoluzione del Comitato Centrale del PCUS n. P176/125 adottata dal Politbjuro si presenta così (il testo venne stilato, su incarico dei compagni, da Konstantin Černenko):
Sulla situazione in «A».
Approvare le considerazioni e le misure esposte dai compagni Andropov Ju.V., Ustinov D.F., Gromyko A.A.
Autorizzarli ad apportare modifiche di natura accessoria nel corso dell’attuazione di tali misure […]
Il Segretario del CC L. Brežnev.
Nei successivi anni sovietici questo anonimo foglio manoscritto fu inserito tra i documenti coperti dal massimo segreto custoditi nella famosa cartella speciale, e non fu mostrato nemmeno ai massimi rappresentanti dei vertici del Paese. (Come suggeriscono alcuni ricercatori, i mastodonti del partito non si fidarono nemmeno dei loro dattilografi più affidabili per trascrivere questo documento mettendolo in forma corretta dal punto di vista del protocollo, tanto era il timore di decifrare se stessi.)
La risoluzione è stata desecretata solo ai giorni nostri. In fondo al documento c’è la firma del Segretario generale, e proprio sopra il testo, obliquamente, c’è la colonna delle firme dei partecipanti a quell’importante riunione, i “padri della guerra afghana”. È interessante notare che uno dei massimi dirigenti del partito, il presidente del Consiglio dei ministri dell’URSS A.N. Kosygin, rifiutò l’approvazione del documento poiché era rimasto un categorico oppositore di quell’operazione militare. Altri tre membri del Politburo – i capi dei Partiti Comunisti dell’Ucraina V.V. Ščerbickij e del Kazachstan D.A. Kunaev, nonché il “padrone del partito” di Leningrado G.V. Romanov –, non presenti alla riunione, apposero le loro firme di approvazione diverso tempo dopo, il 25 e 26 dicembre, quando gli eventi che coinvolsero le nostre unità combattenti in Afghanistan avevano già iniziato a prendere un rapido sviluppo. Del resto, l’attuazione delle famigerate «misure» iniziò nel giro di pochissimi giorni. Già il 23 dicembre l’ambasciatore dell’URSS a Kabul informò il leader afghano Hafizullah Amin che l’introduzione delle truppe sovietiche in Afghanistan, da lui tanto desiderata, sarebbe iniziata il 25 dicembre. E così fu.
Un fatto degno di nota: de iure, questa operazione speciale su larga scala era illegale. Non venne emesso nessun decreto del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS o qualche altra delibera del governo sull’introduzione delle truppe sovietiche nel Paese vicino. Questa fu la conclusione cui giunsero nel 1989 i membri del Comitato per gli Affari internazionali del Soviet Supremo dell’URSS.
Aleksandr Dobrovol’skij
[traduzione di Leandro Casini]
(Tratto da Aleksandr Dobrovol’skij, Zagadki Afgana: za neskol’ko mesjacev do načala KPSS byla protiv vojny, in «Moskovskij Komsomolec», 25.12.2019; URL: https://www.mk.ru/social/2019/12/25/zagadki-afgana-za-neskolko-mesyacev-do-nachala-kpss-byla-protiv-voyny.html).
Inserito il 04/08/2023.
Risoluzione del Comitato Centrale del PCUS
Per la situazione in "A"
Approvare le considerazioni e le misure esposte dai compagni Andropov Ju.V., Ustinov D.F., Gromyko A.A.
Autorizzarli ad apportare modifiche di natura accessoria nel corso dell’attuazione di tali misure.
Le questioni che richiedono una decisione del CC devono essere presentate tempestivamente al Politbjuro.
Affidare l’attuazione di tutte queste misure ai compagni Andropov Ju.V., Ustinov D.F., Gromyko A.A.
Affidare ai compagni Andropov Ju.V., Ustinov D.F., Gromyko A.A. il compito di informare il Politbjuro del CC sullo stato di avanzamento dell’attuazione delle misure previste.
Il Segretario del CC L. Brežnev
N° 997
P176/125 del 12/XII/79
A favore – Andropov
A favore – Ustinov
A favore – Gromyko
A favore – Pel’še
A favore – Suslov
A favore – Grišin
A favore – Černenko
A favore – Tichonov
A favore – Kirilenko
A favore – Romanov
A favore – Kunaev
A favore – Ščerbickij
di Pier Paolo Pasolini
Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della CGIL ed esponente di maggior spicco del movimento sindacale italiano, morì stroncato da un infarto a Lecco il 3 novembre 1957, all'età di 65 anni. La sua salma fu trasportata a Roma in varie tappe (stazioni di Milano, Bologna, Firenze, ecc.) in cui folle di lavoratori e cittadini poterono tributare a Di Vittorio l’ultimo saluto. Il giorno dei funerali, il 6 novembre 1957, tra le decine di migliaia di persone che affollavano le strade di Roma vi era anche un testimone d’eccezione, Pier Paolo Pasolini, che volle raccontare questa esperienza sulla rivista di attualità vicina al Partito comunista «Vie Nuove».
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Roma così non l’avevo mai vista
di Pier Paolo Pasolini
Salgo da Porta Pia, piano e un poco svogliato. L’atmosfera è com’è ai margini degli avvenimenti pubblici: tempestosa, senza colore e quasi senza suono. Cominciano a fermarsi i primi autobus, le automobili, isteriche, qua e là, protestano con angosciosi e brevi suoni di clacson. Guardo la gente, che va verso il Corso d’Italia, come me, o che resta lì, a Porta Pia: dei giovani che non distinguo bene si sono arrampicati sul monumento al bersagliere, lasciando sotto il piedistallo una frotta di motori. Ci sono soprattutto uomini anziani, operai e impiegati, e molte donne, umili e non giovani.
C’è un vento magro di autunno, con una luce settentrionale, bianca e confusa. E un grande silenzio, che i rumori, attutiti e come laceri del traffico, rendono più strano. Ormai di qua e di là del Corso d’Italia le ali della folla sono fitte: nel centro della strada passano reparti di polizia: se ne vanno come inesistenti. Non c’è inimicizia tra loro e la folla. Tutto pare come sospeso, rimandato: anche io mi ritrovo solo con gli occhi, e come senza cuore, in pura attesa. Ma intanto attraverso gli occhi, il cuore si riempie.
Non ho mai visto gente così, a Roma. Mi sembra di essere in un’altra città.
Il Corso d’Italia è in curva, sotto le mura: e la folla che si assiepa ai margini è sconfinata. Un vecchietto si guarda intorno, intimidito, e dice a un suo compagno, che gli è accanto silenzioso: “Vengono spontanei…”. E guarda, umile, la folla degli uguali a lui. Vado ancora un poco avanti, sul largo marciapiede. Come vedo uno spiraglio, mi fermo, sotto un albero, mezzo spoglio, ormai, ma ancora pieno dell’estate romana che non vuol morire mai. Due uomini, non due ragazzi, vi si sono arrampicati, e stanno a cavalcioni dei rami in silenzio, con sotto, appoggiate al tronco, le loro biciclette. Passa di lì un giovanotto, un baldo giovanotto della campagna, e, col suo accento greve, avvicinandosi all’albero e guardando in alto pieno di speranza, dice: “Compagno, me dai na mano?”. Uno dei due sull’albero, in silenzio, piano piano, lo aiuta a salire. Davanti a me ci sono quattro o cinque uomini sui quaranta o cinquant’anni, operai, qualcuno con la moglie, che se ne sta un po’ in disparte, raccolta, quasi i funerali di Di Vittorio fossero una cosa che riguardasse soprattutto gli uomini.
Cominciano in silenzio ad avvicinarsi le corone: una folla che passa attraverso la folla, sterminate l’una e l’altra.
Migliaia e migliaia di uomini e di donne, quasi tutti vestiti con abiti che non sono di lavoro, ma neanche quelli buoni, della festa: gli abiti che indossano la sera, dopo essersi lavati dall’unto o dal fumo, per scendere in strada, sulla piazzetta. Non si vedono stracci, né i maglioni o i calzoni dell’eleganza romana della periferia. Tutti hanno facce forti, oneste, cotte dalla fatica e dagli stenti. Per me, è la prima volta che Roma si presenta sotto questa luce.
Rovesciati qui, dal silenzio che ne avvolge le esistenze, che pure sono la parte più grande della città, umilmente dimostrano quale sia la forza della coscienza. Dimostrano che la storia non ha mai soste. Il romano anarchico, scettico, scioperato, leggero ha già acquisito questo volto, questa durezza, questa umile certezza. Io non so dire quanta parte abbia avuto, in questa evoluzione, l’uomo il cui corpo viene portato oggi al cimitero. Penso grandissima se questi uomini lo sentono con tanto spontaneo e sconcertante affetto. Penso che certo non c’è bisogno che nessuno glielo dica, che hanno perduto un fratello: tanto sono pieni di muta, disperata gratitudine.
Passa la banda, passano altre corone, a decine e decine portate da operai, operaie, ragazzi. Ecco il feretro: molte braccia col pugno chiuso si tendono a salutare Di Vittorio, in un silenzio pieno come di un interno, accorante frastuono. Anche gli uomini che sono davanti a me, a uno a uno, alzano il braccio, a fatica, come se il pugno dovesse reggere un peso insopportabile, e restano così, con quel braccio teso in avanti, quasi ad afferrare, a trattenere qualcosa che loro stessi non sanno, una vita di lotta e di lavoro, la loro vita e quella del compagno che se ne va. Guardo quelle schiene un po’ deformate dalla fatica, sotto i panni quasi festivi, quelle spalle massicce, quei colli nodosi; sono uomini induriti da una infanzia abbandonata a se stessa, da un precoce lavoro, dalle continue difficoltà del sopravvivere, dalla rozzezza di un’esistenza ridotta al puro pratico, e spesso solo all’animale, dalla corruzione dei quartieri dove vivono. Incalliti dappertutto. Ma come il feretro è appena passato, e le braccia tese s’abbassano, vedo dal loro atteggiamento che qualcosa accade dentro di loro. Uno, davanti a me, piega un poco la testa da una parte: vedo la guancia lunga, nera di barba e il pomello rosso. La pelle gli si contrae, come in uno spasimo: piange, come un bambino. Guardo anche gli altri. Piangono, con una smorfia di dolore disperato. Non si curano né di nascondere né di asciugare le lacrime di cui hanno pieni gli occhi.
Pier Paolo Pasolini
(Tratto da P.P. Pasolini, Roma così non l’avevo mai vista, in «Vie Nuove», n. 45, 16 novembre 1957).
Inserito il 15/07/2023.
Il film Uccellacci e uccellini (1966) è un capolavoro allegorico del regista friulano, una favola filosofica: in un’atmosfera quasi onirica e surreale padre e figlio (Totò e Ninetto Davoli) si incamminano per la campagna romana guidati da un corvo saccente e fastidioso come un intellettuale di sinistra che tenta di condurli sulla via del marxismo. Nella parte finale del film i due si ritrovano ad assistere al grandioso funerale di Palmiro Togliatti, il segretario generale del PCI morto nell’agosto 1964.
Pasolini riesce a rendere, attraverso 3 minuti di immagini originali dell’evento funebre, la stessa commozione e lo stesso senso di appartenenza dei militanti e dei cittadini che riusciamo a percepire anche nello scritto sulle esequie di Giuseppe Di Vittorio.
Di Georgi Dimitrov (1882-1949) in Italia ormai si sa poco. Eppure questo dirigente del movimento sindacale e comunista bulgaro fu, negli anni Venti, l’animatore della prima rivolta europea contro un regime fascista, quello del golpista Tsankov in Bulgaria.
Ma fu nell’esilio in Germania che si meritò la fama mondiale: egli fu il primo a dare uno schiaffo internazionale al prestigio del neonato regime nazista tedesco. Il 27 febbraio 1933, poco prima delle elezioni parlamentari, scoppiò un incendio doloso nell’edificio del Parlamento, il Reichstag. L’opinione pubblica fu orientata dalla propaganda nazista a ritenere che i responsabili fossero i comunisti, e anche sull’onda di questo evento il Partito Nazionalsocialista vinse le elezioni. Proprio Dimitrov venne accusato del fatto insieme al presunto «comunista olandese» Van der Lubbe e a due comunisti bulgari: a Lipsia, al processo che ne seguì, di fronte ai corrispondenti di tutta la stampa mondiale, egli riuscì a ribaltare le accuse proprio sui massimi esponenti del Partito Nazionalsocialista, fino a costringere il procuratore generale ad assolverlo. Agli occhi del mondo democratico e del movimento operaio egli divenne così l’«eroe di Lipsia», e con tale titolo di prestigio giunse nell'esilio di Mosca, dove fu nominato presidente dell'Internazionale comunista. Fu lui l’artefice del cambio di linea del Comintern che, contro il fascismo mondiale, nel 1935 diede vita alla politica dei Fronti popolari antifascisti.
Pubblichiamo di seguito il ricordo che ne traccia Palmiro Togliatti, suo vice alla presidenza del Comintern: lo scritto del segretario del PCI ha in parte, è vero, il sentore dell’agiografia, un tratto che non stupirà chi viene dalla nostra storia, che è fatta di lotte ma anche di riti, di ricerca innovativa ma anche di costruzione di miti. Eppure nell’articolo di Togliatti si devono rilevare anche dei passaggi autocritici, quelli sulle rigidità delle formule e degli schemi separati dalla realtà che caratterizzarono alcuni anni del movimento comunista internazionale, quelli sulle vecchie concezioni della lotta da applicare sempre e comunque senza guardare alle specificità delle realtà di ogni popolo e di ogni paese; e Togliatti stesso riconosce in Dimitrov il promotore di una nuova visione nel modo di operare del movimento comunista.
L.C.
di Palmiro Togliatti
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Ricordo di Giorgio Dimitrov
(Nel 75° della nascita)
La sua vita è stata un combattimento, dall’inizio alla fine, e bisognerà raccontarla alle generazioni che oggi si affacciano all’esistenza e alla lotta di classe, perché ne traggano insegnamento e entusiasmo. Figlio di operai e operaio, partì dall’azione minuta e tenace per organizzare la resistenza dei lavoratori della sua categoria allo sfruttamento dei padroni, divenne dirigente del suo sindacato, di tutto il movimento sindacale del suo paese, della corrente rivoluzionaria del socialismo bulgaro. Organizzatore intelligente, abile dirigente di scioperi, mai chiuse la propria mente e l’attività sua nell’angusto praticismo del burocrate riformista che in quel periodo, prima della prima guerra mondiale, già si presentava sulla scena del movimento operaio. La lotta sindacale fu per lui sin dall’inizio inseparabilmente unita alla azione generale per la emancipazione dei lavoratori e quindi alla lotta politica contro il regime reazionario, per la democrazia, per l’avvento di una classe nuova alla direzione della società, per il socialismo. Si educò, in questo modo, alla scuola di quel grande movimento rivoluzionario russo che im Bulgaria aveva le sue propaggini, e cui sarebbe spettato, crollati nell’opportunismo e nel tradimento i partiti socialdemocratici e socialisti dell’Europa centrale e occidentale, raccogliere e portare a nuovi frutti il grande patrimonio ideale del marxismo rivoluzionario.
Dimitrov non fu mai un pedante. Non fu di coloro che infarciscono il loro scritto di citazioni, che fanno sfoggio di educazione libresca, che pretendono derivare ogni cosa che affermano da dieci o da cento affermazioni già fatte da altri, in altre e diverse occasioni. Il suo pensiero era nutrito di una cultura vera, della conoscenza profonda e diretta dei classici del marxismo, sui quali aveva studiato e meditato, e della conoscenza profonda e diretta dei pensatori e artisti di tutti i paesi. Gli erano familiari Goethe e Dante come Carlo Marx, Heine e Voltaire come Lenin e Stalin. Con questi grandi viveva l’animo suo, né sembrava strano a noi, suoi collaboratori e amici, vedere sul suo tavolo, nei giorni delle discussioni più impegnative, accanto al testo di una risoluzione politica, un volume dell’Ariosto o l’ultimo romanzo uscito a Parigi. Egli forniva una visione diretta, quasi un vivente modello della nuova cultura socialista, nella quale le grandi rivelazioni e conquiste del passato sono tutte presenti.
Come un combattente affrontò, in lotta aperta ma disuguale, il potere violento e perfido delle classi reazionarie che dominavano la Bulgaria. Fu perseguitato, arrestato. Ogni volta usciva dalla prova più forte di prima, più profondamente convinto del compito suo rivoluzionario, più tenacemente legato alle masse lavoratrici che già lo seguivano non solo come si segue un dirigente, ma un eroe. In carcere per la sua lotta contro la prima guerra imperialista, di fronte alla quale la sua posizione fu analoga a quella di Lenin e dei bolscevichi russi, fu in prima fila negli anni tempestosi del primo dopoguerra, in cui tramontò quel poco di legalità democratica esistente in Bulgaria e il popolo bulgaro cadde sotto il giogo del fascismo, che fino al 1944 lo oppresse, e poté essere spezzato soltanto con l’aiuto del vittorioso esercito sovietico. Ma al fascismo spettava a Giorgio Dimitrov dare una prima grande battaglia vittoriosa.
Incominciò col processo di Lipsia, di cui oggi non si possono leggere gli atti senza un profondo stupore. Perché Hitler, e Goering, e Goebbels erano, allora, i trionfatori. Avevano schiacciato la resistenza delle classi lavoratrici e delle scarse forze democratiche della Germania; avevano dietro a sé la tracotante potenza della grande borghesia e del militarismo tedesco; godevano della simpatia dei più forti gruppi dirigenti della borghesia internazionale; si disponevano a farsi corteggiare dai conservatori inglesi e dai radicali francesi in odio al movimento operaio. E Dimitrov era un uomo solo, quasi sconosciuto al mondo, chiuso in una cella di rigore, con i polsi giorno e notte in catene, colpito dall’assurda accusa di avere incendiato il Reichstag, ma contro il quale, per sostenere l’accusa e strappare una condanna a morte (e sarebbe stata la terza della sua esistenza), tutto il nuovo regime era impegnato con tutte le sue forze. Il combattente diventa, in queste condizioni spaventose, più che un combattente: diventa un eroe. Il suo esempio si accosta a quelli dei più grandi perseguitati e martiri della storia, e parecchi li supera. Perché il suo eroismo non è fatto soltanto di coraggio, di forza fisica e morale; è fatto prima di tutto di ragione, di valutazione ponderata delle circostanze in cui si svolge il combattimento e della conclusione che non è il tracotante persecutore, in questo caso, il più forte, ma è il perseguitato, l’uomo in catene e minacciato di morte. Dimitrov parte dalla convinzione profonda che il fascismo, pur essendo il potere della parte più aggressiva e più barbara della borghesia, è un potere debole, le cui basi nascondono profonde contraddizioni e a cui si può e si deve dare battaglia, e si può batterlo, davanti a tutto il mondo che concentrerà l’attenzione, stupefatto, su quell’aula di tribunale. Non vi è nulla di retorico, di demagogico, di vanamente sentimentale in ciò che Dimitrov fa in quell’aula. Vi è solo un combattente operaio, un comunista, che si batte con le armi dell’intelligenza e della ragione, e impiega queste armi per mettere a nudo la verità dei fatti. I tiranni, lividi di vergogna, indietreggiano, balbettano, perdono la calma, sono battuti. Giorgio Dimitrov vince la battaglia ch’egli ha dato, e che ha dato non tanto per la sua vita, che anzi nel carcere ha trascurato, imponendo a se stesso uno sforzo tale di cui il suo organismo si risentirà sino alla fine, ma ha dato per l’onore suo di comunista e per tracciare col suo esempio quella strada di resistenza e di lotta contro la tirannide fascista su cui i popoli intieri dovranno mettersi e si metteranno nei duri anni seguenti.
Ed è in questo momento che la figura intellettuale e politica di Dimitrov balza alla luce in tutta evidenza. Si era ammirato il combattente. Avevamo esaltato, in lui, l’indomito eroe. Tutto il mondo impara ora a conoscere, in lui, il politico marxista e leninista, e un politico che si presenta con tratti tali, con lineamenti di così profonda novità e originalità, quali il movimento operaio e democratico internazionale di rado ha conosciuto.
Avevamo bisogno dell’opera sua. Il nostro movimento non riusciva a riprendere lo slancio che lo aveva animato nei primi anni dopo la rivoluzione d’ottobre. Giusta era l’analisi del fascismo. Giusta la critica delle capitolazioni e dei tradimenti socialdemocratici. Ma da queste analisi e critiche giuste sembrava non si fosse più capaci di derivare altro che una serie di formule, di schemi, che a forza di essere ripetuti si caricavano di stanchezza e perdevano il necessario mordente sulle cose reali. Si era dimenticato, in grande parte, che le cose reali noi vogliamo comprenderle non soltanto per esprimere corretti giudizi di critica o condanna su tutti e su tutto, ma prima di tutto per trasformarle, e che le critiche e le condanne sono utili e giuste quando contengono il principio di una azione, dalla quale i precedenti rapporti di forza sono modificati, sconvolti e si crea una situazione nuova. A questa necessità ci richiamò tutti Giorgio Dimitrov. Sentimmo ed esperimentammo, sotto la sua guida, che non erano più sufficienti i vecchi schemi propagandistici, che era necessario spezzare gran parte delle adusate incrostazioni di parole e di pensiero, per ritrovare la freschezza della iniziativa politica e attraverso di essa riprendere il contatto con le grandi masse lavoratrici e popolari. Imparammo di nuovo a parlare il linguaggio di tutti, e non solo nelle forme, ma nella sostanza, perché tutto il nostro movimento fu guidato a comprendere quali erano i beni universali, i valori comuni a tutti gli uomini civili, che il fascismo e la guerra minacciavano, e che noi eravamo chiamati a difendere, perché erano anche valori nostri, e nel difenderli adempivamo il nostro compito di avanguardia di tutta l’umanità che ama e vuole la libertà e il progresso. Per questo, quando fu sciolta l’Internazionale comunista, il movimento aveva toccato uno degli apici del suo sviluppo.
Fronte unico e fronte popolare per combattere il fascismo, unità delle forze nazionali per salvare i popoli dalla rovina e, di conseguenza, ricerca delle nuove forme della nostra strategia e della nostra tattica e, infine, anche dei modi nuovi come si poneva, in nuove condizioni, e poteva risolversi il problema dell’avvento al potere della classe operaia, furono gli aspetti concreti della grande politica che sotto la ispirazione e la guida di Dimitrov i comunisti inaugurarono e condussero, dalla Francia alla Spagna, dai paesi fascisti o attaccati dal fascismo, ai popoli ancora asserviti al colonialismo imperialista. In questa politica alcune cose erano sin dall’inizio esplicite, altre, che erano in germe, si svilupparono poi e portarono a decisioni e orientamenti nuovi, che tutti conoscono. La rottura dei vecchi schemi e la ricerca continua della comprensione esatta dei rapporti reali, cui l’azione deve sempre essere adeguata, contenevano in sé, inevitabilmente, la necessità della adesione della nostra politica alle condizioni e tradizioni della nazione, il che non distacco dall’internazionalismo, ma è il solo mezzo che faccia dell’internazionalismo una cosa vivente, una unità che sorge e si rafforza nella diversità necessaria, non una formula vuota e fredda da comizi. Il prestigio della rivoluzione d’ottobre, del paese socialista cui essa ha dato vita e delle sue progressive conquiste non mai fu, infatti, così grande tra i popoli come nei tempi del fronte popolare francese, della guerra di Spagna, della grande guerra patriottica che i popoli dell’Europa intiera condussero contro il fascismo aggressore e brigante, ciascun popolo difendendo se stesso, le proprie tradizioni, la realtà della propria esistenza, ma tutti animati da un esempio che veniva dall’Oriente e annunciava l’avvento di una civiltà nuova.
Due grandi qualità fecero di Dimitrov un modello di uomo politico marxista, la cui statura andava oltre i limiti di un paese, assumeva dimensioni europee e mondiali. Egli era sempre fedele ai principi; ma, nello stesso tempo, egli non prescindeva mai dallo studio attento e dalla valutazione precisa delle situazioni reali in movimento. Perciò la determinazione dell’obiettivo immediato, che poteva presentarsi, alle volte, nel modo più inaspettato, perché le strade per cui procede lo sviluppo delle cose nessuno le conosce in anticipo, era sempre illuminata, in lui, dalla visione del processo complessivo, delle sue avanzate, dei suoi ritorni, del suo obiettivo finale. Ricordo i dibattiti, da lui presieduti, negli organi dirigenti dell’Internazionale comunista. Delegazioni e problemi venivano da tutte le parti del mondo, e i temi della discussione, alle volte complicata da inesperienze e da sbagli, erano infiniti. L’intervento di Dimitrov aveva il dono di portare di colpo, anche nella più aspra delle controversie, la chiarezza e l’unità delle decisioni. Tra gli elementi della realtà, che venivano spesso presentati in modo confuso, perché gli interessati non riuscivano a scorgerne che una parte, egli sapeva in ogni caso cogliere quello che era il più importante, l’essenziale, e quindi decisivo per determinare le nostre posizioni, la via del nostro movimento, le parole d’ordine, le forme della organizzazione e della lotta. Questo era, in un caso, la minaccia o la realtà del fascismo, nell’altro l’impresa aggressiva dell’imperialismo, o lo sfacelo della economia e la povertà di tutti i lavoratori, o la disperazione che si impadroniva anche del ceto medio e lo spingeva nelle braccia della reazione. Così veniva trovato, senza tema di errore, il punto nel quale doveva inserirsi l’azione dell’avanguardia operaia e comunista, ed era trovato il bandolo per svolgere la matassa dei compiti immediati e successivi. Spesso appariva che era necessario incominciare proprio dalla parte opposta a quella che si era tentata, ma la cosa appariva giusta, evidente. L’errore era la conseguenza di uno schema, che si era applicato senza tener conto della realtà, del tentativo che si era fatto di trasportare da un paese all’altro, meccanicamente, una formula o un indirizzo, senza aver valutato esattamente le differenze e le conseguenti necessità.
Tutto lo sforzo che il movimento comunista deve fare ora e dovrà fare sempre, nel futuro, per conoscere appieno e adempiere i compiti suoi, ha ricevuto da Giorgio Dimitrov, fedele discepolo della grande scuola di Lenin, un impulso decisivo. Indebolito fisicamente e alla fine delle sue forze, al suo ritorno in patria dopo la guerra, egli seppe dare al regime della democrazia popolare un fondamento incrollabile, nel pratico legame con le masse del popolo bulgaro e nella teorica ricerca delle particolarità del nuovo potere, cui spetta, sì, di adempiere i compiti della dittatura proletaria, ma in modi e forme adeguati a una realtà nuova.
Il ricordo di Giorgio Dimitrov, la rievocazione della sua esistenza gloriosa ci esalta, esalterà e ammaestrerà generazioni e generazioni nuove. Il suo insegnamento non è e non sarà mai da noi dimenticato. Esso è guida costante del nostro pensiero e dell’azione nostra.
Palmiro Togliatti
(Tratto da «Rinascita», n. 6, giugno 1957).
Inserito il 30/05/2023.
Berlino, 27 febbraio 1933: il Reichstag in fiamme.
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/20/Reichstagsbrand.jpg
Dalla rivista «Diacronie», in journals.openedition.org
Germania 1933: l’incendio del Reichstag
di Giulia Casadei
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Il processo di Lipsia e la figura di Georgi Dimitrov
di Giulia Casadei
1. L’incendio del Reichstag
It was the Reichstag fire, not the Chancellorship of Hitler nor his electory victory on 5 march, that began the Brown Terror
Fritz Tobias1
L’intenzione di questa breve trattazione è di analizzare la portata storica e le peculiarità strutturali che hanno caratterizzato il cosiddetto Processo di Lipsia. Per fare questo ho ritenuto necessario partire dall’origine, dal casus belli di questo processo: l’incendio del Reichstag tedesco avvenuto la notte del 27 febbraio 1933. Nonostante l’evidente necessità di partire da questo avvenimento, il mio interesse non sarà tanto quello di condurre un’indagine storiografica volta allo smascheramento dei colpevoli dell’incendio. Il vero scopo di questa breve analisi sarà quello di far emergere il contributo che Georgi Dimitrov diede allo svolgimento del processo di Lipsia, e soprattutto la sua capacità di trasformare un semplice processo politico in uno dei più grandi casi mediatici dello scorso secolo.
1.1 L’incendio
Come è noto, nel contesto di una Repubblica di Weimar attraversata da una lunga e profonda crisi, Hitler venne nominato Cancelliere il 30 gennaio 1933. Una volta insediato, decise di consultare immediatamente il popolo tedesco circa la sua nomina a cancelliere e indisse pertanto le elezioni per il 5 marzo. L’incendio del Reichstag si colloca cronologicamente appena 9 giorni prima di queste elezioni, ovvero il 27 febbraio del 1933.
Alla notizia del Reichstagsbrand, accorsero sul luogo tutte le personalità, stampa compresa, assieme ovviamente alla polizia, alle SA e alle SS, incaricate del mantenimento dell’ordine pubblico, e alle squadre dei pompieri di Berlino.
Una volta giunti sul posto, pompieri e poliziotti non impiegarono molto tempo né a sedare l’incendio, né a cogliere con le mani nel sacco l’incendiario che si aggirava seminudo per l’edificio.
1.2 L’arresto del “comunista olandese”
L’incendiario, al momento della cattura, portava con sé pochi indumenti (molti dei quali li aveva utilizzati come micce per innescare gli incendi), un passaporto olandese a nome di Marinus van der Lubbe, nato il 13 gennaio 1909, di professione muratore, e inizialmente venne diffusa la notizia che il giovane avesse con sé anche una tessera del Partito Comunista Olandese. Di questa tessera non si trovarono in realtà tracce, e si dimostrò come questa fosse una macchinazione di Göring e dei suoi collaboratori per poter immediatamente attribuire l’incendio ai comunisti, giustificando così una serie di arresti e perquisizioni a danno di questi ultimi e dei socialdemocratici.
Come possiamo chiaramente constatare dai provvedimenti di Hitler subito dopo l’incendio (messa fuorilegge del partito comunista, misure eccezionali sulla libertà di stampa e di riunione), l’incendio del Reichstag si dimostrò un grande affare per i nazisti che guadagnarono alle elezioni del 5 marzo ben il 44% dei consensi.
1.3 L’incendio, l’Unione Sovietica, gli ebrei
Come abbiamo visto, assieme a Van der Lubbe, da quella sera vennero arrestati più di 4.200 cittadini in tutta la Germania, 1.200 nella sola Berlino. A cadere nelle mani dei nazisti non furono solamente attivisti di secondo piano, ma lo stesso [Ernst] Torgler, il principale deputato del Partito Comunista Tedesco, fu rinchiuso in carcere.
Tuttavia, 4.200 comunisti nelle carceri, compreso il deputato più importante del KPD, non bastavano: i nazisti volevano tirare in ballo il vero grande nemico, l’Unione Sovietica. Il mandante dell’incendio del Reichstag e della successiva insurrezione comunista non poteva che venire direttamente da Mosca. È in questi termini che si cercò di comprovare il coinvolgimento di Georgi Dimitrov e degli altri due comunisti bulgari.
Chiamati in causa i comunisti sovietici, mancavano solo gli ebrei, che prontamente vennero additati dalla propaganda nazista come i «difensori degli incendiari del Reichstag»2. Su questa linea, il 1° aprile3 venne dato inizio ad una vera e propria campagna antiebraica che prese il nome di Judenboykott (il boicottaggio degli ebrei). Possiamo dunque vedere come l’incendio del Reichstag fosse stato di fondamentale importanza non solo per l’ascesa al potere di Hitler e della sua dittatura, ma anche come presupposto per l’inizio delle campagne persecutorie contro gli ebrei.
Anche volendo sostenere, come lo storico Fritz Tobias, che non furono i nazisti a organizzare l’incendio, di certo non si può negare che per Hitler il Reichstagsbrand fu un vero e proprio affare, una manna caduta dal cielo, casualmente, nel posto giusto (il Reichstag era il simbolo della Repubblica di Weimar) e al momento giusto (poco prima delle consultazioni elettorali del 5 marzo). Il tutto sarà poi reso possibile da una cinica strumentalizzazione politica dell’incendio e da una serie di manipolazioni delle informazioni, dei testimoni, delle prove, oltre ovviamente ad un sapiente uso della stampa e dei mezzi di comunicazione.
1.4 I comunisti bulgari
Come abbiamo precedentemente accennato, per coinvolgere e screditare l’Unione Sovietica, il 7 marzo4 vennero arrestati tre comunisti bulgari, uno dei quali, Georgi Dimitrov, era una figura di spicco del comunismo internazionale in quanto capo del Komintern per l’Europa Occidentale. L’arresto dei bulgari suscitò immediatamente una forte indignazione da parte della stampa estera e di diversi intellettuali sia europei che americani. La stampa internazionale mise in piedi quella che Hitler definì la «propaganda dell’orrore»5 contro il popolo tedesco, grazie ad una serie di articoli militanti, alla pubblicazione di opere come il Braunbuch e al controprocesso organizzato a Londra.
Così come era avvenuto per il caso Dreyfus, anche l’incendio del Reichstag e il corrispettivo processo di Lipsia si trasformarono ben presto in un vero e proprio affaire, seguito dall’opinione pubblica mondiale e dai più importanti intellettuali dell’epoca.
2. Il processo di Lipsia6
L’arte giudiziaria è un’arte autonoma il cui criterio non è il sopravvivere dell’arringa o della requisitoria, ma l’ampiezza dell’onda che il processo lascia della storia.
Jacques M. Vergès7
2.1 La fase inquisitoria
Una volta introdotti i più importanti avvenimenti che caratterizzarono l’incendio del Reichstag e i principali personaggi coinvolti, possiamo entrare nel cuore della nostra trattazione, analizzando lo svolgimento del processo di Lipsia.
Mi preme qui sottolineare che la ricostruzione di questo processo è stata in larga parte possibile grazie alle carte conservate da Dimitrov al momento del suo frettoloso rilascio8. Le autorità competenti omisero infatti di controllare i bagagli dell’ex detenuto, permettendo così la conservazione di numerose carte, lettere e verbali stenografati durante il processo. Tutti i documenti sono stati scritti su moduli carcerari: nell’angolo superiore a sinistra sono indicati il cognome e la matricola di Dimitrov, la formula di convenienza e la chiusura (i documenti che non presentavano tale impaginazione erano stati trattenuti). I documenti, ad esclusione della prima dichiarazione del 20 marzo, rilasciata in lingua bulgara, sono stati scritti in tedesco.
Nella prima dichiarazione riportata, Dimitrov spiega i motivi della sua permanenza in Germania sotto falso nome, sottolinea il proprio alibi per i giorni del 26-27 febbraio (come abbiamo visto si trovava a Monaco) ed infine giunge ad una puntuale analisi politica dell’incompatibilità della pratica terroristica dell’incendio del Reichstag con le linee direttive e programmatiche dei Partiti comunisti e dell’Internazionale.
Questo testo, costituisce l’unico documento conservato per la fase inquisitoria (o istruttoria poliziesca9) che ebbe luogo tra il 9 marzo, data dell’arresto dei bulgari, e il 28 marzo, giorno in cui i sospettati vennero spostati nella prigione criminale di Moabit con l’accusa di aver partecipato all’incendio del Reichstag10. Durante questo periodo, la polizia di Berlino fu in grado di raccogliere una serie di prove e testimonianze, seppur il più delle volte menzognere, che consentì loro di procedere con la successiva fase processuale (l’istruttoria giudiziaria). Tutte le seguenti carte saranno inerenti a questa seconda fase e pertanto cronologicamente successive al 28 marzo.
2.2 Il trattamento di Dimitrov in carcere
Con l’incarcerazione di Dimitrov si poté assistere da subito ad una serie di soprusi e di violazioni delle procedure ordinarie da parte della polizia tedesca e del giudice istruttorio Vogt: venne lasciato senza denaro, non gli vennero consegnati i pacchi inviati dalla madre, non gli fu fornita un’immediata assistenza legale, la sua corrispondenza viene recapitata in ritardo o addirittura non gli viene fatta pervenire e infine viene barbaramente privato dei suoi occhiali, gesto più che mai esemplificativo della volontà della polizia carceraria di ostacolare la preparazione dell’autodifesa del prigioniero, così come il fatto di non mettergli a disposizione un manuale di lingua tedesca, da lui più volte richiesto11.
Tuttavia il sopruso decisamente più incivile fu quello di incatenare i sospettati dal 4 aprile al 31 agosto 1933, sia di giorno che di notte; addirittura durante le prime tre settimane vennero ammanettati anche alle caviglie, violando apertamente le più elementari procedure carcerarie. Dimitrov dovette organizzare tutta la preparazione del processo, l’analisi delle carte, la corrispondenza, con le mani incatenate e doloranti. Il sistema di manette, o potremmo dire lo strumento di tortura, era costituito in termini da una barra d’acciaio a cui era assicurata una catenella che stringeva i polsi incrociati; gli imputati venivano liberati da questo sistema di costrizione solamente durante i pasti e per i pochi minuti necessari per vestirsi la mattina e svestirsi la sera. A questo proposito Dimitrov scrisse una serie di lettere sia al proprio avvocato, che al giudice istruttore, senza ricevere tuttavia una risposta positiva per cinque mesi. La richiesta di Dimitrov era motivata dal seguente passo del codice di procedura penale, paragrafo 116 (terza parte), come egli stesso riporta nella lettera del 24 agosto 1933:
Le manette possono essere messe in prigione al carcerato soltanto quando ciò, in seguito al pericolo speciale che rappresenta la persona, è richiesto per la sicurezza altrui, oppure egli ha commesso o preparato tentativi di suicidio o di evasione. Durante il processo le manette devono essere tolte12.
Essendogli stata negata più volte la liberazione dalle manette, Dimitrov provò a chiedere che lo si tenesse ammanettato solo di notte, come era abitudine fare per i reclusi condannati a morte, ma neanche questa richiesta poté trovare una risposta affermativa. Le conclusioni che Dimitrov trasse da questo inaudito trattamento furono le seguenti:
È evidente che in questo modo la preparazione della mia difesa è considerevolmente ostacolata e il diritto che mi è garantito dalla legge viene ad essere straordinariamente limitato per non dire annullato di fatto13.
Purtroppo per i giudici, nonostante questo subdolo sistema di tortura fisica quanto psicologica, Dimitrov, come vedremo in seguito, riuscì a prepararsi egregiamente per il suo processo.
2.3 Gli avvocati della difesa
La questione degli avvocati della difesa all’interno del processo di Lipsia costituisce certamente un passaggio fondamentale per mostrare come questo fosse stato fortemente controllato dai nazisti e volto pertanto ad ostacolare il più possibile le possibilità degli accusati, anche a costo di ledere i più basilari principi del diritto alla difesa. Come abbiamo visto, ai bulgari non venne concesso (come era invece previsto dalle tempistiche ordinarie) di interloquire con i loro avvocati, i quali vennero nominati piuttosto tardivamente e secondo modalità alquanto provocatorie. A difendere gli imputati bulgari non si presentò volontariamente nessun avvocato tedesco, anche se giunsero ben venticinque candidature da avvocati di diversi paesi stranieri14: Decev e Grigorov dalla Bulgaria, Gallagher dall’America, Moro Giafferi, Campinchi, Torrès e Marcel Willard dalla Francia ed altri ancora. Per evitare che questi grandi avvocati fornissero realmente una difesa a Dimitrov, vennero respinti l’uno dopo l’altro, con la scusa che solitamente non si accettavano avvocati stranieri e che molti di questi non parlavano tedesco. Pertanto, il 25 luglio 1933 la IV Sezione penale del Tribunale del Reichstag procedette alla nomina dell’avvocato d’ufficio di Dimitrov e degli altri bulgari, l’avvocato Teichert, mentre per Van der Lubbe e Torgler vennero nominati rispettivamente gli avvocati Seuffert e Sack15.
Inizialmente, Dimitrov accettò di essere difeso dall’avvocato d’ufficio che gli era stato assegnato, anche se questo, per la sua poca intraprendenza, non godette mai della sua fiducia completa. I due entrarono ben presto in conflitto sulle basi stesse su cui condurre la difesa: Dimitrov spingeva irremovibilmente per una difesa di tipo politico e per dar vita a quello che Verges definì il «processo di rottura»16, mentre al contrario l’avvocato Teichert puntava ad una difesa puramente personale dell’imputato. Data la presenza di questi contrasti, Dimitrov si mosse immediatamente per costruire una propria difesa parallela, procurandosi informazioni sul sistema penale tedesco e soprattutto sulla procedura penale. La tenacia e l’acume di questo personaggio emersero sempre più chiaramente: non solo Dimitrov affinò la propria conoscenza della lingua tedesca, ma consultò manuali di diritto penale e procedurale in modo da non essere mai colto di sorpresa e da poter supervisionare l’operato del giudice istruttorio Vogt (certamente uno dei personaggi che più gli si opposero), per esempio sulla questione delle manette. Dimitrov infatti non solo controllava il suo avvocato, ma prendeva immediatamente parte attiva alla costruzione della propria difesa, suggerendo a Teichert su quali linee muoversi e fornendogli una lista di testimoni da citare e interrogare17. Queste “ingerenze” da parte dell’accusato non furono mai prese in considerazione dall’avvocato tedesco, che continuò a mantenere una difesa tipicamente canonica, andando così a provocare una rottura che culminò il 12 ottobre, con la dichiarazione di Dimitrov al presidente Bürger:
Dopo che il tribunale ha ricusato tutti gli otto difensori da me proposti, non mi resta altro che difendermi da me stesso, come posso e credo. E così sono costretto a presentarmi davanti al tribunale del Reich in doppia veste: in primo luogo, come accusato Dimitrov, in secondo luogo, come difensore dell’accusato Dimitrov18.
D’ora in poi il bulgaro si appellerà pertanto al suo diritto all’autodifesa.
2.4 L’inizio del processo
Il processo ai presunti incendiari ebbe inizio il 21 settembre 1933 presso la Corte Suprema di Lipsia, davanti alla IV Sessione penale del tribunale del Reichstag. Fu consentito di seguire il dibattito a ottantadue corrispondenti di giornali stranieri, oltre a dodici tedeschi. Per sfruttare al meglio la portata mediatica del processo, ignaro della piega che questo avrebbe preso, il governo tedesco decise di trasmettere le udienze via radio. A seguito del sorprendente successo e dell’eco internazionale che ebbe il discorso di Dimitrov del 23 settembre, la trasmissione radio venne immediatamente sospesa.
All’apertura della prima udienza del processo, contrariamente a tutte le usanze, il presidente del tribunale Bürger pronunciò un discorso tutto volto a difendere l’immagine della Germania dalle accuse di aver fabbricato false testimonianze con lo scopo di permettere l’ascesa al potere di Hitler. Su questa stessa linea si mosse anche il discorso introduttivo dell’avvocato di Torgler, Sack.
Durante il proprio interrogatorio (23 settembre), Dimitrov capovolse radicalmente l’andamento del processo, affrontando i suoi accusatori in termini di attacco e rottura. Il bulgaro, più che insistere sulla propria innocenza, parlò come accusatore contro il tribunale, le autorità fasciste e contro la falsità dell’intero processo, il quale non era altro che uno strumento borghese nelle mani dei dittatori nazisti. Secondo Dimitrov, all’interno del processo di Lipsia non si stava né cercando di scoprire la verità, né tanto meno di fare giustizia, piuttosto si volevano mettere in piedi i presupposti per l’annientamento del Partito comunista e dei suoi principali esponenti.
Invece di giustificare il proprio passato insurrezionale, Dimitrov lo rivendicò con orgoglio, affermando che l’unico rammarico per i moti da lui diretti nel 1923 era quello che non fossero stati all’epoca abbastanza “bolscevichi”19.
2.5 I testimoni
L’audacia e il carattere “accusatorio” dell’autodifesa di Dimitrov lo si riscontra costantemente in ogni suo aspetto, in particolar modo nella provocatoria citazione dei testimoni.
Per iniziare Dimitrov volle estendere le indagini anche sui sostenitori del nazismo. In particolar modo il bulgaro si soffermò sull’ultima notte trascorsa da Van der Lubbe presso il quartiere di Hennigsdorf20, noto a tutti per essere luogo di nazisti facinorosi. La polizia governativa si era ben guardata da compiere indagini e interrogatori in questa zona, riversandosi piuttosto sul rione proletario di Berlino, il Neukölln, dove, secondo alcuni testimoni, Marinus si era aggirato qualche giorno prima dell’incendio. Ovviamente tutti i tentativi di estendere le indagini nella direzione proposta da Dimitrov furono ignorati dal Presidente Bürger.
Ulteriore elemento sul quale Dimitrov incentrò la propria attenzione fu quello di dimostrare l’incompatibilità tra le modalità dell’attacco incendiario al Reichstag con le politiche generali di lotta indicate da tutti i Partiti comunisti nazionali e internazionali, cosa che gli costò non pochi richiami e diversi allontanamenti dalle aule del processo.
Il 31 ottobre si chiuse anche il cerchio dei testimoni principali dell’accusa, con la testimonianza di Lebermann, morfinomane e ladro, che fu così commentata da Dimitrov:
vorrei soltanto notare, signore Presidente e signori giudici, che il ciclo dei testimoni […] dell’accusa contro di noi, imputati comunisti, si chiude con questo teste. Iniziatosi con dei deputati del Reichstag appartenenti al partito nazionalsocialista, con dei giornalisti nazionalsocialisti, esso finisce con un ladro21.
Non mi sembra sia necessario aggiungere altro circa la scarsa attendibilità dei teste dell’accusa.
2.6 L’interrogatorio di Göring e Goebbels
Data la portata mediatica che il processo aveva preso, Göring e Goebbels decisero di intervenire per risollevare la situazione e cercare di ridare credibilità all’accusa. Tuttavia si trovarono a fare i conti con un Dimitrov sempre più agguerrito, pronto a cogliere l’occasione per smascherare la falsità del processo davanti alla stampa di tutto il mondo. Il primo a sottoporsi alle domande del bulgaro fu Göring, il quale venne immediatamente attaccato per aver diffuso la notizia menzognera che Marinus appartenesse al Partito comunista olandese. Non era certo sfuggito a Dimitrov il fatto che la dichiarazione di Göring, rilasciata appena pochi minuti dopo essere giunto sul luogo dell’incendio, fosse stata una vera e propria macchinazione volta a coinvolgere il fronte comunista e a legittimare l’arresto di migliaia dei suoi componenti. Che fosse stato male informato, o piuttosto, che avesse voluto effettivamente diffondere quella falsa notizia, poco importa: come Ministro degli Interni non aveva nessuna scusante per il suo errore. Questo Göring lo sapeva bene, tanto che, non appena Dimitrov glielo fece notare, andò su tutte le furie, e finì col lasciarsi scappare pesanti minacce: «Il vostro partito [riferendosi a Dimitrov] è un partito di delinquenti che bisogna annientare!»22; emergevano così le vere intenzioni di Göring.
Certamente più pacato, ma enigmatico, fu il comportamento di Goebbels durante il suo interrogatorio: di fronte alle domande scomode cambiava prontamente discorso oppure affermava che non fosse di sua competenza rispondere. Inoltre, quando Dimitrov chiese al Ministro come mai adesso si stesse accanendo così tanto su questo attentato terroristico quando il suo governo aveva appena votato un’amnistia per tutti gli attentati terroristici compiuti dai nazionalsocialisti nel 1932, Goebbels rispose semplicemente che la gente «si difendeva dal terrore rosso, noi non potevamo mandarla in prigione, giacché gli atti venivano commessi per la salvezza della nazione tedesca»23. In altre parole se i nazisti compivano attacchi terroristici, questi ultimi erano del tutto legittimi, ma se invece venivano realizzati dai comunisti, si rendeva necessario intervenire con veemenza. Ovviamente un simile ragionamento non poteva che lasciare allibita l’opinione pubblica estera; così il presidente Bürger venne prontamente in aiuto del Ministro della Propaganda, accusando Dimitrov di fare propaganda socialista e, come ogni volta in cui quest’ultimo poneva domande scomode, gli tolse la parola24.
2.7 Il silenzio di Marinus van der Lubbe
Abbiamo accennato in precedenza alla biografia di questo personaggio e abbiamo analizzato il momento della sua perquisizione e soprattutto la questione della fantomatica tessera del Partito comunista olandese che il giovane sembrava portare con sé. Approfondiremo invece ora il comportamento di Marinus durante il Processo di Lipsia, il quale desterà non poche perplessità e interrogativi sia da parte della stampa internazionale che da parte dello stesso Dimitrov.
Innanzitutto, bisogna sottolineare che il Van der Lubbe del processo sembrò decisamente un’altra persona rispetto a quello spavaldo e temerario del momento dell’arresto. Durante le udienze Marinus se ne stava con il capo chino, in una condizione di apparente disorientamento, quasi assente, e soltanto occasionalmente riprendeva coscienza di sé, bofonchiava qualche risposta oppure scoppiava in fragorose risate infantili. Una delle teorie più accreditate per spiegare il comportamento del giovane voleva che il giovane fosse stato drogato in carcere, probabilmente con della scopolamina25. La motivazione di tutto questo sarebbe da ricercare nel fatto che Marinus non avrebbe voluto denunciare i comunisti come complici diretti dell’incendio; questo avrebbe pertanto portato i nazisti a “neutralizzare” l’olandese e, parallelamente, li avrebbe costretti a creare dei “finti testimoni” per sostenere l’accusa contro Dimitrov e i suoi compagni26. Che questa teoria corrisponda a verità o meno, di fatto il silenzio di Marinus rese possibile il proseguimento del processo e il coinvolgimento dei comunisti, proprio nella misura desiderata dai nazisti.
Durante le udienze, Dimitrov cercò più volte di rivolgersi all’incendiario, senza riuscire mai, tuttavia, ad ottenere una risposta di senso compiuto.
Ora, se l’olandese avesse davvero avuto qualcosa a che fare coi comunisti, o se fosse addirittura appartenuto allo stesso partito, di certo avrebbe cercato di far scagionare i proprio compagni, affermando che non erano stati in nessun modo suoi complici. Al contrario, il mutismo di Van der Lubbe non fece che peggiorare la situazione dei bulgari e consentì ai nazisti di portare avanti la loro campagna propagandistica contro il terrore rosso. Le possibilità potevano essere soltanto due: o Marinus era tanto stordito (o meglio drogato) a tal punto da non essere in grado realmente di rispondere alle domande, oppure non aveva minimamente a cuore gli interessi del Partito comunista, tanto da lasciare che venisse ingiustamente chiamato in causa nel processo. Ad ogni modo, è evidente che i veri mandanti dell’incendio andassero cercati altrove, come suggerì lo stesso Dimitrov:
Secondo la mia opinione, Van der Lubbe è in questo processo, per così dire, il Faust dell’incendio doloso del Reichstag. Questo misero Faust sta davanti al tribunale, mentre il Mefistofele dell’incendio doloso del Reichstag non c’è…27
Ovviamente per Dimitrov questo diabolico Mefistofele poteva appartenere ad una sola fazione, quella nazista.
2.8 L’arringa finale
Dopo tre lunghi mesi, il 13 dicembre, ci si avviò verso la conclusione del processo con la requisitoria del procuratore, le arringhe degli avvocati e le dichiarazioni finali degli imputati. Il procuratore generale presentò la proposta di verdetto per un’«assoluzione, per insufficienza di prove, degli imputati bulgari». L’accusa, ormai spalle al muro, stava così cercando un espediente per uscirne nel modo migliore possibile: dichiarando l’assoluzione degli imputati, li si lasciava effettivamente in libertà, ma non si affermava la loro piena innocenza, quanto piuttosto l’impossibilità di dichiararli colpevoli per mancanza di prove sufficienti. Di fronte a questa proposta, che pur avrebbe concesso la piena libertà ai bulgari, Dimitrov si dimostrò fermamente contrario, proponendo piuttosto la seguente sentenza:
1. Che il Tribunale supremo riconosca la nostra innocenza in questa causa e dichiari l’accusa ingiusta; ciò si riferisce a tutti, anche a Torgler, Popov e Tanev;
2. Considerare Van der Lubbe come uno strumento del quale i nemici della classe operaia hanno abusato;
3. Mettere sotto processo i colpevoli dell’accusa infondata, diretta contro di noi;
4. A spese di questi colpevoli risarcire noi dei danni per il tempo da noi perduto, per la salute sciupata, e per le sofferenze subite.28
Così, come la proposta di sentenza di Dimitrov, anche il resto della sua arringa finale risultò provocatorio e audace. Il bulgaro esordì citando il secondo paragrafo del Codice di procedura penale, secondo il quale egli aveva: «diritto di parlare sia come difensore, sia come imputato»29 e riuscì così a ottenere l’autorizzazione per pronunciare il proprio lungo discorso. Durante questa ultima arringa, come durante tutto il processo, il suo scopo fu quello di: «confutare l’accusa che Dimitrov, Torgler, Popov e Tanev, il Partito Comunista della Germania e l’Internazionale Comunista potessero avere un qualsiasi rapporto con l’incendio»30, e lo fece ricapitolando tutti i passaggi fondamentali delle udienze.
Infine, in termini ancora più apertamente provocatori, Dimitrov diede una propria ricostruzione dell’incendio che lasciava trapelare una palese accusa al governo nazista:
io ritengo che effettivamente Van der Lubbe non ha [abbia] incendiato il Reichstag da solo. Basandomi sulle dichiarazioni dei periti e sui risultati degli interrogatori al processo, giungo alla conclusione che l’incendio della sala plenaria del Reichstag è di tutt’altro carattere degli incendi nel ristorante, al piano inferiore, ecc. L’incendio della sala plenaria è stato provocato da altre persone e con altri mezzi. Gli incendi provocati da Van der Lubbe e quello provocato nella sala plenaria coincidono soltanto nel tempo, ma per il resto sono totalmente differenti.31
Di lì a poco, sarebbe stata tolta la parola a Dimitrov per l’ultima volta. Ormai il processo stava andando verso la sua conclusione, gli imputati non potevano fare altro che attendere il verdetto finale.
2.9 Il verdetto finale
The accused Torgler, Dimitrov, Popov and Tanev are acquitted. The accused Van der Lubbe is found guilty of high treason, insurrectionary arson and attempted common arson. He is sentenced to death and to perpetual loss of civil rights.32
Il presidente Bürger fornì la seguente motivazione:
secondo l’opinione della corte il fuoco non ha potuto essere opera di una sola persona bensì della collaborazione di altri individui, non fosse altro che per la difficoltà e l’importanza del sinistro […] l’imputato Van der Lubbe ha quindi incendiato coscientemente e volontariamente il Reichstag con la collaborazione di altri individui.33
Questi collaboratori, tuttavia, non furono mai trovati, soprattutto per via del fatto che, durante il processo, si cercò più che altro di costruire false prove e testimonianze contro i bulgari piuttosto che ricercare i veri colpevoli.
Dopo aver tenuto in prigione tre innocenti per quasi un anno e dopo che non si era trovato uno straccio di prova contro il Partito comunista tedesco, il Presidente ebbe inoltre l’ardire di concludere la sentenza in questa maniera: «con questo processo viene provato che l’incendio del Reichstag è opera dei comunisti e delle organizzazioni che sono a questi vicine o parallele in vista dello scatenamento della guerra civile»34. L’affermazione aveva quantomeno del ridicolo e suscitò le animate proteste di Dimitrov.
Nonostante questa insensata conclusione della sentenza, i bulgari potevano comunque festeggiare la fine del loro processo, anche se non venne loro riconosciuta la piena innocenza bensì, come aveva proposto il procuratore generale, il proscioglimento per mancanza di prove.
Con la fine del processo di Lipsia, tuttavia, non terminarono i soprusi contro i comunisti bulgari i quali, invece di essere immediatamente rilasciati, vennero posti sotto detenzione preventiva nella prigione di Albrecht Strasse per altri due mesi, sotto la sorveglianza della Gestapo. Evidentemente Hitler voleva sfruttare il loro rilascio nel momento più opportuno.
Dopo la minaccia di sciopero della fame da parte di Dimitrov e l’intervento diretto dell’Unione Sovietica, i prigionieri vennero finalmente espulsi dalla Germania la sera del 27 febbraio 1934, esattamente un anno dopo il Reichstagsbrand. Tra festeggiamenti e manifestazioni di gioia, Dimitrov, Tanev e Popov vennero accolti in Russia dallo stesso Stalin.
Per quanto riguarda Van der Lubbe invece, è bene sottolineare le modalità con le quali venne ammessa la condanna a morte dell’imputato. Il governo nazista aveva infatti fatto approvare una legge, la cosiddetta Lex Van der Lubbe del 29 marzo 1933, secondo la quale era prevista la condanna a morte per reati volti a sovvertire l’ordine. Ora, avendo compiuto il reato il 27 febbraio, quindi un mese prima dell’entrata in vigore della legge in questione, Van der Lubbe non sarebbe dovuto rientrare in questa nuova normativa; tuttavia, i nazisti estesero la validità della legge a tutti i crimini compiuti a partire dal 30 gennaio. La legge risultava così essere una vera e propria lex contra personas, ovvero, in questo caso, una norma approvata esclusivamente per permettere la condanna a morte dei colpevoli dell’incendio del Reichstag. I nazisti si dimostrarono disposti a sconfessare uno dei principi cardine della giurisprudenza europea: il Nullum crimen, nulla poena sine praevia lege poenali35, pur di poter vedere gli incendiari appesi ad un cappio. Fortunatamente ai giudici di Lipsia era rimasta ancora sufficiente dignità e autonomia per riconoscere l’estraneità degli imputati dalle accuse e così ai bulgari non toccò di dover salire sul patibolo che i nazisti avevano, con tanta cura, preparato per loro.
A poco valse il tentativo dell’ambasciatore olandese di richiedere la grazia per Marinus: almeno una testa doveva cadere e, se non poteva essere quella della preda più ambita (Dimitrov), allora Hitler si sarebbe accontentato di quella di Van der Lubbe.
La pena di morte venne eseguita il 10 gennaio e il corpo dell’olandese venne fatto sparire, impedendo così eventuali successive autopsie o analisi tossicologiche.
3. Il processo di rottura
Per concludere questa trattazione, sembra doveroso soffermarsi sugli elementi di rottura e le peculiarità che hanno caratterizzato questo processo.
L’espressione processo di rottura venne teorizzato per la prima volta dal giurista francese Jacques M. Vergès, il quale suddivise i processi in due distinte categorie, a seconda dell’atteggiamento dall’accusato:
a. I processi di connivenza, nei quali la difesa accetta l’ordine pubblico e instaura così un dialogo reciproco con i giudici e l’accusa. Scrive Vergès: «tutti i caratteri del processo di connivenza sono condizionati dal loro bisogno fondamentale di rispettare l’ordine stabilito […] l’imputato, non potendo dimostrare la sua innocenza, tenta almeno di provare la mancanza di prove della propria colpevolezza»36;
b. E appunto i processi di rottura, nei quali si: «sconvolge tutta la struttura del processo. I fatti e le circostanze dell’azione passano in secondo piano; in primo piano appare immediatamente la contestazione brutale dell’ordine pubblico»37.
A differenza del processo di connivenza, nel quale possiamo riscontrare la sola volontà di vincere dell’accusa, nel processo di rottura entra in gioco anche la difesa, altrettanto agguerrita nella lotta per la vittoria. Il processo di rottura risulta pertanto più incerto nel suo esito finale.
Per assicurarsi una buona probabilità di vittoria è dunque necessario che la difesa di rottura faccia sapiente uso del tribunale come palcoscenico mediatico, essendo la mobilitazione dell’opinione pubblica e della stampa una conditio sine qua non della vittoria all’interno dei questo tipo di processo. Fu proprio questa grande mobilitazione dell’opinione pubblica che impedì ai giudici filonazisti di Lipsia di condannare Dimitrov, a meno di non voler scatenare manifestazioni di rivolta in tutto il mondo e la rottura diplomatica con diversi paesi europei. È evidente che un Dimitrov solo non avrebbe avuto nessuna possibilità di vittoria38.
Altro tassello fondamentale nel processo di rottura è quello della difesa politica: «nella maggior parte dei processi di rottura, è scopo della difesa non tanto far assolvere l’imputato quanto mettere in luce le sue idee»39. Su questa linea possiamo pertanto vedere Dimitrov abbandonarsi a discorsi decisamente propagandistici, almeno quanto quelli dei giudici e degli avvocati del tribunale, che gli costarono frequenti ammonizioni quando non allontanamenti dall’aula del processo. Non ci deve sorprendere dunque che la principale linea difensiva di Dimitrov consistette nel «Demolire politicamente, non soltanto l’accusa, ma lo stesso nemico […] Rendendolo ridicolo»40 e che la sua arringa finale si fosse aperta con la seguente affermazione: «Io difendo le mie idee, le mie convinzioni comuniste»41. Fu proprio perché seguiva questa linea di difesa come attacco politico che Dimitrov non temette mai di fare domande provocatorie, di accusare direttamente i nazisti o di chiamare in causa testimoni talmente scomodi al governo che non sarebbero mai stati ammessi.
Il processo di Lipsia risulta pertanto un grande caso di interesse non soltanto storiografico, per il ruolo svolto nell’ascesa al potere della dittatura nazista, ma anche giuridico, come straordinario e riuscito esempio di processo di rottura.
Giulia Casadei
(Tratto da: Giulia Casadei, Il processo di Lipsia e la figura di Georgi Dimitrov, in «Diacronie» [Online], N° 14, 2 | 2013, documento 6, online dal 01 août 2013, consultato il 01 juin 2023. URL: http://journals.openedition.org/diacronie/188; DOI: https://doi.org/10.4000/diacronie.188).
Note
1 Fritz Tobias, The Reichstag Fire: Legend and Truth, London, Secker & Warburg, 1963, p. 287.
2 Edouard Calic, L’incendio del Reichstag, Milano, Feltrinelli, 1970, p. 90.
3 Edouard Calic, op. cit., pp. 87-88: sarà poi lo stesso 1° aprile (da notare l’astuzia di Goebbels, ministro della Propaganda), in concomitanza con l’inizio del boicotto, che la radio tedesca rese noti per la prima volta i nomi dei complici di Van der Lubbe, che erano stati arrestati quasi un mese prima: Georgi Dimitrov, Vassili Konstantinov Tanev e Blagoï Simeonov Popov. «Ne derivava pertanto che Mosca e gli Ebrei erano entrambi implicati nell’incendio del Reichstag […]» (ibidem).
4 Ibidem, p. 170. La data non venne scelta a caso, ovvero dopo le elezioni del 5 marzo (arrestare i bulgari prima sarebbe risultato troppo sospetto), subito dopo aver contato i propri voti.
5 Ibidem, p. 137.
6 [L’espressione] Processo di Lipsia è ormai largamente utilizzata per indicare non solo il periodo del processo che si svolse strettamente alla Corte Suprema Tedesca della città sassone, ma per indicare tutto l’insieme delle procedure giudiziarie che coinvolsero gli imputati accusati del Reichstagsbrand, a prescindere dal luogo dello svolgimento fisico del processo. Per esempio, dal 10 ottobre al 18 novembre, la corte venne trasferita a Berlino nelle sale ancora intatte del Reichstag. Georgi Dimitrov, The Diary of Georgi Dimitrov 1933-1949, London, Yale University, 2003, p. 2.
7 Jacques M. Vergès, Strategia del processo politico, Torino, Einaudi, 1969, p. 113.
8 Georgi Dimitrov, Il Processo di Lipsia, Roma, Editori Riuniti, 1972, [I edizione in lingua italiana, Mosca, Edizioni in lingue estere, 1944], p. 157. Il rilascio di Dimitrov avvenne in termini piuttosto precipitosi, soprattutto per evitare che trapelasse la notizia della sua liberazione: si temeva infatti l’insorgere di pericolose manifestazioni popolari antifasciste.
9 Ibidem, p. 19.
10 Ibidem, p. 7. La comunicazione ufficiale dell’accusa di aver incendiato il Reichstag fu resa nota a Dimitrov soltanto il 3 aprile, durante l’interrogatorio sostenuto dal giudice Vogt.
11 Ibidem, pp. 7, 10, 11. In data 26 aprile 1933, Dimitrov non aveva ancora avuto un colloquio con il suo avvocato.
12 Georgi Dimitrov, Il Processo di Lipsia, cit., p. 37, lettera del 24 agosto 1933; ibidem, pp. 84-85.
13 Ibidem, p. 35, lettera del 18 agosto 1933.
14 Edouard Calic, L’incendio del Reichstag, cit., p. 158, nota 4.
15 Georgi Dimitrov, Il Processo di Lipsia, cit., pp. 25-26.
16 Jacques M. Vergès, Strategia del processo politico, cit., pp. 49-66. Questo capitolo, intitolato «I processi di rottura», sarà analizzato in dettaglio più avanti.
17 «Se i testimoni da me proposti non saranno citati ufficialmente, vorrei allora far inviare questi testimoni privatamente, da parte mia, sulla base dell’articolo 220 del codice di procedura penale» (ibidem, p. 31). È qui evidente come Dimitrov si sia informato e abbia studiato il sistema penale tedesco, oltre ovviamente il fatto che molti avvocati stranieri tentavano comunque di seguire e consigliare il bulgaro nonostante non fossero stati accettati dalla corte.
18 Ibidem, p. 57.
19 Ibidem, p. 48.
20 Ibidem, p. 59.
21 Georgi Dimitrov, Il Processo di Lipsia, cit., p. 98.
22 Ibidem, p. 102.
23 Ibidem, p. 105.
24 Per ben cinque volte Dimitrov venne fatto allontanare dall’aula e riportato in prigione; il numero delle volte in cui venne interrotto e ostacolato da parte del Presidente Bürger è troppo alto perché lo si possa calcolare (v. Fritz Tobias, The Reichstag Fire, cit., pp. 215-222).
25 Edouard Calic, L’incendio del Reichstag, cit., p. 168.
26 Ibidem, p. 153.
27 Ibidem, p. 93. È interessante analizzare anche il resoconto stenografico del 26 settembre: «Dimitrov: “O Van der Lubbe è pazzo o è un uomo normale. E se allora egli tace, lo fa perché si trova sotto il peso enorme del tradimento compiuto nei confronti della classe operaia. Io pongo la seguente domanda a Van der Lubbe: ha mai egli, in vita sua, udito il mio nome? ” – Presidente: “Non ammetto questa domanda. Essa qui non c’entra”». È evidente che la domanda, più che mai legittima, risultava troppo scomoda e pericolosa per i nazisti: se Van der Lubbe avesse affermato di non avere nulla a che fare con Dimitrov, buona parte dell’accusa sarebbe crollata. Fortunatamente per loro, non era in grado di rispondere.
28 Georgi Dimitrov, Il Processo di Lipsia, cit., p. 153.
29 Ibidem, p. 129.
30 Ibidem, p. 132.
31 Ibidem, pp. 147-148.
32 Fritz Tobias, The Reichstag Fire, cit., p. 268.
33 Edouard Calic, L’incendio del Reichstag, cit., p. 196.
34 Ibidem.
35 Stefano Canestrali, Luigi Cornacchia, Giulio De Simone, Manuale di diritto penale: Parte generale, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 144.
36 Jacques M. Vergès, Strategia del processo politico, cit., p. 21.
37 Ibidem.
38 «In un processo di rottura, quando manca la mobilitazione dell’opinione pubblica, non si hanno speranze di vittoria. Il solitario Socrate ne è un triste esempio» (ibidem, p. 60).
39 Ibidem, p. 59. Scrive anche Liora Israël: «La difesa fu costruita prima di tutto su base politica, […] approfittare dell’occasione del processo per raggiungere un platea più vasta, soprattutto attraverso la stampa» (Liora Israël, Le armi del diritto, Milano, Giuffrè, 2012, p. 53).
40 Ibidem, p. 61.
41 Ibidem, p. 63.
Inserito il 02/06/2023.
Il 4 novembre 1933, nel tribunale di Lipsia, di fronte alla stampa internazionale, si svolse l’epico scontro processuale tra Georgi Dimitrov, il capo comunista bulgaro accusato di aver incendiato il Reichstag nel febbraio di quell’anno, e il ministro del Reich Hermann Göring. Diamo il resoconto stenografico della seduta in cui il ministro, chiamato a testimoniare per aver indirizzato le indagini sulla falsa pista comunista, deve subire le domande di Dimitrov nella veste di avvocato difensore di se stesso.
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Germania 1933: lo scontro Dimitrov-Göring al processo di Lipsia
La notte del 27 febbraio 1933 la sede del Parlamento tedesco, il Reichstag, subì un incendio doloso. Del fatto furono accusati i comunisti: un cittadino olandese, Marinus van der Lubbe, venne arrestato subito, e si sparse la notizia che avesse in tasca la tessera del Partito Comunista Olandese. Lui smentì di appartenere a tale organizzazione, ma la procura, spinta dal clima infuocato della propaganda elettorale nazista, costruì il proprio castello accusatorio su questo accusato.
Grazie all’ondata di arresti che decapitò il Partito Comunista Tedesco e alla messa fuorilegge della stampa comunista e socialdemocratica, il Partito Nazionalsocialista di Adolf Hitler stravinse le elezioni del 5 marzo 1933 e salì al potere.
Il 9 marzo la procura fece in modo di trovare dei complici per l’accusato olandese e arrestò tre comunisti bulgari, Georgi Dimitrov, Vasil Tanev e Blagoi Popov, e il deputato comunista tedesco e vicesegretario del KPD Ernst Torgler.
Sei mesi dopo l’incendio, il 21 settembre, il processo ebbe inizio presso la Corte Suprema di Lipsia, IV Sezione penale del Tribunale del Reichstag. A Dimitrov era stato assegnato un avvocato d’ufficio, Paul Teichert, ma il dirigente comunista chiese che gli venissero affiancati alcuni legali di sua fiducia provenienti dalla Bulgaria, dalla Francia e dagli Stati Uniti; il tribunale respinse tali richieste dell’imputato, e così quest’ultimo decise di rinunciare alla difesa d’ufficio e di difendersi da solo, secondo una norma prevista dalla legge.
Fu così che Georgi Dimitrov, di fronte ai giornalisti di 80 testate tedesche e internazionali, emerse al processo nella doppia veste di imputato e avvocato, e in quanto tale poteva egli stesso condurre, tramite il Presidente della Corte d’assise, gli interrogatori dei coimputati e dei testimoni. Proprio in quanto avvocato difensore di se stesso interrogò i ministri del Reich Hermann Göring e Joseph Goebbels.
Diamo di seguito una parte del resoconto stenografico dell’udienza del 4 novembre 1933, che vide il presidente del Consiglio dei ministri di Prussia e ministro degli Interni Hermann Göring chiamato a testimoniare.
Dall’interrogatorio del testimone Göring*
(4 novembre 1933)
Dimitrov: Il conte Helldorf1 ha deposto qui che il 27 febbraio, verso le 11 di sera, diede di propria iniziativa l’ordine di arrestare dirigenti e funzionari comunisti e socialdemocratici. Ora io chiedo al signor presidente del consiglio dei ministri: il conte Helldorf ha parlato allora di questo provvedimento con il signor Göring oppure no?
Göring: A questa domanda in realtà è già stato risposto. Quando il conte Helldorf venne a sapere dell’incendio, a lui, come a ognuno di noi, era chiaro che si trattava di opera del partito comunista. Egli aveva già dato gli ordini necessari ai suoi collaboratori più vicini. Ma sottolineo ancora una volta: io, naturalmente, lo chiamai nel mio ufficio e gli dissi che avrei dovuto pregarlo di mettere a disposizione anche le sue SA2, al che egli rispose di aver già dato in parte le disposizioni necessarie al riguardo. Io presi allora su di me la responsabilità della disposizione da lui data ma non entrata ancora in vigore e lo appoggiai ancora una volta con l’autorità statale.
Dimitrov: Vorrei soltanto sapere se fra le 11 e le 12 ha avuto luogo un abboccamento fra il conte Helldorf e il presidente del consiglio dei ministri Göring.
Göring: Lei ha sentito, il conte è stato da me3.
Dimitrov: I deputati del partito nazionalsocialista al Reichstag, signor Karwahne e signor Frey, nelle deposizioni hanno affermato che verso le 11 erano stati al ministero prussiano dell’interno e che lì avevano comunicato di aver visto – loro due e il nazionalsocialista austriaco Kroyer – Torgler in compagnia di Van der Lubbe il giorno dell’incendio. Allora, questi deputati al Reichstag hanno parlato con il presidente del consiglio dei ministri Göring?
Göring: No.
Dimitrov: Sapeva il signor presidente che il signor Frey e il signor Karwahne avevano fatto una tale comunicazione?
Göring: Il giorno seguente all’incendio venni a sapere che avevano fatto tale comunicazione.
Dimitrov: Lo venne a sapere la mattina o la notte?
Göring: La mattina, o forse il pomeriggio!
Dimitrov: Dunque la mattina o il pomeriggio?
Göring: Lo si può accertare dall’interrogatorio del mio consigliere ministeriale Diehl4.
Dimitrov: Vorrei che si sapesse con esattezza perché Karwahne, su mia domanda, dichiarò fermamente di aver fatto la comunicazione dopo la mezzanotte, subito dopo l’incendio.
Göring: I tre hanno fatto le deposizioni al ministero davanti a impiegati e non a me. Posso anche non sapere se è stato durante la notte o il mattino. Non ricordo quando ciò mi è stato comunicato.
Dimitrov: Il 28 febbraio il signor presidente del consiglio dei ministri Göring concesse un’intervista sull’incendio del Reichstag, nella quale è detto: all’atto dell’arresto del «comunista olandese» Van der Lubbe vennero trovati, oltre al passaporto, anche la tessera di appartenenza al partito. Di dove sapeva allora, il signor presidente del consiglio dei ministri Göring, che Van der Lubbe aveva con sé la tessera del partito?
Göring: Devo dire che finora non mi sono interessato molto del processo, cioè non leggevo tutte le relazioni. Di quando in quando sentivo dire che lei (rivolto a Dimitrov) è una persona particolarmente furba. Perciò suppongo che la questione che ora ha posto le era chiara da tempo, e cioè che io non mi sono affatto occupato dell’inchiesta. Io non corro da una parte e dall’altra e non frugo nelle tasche della gente. Se lei (a Dimitrov) non lo sa ancora, glielo dico adesso: la polizia fa le inchieste e mi comunica quello che viene accertato.
Dimitrov: I tre funzionari della polizia criminale che per primi hanno arrestato e interrogato Van der Lubbe dichiararono unanimemente che su Lubbe non è stata trovata alcuna tessera del partito. Vorrei sapere di dove allora è venuta questa comunicazione circa la tessera del partito.
Göring: Glielo posso dire con assoluta certezza: la comunicazione mi è stata fatta ufficialmente. Se durante quella prima notte si facevano comunicazioni che non potevano essere verificate con la dovuta rapidità, se qualche funzionario, forse basandosi sulle informazioni, disse che Lubbe aveva la tessera del partito comunista, ma ciò non poté essere accertato ed una probabilità fu scambiata per un fatto certo: tutto, è naturale, mi veniva comunicato. Io passai la comunicazione fattami il mattino seguente stesso, quando l’interrogatorio definitivo non era ancora terminato. Questo fatto di per sé non ha una grande importanza perché qui, al processo, a quanto pare, è stato accertato che Van der Lubbe non aveva alcuna tessera del partito.
Dimitrov: Il testimone è il presidente del consiglio dei ministri, ministro dell’interno e presidente del Reichstag, non è forse responsabile della sua polizia?
Göring: Sì!
Dimitrov: Io chiedo: che cosa fece il signor ministro dell’interno il 28 e il 29 febbraio e nei giorni che seguirono per accertare, mediante investigazioni della polizia, la strada percorsa da Van der Lubbe per andare da Berlino a Hennigsdorf, il suo soggiorno al dormitorio di Hennigsdorf, la sua conoscenza con altre due persone, per scoprire in questo modo quali sono i veri complici? Che cosa ha fatto la sua polizia?
Göring: Nella mia qualità di presidente del consiglio dei ministri, naturalmente non ho cercato le orme dei criminali come un detective, ho la mia polizia per questo.
Dimitrov: Siccome lei, nella sua qualità di presidente del consiglio dei ministri e ministro dell’interno, ha dichiarato che gli incendiari sono comunisti, che il Partito comunista tedesco ha compiuto ciò con l’aiuto di Van der Lubbe, comunista straniero, questa sua dichiarazione non è forse servita a indirizzare l’inchiesta della polizia e – dopo – l’istruttoria su un sentiero preciso per escludere la possibilità di cercare altre strade, allo scopo di trovare i veri colpevoli dell’incendio del Reichstag?
Göring: Innanzi tutto la legge prescrive alla polizia criminale – in ogni caso – di rivolgere le proprie indagini in ogni senso, indipendentemente da dove conducano e in ogni luogo dove ci siano degli indizi. Io però non sono un funzionario della polizia criminale ma un ministro responsabile, perciò per me non era tanto importante accertare quale fosse il singolo criminale di poco conto, bensì il partito, l’ideologia che di ciò erano responsabili. La polizia criminale indagherà su ogni indizio, stia pure tranquillo. Io dovevo solo stabilire se si trattava di un crimine al di fuori della sfera politica oppure di un crimine di carattere politico. Secondo me si trattava di un crimine di carattere politico ed io ero convinto che i criminali avrebbero dovuto essere ricercati (rivolto a Dimitrov) nel vostro partito. (Agita i pugni in direzione di Dimitrov e urla.) Il vostro è un partito di criminali, che deve essere annientato! E se gli organi inquirenti si sono lasciati influenzare in questo senso, non hanno fatto altro che mettersi sulla giusta pista.
Dimitrov: Sa il signor presidente del consiglio dei ministri che questo partito che «deve essere annientato» governa un sesto del mondo, e cioè l’Unione Sovietica, che l’Unione Sovietica mantiene relazioni diplomatiche, politiche ed economiche con la Germania e che le sue commesse di carattere economico avvantaggiano centinaia di migliaia di operai tedeschi?
Presidente (a Dimitrov): Le proibisco di fare qui propaganda comunista.
Dimitrov: Qui il signor Göring fa propaganda nazionalsocialista! (Indi si rivolge a Göring.) La concezione comunista domina nell’Unione Sovietica, il maggiore e il migliore paese del mondo, e qui in Germania essa ha milioni di sostenitori nella persona dei migliori figli del popolo tedesco. Ciò è noto a…
Göring (urlando): Le dirò io che cosa è noto al popolo tedesco. Al popolo tedesco è noto che lei qui si comporta in modo impudente, che lei è venuto qui a incendiare il Reichstag. Ma io non sono venuto qui perché lei mi interroghi come farebbe un giudice e mi muova dei rimproveri. Ai miei occhi lei è un imbroglione che deve semplicemente essere impiccato.
Presidente: Dimitrov, le ho già detto che lei non deve fare qui propaganda comunista. Perciò non ha da meravigliarsi se il signor testimone è così emozionato! Le proibisco nel modo più severo di fare una tale propaganda! La prego di fare solo delle domande che riguardano il processo.
Dimitrov: Io sono molto soddisfatto della risposta del signor presidente del consiglio dei ministri.
Presidente: A me non importa affatto che lei sia soddisfatto o meno. Ora le tolgo la parola.
Dimitrov: Voglio fare ancora una domanda che riguarda il processo.
Presidente (ancora più brusco): Ora le tolgo la parola.
Göring (urlando): Fuori, vigliacco!
Presidente (agli agenti): Portatelo via!
Dimitrov (che è già stato afferrato dagli agenti): A quanto pare lei teme le mie domande, signor presidente?
Göring (gridando dietro a Dimitrov): Faccia attenzione, stia in guardia, glielo farò vedere io non appena sarà fuori dal potere giuridico di questo tribunale! Canaglia!
(Tratto da: Gheorghi Dimitrov, Opere, Roma, Editori Riuniti, 1976, vol. I, pp. 198-202).
Note
* Dal resoconto stenografico dell’udienza del 4 novembre 1933.
1 Il conte Helldorf, il capo delle SA berlinesi, capo della polizia di Berlino.
2 Per consolidare la dittatura fascista e preparare il paese alla guerra, in Germania veniva creato un apparato terroristico in cui, dalla metà del 1934, un importante ruolo ebbero i reparti d’assalto (SA), e più tardi i reparti di protezione (SS) che ne assumevano ruolo e funzioni. Dalla direzione suprema delle truppe SS dipendono anche la Gestapo e la pubblica sicurezza. Della direzione dell’apparato terroristico di Hitler entra a far parte anche il nucleo direttivo del partito nazista.
3 Nelle sue deposizioni davanti alla corte, sotto giuramento, Helldorf aveva negato un tale incontro con Göring.
4 Allora capo della Gestapo.
Dimitrov e Göring (celebre fotomontaggio di John Heartfield).
Fonte della foto: https://spartacus-educational.com/GERdimitrov.htm
Prossimamente: Germania 1933: il confronto Dimitrov-Goebbels al processo di Lipsia.
L’uccisione da parte dei GAP del tenente colonnello Gino Gobbi scatena una dura rappresaglia fascista: cinque detenuti politici vengono fucilati.
Un appello alla concordia del cardinale Dalla Costa provoca una dura replica da parte del Partito d’Azione pubblicata sul suo giornale clandestino «La Libertà».
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L’antefatto
«La prima operazione condotta dai GAP [Gruppi di Azione Patriottica, ndr] a Firenze fu l’uccisione del tenente colonnello Gino Gobbi, comandante del distretto militare di Firenze, responsabile del reclutamento dei giovani di leva che dovevano andare a costituire il giovane esercito della RSI. Mosso da questo obiettivo, Gobbi aveva cominciato a fare un minuzioso lavoro di ricerca dei renitenti alla leva, che poi venivano in genere consegnati ai tedeschi. Gobbi fu ucciso il 1° dicembre 1943 mentre stava rientrando a casa […]. Il giorno dopo per rappresaglia i nazifascisti decisero di fucilare al poligono delle Cascine cinque persone, che già si trovavano detenute per motivi politici nel carcere delle Murate: Armando Gualtieri, Gino Manetti, Luigi Pugi, Oreste Ristori ed Orlando Storai»1.
Il 5 dicembre l’arcivescovo di Firenze, il cardinale Elia Dalla Costa, fece pubblicare sui giornali della città un appello ai rappresentanti del clero affinché richiamassero i fedeli alla concordia e all’astensione dall’uso della violenza, raccomandando tra l’altro «umanità e rispetto verso i soldati e i Comandi germanici».
Proprio questo appello provocò la dura risposta del Partito d’Azione tramite il suo giornale clandestino «La Libertà». Una risposta in forma di “lettera aperta” all’arcivescovo, cui si associarono anche il Partito Socialista e il Partito Comunista; la “lettera”, non firmata per ovvie ragioni di sicurezza, fu stilata materialmente da uno dei più influenti capi della Resistenza fiorentina, Enzo Enriques Agnoletti, come testimonia il direttore del periodico clandestino del Partito d’Azione toscano, Carlo Ludovico Ragghianti nelle sue memorie sulla Resistenza a Firenze2.
Diamo quindi qui di seguito il testo tratto dal n. 4 de «La Libertà», datato 19 dicembre 1943.
QUESTIONE MORALE
L’uccisione di Gobbi - La fucilazione di cinque detenuti politici - L’intervento del Cardinale Arcivescovo e la risposta del Partito d’Azione.
Il 2 dicembre a Firenze sui muri della città veniva affisso, e sul «Nuovo Giornale» pubblicato, il seguente manifesto:
«Dopo aver accompagnato le giovani reclute cui aveva portato tutta la sua fede di soldato della Patria risorta, ieri sera sulla soglia di casa veniva ucciso con cinque colpi di rivoltella alla nuca il Ten. Colonnello GINO GOBBI Comandante del Distretto Militare.
Il Tribunale straordinario riunitosi nella notte ha emesso sentenza di morte per dieci italiani traditori pagati con oro nemico.
La sentenza è stata eseguita stamani all’alba».
Veniva così aperta una questione morale che tutti hanno dovuto risolvere secondo la propria coscienza. A molti l’ultima benda è caduta dagli occhi. Le vittime, anche per questo, non sono morte invano. Come abbiamo pubblicato nel numero precedente i morti non sono stati dieci, ma cinque. Detenuti politici alle Murate e scelti a caso dal Tribunale Straordinario composto di Manganiello, Carità, Marino, l’avv. Meschiari, l’avv. Coppini, il colonnello dei carabinieri, il questore. I tedeschi, dapprima incerti, hanno dato poi il loro consenso alle uccisioni. Il colonnello Gobbi era, come è noto, odiatissimo perché responsabile dell’arresto di molti ufficiali, anche suoi colleghi, perché aveva introdotto contro i suoi concittadini sistemi usati dai tedeschi nelle terre conquistate, e cioè il prelevamento di ostaggi per i militari non presentatisi, e per altre mille crudeltà e bassezze. Era insomma un traditore.
Mentre perdurava lo sdegno per le uccisioni da parte degli organi forniti di potere, e cioè da parte dei tedeschi e dei fascisti al loro servizio, dei cinque detenuti in nulla responsabili dell’uccisione di Gobbi, veniva pubblicato sui giornali del 5 corr. uno scritto del Cardinale Arcivescovo di Firenze, e cioè dell’unica autorità cittadina non direttamente controllata dai nazisti. Questo scritto (anche se fosse stato pubblicato incompleto nella cambierebbe al suo significato, bastando alcune frasi per dare ad esso un determinato carattere) interviene nella questione morale, e poiché certamente vi sono ancora molte coscienze che accettano, in materia morale, le decisioni dell’Arcivescovo, ripudiando magari le conclusioni a cui erano arrivate col proprio interiore lavorio, il Partito d’Azione ha sentito il dovere di intervenire immediatamente rivolgendo al cardinale la lettera che pubblichiamo qui sotto preceduta dallo scritto dell’Arcivescovo, lettera a cui si sono associati il partito socialista e il partito comunista.
Anche per questa questione morale tutte le autorità ufficiali cittadine, nessuna esclusa, si sono dimostrate inferiori al loro compito. Ne esce rafforzata l’autorità morale dei partiti antifascisti che sarà l’unica e vera autorità in un prossimo domani.
«Nelle affannose e trepide ore che viviamo, è doveroso ufficio dei sacri Pastori rendersi portatori di pace e ministri di riconciliazione, come devono essere i vigili assertori della legge di Dio.
Supplichiamo pertanto i sacerdoti e quanti sono costituiti in autorità di adoperarsi perché, cessati i dissensi di ogni genere che dividono il nostro popolo, si consegua quella interna pacificazione degli animi che da tutti è così intensamente desiderata. Ogni cittadino sia esortato, anzi supplicato, ad astenersi da qualunque violenza, mentre deve raccomandarsi umanità e rispetto verso i soldati e i Comandi germanici. Occorre avvertire che insulti, vandalismi, uso di armi contro chicchessia, non solo non possono migliorare le nostre condizioni, ma le aggravano indicibilmente, perché danno origine a reazioni che in nessun modo devono essere provocate.
Quanto alle uccisioni commesse d’arbitrio privato o a tradimento, ricordiamo a tutti il quinto comandamento della Legge: «Non ammazzare», e tutti scongiuriamo a riflettere che il sangue chiama il sangue, come afferma solennemente il Vangelo ed è documentato da tutta la storta umana.
Pertanto rivolgiamo a tutti i figli dell’archidiocesi supplice preghiera perché non rendano ancora più triste questa triste ora della nostra storia.
Se ognuno si crede sciolto da qualsiasi legge morale e civile e ritiene lecito il delitto, sarà aperta la via ai più deplorevoli eccessi e a rovine non immaginabili.
Pertanto le autorità civili e militari e i parroci principalmente, in pubblico e in privato, si adoperino perché, secondo la nostra accorata parola, alla città e alla Diocesi siano risparmiate ulteriori sciagure e si sia raggiunta quella concordia degli animi che vale a temperare in pane le amarezze della quotidiana vita.
A conseguire uno scopo così nobile e così santo ci valga l’insistente e umile preghiera al Dio delta carità e della pace. Accogliamo l’augusto invito del Sommo Pontefice; invochiamo mediatrice, fra noi e Dio, la Vergine Santa e nella prossima festa dell’Immacolata tutte le sante funzioni e pie pratiche che si tengono nelle nostre chiese sieno presentate alla Vergine come invocazione di giorni migliori alla Patria nostra e a tutta l’umanità».
Eminenza,
Abbiamo letto con dolore e meraviglia la notificazione da Lei diretta al clero e al popolo, pubblicata sui giornali del 5 corrente. Non sappiamo se il testo pubblicato corrisponda a verità. Speriamo sinceramente che non sia così. Tuttavia, poiché non abbiamo finora saputo di nessuna rettifica o smentita, siamo costretti a prenderlo in considerazione così come è stato pubblicato.
L’occasione del messaggio da Lei inviato è nota a tutti. A Firenze sono state uccise sei persone: il colonnello Gobbi e i detenuti politici Orlando Storai, Gino Manetti, Armando Gualtieri, Francesco Pugi, Oreste Ristori. L’uno è stato ucciso da sconosciuti mentre rientrava a casa, gli altri sono stati uccisi al Poligono delle Cascine per decisione delle autorità e precisamente del capo della provincia Manganiello, del console generale Marino, del capitano Carità, del questore, del colonnello dei carabinieri e dell’avv. Meschiari, unitisi in comitato chiamato dai giornali tribunale straordinario.
Non si sa la ragione esatta dell’uccisione del colonnello Gobbi: si sa solo che aveva fatto arrestare molti ufficiali e che si dava molto da fare perché gli arruolamenti a pro dei tedeschi avessero successo, pronto a usare di qualsiasi mezzo, compreso l’arresto di altri membri delle famiglie, per costringere a presentarsi quegli ufficiali e soldati che considerano un disonore infrangere il giuramento prestato o comunque mettersi al servizio dei tedeschi.
Si conosce invece la ragione dell’uccisione dei cinque detenuti politici. Dovevano scontare l’uccisione del colonnello Gobbi, di una persona cioè che, secondo ogni probabilità, non avevano mai vista né conosciuta, come non avevano certamente mai visto né conosciuto i suoi uccisori. Sono stati fucilati da dieci carabinieri, dieci metropolitani, dieci militi. Sono stati dimessi dalle carceri col consenso del direttore delle Murate, ben conscio di quanto stava per accadere.
Di modo che si può dire che tutte le autorità attualmente esistenti a Firenze hanno saputo e, dal più al meno, voluto, la fucilazione dei cinque infelici. Della loro sorte si è discusso per una notte intera (dovevano in principio essere dieci), non è stata dunque una decisione presa in un attimo di eccitazione, ma una cosa freddamente calcolata.
Neppure si può dire che il comando tedesco, e cioè la suprema autorità nei territori che, come Firenze e gran parte dell’Italia, sono soggetti a regime giuridico di occupazione militare, non fosse a conoscenza delle fucilazioni. Prima di tutto è ovvio che le presenti autorità cittadine non avrebbero mai avuto il coraggio di prendere una decisione così importante senza consultarsi previamente coi tedeschi. Se questi abbiano risposto col gesto di Ponzio Pilato o abbiano dato apertis verbis il loro consenso a noi non interessa per stabilire la responsabilità dell’atto. In secondo luogo i tedeschi controllano direttamente la stampa cittadina, e il comunicato annunciante l’avvenuta fucilazione è uscito sul «Nuovo Giornale» del 2 dicembre, molte ore prima che avvenisse l’effettiva esecuzione. Se questo non stabilisce in pieno la loro corresponsabilità, anzi responsabilità principale, data la loro posizione di autorità suprema, noi non sappiamo quali argomenti potrebbero stabilirla.
Questi sono i fatti, Eminenza, a cui si riferisce necessariamente il vostro scritto.
Questo scritto è stato pubblicato per intero sui giornali. Ciò implica che non conteneva nulla che potesse comunque non essere approvato dalle autorità nazifasciste, il che dà ad esso un significato tutt’altro che imparziale. I potenti e padroni del giorno, gli uccisori dl cinque inermi e innocenti detenuti lo pubblicano, lo diffondono. Credete che lo avrebbero fatto se avesse suonato disapprovazione del loro gesto? Non vogliamo neanche dire disapprovazione soltanto del loro operato, ma disapprovazione anche del loro operato? L’Eminenza Vostra li tiene in conto di così evangelici?
Se è così, Eminenza, e purtroppo è così, il Suo scritto deve dare l’ impressione di approvarli, o almeno di condannare l’uccisione di un uomo, da parte di privati, di assolvere l’uccisione di cinque uomini, da parte delle autorità, o pseudo-autorità. Ebbene, Eminenza, questo, lo diciamo con dolore, in questo momento significa rendersi moralmente complici di quell’uccisione. E abbiamo pesato le parole, e diamo ad esse tutto il significato che esse hanno.
Lei non può ignorare, Eminenza, che in questo momento, in questo stesso istante forse in cui noi scriviamo o Lei legge, uomini nostri fratelli, creature umane, subiscono torture che fanno vergogna all’umanità. In Via Benedetto Varchi 22 prima, ora in Via Ugo Foscolo 80, sede della milizia alle dipendenze delle S.S., si battono a morte gli arrestati, si appendono con le braccia legate finché svengono dal dolore, si traforano con le baionette, si butta loro dell’acqua bollente in bocca. Lo stesso, peggio, o poco meglio avviene in molti circoli rionali. Queste cose, Eminenza, durano già da molte settimane e Lei, Eminenza, lo sappiamo, ne è a conoscenza. Non abbiamo intesa nessuna parola di disapprovazione dalle Sue labbra, non ci resulta che siano state emanate disposizioni perché questa disapprovazione venisse pronunziata dai pulpiti o quanto più pubblicamente fosse stato possibile. Che più, avevamo sperato anche che forse Ella, di persona, avrebbe potuto recarsi sui luoghi di tanto dolore e di tante barbarie per cercare, con l’autorità della Sua presenza e la veste che indossa, di indurre a maggiore spirito di umanità quei carnefici. Forse Lei stesso si sarebbe esposto a qualche rischio, di questo forse avevamo tenuto troppo poco conto. Ma Lei deve considerare, Eminenza, che da anni, e non da ora soltanto, i nostri amici e compagni affrontano morte, prigione, fame e torture per il trionfo di un’idea in cui credono. E seguiteranno ad affrontarle.
Se da queste considerazioni generali che, per noi, hanno un grandissimo peso, discendiamo all’esame del Suo scritto dobbiamo purtroppo concludere come abbiamo già concluso.
Lei invita autorità e sacerdoti ad adoperarsi perché, cessati i dissensi di ogni genere che dividono il nostro popolo si consegua quella interna pacificazione degli animi che da tutti è così intensamente desiderata. No, Eminenza, vi è una pacificazione degli animi, quella a cui Lei necessariamente allude, quella sola che potrebbe por fine ai dissensi di ogni genere, che noi non desideriamo. Non desideriamo una pacificazione pur che sia, non desideriamo cessare di disapprovare o di dissentire dalla ingiustizia e dalla crudeltà, cessare di essere in disaccordo con gli ingiusti, i crudeli, i barbari. Vogliamo non una pacificazione, ma 1a pace, la vera pace, quella delle nostre coscienze insorte contro 1’ingiusuzia, quella che verrà nel nostro paese quando gli oppressori, i barbari e i tiranni saranno sconfitti. Vogliamo quella pace perché sappiamo, anni di dolorosa meditazione e di dolorose esperienze ce l’hanno insegnato, che nessuna altra pace è possibile, che nessuna altra pace ha qualche probabilità di durare, che nessuna altra pace può esistere senza essere diuturna soffocazione nel sangue delle migliori e più nobili aspirazioni dell’umanità.
Possiamo capire, possiamo anche approvare che Lei, Eminenza, inviti tutti a non usare violenza (pur contro i violenti e quali violenti), ma non possiamo capire né approvare che Lei, in un momento io cui ognuno deve assumere una responsabilità individuale di fronte allo sconvolgimento delle coscienze e del mondo se non vuol venire meno al dovere di fratellanza umana facendosi partecipe, anche passivo, dell’ingiustizia, non possiamo capire né approvare che Lei inviti a una generica concordia degli animi senza dirci nello stesso tempo, quale concordia Lei vuole, su quali basi, giuste o ingiuste, una tale concordia può farsi, senza, come dicevamo, che col cessare la disapprovazione e il dissenso, ci si renda complici del delitto.
«Ogni cittadino sia esortato, anzi supplicato ad astenersi da qualsiasi violenza…». Che Lei dica questo possiamo capire, potremmo anche approvarlo, vorremmo – e quanto – poterlo approvare. Ma non sappiamo, sinceramente, se abbiamo il diritto di farlo. Non sappiamo se abbiamo ì1 diritto di disapprovare «qualunque» violenza, ed invitare tutti ad astenersene. Anche il padre di cui vien torturato il figlio? Anche l’innocente che viene percosso, arrestato, saccheggiato? Non ha il diritto di difendersi? Deve riconoscere l’autorità dei torturatori perché sono forti? Anche il marito che sa che la moglie è presa e portata in Germania, e non si sa dove, perché, gli dicono, appartiene a una razza diversa dalla sua? Anche, più in grande, l’amico, il compagno di fede, il cittadino che vede altri uomini, spesso delinquenti comuni, infierire su ciò che gli è più caro, abbandonato alla loro mercé?
Meglio, lo sappiamo, lo dichiariamo, la resistenza passiva, la non collaborazione, la resistenza che non dà sangue. Nessuno è più nemico del sangue sparso di quanto lo siamo noi. Noi che da anni, anzi da sempre, abbiamo lottato per sostenere i diritti della persona umana, il rispetto che ad essa si deve, le forme sociali e politiche che la tengono in maggior conto. Ma tale resistenza non sempre è possibile, non sempre può essere efficace. E resistere, noi lo sentiamo, profondamente, è il primo, il più indiscutibile dei nostri doveri.
Di questo, Eminenza, non si fa parola nel Suo scritto, non si fa parola neanche in modo generico, di un dovere di resistenza contro l’ingiustizia.
Se poi l’invito di astenersi da «qualunque» violenza (o da qualunque resistenza, come la frase successiva, che riportiamo qui sotto, implica necessariamente) fosse dettato esclusivamente dall’opinione che essa non possa, in questo momento, essere di nessuna utilità pratica e politica, noi sentiamo il dovere di esprimere anche qui la nostra disapprovazione. Se io son pronto a resistere soltanto nel caso che altri resistano, gli altri hanno diritto di pensare come me, di astenersi, di essere passivi di fronte all’ingiustizia, dunque di farsene complici. Se io e ogni uomo siamo profondamente convinti ehe di fronte all’ingiustizia non possiamo restare passivi, qualunque cosa avvenga, non uno soltanto leverà la voce e il braccio a lottare per la buona causa, ma molti e nessuno sarà più isolato e abbandonato, ma verrà ristabilita una fraternità di animi, una vera concordia, perché fondata su una comune, salda convinzione morale, pronta a sopportare qualunque sacrificio. Ma perché sia comune bisogna che sia, prima, di ognuno di noi, anche se è solo. Noi soffriamo sopratutto perché pochi, e non tutti o quasi tutti, posseggono questa convinzione morale, riconosciamo in questa mancanza uno dei maggiori mali – un male morale – che affliggono il nostro popolo e il nostro paese, sappiamo che se questo male non fosse tanto grave, la resistenza all’ingiustizia, all’oppressione, all’intolleranza sarebbe molto più facile (possibile è sempre, in pochi o in molti che siamo), costerebbe meno sangue, nostro e altrui, la pace sarebbe più vicina e migliore.
Questo, Eminenza, andava detto al popolo e al clero, che ogni animo si faccia centro di convinzione morale, che questa convinzione, se non vuol esser nata morta deve condurre all’azione, all’azione contro la dilagante menzogna e ingiustizia, e se questo non si poteva dire, o meglio non si poteva pubblicare, era meglio tacere. Parlare come Lei ha parlato vuol due invitare il popolo a uccidere dentro di sé i germi di vita morale: dichiarare – dopo aver benedetto tante bandiere che dovevano combattere la più ingiusta guerra – che il forte ha ragione e il debole torto, poiché al debole si negano le sole armi che possiede: la resistenza e il sacrificio di sé.
Ma Lei, Eminenza, dice purtroppo anche altre cose. Dopo aver esortato ad astenersi da qualunque violenza l.ei aggiunge testualmente: «mentre deve raccomandarsi umanità e rispetto verso i soldati e i comandi germanici». Ora questo, Eminenza, è veramente andare troppo oltre. Ingenuità e buona fede non possono né spiegare né giustificare questa frase. Avremmo potuto capire – ci sforziamo di capire tante cose pur in questo terribile momento – che Lei avesse raccomandato correttezza, atteggiamenti non provocatori o altro del genere. Ma che a degli uomini disarmati di fronte ad altri uomini armatissimi, a uomini schiavi di fronte a padroni, e padroni che non esitano un minuto nel compiere gli atti più crudeli, quando credono che sian loro di qualche utilità, che a noi su cui pesa il più schiacciante gravame dell’occupazione militare straniera, si predichi rispetto e umanità per i nostri torturatori e oppressori quasi che essi siano le vittime e noi i carnefici, noi i potenti e loro gli inermi, che a noi si dice di usare «rispetto» per i comandi e soldati tedeschi (e che cosa hanno fatto o dato al mondo per meritare il nostro rispetto?) e «umanità» verso di loro, cioè, si direbbe, far loro sentire la solidarietà umana che noi sentiamo verso di essi, mentre non si dice loro di usare umanità e rispetto verso di noi, o neanche si dice per esempio, in generale, che ogni uomo deve umanità e rispetto ai propri simili di qualunque nazione o razza essi siano, dire quello soltanto che Lei ha detto, Eminenza, vuol dire soltanto aggiungere una pietra al peso dell’ingiustizia che ci sta schiacciando.
Lungi da noi l’idea, o il sentimento, di non considerare i tedeschi quali essi sono: degli uomini simili a noi. Lungi da noi il proposito di fare ad essi, e a quegli italiani che gli servono, ciò che essi stanno facendo a noi. Noi non siamo, né saremo, carnefici, spogliatori e torturatori. Questa à l’«umanità» che sentiamo verso di loro. Noi lottiamo per una civiltà migliore di quella in cui viviamo e soffriamo, e sentiamo che per questa civiltà dobbiamo combattere, dobbiamo resistere: dobbiamo dunque combattere i tedeschi, resistere alla loro violenza, opporre se altro non è possibile e nei limiti delle nostre deboli forze, violenza a violenza, colpo a colpo. Noi non possiamo sfuggire a questa legge, noi che sopra ogni cosa desideriamo, e non con la bocca soltanto, ma con l’animo e tutta la nostra vita, pace, amore, libertà, giustizia.
Lei parla di uccisioni, Eminenza, e dice: «quanto alle uccisioni commesse d’arbitrio privato o a tradimento, ricordiamo a tutti il quinto comandamento della Legge: “Non ammazzare”». Sei uomini sono morti, Eminenza, uccisi tutti da altri uomini. Quali sono morti d’arbitrio privato o a tradimento? Lei questo non dice, Eminenza, e non dicendolo le Sue parole si prestano a tutte le interpretazioni, anche a quelle che, speriamo per Lei, non sono le giuste. È certo che in quelle Sue parole rientra l’uccisione del colonnello Gobbi, di uno dei sei. Molto incerto se vi rientrino le altre uccisioni, quelle dei Cinque. Che cosa vuole dire «uccisioni commesse d’arbitrio privato»? Sono stati forse uccisi per arbitrio privato i cinque innocenti detenuti? A noi, e a chi legge, sembra di no. A noi sembra che quando tutte le autorità, anche se autorità di fatto e non di diritto, partecipano alla responsabilità di una simile strage, se questa è commessa dai rappresentanti – sia pur prezzolati – della forza pubblica, benché si tratti certamente di un arbitrio, non si tratta, altrettanto certamente, di un arbitrio privato. Vorremmo, lo ripetiamo, che non fosse questo il significato che Lei ha voluto attribuire alle Sue parole, ma è questo il significato che darà ad esse la massa dei lettori, che ad esse hanno già dato, il fatto della avvenuta pubblicazione lo dimostra, le autorità complici delle uccisioni,
Se invece il Suo modo di esprimersi fosse stato volutamente incerto, in maniera che ogni lettore avesse potuto leggere nelle Sue parole quanto desiderava, condannare e assolvere chi già condannava e assolveva, allora, Eminenza, la cosa ci addolorerebbe ancora di più. Poiché confondere volutamente il giusto e l’ingiusto, lasciare nell’incertezza una questione che investe tutta la nostra vita morale, vorrebbe dire, secondo noi, non adempiere quello che sentiamo essere il primo dovere dell’uomo civile sopratutto in questo momento e sopratutto se egli sa che le Sue parole sono ascoltate, dire quello che pensa e giudica con verità e coraggio.
Eminenza, Lei parla di fatti che «non solo non possono migliorare le nostre condizioni, ma le aggravano indicibilmente». Ora, non per i singoli fatti da Lei nominati, ma in generale noi sentiamo il bisogno di domandare di quali condizioni Ella parla. Giacché se Lei intende soltanto alludere alle nostre vite e ai nostri beni, se Lei intendesse dire che non si deve rischiare di peggiorare le proprie condizioni, qualunque sia il prezzo che si deve pagare per tale rinuncia, che non si deve rischiare libertà e vita (e non fu forse un rischio continuo la vita di quelle grandi figure per cui Lei detiene l’autorità che esercita?), per lottare contro la tirannia, l’ingiustizia e l’intolleranza, noi, Eminenza, dovremmo deplorare ancor di più che in un momento tanto tragico e grave per la vita morale e fisica di noi italiani, Ella non abbia preferito di tacere.
[Non firmato, ma di Enzo Enriques Agnoletti, ndr]
(Tratto da «La Libertà», Periodico toscano del Partito d’Azione - Italia Libera, n. 4, 19 dicembre 1943).
Note
1 S. Gallerini, Antifascismo e Resistenza in Oltrarno. Storia di un quartiere di Firenze, Carlo Zella Editore, Firenze, 2014, p. 173.
2 Scrive Carlo Ludovico Ragghianti, direttore del periodico clandestino del Pd’A «La Libertà»: «Il n. 4 fu pubblicato il 19 dicembre 1943. Si iniziava con un lungo articolo, di circa sette colonne, di Enzo Enriques Agnoletti, dal titolo:
QUESTIONE MORALE
L’uccisione di Gobbi – La fucilazione di cinque detenuti politici – L’intervento del cardinale arcivescovo e la risposta del Partito d’Azione.
L’Agnoletti riferiva i fatti svoltisi dopo l’uccisione del colonnello traditore Gobbi, l’assassinio dei cinque detenuti politici dopo sentenza del cosiddetto Tribunale straordinario. Citava poi uno scritto del cardinale fiorentino Elia Dalla Costa, pubblicato sui giornali locali il 5 dicembre, nel quale questi raccomandava «pace e riconciliazione» (echeggiando il Gentile ed i collaboratori fascisti-cattolici del periodico «Italia e Civiltà»), ed esortato ogni cittadino ad astenersi dalla violenza, ricordava ai suoi sacerdoti che si doveva «raccomandare umanità e rispetto verso i soldati e i Comandi Germanici» (C.L. Ragghianti, La politica del Partito d’Azione in un giornale clandestino di Firenze, in «Il Movimento di Liberazione in Italia», III, 14 settembre 1951, p. 14; poi in C.L. Ragghianti, Disegno della Liberazione italiana, Nistri-Lischi, Pisa, 1954, in seguito edito anche da Vallecchi, Firenze, 1975).
Inserito il 15/05/2023.
Piero Calamandrei.
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/0/01/Piero_Calamandrei.jpg
Il celebre discorso del giurista fiorentino pronunciato nel 1955 a Milano davanti agli studenti
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Piero Calamandrei nacque a Firenze il 21 aprile 1889; discendente da una famiglia di noti giuristi toscani, fu professore universitario e deputato repubblicano nel 1908.
Dopo la laurea divenne professore di diritto processuale civile all’Università di Messina e successivamente a Siena.
Dopo aver partecipato alla prima guerra mondiale come volontario, proseguì la carriera accademica prima a Modena e poi a Firenze. L’attività politica negli anni 20 fu molto vivace. Gaetano Salvemini, arrestato a Roma nel 1925 a causa della sua attività antifascista insieme con Ernesto Rossi, fu difeso dallo stesso Calamandrei, che in quegli anni aderì con convinzione all’Unione Nazionale, associazione politica fondata da Giovanni Amendola.
Dopo la seconda guerra mondiale Piero Calamandrei fu nominato rettore dell’Università di Firenze.
Tra i principali protagonisti della nascita del Partito d’Azione, fu eletto prima alla Consulta e poi all’Assemblea Costituente. In seguito allo scioglimento del Partito d’Azione aderì prima all’Unione dei Socialisti di Ignazio Silone, poi nel raggruppamento di Unità Socialista. Dopo un breve periodo nel PSDI di Saragat, fu tra i fondatori di Unità Popolare, di orientamento liberalsocialista.
Morì a Firenze il 27 settembre 1956.
Il discorso che presentiamo è famosissimo. Esso fu pronunciato a Milano il 26 gennaio 1955 davanti a un pubblico formato in massima parte da studenti.
Discorso sulla Costituzione
L’articolo 34 della Costituzione dice: «I capaci e i meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Eh! E se non hanno i mezzi? Allora nella nostra costituzione c’è un articolo che è il più importante di tutta la costituzione, il più impegnativo per noi che siamo al declinare, ma soprattutto per voi giovani che avete l’avvenire davanti a voi. Dice così: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese».
È compito di rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno sviluppo della persona umana: quindi dare lavoro a tutti, dare una giusta retribuzione a tutti, dare la scuola a tutti, dare a tutti gli uomini dignità di uomo. Soltanto quando questo sarà raggiunto, si potrà veramente dire che la formula contenuta nell’articolo primo – «L’Italia è una Repubblica democratica fondata sul lavoro» – corrisponderà alla realtà. Perché fino a che non c’è questa possibilità per ogni uomo di lavorare e di studiare e di trarre con sicurezza dal proprio lavoro i mezzi per vivere da uomo, non solo la nostra Repubblica non si potrà chiamare fondata sul lavoro, ma non si potrà chiamare neanche democratica perché una democrazia in cui non ci sia questa uguaglianza di fatto, in cui ci sia soltanto un’uguaglianza di diritto, è una democrazia puramente formale, non è una democrazia in cui tutti i cittadini veramente siano messi in grado di concorrere alla vita della società, di portare il loro miglior contributo, in cui tutte le forze spirituali di tutti i cittadini siano messe a contribuire a questo cammino, a questo progresso continuo di tutta la società.
E allora voi capite da questo che la nostra costituzione è in parte una realtà, ma soltanto in parte è una realtà. In parte è ancora un programma, un ideale, una speranza, un impegno di un lavoro da compiere. Quanto lavoro avete da compiere! Quanto lavoro vi sta dinanzi!
È stato detto giustamente che le costituzioni sono delle polemiche, che negli articoli delle costituzioni c’è sempre, anche se dissimulata dalla formulazione fredda delle disposizioni, una polemica. Questa polemica, di solito, è una polemica contro il passato, contro il passato recente, contro il regime caduto da cui è venuto fuori il nuovo regime.
Se voi leggete la parte della costituzione che si riferisce ai rapporti civili e politici, ai diritti di libertà, voi sentirete continuamente la polemica contro quella che era la situazione prima della Repubblica, quando tutte queste libertà, che oggi sono elencate e riaffermate solennemente, erano sistematicamente disconosciute. Quindi, polemica nella parte dei diritti dell’uomo e del cittadino contro il passato.
Ma c’è una parte della nostra costituzione che è una polemica contro il presente, contro la società presente. Perché quando l’articolo 3 vi dice: «È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che impediscono il pieno sviluppo della persona umana», riconosce che questi ostacoli oggi vi sono di fatto e che bisogna rimuoverli. Dà un giudizio, la costituzione, un giudizio polemico, un giudizio negativo contro l’ordinamento sociale attuale, che bisogna modificare attraverso questo strumento di legalità, di trasformazione graduale, che la costituzione ha messo a disposizione dei cittadini italiani.
Ma non è una costituzione immobile che abbia fissato un punto fermo, è una costituzione che apre le vie verso l’avvenire. Non voglio dire rivoluzionaria, perché per rivoluzione nel linguaggio comune s’intende qualche cosa che sovverte violentemente, ma è una costituzione rinnovatrice, progressiva, che mira alla trasformazione di questa società in cui può accadere che, anche quando ci sono, le libertà giuridiche e politiche siano rese inutili dalle disuguaglianze economiche e dalla impossibilità per molti cittadini di essere persone e di accorgersi che dentro di loro c’è una fiamma spirituale che, se fosse sviluppata in un regime di perequazione economica, potrebbe anch’essa contribuire al progresso della società.
Quindi, polemica contro il presente in cui viviamo e impegno di fare quanto è in noi per trasfor-mare questa situazione presente.
Però, vedete, la costituzione non è una macchina che una volta messa in moto va avanti da sé. La costituzione è un pezzo di carta: la lascio cadere e non si muove. Perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile, bisogna metterci dentro l’impegno, lo spirito, la volontà di mantenere queste promesse, la propria responsabilità. Per questo una delle offese che si fanno alla costituzione è l’indifferenza alla politica, l’indifferentismo politico che è – non qui, per fortuna, in questo uditorio, ma spesso in larghe categorie di giovani – una malattia dei giovani.
«La politica è una brutta cosa», «che me ne importa della politica»: quando sento fare questo discorso, mi viene sempre in mente quella vecchia storiellina, che qualcheduno di voi conoscerà, di quei due emigranti, due contadini, che traversavano l’oceano su un piroscafo traballante. Uno di questi contadini dormiva nella stiva e l’altro stava sul ponte e si accorgeva che c’era una gran burrasca con delle onde altissime e il piroscafo oscillava. E allora questo contadino impaurito domanda a un marinaio: «Ma siamo in pericolo?», e questo dice: «Se continua questo mare, il bastimento tra mezz’ora affonda». Allora lui corre nella stiva a svegliare il compagno e dice: «Beppe, Beppe, Beppe, se continua questo mare, tra mezz’ora il bastimento affonda!». Quello dice: «Che me ne importa, non è mica mio!». Questo è l’indifferentismo alla politica.
È così bello, è così comodo: la libertà c’è. Si vive in regime di libertà, c’è altre cose da fare che interessarsi di politica. E lo so anch’io! Il mondo è così bello, ci sono tante belle cose da vedere, da godere, oltre che occuparsi di politica. La politica non è una piacevole cosa. Però la libertà è come l’aria: ci si accorge di quanto vale quando comincia a mancare, quando si sente quel senso di asfissia che gli uomini della mia generazione hanno sentito per vent’anni, e che io auguro a voi, giovani, di non sentire mai, e vi auguro di non trovarvi mai a sentire questo senso di angoscia, in quanto vi auguro di riuscire a creare voi le condizioni perché questo senso di angoscia non lo dobbiate provare mai, ricordandovi ogni giorno che sulla libertà bisogna vigilare, dando il proprio contributo alla vita politica.
La costituzione, vedete, è l’affermazione scritta in questi articoli, che dal punto di vista letterario non sono belli, ma è l’affermazione solenne della solidarietà sociale, della solidarietà umana, della sorte comune, che se va a fondo, va a fondo per tutti questo bastimento. È la carta della propria libertà, la carta per ciascuno di noi della propria dignità d’uomo.
Io mi ricordo le prime elezioni dopo la caduta del fascismo, il 2 giugno 1946: questo popolo che da 25 anni non aveva goduto le libertà civili e politiche, la prima volta che andò a votare dopo un periodo di orrori – il caos, la guerra civile, le lotte, le guerre, gli incendi. Ricordo – io ero a Firenze, lo stesso è capitato qui – queste file di gente disciplinata davanti alle sezioni, disciplinata e lieta perché avevano la sensazione di aver ritrovato la propria dignità, questo dare il voto, questo portare la propria opinione per contribuire a creare questa opinione della comunità, questo essere padroni di noi, del proprio paese, del nostro paese, della nostra patria, della nostra terra, disporre noi delle nostre sorti, delle sorti del nostro paese.
Quindi, voi giovani alla costituzione dovete dare il vostro spirito, la vostra gioventù, farla vivere, sentirla come cosa vostra, metterci dentro il senso civico, la coscienza civica, rendersi conto – questa è una delle gioie della vita – rendersi conto che ognuno di noi nel mondo non è solo, che siamo in più, che siamo parte di un tutto, nei limiti dell’Italia e nel mondo.
Ora, vedete – io ho poco altro da dirvi –, in questa costituzione […] c’è dentro tutta la nostra storia, tutto il nostro passato. Tutti i nostri dolori, le nostre sciagure, le nostre glorie son tutti sfociati in questi articoli. E a sapere intendere, dietro questi articoli ci si sentono delle voci lontane.
Quando io leggo, nell’articolo 2, «l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale», o quando leggo, nell’articolo 11, «l’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli», la patria italiana in mezzo alle altre patrie, dico: ma questo è Mazzini, questa è la voce di Mazzini; o quando io leggo, nell’articolo 8, «tutte le confessioni religiose sono ugualmente libere davanti alla legge», ma questo è Cavour; o quando io leggo, nell’articolo 5, «la Repubblica una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali», ma questo è Cattaneo; o quando, nell’articolo 52, io leggo, a proposito delle forze armate, «l’ordinamento delle forze armate si informa allo spirito democratico della Repubblica», esercito di popolo, ma questo è Garibaldi; e quando leggo, all’articolo 27, «non è ammessa la pena di morte», ma questo, o studenti milanesi, è Beccaria. Grandi voci lontane, grandi nomi lontani.
Ma ci sono anche umili nomi, voci recenti. Quanto sangue e quanto dolore per arrivare a questa costituzione! Dietro a ogni articolo di questa costituzione, o giovani, voi dovete vedere giovani come voi, caduti combattendo, fucilati, impiccati, torturati, morti di fame nei campi di concentramento, morti in Russia, morti in Africa, morti per le strade di Milano, per le strade di Firenze, che hanno dato la vita perché la libertà e la giustizia potessero essere scritte su questa carta.
Quindi, quando vi ho detto che questa è una carta morta, no, non è una carta morta, questo è un testamento, un testamento di centomila morti.
Se voi volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra costituzione, andate nelle montagne dove caddero i partigiani, nelle carceri dove furono imprigionati, nei campi dove furono impiccati. Dovunque è morto un italiano per riscattare la libertà e la dignità, andate lì, o giovani, col pensiero perché lì è nata la nostra costituzione.
Piero Calamandrei
Milano, 26 gennaio 1955
Inserito il 31/03/2023.
di Danilo Elia
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Stepan Bandera, l’eroe criminale che divide l’Ucraina
A est li chiamano banderovtsy, seguaci di Stepan Bandera, e li considerano una specie di neonazisti in versione ucraina. A ovest sono patrioti che tengono viva la memoria di un partigiano ed eroe nazionale. Un uomo morto oltre cinquant’anni anni fa divide oggi gli ucraini
Quando Stepan Bandera fu trovato senza vita a Monaco di Baviera nel 1959, nessuno pensò a una morte naturale. Il Mossad e il Kgb avevano ottimi motivi per eliminarlo, ma anche la Cia e l’MI6 avrebbero avuto le loro buone ragioni. Non dovrebbe stupire che un uomo con così tanti nemici sia oggi – a oltre cinquant’anni dalla sua morte e settanta dalle sua attività politica e militare – al centro di un’aspra battaglia ideologica in Ucraina.
“Quelli di Kiev? Una massa di banderovtsy”. Questa parola riecheggia come un mantra dal palco in piazza Lenin a Donetsk. È pronunciata con disprezzo, come la peggiore delle offese. Le bandiere che sventolano sono rosse con falce e martello, oppure riproducono il tricolore russo con l’aquila bicipite. Si gridano parole contro la Maidan di Kiev.
I banderovtsy, per chi abita a est, sono un po’ tutti gli ucraini da Kiev in qua, fino ai Carpazi. Che si tratti di veri seguaci di Bandera o meno, chiunque non ne rinnega il nome e la memoria è un banderovets, un nazista, un violento. Patriota della Seconda guerra mondiale e criminale di guerra, partigiano, filonazista, eroe nazionale e sterminatore di polacchi ed ebrei, Bandera è tutto questo allo stesso tempo. La figura più controversa della storia recente dell’Ucraina, taglia il paese in due: dove gli sono intitolate vie e piazze e dove il suo nome è associato a quello di Hitler. Non esiste una via di mezzo. “Non vogliamo essere governati da quei banderovtsy”, mi ha detto Marija, mentre dal palco suonava una marcia russa. “È stato un golpe. A Kiev c’è una giunta fascista, per loro un criminale nazista come Bandera è un eroe. L’Urss, la Russia ha sempre combattuto il nazifascismo. Come possiamo andare d’accordo?”.
Un personaggio controverso
Durante la Seconda guerra mondiale, alla guida del movimento nazionalista ucraino Oun, Bandera fondò l’esercito partigiano Upa, che combatté prima contro i polacchi, poi contro l’Armata rossa al fianco dei nazisti, e poi contro gli stessi tedeschi. Polacchi e sovietici rappresentavano la minaccia principale al nazionalismo ucraino, e l’avanzata nazista fu vista con opportunismo come un’occasione per sconfiggerli. Quando poi l’occupazione tedesca si mostrò un ostacolo per la creazione dell’Ucraina indipendente cui mirava l’Oun, Bandera non ci pensò due volte e organizzò una rivolta. Fu arrestato e richiuso nel campo di concentramento di Sachsenhausen. Quando l’Armata rossa cominciò la riconquista dell’Ucraina, fu liberato e usato per animare la resistenza antisovietica. I tedeschi rappresentavano pur sempre il male minore rispetto ai sovietici.
Gli uomini di Bandera, in nome del nazionalismo ucraino, hanno portato avanti una pianificata pulizia etnica in Galizia e Volynia uccidendo, secondo le stime più prudenti, 60mila polacchi. Durante l’alleanza con i nazisti hanno certamente contribuito, almeno indirettamente, allo sterminio della popolazione ebraica di quelle regioni, anche se non c’è accordo tra gli storici circa una loro attiva partecipazione al massacro degli ebrei. L’Oun non era un’organizzazione antisemita, eppure Bandera non esitò a disporre lo sterminio degli ebrei insieme a polacchi e russi, ma anche ad accoglierli nella propria organizzazione e a proteggerli dai tedeschi quando questo faceva comodo alla causa nazionale. Bandera e i suoi hanno combattuto una guerra partigiana, cinica e spietata, non preoccupandosi di eliminare chiunque costituisse un ostacolo al predominio degli ucraini a ovest del Dnipro.
L’accusa più comunemente rivolta dagli ucraini del sud e dell’est – diciamo, dai russi d’Ucraina, russofoni e russofili, e comunque anti-Maidan – a chi ha preso parte o anche solo appoggiato le manifestazioni che hanno portato alla caduta di Janukovič è quella di celebrare un collaborazionista della Wehrmacht come fosse un eroe. Chiamare poi il governo di Kiev “giunta fascista”, è un’equazione facile che piace tanto anche ai mezzi d’informazione russi.
D’altro canto, le occasioni sono state offerte in quantità. Una gigantografia di Bandera ha accompagnato tutti i giorni di Euromaidan, osservando dal palco di piazza Indipendenza gli scontri che hanno infiammato la città. La bandiera rossonera dell’Upa sventolava sulle barricate stagliandosi contro il fumo nero degli pneumatici. E il saluto che era stato dei partigiani – Gloria all’Ucraina, gloria agli eroi – è diventato il motto patriottico di quegli ucraini che raggruppiamo sotto l’etichetta semplicistica di “filoeuropei”, dal Pravy Sektor agli studenti di Leopoli, ai militari impegnati nell’operazione di riconquista dell’est.
I conti con la storia
Bandera è un brand. A Ternopil’, Ivano-Frankivsk, Leopoli ma anche a Kiev è sulle magliette, sulle bandierine per le auto, sulle tazze per il tè, sulle spille. Si può dire che chi le indossa è un neonazista antisemita? “Non abbiamo ancora fatto i conti per bene con la nostra storia recente”. Aleksandr vuole essere chiamato Alessandro. È uno dei “bambini di Černobyl”. Ha trascorso molte estati sul litorale romano e parla italiano come se fosse sempre vissuto a Ostia, anche se oggi abita a Kiev e in Italia non ci viene più. “Che vuoi, con l’isolamento sovietico la storia era solo quella dei libri scritti a Mosca. E poi dopo è stato un po’ un fai da te. Ognuno ha ripescato eventi e personaggi che facevano comodo, senza passare per una seria analisi storica. Certo, ora sarebbe il caso di farlo, ma questo non vuol dire che tutti quelli che ricordano Bandera come un eroe nazionale siano razzisti e antisemiti”.
Dopo l’indipendenza le due Ucraine etnico-linguistiche si sono distinte anche nella toponomastica. C’è stata un’Ucraina rimasta fedele a un’identità legata al passato sovietico, dove le strade e le piazze sono ancora intitolate alla Rivoluzione d’Ottobre e agli eroi dell’Urss, e dove i monumenti di Lenin avevano sempre fiori freschi ai loro piedi. E c’è stata un’Ucraina che ha cercato di ricostruirsela un’identità nazionale, aggrappandosi a frammenti di un passato un po’ sepolto, dove le statue del poeta Taras Ševčenko hanno scalzato quelle di Lenin dai piedistalli, e la toponomastica si è riempita di personaggi riemersi da una storia in parte ancora da scrivere, dal re Danylo Halytskiy a Bogdan Khmelnytskyi. E in mezzo c’è finto pure Bandera.
Leopoli è la città in cui più è celebrata la sua immagine. Nel punto in cui la via che porta il suo nome incrocia il viale Eroi dell’Upa, una sua statua di bronzo sta in piedi, fiera, sotto il tridente ucraino. E la sua casa natale, nel vicino villaggio di Stryi, è diventata un museo.
Masha è di Leopoli ma è stata nella Maidan di Kiev. Ha fatto la sua parte distribuendo tè e sandwich a chi combatteva, a chi presidiava le barricate. Lei è ucraina che parla ucraino, non ha mai potuto soffrire chi ha governato fino a ieri e non vuole vedere il suo paese nelle braccia della Russia. “Ma non posso votare per chi si rifà a un passato razzista. Non posso stare con chi dice che Bandera era un eroe, anche se oggi combatte per una giusta causa. Secondo me bisognerebbe dirlo chiaramente. In fondo, che bisogno c’è di tirare in ballo Bandera oggi per combattere i politici corrotti e chiedere una democrazia moderna?”.
Nel 2010, il presidente “arancione” Viktor Juščenko conferì la medaglia di eroe dell’Ucraina alla memoria di Bandera, ma il decreto – da subito molto contestato da diverse parti politiche e dichiarato illegale dal tribunale di Donetsk – fu poi annullato dal suo successore, Janukovič. Anche la sua morte è motivo di divisione. L’autopsia sul suo corpo concluse che era stata causata da cianuro. Tre anni dopo, il tribunale di Karlsruhe stabilì che a ucciderlo era stato il Kgb, su ordine diretto di Kruščëv. Per alcuni un assassinio, per altri la giusta fine di un criminale.
Danilo Elia
(Articolo del 08/07/2014, tratto da:
Inserito il 12/03/2023.
di Luigi De Biase
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Stepan Bandera, l’uso improprio di una «reliquia» filonazista
Da mito dell’estrema destra a icona ufficiale delle istituzioni e del nazionalismo ucraino
Ci diamo appuntamento di fronte all’ingresso di un fast food americano poco lontano da metro Pochaina, sul viale che prima si chiamava “Mosca”, ma da sette anni a questa parte porta il nome di Stepan Bandera. In poche parole in questo angolo di Kiev c’è buona parte di quel che l’Ucraina ha vissuto negli ultimi tempi: l’economia globalizzata con il tempio delle patatine fritte, un eroe fascista riabilitato e canonizzato e qualche blocco di cemento sistemato ai bordi della strada. Dopotutto siamo su una via di accesso alla città e il confine con la Bielorussia sarà a un paio d’ore d’auto.
SUL PUNTO MIKHAILO, quarant’anni e una carriera bene avviata in campo accademico prima di prendere le armi per difendere la patria, ha certezze notevoli: «I russi non vinceranno mai perché noi non ci arrenderemo mai», dice masticando un panino al pollo. Per quanto riguarda Bandera, ritiene singolare il fatto che il suo nome in tutte le lingue romanze somigli così tanto al termine «bandiera». «Per noi ucraini è esattamente quello. È un simbolo di unità nazionale, è il simbolo che ci guiderà alla vittoria. Che cosa c’è di strano?».
C’è di strano che Bandera fuori da questo paese significa ben altro. Per i polacchi è l’uomo che negli anni Trenta organizzò l’assassinio di un ministro degli Esteri e l’eccidio di migliaia di civili nella regione dei Carpazi. Per Israele è il criminale di guerra che ha compiuto per conto delle SS stragi spaventose sul fronte orientale.
COME PUÒ L’UCRAINA appellarsi ai valori europei corteggiando un genocida? È possibile tenere insieme la lotta per la libertà e un’idea intollerante della nazione? E ancora: perché mettere in pericolo i rapporti con governi amici in nome di una reliquia filonazista?
Eppure i segni di questa tendenza sono numerosi. Il Primo gennaio decine di migliaia hanno celebrato l’anniversario della nascita di Stepan Bandera, in particolare a Leopoli, la città in cui si trova un grande monumento con le sue fattezze. Lo stesso giorno il comandante delle forze armate, Valery Zaluzhny, si è fatto fotografare accanto a un ritratto di Bandera, e la Rada, ovvero il Parlamento ucraino, ha pubblicato l’immagine sui suoi canali ufficiali. Ma il caso più significativo è con ogni probabilità quello di un diplomatico di nome Andryi Melnyk. A giugno, quando era ambasciatore a Berlino, Melnyk è finito al centro di enormi polemiche per avere negato, ospite del popolarissimo canale YouTube del giornalista tedesco Tilo Jung, le responsabilità di Bandera nella Seconda guerra mondiale. «Non era un assassino di ebrei e polacchi», ha detto a voce alta, «non esiste alcuna prova che i suoi uomini abbiano ucciso centinaia di migliaia di ebrei. Zero prove. È una narrazione avanzata dalla Russia e sostenuta da Germania, Polonia e Israele». Le proteste del governo tedesco hanno spinto il presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, a rimuovere in anticipo Melnyk. Ma una volta ritornato a Kiev lo hanno promosso viceministro. Negli ambienti diplomatici questa decisione ha sollevato non poche perplessità.
Sarebbe sbagliato pensare che le cose siano sempre andate in questo modo. Per decenni il culto di Bandera è stato una prerogativa degli ambienti minoritari dell’estrema destra. Oggi sembra entrato definitivamente nelle cerimonie pubbliche. Forse si tratta di un risposta alle deliranti ragioni con cui i russi, a partire dal capo del Cremlino, Vladimir Putin, hanno giustificato la decisione di invadere il paese. Come dire: un anno fa eravate sicuri che avreste «denazificato» l’Ucraina, ma siamo qui, sempre a Kiev, e decideremo da soli il nostro futuro. Alle critiche su Bandera da Kiev rispondono sovente citando le origini ebraiche di Zelensky e del premier ucraino, Denis Shmyhal, oppure le storie, e sono numerose, di soldati e volontari ebrei che combattono fianco a fianco con i battaglioni nazionalisti. Esiste, però, l’impressione che possa farsi largo una dottrina radicale, ripulita almeno in apparenza delle istanze antisemite. Il che, è chiaro a tutti, difficilmente basterebbe a renderla rassicurante.
DI QUESTO ho discusso con un diplomatico europeo che si trova a Kiev da pochi mesi, ma ha già opinioni precise sul paese. Il suo punto di vista è il seguente. L’Ucraina negli ultimi cent’anni non ha potuto contare per ovvie ragioni su pensatori come Altiero Spinelli o Robert Schuman. Sfortunatamente non ha prodotto neanche un Havel o un Walesa. In questa guerra deve fare con quel che ha, dal punto di vista umano, militare e anche per così dire ideologico. Ecco, per adesso l’Ucraina ha trovato Bandera.
Luigi De Biase
(Articolo del 10/01/2023 tatto da:
https://ilmanifesto.it/stepan-bandera-la-lunga-vita-di-una-reliquia-filonazista).
Inserito il 12/03/2023.
Carlo Rosselli.
Fonte della foto: https://rosselli.org/wp-content/uploads/2012/07/Carlo-Rosselli-come-a-Spazio.jpg
Carlo Rosselli, assassinato dai fascisti nel 1937 in Francia insieme al fratello Nello, nel 1936 aveva attivamente partecipato alla Guerra civile di Spagna nelle Brigate Internazionali in appoggio alla Repubblica contro le forze fasciste del generale Francisco Franco. Di quello stesso anno è l’appello che dalla radio della Catalogna rivolse ai cittadini italiani perché sostenessero le forze antifasciste ovunque fossero impegnate nel mondo.
Riportiamo tale appello in queste pagine per onorare la memoria di questo grande esponente del movimento antifascista e internazionalista.
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«Oggi in Spagna, domani in Italia»
Discorso pronunciato alla radio di Barcellona il 13 novembre 1936
Compagni, fratelli, italiani, ascoltate!
Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per portarvi il saluto delle migliaia di antifascisti italiani esuli che si battono nelle file dell’armata rivoluzionaria.
Una colonna italiana combatte da tre mesi sul fronte di Aragona. Undici morti, venti feriti, la stima dei compagni spagnuoli: ecco la testimonianza del suo sacrificio.
Una seconda colonna italiana, formatasi in questi giorni, difende eroicamente Madrid. In tutti i reparti si trovano volontari italiani, uomini che, avendo perduto la libertà nella propria terra, cominciano col riconquistarla in Ispagna, fucile alla mano.
Giornalmente arrivano volontari italiani: dalla Francia, dal Belgio, dalla Svizzera, dalle lontane Americhe.
Dovunque sono comunità italiane, si formano comitati per la Spagna proletaria. Anche dall’Italia oppressa partono volontari.
Nelle nostre file contiamo a decine i compagni che, a prezzo di mille pericoli, hanno varcato clandestinamente la frontiera. Accanto ai veterani dell’antifascismo lottano i giovanissimi che hanno abbandonato l’università, la fabbrica e perfino la caserma. Hanno disertato la guerra borghese per partecipare alla guerra rivoluzionaria.
Ascoltate, italiani! È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona. Un secolo fa, l’Italia schiava taceva e fremeva sotto il tallone dell’Austria, del Borbone, dei Savoia, dei preti. Ogni sforzo di liberazione veniva spietatamente represso. Coloro che non erano in prigione, venivano costretti all’esilio. Ma in esilio non rinunciarono alla lotta. Santarosa in Grecia, Garibaldi in America, Mazzini in Inghilterra, Pisacane in Francia, insieme a tanti altri, non potendo più lottare nel paese, lottarono per la libertà degli altri popoli, dimostrando al mondo che gli italiani erano degni di vivere liberi. Da quei sacrifici, da quegli esempi uscì consacrata la causa italiana. Gli italiani riacquistarono fiducia nelle loro forze.
Oggi una nuova tirannia, assai più feroce ed umiliante dell’antica, ci opprime. Non è più lo straniero che domina. Siamo noi che ci siamo lasciati mettere il piede sul collo da una minoranza faziosa, che utilizzando tutte le forze del privilegio tiene in ceppi la classe lavoratrice ed il pensiero italiani.
Ogni sforzo sembra vano contro la massiccia armata dittatoriale. Ma noi non perdiamo la fede. Sappiamo che le dittature passano e che i popoli restano. La Spagna ce ne fornisce la palpitante riprova. Nessuno parla più di de Rivera. Nessuna parlerà più domani di Mussolini. È come nel Risorgimento, nell’epoca più buia, quando quasi nessuno osava sperare, dall’estero vennero l’esempio e l’incitamento, cosi oggi noi siamo convinti che da questo sforzo modesto, ma virile, dei volontari italiani, troverà alimento domani una possente volontà di riscatto.
È con questa speranza segreta che siamo accorsi in Ispagna. Oggi qui, domani in Italia.
Fratelli, compagni italiani, ascoltate! È un volontario italiano che vi parla dalla Radio di Barcellona.
Non prestate fede alle notizie bugiarde della stampa fascista, che dipinge i rivoluzionari spagnuoli come orde di pazzi sanguinari alla vigilia della sconfitta.
La rivoluzione in Ispagna è trionfante. Penetra ogni giorno di più nel profondo della vita del popolo rinnovando istituti, raddrizzando secolari ingiustizie. Madrid non è caduta e non cadrà. Quando pareva in procinto di soccombere, una meravigliosa riscossa di popolo arginava l’invasione ed iniziava la controffensiva. Il motto della milizia rivoluzionaria che fino ad ora era “No pasaran” è diventato “Pasaremos”, cioè non i fascisti, ma noi, i rivoluzionari, passeremo.
La Catalogna, Valencia, tutto il litorale mediterraneo, Bilbao e cento altre città, la zona più ricca, più evoluta e industriosa di Spagna sta solidamente in mano alle forze rivoluzionarie.
Un ordine nuovo è nato, basato sulla libertà e la giustizia sociale. Nelle officine non comanda più il padrone, ma la collettività, attraverso consigli di fabbrica e sindacati. Sui campi non trovate più il salariato costretto ad un estenuante lavoro nell’interesse altrui. Il contadino è padrone della terra che lavora, sotto il controllo dei municipii. Negli uffici, gli impiegati, i tecnici, non obbediscono più a una gerarchia di figli di papà, ma ad una nuova gerarchia fondata sulla capacità e la libera scelta. Obbediscono, o meglio collaborano, perché‚ nella Spagna rivoluzionaria, e soprattutto nella Catalogna libertaria, le più audaci conquiste sociali si fanno rispettando la personalità dell’uomo e l’autonomia dei gruppi umani.
Comunismo, sì, ma libertario. Socializzazione delle grandi industrie e del grande commercio, ma non statolatria: la socializzazione dei mezzi di produzione e di scambio è concepita come mezzo per liberare l’uomo da tutte le schiavitù.
L’esperienza in corso in Ispagna è di straordinario interesse per tutti. Qui, non dittatura, non economia da caserma, non rinnegamento dei valori culturali dell’Occidente, ma conciliazione delle più ardite riforme sociali con la libertà. Non un solo partito che, pretendendosi infallibile, sequestra la rivoluzione su un programma concreto e realista: anarchici, comunisti, socialisti, repubblicani collaborano alla direzione della cosa pubblica, al fronte, nella vita sociale. Quale insegnamento per noi italiani!
Fratelli, compagni italiani, ascoltate! Un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona per recarvi il saluto dei volontari italiani. Sull’altra sponda del Mediterraneo un mondo nuovo sta nascendo. È la riscossa antifascista che si inizia in Occidente. Dalla Spagna guadagnerà l’Europa. Arriverà innanzi tutto in Italia, cosi vicina alla Spagna per lingua, tradizioni, clima, costumi e tiranni. Arriverà perché la storia non si ferma, il progresso continua, le dittature sono delle parentesi nella vita dei popoli, quasi una sferza per imporre loro, dopo un periodo d’inerzia e di abbandono, di riprendere in in mano il loro destino.
Fratelli italiani che vivete nella prigione fascista, io vorrei che voi poteste, per un attimo almeno, tuffarvi nell’atmosfera inebriante in cui vive da mesi, nonostante tutte le difficoltà, questo popolo meraviglioso. Vorrei che poteste andare nelle officine per vedere con quale entusiasmo si produce per i compagni combattenti; vorrei che poteste percorrere le campagne e leggere sul viso dei contadini la fierezza di questa dignità nuova e soprattutto percorrere il fronte e parlare con i militi volontari. Il fascismo, non potendosi fidare dei soldati che passano in blocco alle nostre file, deve ricorrere ai mercenari di tutti i colori. Invece, le caserme proletarie brulicano di una folla di giovani reclamanti le armi. Vale più un mese di questa vita, spesa per degli ideali umani, che dieci anni di vegetazione e di falsi miraggi imperiali nell’Italia mussoliniana.
E neppure crederete alla stampa fascista che dipinge la Catalogna, in maggioranza sindacalista anarchica, in preda al terrore e al disordine. L’anarchismo catalano è un socialismo costruttivo sensibile ai problemi di libertà e di cultura. Ogni giorno esso fornisce prove delle sue qualità realistiche. Le riforme vengono compiute con metodo, senza seguire schemi preconcetti e tenendo sempre in conto l’esperienza.
La migliore prova ci è data da Barcellona dove, nonostante le difficoltà della guerra, la vita continua a svolgersi regolarmente e i servizi pubblici funzionano come e meglio di prima.
Italiani che ascoltate la radio di Barcellona, attenzione! I volontari italiani combattenti in Ispagna, nell’interesse, per l’ideale di un popolo intero che lotta per la sua libertà, vi chiedono di impedire che il fascismo prosegua nella sua opera criminale a favore di Franco e dei generali faziosi. Tutti i giorni aeroplani forniti dal fascismo italiano e guidati da aviatori mercenari che disonorano il nostro paese, lanciano bombe contro città inermi, straziando donne e bambini. Tutti i giorni, proiettili italiani costruiti con mani italiane, trasportati da navi italiane, lanciati da cannoni italiani cadono nelle trincee dei lavoratori.
Franco avrebbe già da tempo fallito, se non fosse stato per il possente aiuto fascista. Quale vergogna per gli italiani sapere che il proprio governo, il governo di un popolo che fu un tempo all’avanguardia delle lotte per la libertà, tenta di assassinare la libertà del popolo spagnolo.
Che l’Italia proletaria si risvegli. Che la vergogna cessi. Dalle fabbriche, dai porti italiani non debbono più partire le armi omicide. Dove non sia possibile il boicottaggio aperto, si ricorra al boicottaggio segreto. Il popolo italiano non deve diventare il poliziotto d’Europa.
Fratelli, compagni italiani, un volontario italiano vi parla dalla Radio di Barcellona, in nome di migliaia di combattenti italiani.
Qui si combatte, si muore, ma anche si vince per la libertà e l’emancipazione di tutti i popoli. Aiutate, italiani, la rivoluzione spagnuola. Impedite al fascismo di appoggiare i generali faziosi e fascisti. Raccogliete denari. E se per persecuzioni ripetute o per difficoltà insormontabili, non potete nel vostro centro combattere efficacemente la dittatura, accorrete a rinforzare le colonne dei volontari italiani in Ispagna.
Quanto più presto vincerà la Spagna proletaria, e tanto più presto sorgerà per il popolo italiano il tempo della riscossa.
Carlo Rosselli
Breve nota biografica
I fratelli Carlo e Nello Rosselli nacquero a Roma rispettivamente nel 1899 e nel 1900 da una famiglia della borghesia benestante e illuminista.
Carlo, ufficiale degli alpini, ferito al fronte del primo conflitto mondiale, professore universitario; Nello, allievo a Firenze di Gaetano Salvemini, storico e docente universitario. Il primo orientato verso idee socialiste, il secondo simpatizzante liberale, vicino a Giovanni Amendola. Entrambi antifascisti attivi, subiscono numerosi arresti, aggressioni, devastazioni dell’abitazione fiorentina, ammonizioni di polizia.
Carlo, nel 1926, fonda e dirige il settimanale di ispirazione socialista “Quarto Stato”; arrestato nuovamente è assegnato al confino nell'isola di Ustica – assieme al fratello Nello – e successivamente a Lipari.
Nel 1929, unitamente a Fausto Nitti ed Emilio Lussu, Carlo fugge da Lipari e, via mare, si rifugia in Francia. Fondatore e dirigente del movimento “Giustizia e Libertà”, nel 1936 accorre in Spagna, combatte nelle Brigate Internazionali, resta ferito a Monte Pelato. Nel frattempo Nello è di nuovo arrestato e confinato a Ponza; qualche tempo dopo riesce ad espatriare raggiungendo in Francia il fratello Carlo rientrato dalla Spagna per curarsi a Bagnoles-de-l’Orne.
Nei pressi della cittadina francese, i due fratelli cadono nell’agguato teso loro da alcuni sicari del gruppo filofascista La Cagoule e sono massacrati a colpi di arma da fuoco e coltellate; mandanti del duplice omicidio, Mussolini, suo genero Galeazzo Ciano e alcuni ufficiali del SIM (Servizio informazioni militari), come ha provato l’istruttoria giudiziaria condotta a Roma nel 1944-’45.
(Tratto dal sito dell'ANPI).
Inserito il 18/02/2023.
Dal sito dell'ANPI, una sommaria ricostruzione delle vicende che portarono l’Armata Rossa alla liberazione della città sul Volga dalla morsa nazifascista, determinando la svolta decisiva per le sorti del conflitto mondiale.
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Il 19 novembre 1942, le sorti della guerra, fino a quel momento favorevoli alle forze dell’Asse, subiscono una svolta decisiva: l’inizio della controffensiva sovietica, a Stalingrado, dove sovietici e nazifascisti si affrontano dall’estate precedente, porterà, il 2 febbraio 1943, alla vittoria dei primi e alla resa totale dei secondi, che da quel momento cominceranno la tragica ritirata da est. Contemporaneamente, inizia l’avanzata sovietica verso ovest, che si concluderà nell’aprile 1945 a Berlino.
La battaglia di Stalingrado, combattuta strada per strada, con centinaia di migliaia di vittime militari e civili, rappresenta uno degli eventi principali del secondo conflitto mondiale, nonché una delle ragioni principali della sconfitta degli eserciti dell’Asse.
La 52^ armata sovietica, che difende eroicamente Stalingrado, il 23 agosto 1942 – il giorno in cui la guerra arriva davvero in città, con un massiccio bombardamento dell’aviazione tedesca – è isolata dal grosso delle forze sovietiche.
La preparazione della controffensiva sovietica del 19 novembre richiede un trasferimento colossale di uomini e di mezzi, che avviene in pochissimi giorni.
Sul fronte dell’Asse (tedeschi, italiani, rumeni e ungheresi), scatta, nel dicembre 1942, l’Operazione Tempesta Invernale, che rappresenta il tentativo di rompere l’accerchiamento a Stalingrado.
Alla fine del novembre 1942 Hitler ha richiamato dal settore di Leningrado il feldmaresciallo Erich von Manstein, affidandogli il comando del gruppo delle armate del Don. Il suo compito è quello di aprirsi una via da sud-ovest e soccorrere la sesta armata, chiusa nella morsa dell’Armata Rossa, in una sacca tra i fiumi Don e Volga. Il 24 novembre il führer ribadisce che la città non va assolutamente abbandonata: la sesta armata deve prendere Stalingrado ad ogni costo e von Manstein deve aprirsi combattendo una via per raggiungere la città.
Il tentativo inizialmente ha successo e porta la quarta armata corazzata del generale Hermann Hoth a poche miglia dalla città. Le truppe assediate osservano di notte i segnali luminosi che vengono inviati loro: una sortita dalla sacca ha, in quel momento, buone probabilità di riuscita. Tuttavia, Hitler rifiuta di nuovo la proposta dei suoi generali, e le truppe del Reich finiscono in poco tempo nel trovarsi circondate e prive di rifornimenti. L’Armata Rossa attacca a nord minacciando il fianco destro dell’intero gruppo di armate del Don; Hoth è costretto a sospendere l’avanzata, a inviare una delle sue tre divisioni corazzate al fronte nord e a difendersi con le rimanenti forze.
Il tentativo di conquistare Stalingrado è dunque fallito. Il 16 dicembre 1942 è scattata l’operazione sovietica Piccolo Saturno, una grande offensiva destinata a far crollare le truppe dell’Asse dal fronte del Don a Stalingrado. Qui, la sesta armata è ormai abbandonata a se stessa, nonostante le promesse di Göring e Hitler di rifornirla per via aerea.
Il feldmaresciallo Friedrich Paulus, comandante dell’armata tedesca, è costretto dai comandi superiori a rifiutare qualsiasi proposta di resa presentatagli dai sovietici. Le truppe, sconfortate, soffrono la fame e il freddo, e ormai non hanno più mezzi per difendersi.
La mattina del 10 gennaio ha inizio l’Operazione Anello, mentre, sul Don, ungheresi e italiani sono ormai in rotta. È la battaglia finale, che si combatte tra le rovine della città, e perlopiù senza fare prigionieri.
Paulus e il suo stato maggiore si arrendono il 31 gennaio; alcuni reparti combattono fino al 2 febbraio. La battaglia di Stalingrado, tra le più importanti della guerra e probabilmente quella decisiva per il fronte europeo, si conclude con la vittoria totale dei sovietici.
(Articolo tratto dal sito https://www.anpi.it/libri/la-battaglia-di-stalingrado).
Inserito il 02/02/2023, 80° anniversario della vittoria di Stalingrado.
Soldati sovietici in movimento tra le rovine di Stalingrado.
Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/Battaglia_di_Stalingrado#/media/File:62._armata_a_Stalingrado.jpg
Joyce Lussu. Fonte: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Joyce_Lussu.jpg#/media/File:Joyce_Lussu.jpg
Joyce Lussu (1912-1998) fu partigiana, scrittrice, poetessa e traduttrice. Il suo vero nome era Gioconda Beatrice Salvadori Paleotti, ma prese poi il cognome dal secondo marito, Emilio Lussu, scrittore e politico, fondatore del Partito Sardo d’Azione e del movimento Giustizia e Libertà.
Nel brano che pubblichiamo c’è il ricordo di un episodio della vita di Luciana Castellina legato alla scrittrice.
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Relazione al convegno Il lungo viaggio di Joyce Lussu svoltosi presso la Biblioteca del Senato della Repubblica “Giovanni Spadolini”*
Sebbene io non sia più giovanissima, sono più giovane di Joyce di una decina d’anni – mica tanto – voglio dire, abbastanza per non averla conosciuta, se non in tarda età e in modo abbastanza casuale. Per la verità io sapevo di Emilio Lussu perché il libro Un anno sull’Altipiano e il più bel libro che io abbia mai letto e che sia stato mai scritto sulla guerra e dovrebbe essere reso obbligatorio in tutte le scuole della nostra Repubblica e anche di altri paesi. (Cosi almeno si eviterebbe lo scandalo del Parlamento Europeo che proprio in questi giorni ha votato una mozione così ignorante sul totalitarismo).
Io ero del Partito Comunista, Joyce era in quello Socialista, ma lo era in un modo un po’ particolare. Io allora lavoravo all’UDI (Unione Donne Italiane) e anche lei collaborava con questa organizzazione. E così ci siamo conosciute lì, dove questa distinzione di partito contava poco.
Vi racconto solo un episodio della vita di Joyce che è quello che mi ha dato l’occasione di conoscerla meglio. Per me è stato un episodio molto importante – di cui ho anche scritto in un libro Amori comunisti – che mi ha molto scosso. Una vicenda umana particolare, come tante altre di cui Joyce ha condiviso le emozioni, come ha sempre fatto con le sue tante amicizie. I legami umani hanno avuto per Joyce sempre molta importanza.
All’inizio degli anni Sessanta, anzi fine degli anni Cinquanta per la verità, facevo la giornalista; però, diciamo la verità, facevo la giornalista ma, come molti altri giornalisti, facevamo una cosa che adesso a dirla ci mettono subito in prigione, e cioè ero “agente segreto” della sezione esteri del Partito Comunista Italiano. Vale a dire che, quando andavamo in giro, siccome andavamo in giro molto spesso in paesi dove la democrazia non era eccellente e dove quindi c’erano molte cose da trovare che non erano legittime (l’attività politica delle organizzazioni di sinistra obbligate alla clandestinità), bisognava darsi da fare per riuscire a conoscerle. In questo caso fui chiamata dalla sezione esteri del PCI che mi disse: “Devi andare in Turchia”.
Cosa era accaduto in Turchia? Era il 1960 e c’era stata una specie di anticipato Sessantotto: una grande esplosione di movimenti studenteschi, di cui in qualche modo profittò la vecchia compagine militare repubblicana, quella che derivava da Atatürk, e che, approfittando di questi movimenti, fece un colpo di Stato contro la dittatura di Menderes che da dieci anni era al potere. Menderes potremmo dire per semplificare che era una sorta di Erdogan, rispetto al quale Atatürk, sebbene nemmeno lui fosse un campione di democrazia, era stato tutta un’altra cosa. E così il generale İnönü a capo di quell’ala dell’esercito approfittò dei moti studenteschi per fare un colpo di Stato. Impiccarono subito Menderes – perché in Turchia si procede alla svelta – e si instaurò una giunta militare capeggiata da İnönü, che era stato braccio destro di Atatürk.
Che cosa era successo ai comunisti da sempre clandestini non si sapeva. Quelli che erano in esilio erano molti e va bene, ma quelli che erano restati in patria? Quelli che erano stati messi in galera erano ancora in galera, o erano stati liberati? Erano riusciti a scappare e si nascondevano? Dove, come, quando, chi erano? Non si sapeva niente. La sezione esteri del PCI giustamente voleva saperlo: “Vai lì, per favore, – mi dissero – e aiutaci a ritrovare il Partito Comunista Turco”; come dire, vai lì e trova un ago nel pagliaio. Non avevo praticamente alcuna indicazione.
Stavo per partire, avendo previsto che prima dovevo fermarmi ad Atene, perché ad Atene i compagni greci sapevano un po’ di più di noi di quello che succedeva in Turchia (e poi ero di passaggio perché prima di andare ad Ankara avevo avuto l’incarico di andare a fare il primo comizio in Cipro appena diventata indipendente dalla Gran Bretagna). Ricordo la mia confusione: mi ero preparata a parlare in inglese, ma quando arrivai lì all’ultimo mi avvertirono che guai, l’inglese lo sapevano ma non lo volevano più sentire. Dovevo parlare in italiano, e mi avrebbero tradotto in greco.
Poco prima di lasciare Roma ricevo una telefonata da Joyce Lussu che mi dice: “Ti debbo parlare”. Vado a casa sua e Joyce mi dice: “Ho saputo, non mi chiedere come, ma ho saputo che vai a Istanbul, e a Istanbul ho una grande amica che si chiama Münevver Andaç”. E così mi racconta la storia. Sebbene io conoscessi le poesie di Nâzım Hikmet, perché erano state appena pubblicate dagli Editori Riuniti in due grossi volumi, non sapevo niente della sua storia d’amore con Münevver. Nâzım era diventato amico di Joyce, si erano conosciuti nel movimento dei partigiani della pace e poi lei diventò sua straordinaria traduttrice. “Questa amica, Münevver – mi disse Joyce – è la moglie di Nâzım Hikmet, si sono sposati dopo che lui è uscito dal carcere – Nâzım ha fatto diciassette anni di galera – e hanno avuto un bambino. Ma pochissimo dopo lui è stato minacciato di morte ed è dovuto scappare buttandosi nel Bosforo, trovando in quel mare un battello rumeno che lo ha raccolto e lo ha portato al di là della cortina di ferro. Nâzım si è salvato. Münevver sono dieci anni che vive con una figlia avuta da un precedente matrimonio e con questo bambino, che praticamente è nato un mese prima che Nâzım dovesse scappare. Ha vissuto in condizioni molto dure, di grande isolamento, facendo traduzioni di libri gialli e altro – perché lei sapeva bene il francese essendo stata in Francia. – Ti prego, valla a trovare, non sappiamo nulla se può uscire o non può uscire dalla Turchia”. E mi dà un pacchetto. Un pacchetto che mi lasciò perplessa, perché nel pacchetto c’erano dentro: una camicetta dipinta a mano – allora erano molto di moda le camicette dipinte a mano, una cosa molto raffinata – due paia di scarpette d’oro e un’enciclopedia per il bambino, il figlio che allora aveva nove anni e mezzo, dieci. Io pensai: “Ma guarda te, una sta da dieci anni in difficoltà e gli mandi la camicetta dipinta a mano?”. Ma naturalmente aveva ragione Joyce, se arriva qualcheduno da fuori, non gli mandi le mutande di cui ha bisogno, gli mandi una cosa che la fa felice e che gli fa pensare a un’altra cosa, aveva perfettamente ragione Joyce, ma io allora rimasi molto perplessa. Questa è la premessa.
Parto così con il pacchetto, con la camicetta, le scarpette e il libro. Arrivo ad Atene dove ho un incontro con i compagni greci, una di queste si chiamava Afrodite – questo ve lo dico tanto per dire che la fantasia della storia è grande – e racconto che devo vedere Münevver Andaç. Vedo una grande freddezza nella faccia di Afrodite e anche degli altri e capisco che c’è qualche cosa, quindi alla fine chiedo: “Afrodite, ma qual è il problema?”. Ricevo così una risposta titubante e imbarazzata: “Sai, sono passati dieci anni, Nâzım Hikmet è stato a Mosca tutti questi dieci anni, adesso si è sposato con una giovane sovietica di nome Olga”. Io rimango fulminata da questa informazione, e indignata: “Ma come, una sta lì da dieci anni ferma… io torno a casa!”. Volevo proprio tornare a Roma, non volevo andare a Istanbul e affrontare una cosa così tremenda. Alla fine prevale il dovere e vado comunque, ma col cuore devastato. Vado lì, il primo indirizzo che ho è quello di Ali Mehmet Aybar, che poi diventerà segretario di un partito che ebbe una certa fortuna, per un certo piccolo periodo in Turchia, il Partito Operaio Turco. Allora era avvocato, era stato in prigione, ma siccome di generazione più giovane, non tanto come quelli più attempati che avevano fatto a tempo a fare tanta prigione. Lo trovo in un ‘ufficetto’ al porto – anche questa non ve la faccio lunga – e gli dico quello che sono venuta a fare – lui mi doveva dare qualche indicazione – e poi gli dico di Münevver Andaç. Lui mi risponde: “Guarda, Münevver non la devi vedere”. Dico: “Come non la devo vedere, le devo dare anche un pacchetto a nome di Joyce Lussu”, ma lui mi spiega: “Non la devi vedere per una ragione, perché se vedi Münevver, avrai subito la polizia alle calcagna e quindi non potrai fare niente del lavoro che sei stata incaricata di fare, cioè trovare gli altri. Sai – continua – lei, da quando Nâzım è scappato, è rimasta completamente isolata, non ha potuto più vedere neppure i suoi parenti, ha due poliziotti davanti alla porta ed è praticamente segregata”. Münevver dirà poi che questi due poliziotti erano diventati, alla fine, parte della famiglia, perché dopo dieci anni stavano lì e facevano giocare anche i bambini. Io rimango sempre più col cuore in gola ma tengo lì il pacchetto e faccio il mio lavoro, naturalmente come si fa il lavoro clandestino (mi ricordo che Bruno Trentin, per prendermi in giro, mi chiamava mademoiselle docteur, proprio perché facevo questo genere di cose).
Riguardo a questo lavoro c’è un particolare che vi racconto tanto per divertirvi e cioè che nel mio albergo c’era un gruppo di giovani ufficiali della base Nato di Adana – che è una base Nato subito sopra a Istanbul – i quali venivano lì per passare il weekend. Io allora ero una giovane signora e naturalmente mi avvicinarono, mi offrirono da bere e poi mi chiesero: “Ma lei ha mai fatto lo sci d’acqua?” e io risposi: “Per la verità no!”, così continuarono: “Vuole venire con noi nel Bosforo a fare lo sci d’acqua?”. Io accettai, perché quale migliore copertura che non gli ufficiali della Nato? E poi era anche divertente, diciamo la verità. Quindi io di giorno facevo lo sci d’acqua con gli ufficiali della Nato e di notte andavo a cercare i comunisti. Vi risparmio l’intera vicenda.
L’ultimo giorno stavo per ripartire e quindi decido di fare quello che mi pare e nonostante il divieto di Mehmet Ali Aybar telefono a Münevver per incontrarla. Un incontro che ancora ricordo per quanto fu drammatico: io non sapevo se lei sapeva che Nâzım nel frattempo si era sposato e lei non mi ha detto niente ma in qualche modo mi ha fatto capire. Lei non aveva mai avuto la possibilità di ricevere posta di Nâzım per dieci anni, soltanto un paio di lettere arrivate attraverso Paul Spaak – Primo Ministro socialista in Belgio dopo il tempo più brutto dalla Guerra Fredda – che gliele fece recapitare.
Ho capito che, dal momento in cui c’era stato il colpo di Stato e la caduta della dittatura, che non aveva riportato la democrazia e la libertà, però aveva aperto qualche fessura per sapere quello che era successo nel mondo, lei forse aveva saputo del matrimonio sovietico di Nâzım. Mi ricordo infatti le parole che mi disse: “Sai, sono riuscita a resistere tutti questi dieci anni, adesso che so che forse posso uscire, il mio sistema nervoso non regge più”. Ho capito che se lei usciva dalla Turchia non avrebbe neppure saputo dove andare. Rimango col cuore spezzato, le do le scarpine d’oro, la camicetta e tutto quello che Joyce mi aveva incaricato di portarle e vado all’aeroporto. Ero arrivata all’appuntamento con Münevver già con la valigia per dar meno tempo alla polizia di intercettarmi ma naturalmente in aeroporto vengo presa, trattenuta, spogliata di tutti quanti i pezzi di carta, documenti, tutto quello che avevo. Mi fecero persino perdere l’aereo, e vengo fatta ripartire l’indomani.
Non rivedo Joyce subito – non mi ricordo perché – ma invece arriva subito dopo il mio rientro a Roma Nâzım Hikmet. Vengo invitata da Franco Ferri, direttore dell’Istituto Gramsci, a una cena in onore di Nâzım Hikmet. Io vado là e tutta la sera mi torturo e mi chiedo: “Glielo dico o non glielo dico che ho visto Münevver e che ci ho parlato?”. Nâzım era già vecchio, molto malato di cuore, aveva fatto diciassette anni di carcere e sono tanti. Poi ho capito dopo, quando ho scritto il libro e sono andata a rivedere tante carte e tante memorie della vita di Nâzım a Mosca, lui aveva conosciuto la Mosca degli anni Venti e quindi aveva partecipato a tutte le avventure dell’avanguardia letteraria, teatrale e cinematografica, l’epoca d’oro, quando Mosca era stata uno straordinario laboratorio poetico, letterario e culturale. Torna a Mosca negli anni Cinquanta, nella più cupa epoca staliniana, triste e malato, lontano e senza potere comunicare e alla fine di questi dieci anni, due anni, due anni e mezzo prima di morire, si innamora della ragazza sovietica. Ripenso a tutta quanta questa storia e mi viene pena pure per Nâzım Hikmet. Alla fine mi decido e lo prendo da parte, andiamo in un angolo della casa di Franco Ferri e io gli dico: “Ho visto Münevver”, “Ah!” mi risponde lui, e rimane così. L’indomani corro da Joyce e le dico: “Joyce, ma tu lo sapevi, quando mi hai mandato a portare il pacchetto, che era successa questa cosa?”. Joyce era molto amica di Nâzım Hikmet, aveva tradotto le sue poesie, aveva stabilito un rapporto politico, umano e letterario molto forte per via dei Partigiani della Pace – perché si erano incontrati a Stoccolma a un congresso dei Partigiani della Pace. Poi questo rapporto fra Joyce e Nâzım era continuato, tant’è vero che lei – pur non sapendo il turco – dal francese ha tradotto praticamente tutte le poesie di Nâzım in Italia. Joyce mi dice: “Certo che lo sapevo”, “Ah! – dico – E non mi hai detto niente?” e la frase di Joyce è indicativa, perché mi ha risposto: “Eri troppo giovane per capire” e forse aveva ragione, perché io rimasi sconvolta, ed è solo dopo che ho capito che poteva accadere una cosa di questo genere.
Cosa è successo dopo questo episodio – perché la storia non finisce là – è un’altra avventura in cui Joyce manifesta al meglio il suo straordinario carattere. A Münevver la giunta militare continua a non dare il passaporto per uscire dalla Turchia. E allora Joyce si fa prestare un motoscafo da un amico ricco di Milano e parte per fare quello che aveva fatto con suo marito tanti tanti anni prima, quando Emilio Lussu era al confino e lei riesce a farlo scappare. Va in un porticciolo vicino ad Istanbul – non a Istanbul, un po’ più lontano – e avverte Münevver di arrivare coi due bambini, una che è già una ragazzina, l’altro che ha dieci anni. Però è difficile imbarcarsi su questo motoscafo. Münevver arriva con un treno e va prima in un altro posto per far perdere le tracce – insomma storie molto rocambolesche. Finalmente riescono a montare e il motoscafo parte ma con difficoltà, perché lì c’era una base militare e quindi non poteva attraccare; poi, in rotta per la Grecia, vanno a finire su uno scoglio e lì rimangono incastrati: a bordo Joyce, l’amico ricco milanese, Münevver e i bambini. Vengono salvati e portati ad Atene. Arrivati ad Atene finalmente – Münevver non ha nessun documento – riescono a mettersi in contatto e – ahimè il destino – il luogo di destinazione è Varsavia. Perché vanno a Varsavia? Perché Münevver aveva un nonno polacco e quindi c’era un legame con la Polonia e infatti lei rimarrà là come docente, per un lungo periodo, all’Università. A Varsavia Münevver si incontra con Nâzım. È un incontro straziante, come vi potete immaginare, perché Nâzım è imbarazzato, ovviamente e necessariamente. Vi dico solo la frase con la quale Münevver scrive a Joyce per commentare questo terribile incontro a Varsavia: “Lui sembrava un pascià, io un’idiota”. Una frase amarissima, che ho saputo più tardi da Joyce.
La storia è comunque molto bella, perché Münevver alla fine andrà a Parigi e sarà lei la traduttrice in francese di tutte le poesie di Nâzım Hikmet. Per dire poi che Joyce aveva ragione, quelle di Nâzım Hikmet sono delle poesie struggenti per quei dieci anni, perché non è vero che si era dimenticato di Münevver. Ce n’è una molto bella che dice: “Ma chi ha detto che non si possono avere due amori contemporanei, è una balla! Certo che si possono avere!” e racconta di sé. Ci sono poi delle continue nostalgie, in cui c’è questa Münevver che riappare e poi queste donne che si incontrano in un bar, che non si capisce se è quello di Mosca o se è quello di Istanbul. Anche questa storia credo serva per riuscire a capire un pezzo, una parte della poesia di Nâzım Hikmet, che è un personaggio molto stravagante, un personaggio affascinante. Quando arriva a Mosca è malatissimo, va in ospedale e la sua dottoressa scrive di lui, che aveva molti anni di più: “Mi sono innamorata di lui, come accade a tutte le donne dai quindici agli ottant’anni”. Forse anche Joyce era un pochino innamorata di Nâzım Hikmet, diciamo la verità, che questo è anche da mettere in conto.
Questa io trovo sia una storia che dice molte cose su come era Joyce, in particolare la storia del rapimento, della fuga e del motoscafo di lusso che va a finire sullo scoglio e tutto quello che segue. È un piccolo episodio, nella vita di Joyce, ma ve lo volevo raccontare.
Luciana Castellina
(Brano tratto da Il lungo viaggio di Joyce Lussu, Convegno, 23 settembre 2019, Senato della Repubblica, pp. 43-49).
* E stato mantenuto lo stile colloquiale della relazione.
Inserito il 31/01/2023.
Il pomeriggio del 30 ottobre 1921, nella frazione di Porto di Mezzo (comune di Lastra a Signa, in provincia di Firenze), roccaforte del neonato Partito Comunista d’Italia, giunsero delle squadre di fascisti provenienti dal circondario con lo scopo di portare a termine una delle ormai abituali “spedizioni punitive”. Gli abitanti, molti dei quali erano inquadrati nel movimento degli Arditi del Popolo, respinsero l’assalto con poche armi a disposizione e ricorrendo anche a un fitto lancio di sassi e tegole dai tetti delle case e della chiesa. In conseguenza degli scontri perse la vita lo squadrista Roberto Saccardi di Montelupo, mentre diversi altri fascisti furono feriti.
Nella notte giunsero rinforzi fascisti da ogni dove e gli abitanti dovettero subire come ritorsione la devastazione delle proprie abitazioni e l’incendio dello spaccio della locale Cooperativa.
Il processo che si svolse due anni dopo, in piena impennata del potere fascista, portò alla condanna di diversi cittadini di Porto di Mezzo, mentre nulla fu rilevato a carico dei membri delle squadracce.
La ricostruzione che presentiamo qui di seguito è solo l’anticipo di una ricerca più approfondita che la sezione ANPI “Bruno Terzani” di Lastra a Signa intende compiere sui fatti del Porto di Mezzo, avvenuti il 30 e 31 ottobre 1921.
Riteniamo necessaria questa ricerca non solo per richiamare l’attenzione delle nuove generazioni su fatti e avvenimenti che riguardano così da vicino la storia della nostra comunità, ma soprattutto per cogliere quegli elementi che possono offrire utili ammonimenti, giacché è nostro convincimento che l’oscuramento del passato possa essere la breccia attraverso la quale il fascismo – sotto qualsiasi forma si manifesti – può di nuovo infiltrarsi nel nostro presente.
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30-31 ottobre 1921. I fatti di Porto di Mezzo
Le premesse ambientali, sociali, politiche
All’epoca dei fatti ampie zone non edificate separavano fra loro i tre borghi di Lastra a Signa, Ponte a Signa e Porto di Mezzo; le strade erano pavimentate, anzi selciate, e illuminate solo nei centri abitati. tutte le ampie zone edificate che attualmente costituiscono il tessuto urbano del capoluogo, del Ponte e del Porto erano di là da venire, così come il percorso della Via Livornese fra Tripetetolo e La Posta.
Porto di Mezzo era diverso dall’attuale.
Infatti il tempo ha cancellato il volto dell’antico borgo fatto di casette basse, di androni e di case bruciate dove crescevano le erbe selvatiche – così don Pasquale Nannelli1, primo parroco di Porto di Mezzo nel 1923. – Porto di Mezzo era tagliato fuori dai centri vicini. Quando erano molto rare le auto era attraversato da barrocciai che interrompevano il loro viaggio per far riposare i cavalli e concedersi una sosta benefica, consumata nelle modeste botteghine di quei tempi.
Gli abitati di Ponte a Signa e Porto di Mezzo però non erano così tagliati fuori come afferma don Nannelli: nell’ambito del comune di Lastra a Signa erano le frazioni che più delle altre, compreso il capoluogo, presentavano caratteristiche che potremmo definire semiurbane: una popolazione agglomerata nel centro principale e conseguentemente dedita, secondo le caratteristiche dell’insediamento tipico delle aree mezzadrili, ad attività extra-agricole.
Il censimento industriale del 1911 aveva registrato, nei due comuni di Signa e Lastra a Signa, 172 industrie per un totale di 2.289 addetti ed una forza motrice installata di 466 cavalli. Le attività principali erano quelle estrattive nelle diverse cave della Gonfolina, di qua e di là d’Arno; della paglia, ampiamente diffusa in tutto il territorio; delle terrecotte (dal 1895 aveva iniziato la sua attività la Manifattura Bondi2 al posto di una fornace preesistente).
Questa precoce industrializzazione, comune a molti borghi della nostra regione e della nostra provincia, aveva determinato l’affermarsi del movimento operaio, che ebbe i suoi inizi proprio nelle due frazioni di Porto di Mezzo e Ponte a Signa. Nelle stesse frazioni di segnalò inoltre la presenza di militanti e di nuclei politici orientati prima verso la democrazia radicale, i repubblicani, i primi internazionalisti, poi verso gli anarchici e i socialisti3, infine verso il Partito Comunista.
Nel 1921 il movimento operaio delle Signe vantava già una storia ultradecennale, di cui facevano parte gli scioperi delle trecciaiole del 1896-97, che avevano portato le Signa e la provincia di Firenze alla ribalta nazionale, le lotte degli scalpellini e di altre categorie di lavoratori.
Il Primo Maggio venne festeggiato fin dai suoi albori, agli inizi degli anni ’90 dell’Ottocento, come testimoniano le corrispondenze intercorse tra l’amministrazione comunale moderata e gli organi di vigilanza e di polizia, giacenti presso l’Archivio Storico Comunale.
Il movimento operaio delle Signe consolidò le proprie posizioni con la costituzione e il rafforzamento delle sue diverse organizzazioni politiche ed economiche; fin dalla sua fondazione la Camera del Lavoro di Firenze ebbe nelle Signe una sua forte componente: nel 1908 le sezioni riunite delle Signe, che raggruppavano diversi settori e categorie di lavoratori, contavano 1.100 iscritti sui 7.969 complessivi iscritti alla Camera del Lavoro di tutta la provincia di Firenze4.
Altrettanto importante era la presenza delle sezioni socialiste, comprese quelle dell’organizzazione giovanile, che caratterizzavano la propria iniziativa con forti iniziative di massa.
La frazione di Porto di Mezzo assunse da subito un ruolo importante nel movimento operaio e socialista delle Signa, come testimoniano anche i dati relativi alle elezioni politiche dal 1890 al 1921.
Fino a che fu in vigore un suffragio fortemente censitario5 non ci fu storia per quelle forze politiche (garibaldini, democratici, ecc.) che si proponevano istanze di cambiamento, ma con l’allargamento del suffragio (1882) le forze popolari si affacciarono più decisamente alla ribalta politica lastrigiana6. Nelle elezioni politiche del 1890 il candidato radicale, già in odore di socialismo, Giulio Masini (futuro deputato socialista di Empoli), ottenne nel comune di Lastra a Signa 154 voti su 896 votanti (il 17,2%), ma a Porto di Mezzo 46 su 113 (il 40,7%); in quelle del 1913 il candidato socialista Carlo Pucci (che poi fu eletto) ne ottenne al primo turno 1.528 su 3.550 (55,1% in tutto il comune, ma bene 279 su 350 a Porto di Mezzo (circa l’80%).
Nel frattempo i socialisti avevano conquistato la guida del Comune, dopo due ravvicinate consultazioni elettorali parziali7 nel luglio e nell’ottobre 1907, respingendo con successo il tentativo degli avversari, in minoranza fra gli elettori, di giocare la carta del commissariamento. La direzione del Comune era stata poi confermata, con maggioranze crescenti, nelle elezioni comunali parziali del 1910 e in quelle generali del 1914 e del 1920, conquistando anche la rappresentanza del mandamento di Lastra a Signa e Casellina e Torri8 nel Consiglio Provinciale di Firenze.
La situazione nell’ottobre del 1921
Nell’ottobre 1921 la situazione sociale e politica delle Signe era profondamente mutata rispetto al biennio 1919-1920, il cosiddetto “biennio rosso”; allo stesso modo era mutata quella della provincia di Firenze, della Toscana e dell’Italia tutta.
Dopo mesi di aspre polemiche, che avevano opposto fra loro le tre correnti in cui era diviso il PSI (la massimalista unitaria di Serrati, la comunista di Bordiga, la riformista di Turati), si era consumata la scissione di Livorno che aveva portato alla nascita del Partito Comunista d’Italia.
A Lastra a Signa il PCdI era nato ufficialmente il 30 gennaio 1921 e poté subito contare su una forza considerevole: 85 iscritti contro 95 rimasti nel vecchio partito, conquistando la maggioranza degli iscritti nelle sezioni di Porto di Mezzo, dove la prevalenza dei comunisti sui socialisti fu schiacciante (24 contro 6), di Brucianesi e di Malmantile; nel capoluogo e a Ponte a Signa la prevalenza fu dei socialisti, mentre la sezione di Ginestra rimase interamente nel PSI9.
L’organizzazione sindacale locale andò ai comunisti: segretario della locale Camera del Lavoro era il comunista Guido Andrei, fino a quando tutto non fu scompaginato dalla reazione fascista seguita ai fatti di Porto di Mezzo.
I risultati delle elezioni10 politiche del 15 maggio 1921 confermeranno, ampliandola, la prevalenza del PSI, che a Lastra a Signa poteva contare su sperimentati dirigenti di vecchia e provata fede riformista, presenti soprattutto nell’amministrazione comunale, che rimase saldamente nelle loro mani, e nelle cooperative; comunque, presi insieme, i due partiti operai mantennero sostanzialmente le loro posizioni nell’elettorato: 1.797 voti i 1.850 andati al PSI nelle elezioni del 1919. Alla sua prima prova elettorale il PCdI ottenne nel comune di Lastra 559 voti (18,8%), il PSI 1.238 (41, 6%); a Porto di Mezzo i risultati videro la prevalenza dei comunisti con 166 voti (40,7%) a fronte dei 144 (36,5%) andati ai socialisti.
Le elezioni segneranno anche nel nostro comune l’affermazione del Blocco Nazionale – che inglobava, oltre a liberali di varie tendenze, anche i fascisti –, che ottenne 806 voti contro i 180 ottenuti nel 1919 dalle due liste liberali, a spese soprattutto del Partito Popolare Italiano, che passò dai 696 voti del 1919 ai 362 del 1921, un risultato in netta controtendenza rispetto a quello nazionale, che vide invece un rafforzamento della compagine popolare.
Sarebbe interessante, anche ai fini della nostra ricerca, capire quanto il risultato del PPI a Lastra a Signa, come in altre zone della Toscana, fosse dipeso dal deciso radicalismo delle leghe bianche nel condurre le lotte contadine, e quanto ciò avesse spaventato l’elettorato cattolico moderato, posto di fronte a quello che era definito “bolscevismo bianco”.
Quello però che è importante sottolineare è il fatto che nell’ottobre 1921 le Signe in generale e Porto di Mezzo in particolare rappresentavano nel panorama politico provinciale più l’eccezione che la regola. L’amministrazione comunale era ancora in mani socialiste, l’organizzazione sindacale in quelle del PCdI, le sezioni dei due partiti svolgevano ancora, sia pure con qualche circospezione, la propria attività, infine si stava strutturando, proprio a Porto di Mezzo, quell’organizzazione di autodifesa che sarà chiamata “Arditi del Popolo”, ma il cui nome ufficiale era “Alleanza di Difesa Proletaria delle Signe”11.
Tutto questo avveniva mentre da marzo i fascisti avevano conquistato, in seguito ai noti fatti12, Empoli e gli altri comuni del circondario, instaurandovi, con la complicità e l’aiuto degli apparati dello Stato, un vero e proprio regno del terrore; nello stesso mese di marzo la resistenza dei lavoratori veniva spezzata a San Frediano e a Scandicci dal massiccio intervento dell’esercito, addirittura con l’uso di pezzi d’artiglieria, dopo i moti seguiti all’assassinio di Spartaco Lavagnini ad opera di “ignoti” fascisti.
A farsi carico del “problema” Porto di Mezzo, con pressante insistenza sui camerati delle Signe, fu il commissario prefettizio di Montelupo Fiorentino, seriamente preoccupato dall’organizzazione di un reparto degli Arditi del Popolo13, tanto che i due caporioni della spedizione furono esterni al fascio locale: Sergio Codeluppi, segretario del Fascio di Empoli, e Italo Gianni, segretario di quello di Montelupo Fiorentino14; il primo, in particolare, era un convinto assertore del ruolo politico della “santa benzina”, come ebbe modo di dimostrare ampiamente anche a Porto di Mezzo. In quel periodo, inoltre, i fascisti temevano che il governo Bonomi, allora in carica, intendesse stroncare ogni sostegno e complicità con lo squadrismo degli organi dello Stato; convinzione rafforzata in loro dopo che a Sarzana, nel luglio 1921, era stato ampiamente dimostrato che – senza la complicità delle autorità – gli squadristi non erano imbattibili e che la loro avanzata non era inarrestabile15.
Da questa situazione nacque il cosiddetto “patto di pacificazione” tra fascisti e socialisti del 3 agosto 1921 (patto al quale i comunisti non parteciparono), che fu malamente accolto dagli squadristi dell’Emilia e della Toscana16 e fu alla fine denunciato dallo stesso Benito Mussolini, anche per non perdere l’appoggio dei vari ras dello squadrismo.
Il “patto di pacificazione” fu un frutto avvelenato lanciato nel campo proletario, che contribuì ad esacerbare ancora di più la polemica fra i due partiti operai, contribuendo a rafforzare nel PCdI la posizione settaria di Amadeo Bordiga, messa in discussione della stessa Internazionale Comunista.
La polemica avrà le sue manifestazioni anche a Lastra a Signa.
Gli Arditi del Popolo e i “sovversivi” di Porto di Mezzo
Prima di procedere oltre, cerchiamo di capire chi erano gli Arditi del Popolo, quali ragioni li muovevano, quale spirito li sosteneva, quale organizzazione si erano dati e quali erano i loro rapporti con i diversi partiti della sinistra.
La direzione del PCdI, di cui era massimo esponente Amadeo Bordiga, nonostante l’intervista che il giornale del partito, “L’Ordine nuovo”, aveva concesso con grande evidenza al loro promotore, l’ex tenente degli arditi Argo Secondari, si pronunciò contro l’adesione dei comunisti alla nuova organizzazione di difesa proletaria17. Ciononostante, in molte località, fra le quali evidentemente Porto di Mezzo e Le Signe, l’adesione di militanti comunisti, soprattutto della Federazione Giovanile Comunista, fu ampia e spontanea.
Laddove gli Arditi del Popolo ebbero una base unitaria e di massa, come a Parma l’anno successivo, seppero resistere in maniera efficace al fascismo.
Per quanto riguarda Porto di Mezzo, in attesa di consultare il fascicolo processuale, possiamo solo citare quanto contenuto nella sentenza di rinvio a giudizio emessa dalla sezione d’accusa della Corte d’Appello di Firenze in data 15 marzo 1923. Dal documento di rileva che il materiale conquistato consisteva in:
1. un elenco di 36 arditi del popolo, suddivisi in 3 squadre di 12 uomini ciascuna;
2. il testo di una formula di giuramento così concepita: «io sottoscritto vincolo la mia parola d’onore di vero ardito di eseguire tutto ciò che il mio capo mi ordina e di non fare il vigliacco di fronte al nostro nemico e di fronte ai compagni»; il testo del giuramento era «attraversato da una figura rappresentante un pugnale grondante sangue e con un teschio di morto a lato, portante la dicitura: “sempre vendetta faremo”»;
3. il disegno di «una figura rappresentante un uomo in atto di salire, che impugna una rivoltella e schiaccia col piede sinistro l’emblema del fascio»;
4. la raffigurazione di «un teschio di morto attraversato, dalla fronte alla nuca, da un pugnale grondante sangue e con la dicitura: “chi non si sente forte, non giuri sopra di me!”»;
5. «copie di circolari annunzianti l’avvenuta costituzione del battaglione di arditi del popolo e sollecitanti una sottoscrizione permanente pro arditi del popolo…».
Dal materiale sequestrato, che – in mancanza di prove certe – costituì elemento di prova, emerge una visione in tutta evidenza proveniente da quella dell’arditismo di guerra, comune anche agli avversari, e non priva di quell’elemento romantico (vedi il giuramento), tipico più della cospirazione risorgimentale che di una moderna lotta rivoluzionaria.
Materiale comunque del tutto inconsistente dal punto di vista probatorio.
Non abbiamo a disposizione l’elenco sequestrato per ricostruire l’età e la professione degli arditi locali, ma attraverso il Casellario Politico Centrale disponibile in rete abbiamo ricostruito dall’elenco degli accusati uno spaccato dei “sovversivi” di Porto di Mezzo.
Dei 25 di cui abbiamo i dati, 22 erano schedati come comunisti, due come anarchici e uno come socialista; in quanto all’età, sette avevano all’epoca dei fatti meno di 21 anni, nove tra i 21 e i 30 anni, otto fra i 31 e i 40 anni, uno più di 50; per quanto riguarda l’occupazione, risultano ben nove cappellai, due ceramisti, due scalpellini, due tranvieri, e i rimanenti erano registrati come manovale, meccanico, sarto, imbianchino, muratore, macellaio, siderurgico, conciaiolo, falegname, impiegato.
Gli arditi delle Signe non erano quindi degli spostati amanti dell’avventura, bensì lavoratori con un buon mestiere, uno spaccato significativo di una classe operaia preparata sul piano professionale, dotata di una forte coscienza di classe18. In questa forte coscienza di classe, nella consapevolezza di rappresentare una parte, anche se minima, di un movimento ben più ampio e nella voglia di realizzare le loro ragioni ideali, storiche e politiche per tutti e non solo per loro stessi, stava la differenza più profonda con i fascisti.
A questo proposito è estremamente utile quanto afferma Donato Settimelli in una sua lettera del 29 ottobre 1966 al nipote Franco Terreni19:
Ricordo con gioia, e con una certa punta d’orgoglio, che tutti i paesi dei dintorni li tenevamo sgombri dai fascisti in quanto il nostro arrivo era immediato appena sapevamo della loro presenza, ed essi non tardavano a darsela a gambe alla nostra veduta.
Tutto quanto esposto in precedenza, compresa l’affermazione di Settimelli, è efficacemente riassunto in una relazione che il PCdI inviò all’esecutivo dell’Internazionale Comunista a Mosca, relazione di cui non è stato possibile individuare il redattore e che lo storico Paolo Spriano riporta a pagina 124 del primo volume della sua Storia del Partito Comunista Italiano:
In due mesi di vita gli uomini del giovanissimo PC avevano lavorato in Toscana. Sezioni numerose nelle città, buone sezioni nelle campagne. Simpatia di forti masse operaie e contadine per il comunismo. L’allegro spirito massimalista un po’ rodomontesco, poco costruttivo, non poteva essere distrutto di colpo, ma era abbastanza organizzato per renderlo costruttivo.
La ricostruzione dei fatti: la cronaca, la giustizia, la memoria
Sui fatti disponiamo di tre versioni: quella fornita da “La Nazione della Sera”, quella ufficiale ricostruita dalla Sezione d’accusa della Corte d’Appello di Firenze, infine quella di Donato Settimelli.
“La Nazione della Sera” il giorno successivo ai fatti titolò:
Sanguinoso episodio della lotta tra fascisti e comunisti presso Signa
Un nucleo di fascisti aggredito e fatto segno al lancio di bombe a Porto di Mezzo – La tragica scena – Il paese in subbuglio – Un moribondo e tre feriti20
Un titolo che schiera il giornale decisamente dalla parte dei fascisti, accogliendo in pieno la tesi dell’agguato “proditorio”, provocandoli con l’invio di una lettera che intimava ai fascisti della Signe la cessazione di ogni manifestazione, minacciandoli di rappresaglie, come dichiararono al quotidiano i due fascisti feriti.
La versione de “La Nazione della Sera”, secondo la quale i fascisti avevano semplicemente risposto a una sorta di “cartello di sfida”, non compare nella sentenza di rinvio a giudizio, e il documento in questione non fu neanche prodotto come prova a carico dal Fascio delle Signe, che evidentemente non conservava la corrispondenza.
L’accusa accolse invece la seguente versione:
In detta sera [il 30 ottobre, nda] dopo le 17 l’ing. Pirro Nenciolini che, Segretario politico del Fascio delle Signe, nonostante le minacce e le aggressioni da lui subite da parte dei comunisti di Porto di Mezzo, e per ultimo nel 28 ottobre ad opera di Calvisi Marino e Michelangioli Abramo, aveva manifestato il proposito, anche in obbedienza al patto di pacificazione concluso a Roma tra i maggiorenti dei due partiti, di venire ad un accordo con i comunisti, si diresse a tale scopo – e non a scopo di rappresaglia, come dagli atti decisamente risulta – insieme con 12 fascisti circa, i più di Montelupo, da Signa a Porto di Mezzo, ove i comunisti, per la voce divulgatasi fin dalla mattina sulla venuta dei fascisti, stavano in attesa preparati ad una proditoria aggressione.
Caduta quindi la scusa del “cartello di sfida”, ci si inventò la storia di una spedizione di “accomodamento”, dimenticando che il patto di pacificazione di Roma era stato sottoscritto non dal PCdI, bensì dal PSI, fatto che avrebbe dovuto essere a piena conoscenza del comm. Ulisse Tanganelli, presidente della Sezione d’accusa, e degli altri magistrati. Tentativi di dare attuazione al patto di pacificazione nelle Signe erano stati sì messi in atto, ma dall’amministrazione comunale socialista di Lastra a Signa, che per questo aveva cercato contatti con la parte più “moderata” dei fascisti signesi, arrivando a sottoscrivere un accordo in data 21 maggio21.
Inoltre, a smentire questa tesi vi è il fatto che i fascisti fiorentini non accolsero favorevolmente il patto di pacificazione, e che comunque per “addivenire ad un accordo” è evidentemente del tutto assurdo muoversi inquadrati ed armati, oltretutto andandosi a cacciare nella tana di un avversario reputato forte e determinato.
Sul numero di partecipanti alla spedizione la fonte giornalistica e quella giudiziaria divergono: la prima parla di 20 fascisti provenienti da Montelupo per unirsi a quelli delle Signe, la seconda di 12 fascisti in tutto; il sospetto che tra i fatti e la sentenza di rinvio a giudizio si fossero accomodati i numeri per avvalorare la tesi dell’agguato è più che giustificato.
In relazione ai fatti, la sentenza richiamata afferma:
appena i fascisti ebbero oltrepassate le prime case della frazione [venivano dalla parte di Ponte a Signa, nda] furono fatti segno a due colpi d’arma da fuoco, esplosi dal fondo della strada denominata «Via Livornese», e subito dopo, sul tratto di strada tra il locale della Cooperativa e la piazza, vennero fatti bersaglio di un’in[in]terrotta scarica di proiettili di ogni calibro e di ogni forma, sparati dalle finestre, dalle porte delle case, dagli androni, che numerosi fiancheggiano gli abitati, dal tetto della Chiesa e dal campanile, nonché di due bombe esplose con spaventosa detonazione, e tutto ciò malgrado che i fascisti, sbandati, gridassero levando in alto le mani, e che il Nenciolini coraggiosamente lanciasse il grido «Vigliacchi, tirate a me».
Il fuoco cessò quando già erano distesi a terra feriti i fascisti Saccardi Roberto, Bertolini Francesco, Nardi Luigi ed una donna, Carnesecchi Olinta, che casualmente si trovava in quel frangente ad attraversare la piazza.
Il Saccardi, ferito al quadrante addominale inferiore destro da colpo d’arma da fuoco, decedeva nel giorno di poi; il Bertolini, ferito da una scheggia di bomba, subiva l’amputazione chirurgica della gamba destra al terzo medio della coscia con malattia di oltre dieci mesi; il Nardi, ferito alla coscia sinistra da colpo d’arma da fuoco, riportava malattia per giorni 19; e la Carnesecchi, ferita pure da colpo d’arma da fuoco in corrispondenza del margine dell’osso iliaco destro con foro d’uscita in corrispondenza della faccia laterale del gluteo destro, fu sottoposta ad intervento chirurgico per complicazioni di un processo settico e riportò malattia per tre mesi, nonché un lieve indebolimento dell’arto offeso.
Agli arditi del popolo furono sequestrate due sciabole o baionette, una rivoltella, due coltelli, due triangoli (lime), armi con le quali è del tutto evidente come sia difficile effettuare «un’ininterrotta scarica di proiettili di ogni calibro e di ogni forma», ma il dispositivo della sentenza si affretta ad aggiungere che «un deposito di armi doveva indubbiamente esservi a disposizione degli arditi, se nei fatti sanguinosi del 30 ottobre fu fatto uso di rivoltelle, di moschetti, di fucili e di bombe».
In realtà l’esistenza di un deposito di armi non è altrimenti provata che dall’affermazione «doveva indubbiamente esservi»; in ogni caso, l’armamento degli arditi del popolo era limitato per lo più a rivoltelle detenute personalmente, fra l’altro armi facilmente occultabili in caso di perquisizione, ma soprattutto era limitata la disponibilità di munizioni, così che, mentre i due colpi sparati dal fondo della strada, evidentemente mirati per economizzare sulla dotazione di cartucce, hanno un fondo di verità, l’intenso fuoco successivo di proiettili di ogni calibro e forma non può che essere costituito dal lancio degli oggetti più disparati dalle finestre e dai tetti, considerato anche che nella sentenza di rinvio a giudizio non si parla del numero dei proiettili e dei bossoli ritrovati, cosa che era possibile anche con le tecnologie investigative dell’epoca.
Che poi i fascisti non avessero neanche tentato di rispondere al fuoco lascia più di un dubbio; essi disponevano di almeno tre fucili e di una rivoltella che, sequestrati in un primo tempo, furono prontamente restituiti.
In diverse occasioni è stato avanzato il dubbio che in realtà il Saccardi e i due fascisti feriti fossero stati colpiti da fuoco “amico”, tesi plausibile data l’imperizia di molti giovanissimi squadristi nel maneggio delle armi22, ma gli accusati non si attennero a questa linea di difesa e Donato Settimelli nella sua lettera al nipote afferma con chiarezza che «pagarono cara la loro venuta e se in alcuni non fosse mancata la disciplina, l’avrebbero pagata più cara»; motivo per cui non insistiamo su questa ipotesi.
Intervenuta la forza pubblica, essa arrestò 47 cittadini del Porto di Mezzo, indicati tramite riconoscimento dal Nenciolini e da altri tre fascisti, «i quali, a differenza degli altri fascisti, erano pratici del luogo e delle persone», come è scritto nella sentenza di rinvio a giudizio, che si affretta ad aggiungere:
[…] e non dicasi neppure che il Nenciolini non può essere atteso per ciò che attiene alla prova specifica, in quanto avrebbe affermato di avere riconosciuto fra gli aggressori anche tal Berni Gennaro, mentre è rimasto accertato che egli trovavasi a quell’ora a Ponte a Signa, giacché, esistendo in Porto di Mezzo e nelle vicinanze molte famiglie Berni, è anche facile che il Nenciolini abbia scambiato nome.
Furono condannati: Arrigo Buzzegoli e Arduino Lazzeretti a 30 anni (entrambi erano riusciti a rendersi latitanti); Bagno Bagni e Giulio Cambi a 18 anni e 8 mesi; Zelindo Ciaschi a 10 anni; Donato Settimelli, Alfredo Michelagnoli, Natale Cappellini, Umberto Berni, Finau Martelli, Mario Calvisi, Olindo Petruccioli, Remigio Cappellini e Ferdinando Sbraci (quest’ultimo deceduto in detenzione) a condanne inferiori ai 10 anni.
Gli altri 23 accusati vennero prosciolti durante l’istruttoria oppure furono assolti al processo; ciononostante, tutti scontarono più di due anni di carcere preventivo23.
L’ultima beffa fu che gli autori delle devastazioni e degli incendi alle case private e allo spaccio della Cooperativa, già devastato nell’estate precedente, come testimoniato da Donato Settimelli, non furono individuati; tutti sapevano che erano stati i fascisti, ma l’istruttoria si concluse dichiarando «non doversi procedere in ordine ai delitti di incendio e danneggiamenti di cui al capo d’imputazione per insufficienza di prove essendo ignoti gli autori».
Epilogo
A due anni circa dai fatti di Porto di Mezzo, nel febbraio 1923, si svolse in Piazza della Beata a Signa, sotto i portici del cinema Michelacci, un incontro tra l’ing. Pirro Nenciolini e la parte “più moderata” del fascismo delle Signe, rappresentata dal tenente Gustavo Nannicini; l’incontro finì a revolverate e il Nenciolini e un altro fascista rimasero sul terreno.
La cosa suscità l’ira di Mussolini, che inviò un telegramma al Prefetto del seguente tenore: «Dite alto camerati delle Signe che piombo rovente va riservato nemici Italia et Fascismo»24; il povero commissario prefettizio del Comune di Lastra a Signa, subentrato nel frattempo all’amministrazione socialista, si giustificò scrivendo al Prefetto che il tenente Nannicini (il moderato) aveva giustificato l’armamento e la spedizione «colla idea di fare spedizione contro persone sospette di comunismo», giustificazione a cui non sembra credere lo stesso commissario prefettizio, ma che evidentemente il Nannicini riteneva di poter impunemente spendere a sua discolpa, riservando appunto il piombo rovente ai «nemici Italia et Fascismo».
Fu così che il Nenciolini fece il suo ingresso fra i martiri del Fascismo ed ebbe intitolata l’attuale Via Matteotti, fino a che, dopo la caduta del Fascio, l’amministrazione comunale non effettuò una drastica bonifica toponomastica.
Nel frattempo i fascisti, nonostante la violenza e l’esercizio di tutto il potere di cui disponevano, non erano venuti a capo di nulla nel domare Porto di Mezzo, così che chiesero alle autorità ecclesiastiche di erigere la frazione in parrocchia autonoma da San Martino a Gangalandi, colla speranza che i comunisti del Porto di Mezzo, se non fascisti, potessero almeno diventare buoni cristiani25.
Le violenze illegali però non cessarono: il giorno del Corpus Domini del 1930 a farne le spese furono i giovani dell’Azione Cattolica, che furono dispersi con l’uso dei manganelli.
L’insegnamento
A conclusione non vogliamo fare un grande discorso, ma citare una poesia del pastore tedesco Martin Niemoller, così come figura sul monumento all’olocausto a Boston:
Prima vennero a prendere i comunisti, e non dissi nulla perché non ero comunista.
Poi portarono via gli ebrei, e rimasi in silenzio perché non ero ebreo.
Dopo arrestarono i sindacalisti, ma tenni la bocca chiusa perché non ero sindacalista.
Alla fine vennero a prendere me, ma non c’era più nessuno che potesse dire qualcosa.
Sezione ANPI “Bruno Terzani”
Lastra a Signa (Fi)
(Brano riadattato dalla relazione dell’ANPI all’incontro 1921-2011: 90° anniversario dei fatti di Porto di Mezzo, tenutosi il 6 novembre 2011 presso la Sala del Consiglio Comunale di Lastra a Signa).
Note
1 Lettera di don Pasquale Nannelli ai parrocchiani di Porto di Mezzo in data 9 ottobre 1993; l’accenno alle “case bruciate” è, con ogni probabilità, un implicito riferimento allo stato della frazione dopo la rappresaglia fascista effettuata nella notte fra il 30 e il 31 ottobre.
2 È da notare che entrambi i sindaci socialisti di Lastra a Signa, Alessandro Landucci (1907-1914) e Ugo Poggi (1914-1922) erano dipendenti della Manifattura Bondi, qualificati l’uno come scultore, l’altro come artista.
3 Vedi Elio Conti, Carte della Polizia nell’Archivio di Stato di Firenze 1871-1898.
4 Nicla Capitini Maccabruni, Liberali, socialisti e Camera del Lavoro a Firenze nell’età giolittiana (1900-1914).
5 Dal 1860 al 1880 per essere elettore occorreva avere più di 25 anni, saper leggere e scrivere e pagare un’imposta di almeno 40 lire, che nel 1865 corrispondevano a 24 giornate di lavoro di uno scalpellino, secondo i dati reperiti presso l’Archivio Storico Comunale di Lastra a Signa.
6 Nel ventennio 1860-1880 gli elettori politici lastrigiani oscillarono da un minimo di 142 (1865) ad un massimo di 174 (1876), circa l’1,6% della popolazione. Da notare che la legge elettorale toscana, con la quale si erano tenute le elezioni all’Assemblea Legislativa Toscana, aveva ammesso al voto, nel 1869, 285 elettori e che al plebiscito dell’11 e 12 marzo 1860 erano stati chiamati alle urne oltre 2.700 cittadini.
7 Allora la legge elettorale non prevedeva il rinnovo totale del Consiglio Comunale, ma il rinnovo parziale ogni tre anni.
8 Il comune di Casellina e Torri era a quel tempo la denominazione dell’odierno comune di Scandicci [ndr].
9 Il settimanale “L’Azione Comunista”, organo della Federazione fiorentina del PCdI, riporta nel suo numero del 26 febbraio 1921, con un articolo data 9 febbraio, la situazione seguita alla scissione di Livorno nei seguenti termini:
- sezione di Ponte a Signa, iscritti passati al PCdI 28, iscritti rimasti nel PSI 35;
- sezione di Porto di Mezzo, PCdI 24, PSI 6;
- sezione di Brucianesi, PCdI 7, PSI 5;
- sezione di Lastra a Signa, PCdI 18, PSI 24;
- sezione di Malmantile, PCdI 8, PSI 5;
- a Ginestra Fiorentina invece tutti gli iscritti restarono nel PSI, portando nel complesso a un vantaggio per i socialisti di una ventina di iscritti. L’articolo precisava però che circa 20 iscritti, pur segnati all’attivo del PSI, non intendevano rimanere nel partito.
10 Questi i risultati delle elzioni del 15 maggio 1922, desunti dai verbali giacenti presso l’Archivio Storico Comunale di Lastra a Signa:
capoluogo: PSI voti 404 (45,6%), Blocco Nazionale 227 (25,6%), PCdI 182 (20,6%), PPI 70 (7,9%), PRI 2 (0,3%);
Porto di Mezzo: PSI 149 (36,5%), BN 64 (15,7%), PCdI 166 (40,7%), PPI 28 (6,9%), PRI 1 (0,2%);
Ponte a Signa: PSI 375 (51,7%), BN 120 (16,6%), PCdI 178 (24,6%), PPI 48 (6,6%), PRI 4 (0,5%);
Malmantile: PSI 82 (19,3%), BN 188 (44,2%), PCdI 32 (7,5%), PPI 122 (28,7%), PRI 1 (0,3%);
Ginestra: PSI 228 (42,9%), BN 207 (39,1%), PCdI 1 (0,2%), PPI 94 (17,8%), PRI 0;
totale comune di Lastra a Signa: PSI 1.238 (41,6%), BN 806 (27,1%), PCdI 559 (18,8%), PPI 362 (12,2%), PRI 8 (0,3%).
11 Così almeno sembra da una didascalia che accompagna un’immagine del fascicolo processuale relativo ai fatti del Porto di Mezzo contenuta nel volume L’Archivio di Stato di Firenze, nella collana “I tesori degli archivi”.
12 Dopo l’uccisione per mano fascista del segretario sindacale dei ferrovieri Spartaco Lavagnini, attivista comunista, avvenuta il 26 febbraio 1921, numerosi furono gli scontri di piazza a Firenze e dintorni; il sindacato dei ferrovieri indisse uno sciopero generale e il 1° marzo alcune decine di marinai furono fatti partire da Livorno alla volta di Firenze su dei camion scortati dai carabinieri, con l’incarico di sostituire i ferrovieri in sciopero e rimettere in moto il traffico ferroviario; nei paesi di passaggio si sparse la voce che si trattasse di squadre di fascisti diretti a Firenze per partecipare alla repressione degli scioperanti; due di questi camion giunsero a Empoli e trovarono una folla compatta organizzata dal Partito Comunista e da un gruppo di Guardie Rosse armate intenzionata a non farli passare. I carabinieri aprirono il fuoco in aria per cercare di far passare i camion, ma uno di questi venne preso d’assalto e i suoi occupanti furono linciati: si contarono nove morti (sei marinai e tre carabinieri) e altrettanti feriti [ndr].
13 Dobbiamo quest’informazione a Dario Salvetti, che nella sua tesi di laurea sul movimento operaio e antifascista nei primi anni ’20 a Montelupo Fiorentino cita diverse volte la preoccupazione dei fascisti locali per la presenza di arditi del popolo a Porto di Mezzo.
14 Il ritratto dei due personaggi, soprattutto del Codeluppi, è efficacemente trattato da Libertario Guerrini in Storia del movimento operaio nell’empolese 1861-1946.
15 Vedi Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925.
16 Mimmo Franzinelli in Squadristi. Protagonisti e tecniche della violenza fascista 1919-1922, riporta nella cronologia finale del suo libro la notizia di un convegno provinciale dei fasci tenuto a Firenze il 2 settembre 1921 ove fu sollecitato il Comitato Centrale del movimento a denunziare la tregua sottoscritta coi socialisti.
17 Vedi l’ampia ed esauriente trattazione che dedica all’argomento Paolo Spriano in Storia del Partito Comunista Italiana, vol. 1 Da Bordiga a Gramsci, Torino, Einaudi, 1967, alle pagine 144-151.
18 “Piglialo, ffa i’ccappellaio” si diceva alle ragazze da marito di Signa.
19 Donato Settimelli a Franco Terreni, 29 ottobre 1966.
20 “La Nazione della Sera”, anno VI, n. 265, 1° novembre 1921.
21 Giampiero Fossi, I “fatti” di Porto di Mezzo.
22 Vedi la cronologia in appendice a Squadristi di Mimmo Franzinelli ed anche Storia del fascismo fiorentino di Roberto Cantagalli.
23 Dobbiamo le informazioni sull’esito del processo a Danilo Benelli, Un ponte fra due castelli, Firenze, Istituto Gramsci / Sezione Toscana, 1983.
24 Vedi Roberto Cantagalli, Storia del fascismo fiorentino 1919-1925.
25 Lettera citata di don Pasquale Nannelli.
Inserito il 21/01/2023.
Roma, foto scattata tra il 28 e il 31 ottobre 1922. Fascisti e squadristi accalcati durante un corteo a Roma con ritratti di Marx e Lenin presi da un circolo socialista devastato.
Autore: Adolfo Porry Pastorel. Fonte: Archivio LUCE.
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Lo squadrismo, matrice originaria del fascismo
È un’amara e accorata denuncia quella contenuta in un agile libretto edito dalla Società editrice Avanti!, tirato in poche copie e distribuito ai deputati della nuova Camera durante la prima seduta dell’11 giugno 1921 che apre i lavori parlamentari della legislatura (la XXVI del Regno d’Italia). copertina grigia e i caratteri in nero del titolo Fascismo: primi elementi di un’inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia,1 racchiudono una assai parziale ma già impressionante documentazione sulle violenze fasciste che avevano caratterizzato i mesi della campagna elettorale. La pubblicazione avviene, infatti, a ridosso della più intensa tra le ondate di violenze squadriste, quella scatenata tra il marzo e il maggio 1921, proprio in vista delle elezioni politiche che vedranno per la prima volta la presenza di un gruppo di 35 deputati mussoliniani eletti nelle liste dei Blocchi nazionali. Promosse da Giovanni Giolitti, le liste raggruppavano in chiave essenzialmente antisocialista forze eterogenee, dai liberali ai popolari fino appunto ai fascisti, il cui pur modesto risultato commisurato ai 123 seggi del PSI e ai 108 del Partito popolare segnava comunque una svolta rispetto alle precedenti elezioni del 19 novembre 1919, in cui le liste del neonato movimento avevano raccolto pochissimi voti restando fuori dal Parlamento.
Mentre la crisi del sistema liberale si accentuava e con la fine dell’occupazione delle fabbriche sembrava esaurirsi l’azione rivendicativa (e almeno a parole rivoluzionaria) del movimento socialista, per i Fasci di combattimento si apriva una fase di attivo protagonismo. Rappresaglie e spedizioni punitive contro sedi municipali, sezioni socialiste e comuniste, cooperative e camere del lavoro, ma anche ritorsioni contro camicie nere e scontri con carabinieri e Guardia regia da parte di militanti del mondo operaio, contrassegnano il periodo della campagna elettorale: in particolare tra l’8 aprile e il 14 maggio 1921 si contano 105 morti e 431 feriti, mentre nella sola giornata del 15 maggio le statistiche della Direzione della Pubblica sicurezza parlano di 29 morti e 104 feriti.2
Un clima di estrema tensione che del resto non manca di investire lo stesso Parlamento quando, il 13 giugno 1921, pochi giorni dopo la distribuzione dell’Inchiesta, un gruppo di deputati fascisti impedisce con la forza l’ingresso in aula di Francesco Misiano, eletto nelle liste del Partito comunista d’Italia. Il libretto, accusato di unilateralità dal “Corriere della sera” per aver taciuto gli episodi violenti di parte socialista, non passò inosservato e innescò una serie di polemiche sulle “cifre di sangue” destinate a rinnovarsi tanto nella stampa di vario orientamento quanto nelle stesse aule parlamentari.3 Stabilire un conteggio preciso del numero delle vittime è ancora oggi non facile. Dagli attenti studi di Mimmo Franzinelli e Fabio Fabbri sulle fonti disponibili, da quelle istituzionali e statali e da quelle giornalistiche, sembra attendibile una valutazione di circa 3000 vittime dall’incendio dell’“Avanti!” di Milano (aprile 1919) alla marcia su Roma (ottobre 1922), mentre solo tra l’8 aprile e il 15 maggio 1921 si può valutare attendibile una cifra intorno ai 170 morti.4
Le 179 pagine del libro sono un primo parziale reportage, una sorta di instant book, “primi elementi” appunto sulle violenze, i ferimenti, le uccisioni e le devastazioni compiute dalle squadre fasciste nella prima fase della loro attività, in poco meno di due anni. La prima edizione presenta notizie relative solo ad alcune zone: nella prefazione, che riproduciamo, si fa cenno a “un cumulo di circostanze” che non avrebbero consentito la presentazione di tutti i materiali disponibili e si rimandava a una successiva relazione più completa e dettagliata. Nel “cumulo” ci sono sicuramente proprio le difficoltà materiali a raccogliere e ordinare relazioni che continuavano ad arrivare alla redazione milanese del giornale, il vero e proprio centro di raccolta di una “inchiesta” concepita per dare un quadro di carattere nazionale il più esaustivo possibile, ma che aveva anche e soprattutto la necessità, tutta politica, di arrivare alla pubblicazione in tempi utili per una efficace azione di denuncia immediata all’opinione pubblica e alle istituzioni: da qui la fretta di arrivare a distribuire il libro durante la prima seduta del nuovo Parlamento.
La promessa di provvedere a una pubblicazione più completa fu comunque mantenuta con la seconda edizione ampliata, qui riproposta, che uscì nel marzo 1922 (sempre però con fatti risalenti a prima del giugno 1921), poco prima di un nuovo assalto alla sede milanese del giornale, in via Settala, dopo quello che aveva in un certo senso inaugurato le imprese dello squadrismo, avvenuto il 15 aprile 1919.5 Arricchito questa volta di oltre 500 pagine, con un impressionante apparato di foto di circoli e società operaie incendiate e di alcuni tra i militanti uccisi, insieme a dolenti indici di morti, feriti e sedi distrutte, l’uscita del libro può essere considerata uno sforzo notevole da parte della casa editrice legata a un Partito socialista ormai in piena crisi politica e organizzativa, una crisi che aveva già portato nel gennaio 1921 alla formazione del Partito comunista d’Italia e che vedeva una frammentazione politica e organizzativa esasperata dalle lotte di corrente.6 Nel periodo intercorso tra la prima edizione (giugno 1921) e la seconda (marzo 1922) si era interrotta la raccolta di materiali anche per il sopraggiunto “patto di pacificazione” dell’agosto 1921. Proprio per le circostanze sopra indicate il libro ebbe una modesta circolazione, anche se, come già detto, non passò inosservato. Inchiesta e denuncia rimangono perciò i tratti salienti anche di questa seconda edizione, a partire dal titolo più definitorio: Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia e dall’assenza di un proposito di analisi politica del fenomeno fascista nella sua espressione squadrista. Ovvio che, pur non essendo questa la finalità, sarà però a questo volume che si rifaranno, come si vedrà, le prime analisi del fenomeno squadrista e fascista, a partire dal saggio di Angelo Tasca scritto in Francia nel 1938.7
[…] Nel 1963 le Edizioni Avanti! di Gianni Bosio ripubblicarono, per il n. 69 della collana “Omnibus - Il gallo”, il testo del 1922. […] La nuova edizione del 1963 si situa nel clima della ripresa dell’antifascismo dopo le giornate del luglio 1960, con le aperture del governo Tambroni al Movimento Sociale, ma occorre tenere presente che per le Edizioni Avanti! di Bosio la riproposta di un titolo come questo non era certo casuale, bensì si inseriva in un filone di interesse verso il primo dopoguerra che aveva già spinto alla pubblicazione, tra gli altri, di testi come Il Diciannovismo di Pietro Nenni.8
Perché una nuova edizione di un testo come questo sullo squadrismo fascista nella fase della sua piena affermazione? La difficile reperibilità di un libro importante, se non altro come testimonianza di parte (quella sconfitta) e comunque citato da tutti i più attenti studi sull’argomento, a partire dal già menzionato saggio di Angelo Tasca, ormai un classico, fino ai più recenti e aggiornata, non è certo l’unica motivazione. La prima spinta, lo diciamo chiaramente, è reagire alla ormai consolidata tendenza degli ultimi due decenni a considerare il fascismo un regime “da operetta”, animato da una volontà di pulizia morale corrotta solo quando si forma il regime o quando Mussolini adotta le leggi antiebraiche e si lancia nell’impresa bellica cedendo alla “brutale” amicizia con la Germania nazista.9 In realtà, proprio se comparata con l’esperienza tedesca delle SA (Sturm Abteilungen, le camicie brune naziste, che trassero abbondante ispirazione dalle mussoliniane camicie nere), quella dello squadrismo italiano appare per radicalità, tecnica della violenza di piazza, numero delle uccisioni e degli episodi violenti un’esperienza di primo piano a livello internazionale, che fornì un triste esempio per i movimenti di estrema destra sorti negli anni Venti e Trenta del Novecento, con alterne fortune, in varie parti d’Europa; un’escalation di violenza che negli ultimi anni ha sollecitato un’attenzione sempre più significativa da parte degli studiosi.10
Un testo, questa Inchiesta, certo dichiaratamente di parte, quella “socialista” appunto, scritto da quasi tutti anonimi corrispondenti del quotidiano “Avanti!” e che ricorda le asprezze del conflitto, riportandone con vividezza le dinamiche delle spedizioni punitive e, come si vedrà, l’ampio ventaglio di violenze che vennero dispiegate. Molte delle relazioni inviate sono cronache dall’interno non solo delle azioni, ma anche e soprattutto del clima di intimidazione che viene instaurato nei paesi coinvolti. Solo in alcuni casi (il Polesine di Matteotti, e in particolare Reggio Emilia) si tenta un bilancio o una riflessione di tipo politico. Nella netta maggioranza dei casi, anche quando si individuano ambienti sociali ed economici ben definiti, come quelli della grande proprietà agraria e degli industriali, citati in quanto sostenitori economici delle azioni squadriste (e addirittura forniscono le cifre e i nomi dei finanziatori), di fronte alle imprese squadriste prevale un senso quasi di catastrofe naturale, come se si tratti di una specie di terremoto, una bufera tanto inattesa quanto devastante, che viene a rompere l’ascesa, ritenuta fino a poco tempo prima inarrestabile e confermata dai ripetuti successi elettorali, delle organizzazioni socialiste.
In realtà è bene ricordare che il primo dopoguerra italiano è caratterizzato da un aspro conflitto sociale e politico con numerosi e variegati episodi di violenza diffusa, di cui certo il fenomeno squadrista è parte integrante e assai significativa, ma non l’unico attore: dai disordini che accompagnarono le occupazioni delle terre incolte a quelli contro il caro viveri nel corso del 1919, dalle improvvise rivolte popolari alle vere e proprie sedizioni militari (l’ammutinamento di Ancona del 26 e 27 giugno 1920, solo per fare un esempio) fino all’occupazione delle fabbriche nell’autunno dello stesso anno. La storiografia si è a lungo interrogata in che misura questi fatti, a lungo riassunti nella definizione “biennio rosso”, siano dovuti a moventi politici e quanto invece nascano dal disagio di un paese uscito stremato dalla guerra, gravato da un’inflazione galoppante, nel contesto di un’Europa attraversata da una fase di acuta instabilità politica e istituzionale e con un movimento operaio e socialista in larga parte attratto dall’esempio della nascente Russia sovietica. Il tutto mentre andava diffondendosi l’impressione dell’impotenza del regime liberale parlamentare e della impraticabilità o scarsa efficacia della democrazia rappresentativa nel contesto della Monarchia sabauda, tra aspettative tradite, disillusioni, un grado di povertà diffuso e forti spaccature socioeconomiche e culturali.
È indubbio che anche lo sconvolgimento politico, sociale e morale generato dalla mobilitazione totale durante i quattro anni di guerra abbia contribuito non poco a creare un clima estremamente instabile all’indomani della conclusione dell’armistizio, in cui probabilmente un generale indebolimento della capacità coercitiva delle regole e degli “inibitori” morali e psicologici, della forza di tenuta della società nel suo complesso, concorsero a creare un clima particolarmente favorevole all’esplosione della violenza. Un insieme di atteggiamenti, comportamenti e suggestioni culturali che sono stati riassunti nell’espressione “brutalizzazione della politica”, che secondo una parte significativa della più aggiornata storiografia avrebbe caratterizzato la cosiddetta “guerra civile europea” tra il 1914 e il 1945, al centro della riflessione, tra gli altri, di Enzo Traverso, che ha dedicato alla nascita di formazioni paramilitari di vario orientamento un’attenzione particolare.11 Giulia Albanese ha opportunamente ricordato come progetti autoritari e dittatoriali comincino a circolare fin dal 1919, quindi prima della fase più acuta del protagonismo operaio, a partire dall’interesse di senatore Borletti, a nome degli industriali milanesi, per l’impresa di D’Annunzio, con il suo viaggio a Fiume, finalizzato a tastare la possibilità di un colpo militare e di una “marcia verso l’Italia”, così come le osservazioni di un esponente del nazionalismo politico come Alfredo Rocco a favore di una soluzione autoritaria in grado di garantire la pace sociale.12 Strade che non verranno percorse, ma che certo dicono non poco sul clima politico nell’immediato primo dopoguerra e sulla crisi degli assetti istituzionali.
Si inserisce in questo quadro la nascita dei Fasci di combattimento. Fondati il 23 marzo 1919, nel corso della famosa riunione di Piazza San Sepolcro a Milano, i Fasci di combattimento adottano un programma volto a riaffermare con decisione la valorizzazione della vittoria e, nel contempo, molto articolato e avanzato sul piano sociale e politico, nell’ambito di una scelta istituzionale di tipo repubblicano. Un programma presto accantonato in nome di una prassi mussoliniana assai spregiudicata, la cui sostanza reale, al di là dell’autorappresentazione “rivoluzionaria” pure sinceramente sentita da molti giovani militanti, era ben sintetizzata già nel gennaio 1920 da un esponente all’epoca di primo piano del movimento, squadrista della prima ora lui stesso, Cesare Rossi: «È tempo di proclamare francamente che […] si ha il dovere di essere risolutamente dei conservatori e dei reazionari. Di reagire cioè contro i salti nel buio; di conservare, cioè, quello che di solido, d’organico, di sano offre la classe sociale oggi al potere».13
La pubblicazione dell’Inchiesta coincide con una fase molto intensa della casa editrice socialista che, dal canto suo, riflette bene la temperie del periodo: proprio tra il 1919 e il 1922 dava infatti alle stampe collane quali “Documenti della rivoluzione” e “Problemi della rivoluzione”, con cui si intendeva dare conto dell’ondata insurrezionale “in potenza e in atto” aperta dall’Ottobre russo nel contesto europeo, il tutto finalizzato a una prima informazione sulle esperienze delle repubbliche sovietiche in Russia e Ungheria e con la traduzione dei principali testi prodotti dall’Internazionale comunista.
Oltre che per la pubblicazione di libri, un grande impegno venne profuso anche nella produzione di quadri, manifesti, bandiere con l’effige di Marx, ecc. Tutto materiale, come si vedrà presto, particolarmente ricercato dagli squadristi e usato come trofeo dopo i saccheggi delle sedi socialiste. Le devastazione dei simboli delle organizzazioni socialiste e comuniste va considerata parte integrante e assai significativa delle spedizioni punitive. Non va infatti dimenticato che gli attacchi e le devastazioni alle sedi del giornale e, più in generale, dei periodici locali e delle librerie legate al PSI, inaugurate come già detto con l’assalto alla sede milanese il 15 aprile 1919, costituirono una delle costanti nella lunga scia delle azioni squadriste che terminavano spesso con dei falò di opuscoli e giornali nella piazza principale del paese. Significativamente a coloro che ordinavano il “Pacco del bibliofilo” (72 volumi a prezzo scontato ritenuti necessari per avviare una piccola biblioteca socialista di circolo) la Società editrice Avanti! offriva in omaggio una copia di un volume delle opere di Marx, Engels e Lassalle danneggiata dal fuoco come «cimelio dell’incendio dell’Avanti!».14 Il 20 luglio 1919 fu la volta della tipografia dell’“Avanti!” di Roma, con il giornale che commentava che da ogni nuovo incendio sarebbero sorte «nuove fiamme alimentatrici della nostra passione rivoluzionaria». In realtà il giornale, con la formazione di tre edizioni dall’indirizzo tra di loro quasi contrapposto (Roma, Milano, Torino) viveva una fase di confusione e disorientamento anche dal punto di vista ideologico e politico, per cui il sarcasmo di Gaetano Arfè sembra avere più di un fondamento:
[…] il continuo divampare della passione rivoluzionaria non si accompagna a nessun tentativo di esercitare una guida all’azione rivoluzionaria. Mentre gli eventi corrono con ritmo sempre più veloce e la controffensiva borghese comincia a insanguinare quasi quotidianamente le strade d’Italia, l’“Avanti!” continua a essere il bollettino di una rivoluzione che non si fa mai, seguita a mantener viva l’agitazione senza mettere in circolazione nessuna idea chiara, a riflettere passivamente uno stato di cose nel quale il movimento socialista si va disarticolando sempre più e ogni organismo finisce per agire per conto proprio.15
Ancora nel maggio 1920 Alessandro Schiavi, collaboratore di Filippo Turati e tra i dirigenti e animatori della casa editrice, poteva notare come «il 15 aprile 1919 coronava la serie degli attentati alle cose nella illusione di distruggere l’idea».16 Un atteggiamento di grande nobiltà e coerenza morale, cui però solo un anno dopo, cioè nella sanguinosa primavera del 1921, non sarà facile attenersi per una parte non insignificante dei disorientati militanti socialisti e iscritti alle leghe contadine. Insieme al consolidamento e alla straordinaria crescita numerica del movimento fascista a livello nazionale, passato da circa 20.000 iscritti nel dicembre 1920 ai 187.588 del maggio 1921, e, come abbiamo visto, all’intensificarsi delle spedizioni punitive e del numero di morti e feriti, comincia a prendere corpo, infatti, una sfiducia e una rassegnazione che trapela spesso dalle drammatiche cronache dell’Inchiesta, pure redatta da militanti convinti. Tra smarrimento, disperazione e isolamento serpeggia in alcuni casi un’accettazione dei nuovi equilibri tra le classi che sembra caratterizzarsi come opportunistico adeguamento di fronte ai nuovi padroni della piazza. In alcune zone (nel Ferrarese in particolare) le organizzazioni sindacali fasciste, divenute presto di fatto le uniche autorizzate a trattare con i datori di lavoro, hanno soppiantato gli uffici di collocamento delle camere del lavoro e si apprestano a essere il tramite obbligato per ottenere un minimo di sussistenza. Non pochi leader delle leghe contadine, che alla fraseologia roboante associavano una superficiale o demagogica adesione ai principi socialisti, passano infatti in pochi mesi nelle file dei sindacati fascisti. Nel testo si parla di masse “prigioniere” per l’azione coercitiva subita, ma emerge anche tra le righe la difficoltà di accettare (e prima ancora di concepire) un processo che sembrava smentire nei fatti un’immagine del proletariato come votato al socialismo per natura:
Il piano fascista, per mantenersi, ha dovuto necessariamente crearsi un suo programma economico-politico anche per resistere all’urto delle necessità delle masse operaie che conquistava e faceva prigioniere. Diciamo conquistate e fatte prigioniere perché non è possibile ammettere che delle organizzazioni composte di migliaia di operai e operaie passino, coscientemente, all’altra sponda – abdicando ai loro interessi diretti, alle loro necessità immediate, alle loro dottrine, alla fede che da trent’anni è anima della loro vita – semplicemente per il fatto di vedersi bruciata la sede dell’organizzazione o bastonati e terrorizzati i dirigenti e gli iscritti.17
Proprio nel corso del 1921, l’“anno fascista” come lo ha definito Emilio Gentile, man mano che le violenze squadriste disarticolano non solo materialmente ma anche moralmente le organizzazioni contadine e operaie, attraverso l’instaurazione di un clima di terrore e intimidazione (per esempio con il divieto di cantare inni di lotta o esporre simboli e bandiere), queste vivranno una crisi irreversibile che l’Inchiesta registra e descrive spesso in modo assai efficace. Tuttavia per tutta una prima fase si può convenire con le osservazioni di Chiara Barontini, secondo cui «sulle pagine dell’“Avanti!” e degli altri periodici socialisti si compie una vera e propria celebrazione del martirio, con termini che riecheggiano la concezione cattolica del dolore e della sofferenza come mali necessari per la crescita interiore».18
Nell’inverno 1920 le zone più colpite sembrano essere Bologna, Ferrara e Reggio Emilia, mentre la Venezia Giulia e Trieste, con il loro “fascismo di frontiera” antislavo, hanno già costituito un modello organizzativo in fatto di organizzazione delle bande e tipologia degli assalti a sedi e circoli socialisti.
Ormai non più composte da un’esigua minoranza di ex arditi “aristòcrati del combattentismo”, le squadre si gonfiano nel corso del 1921 e del 1922 di elementi provenienti in prevalenza dal ceto medio, ma vedono anche il protagonismo di figure di avventurieri, giovani o giovanissimi studenti idealisti, nobili decaduti (è il caso del fiorentino Dino Perrone Compagni), insieme a esponenti della criminalità comune e popolani. Una convivenza non di rado instabile e conflittuale, che lo stesso Mussolini, come noto, stenterà a gestire in alcuni frangenti particolarmente delicati della vita politica, come nel caso del patto di pacificazione tra movimento fascista e organizzazioni politiche e sindacali legate al PSI, stipulato nell’agosto 1921 e contrastato energicamente da buona parte dei ras dello squadrismo soprattutto agrario.
Tornando al clima di intimidazione e terrore come effetto primo e duraturo delle azioni squadriste, questo è reso in forma quasi esemplare nelle parole pronunciate da Giacomo Matteotti nel suo discorso alla Camera del 10 marzo 1921 (al punto che c’è chi ha parlato di “sistema Polesine”), che all’interno dell’Inchiesta apre le relazioni dai vari territori. La violenza è tanto più efficace quanto più arriva inaspettata e nei luoghi familiari, dentro le abitazioni, investe le persone care ai militanti colpiti, sconvolge i ritmi abituali del riposo e della quotidianità:
Nel cuore della notte, mentre i galantuomini sono nelle loro case a dormire, arrivano i camion di fascisti nei paeselli, nelle campagne, nelle frazioni composte di poche centinaia di abitanti […]. Si presentano davanti a una casetta e si sente l’ordine: “Circondate la casa”. Sono venti, cento persone armate di fucili e rivoltelle. Si chiama il capolega e gli si intima di scendere. Se il capolega non discende gli si dice: “Se non scendi ti bruciamo la casa, tua moglie, i tuoi figlioli”. Il capolega discende; se apre la porta lo pigliano, lo legano, lo portano sul camion, gli fanno passare le torture più inenarrabili fingendo di ammazzarlo, di annegarlo, poi lo abbandonano in mezzo alla campagna, nudo, legato a un albero. […] Nelle disgraziate campagne del Polesine ormai si sa che quando si batte di notte alla porta di casa […] è la condanna a morte.19
Sul carattere direttamente “ostentativo” dell’esercizio della violenza squadrista, tendente cioè prima di tutto a impressionare e intimidire l’avversario, si è soffermato particolarmente Sven Reichardt, che ha sottolineato anche come atteggiamenti, gesti, abbigliamento e altra simbologia politica visiva e acustica (i canti per esempio) abbiano svolto un ruolo non secondario. Quindi non solo la violenza direttamente esercitata, ma anche la dimostrazione pubblica della forza e del concetto di ordine di cui voleva essere portatore il fascismo diventano altrettanti caratteri costitutivi dell’identità e della cultura politica fascista, praticate poi in modo massiccio nella seconda metà del 1921. Altro elemento non da poco è la capacità di consolidare il gruppo attraverso le esperienze comuni di lotta, soprattutto se mortali: «il sangue unisce», nota lo studio tedesco (sia quello proprio versato attraverso l’esemplarità e il culto dei “martiri” abilmente alimentato, sia quello degli avversari), crea legami potenti, consolida complicità, produce un cameratismo guerriero dagli echi quasi ancestrali, che per alcuni appare venato addirittura da suggestioni mistiche. La disponibilità allo scontro fisico e all’uso delle armi diventa un tratto identitario durevole, costitutivo.20 Ma è prima di tutto la capacità di esibire e ostentare la propria capacità di sottomettere con la forza l’avversario a segnare presto uno scarto, che le sporadiche azioni difensive social-comuniste e anarchiche non saranno in grado di colmare. Già un attento osservatore del tempo di parte libertaria, Luigi Fabbri, aveva colto questo aspetto con tutto il suo carico di omertà e autoumiliazione derivante dal subire quotidianamente lo spettacolo della violenza minacciata, prima ancora che agita:
È un errore, oltre al resto, per giudicare sulle violenze delle due parti in contesa in questa guerriglia, il tener conto solo dei cadaveri sul terreno. Benché essi siano così numerosi, sono sempre piuttosto eccezioni che regola. La violenza peggiore, quella che lascia più strascichi di rancori, è la violenza quotidiana che non uccide un uomo o due o tre, ma minaccia tutta una classe, offende con l’uso del bastone la dignità umana a molti più cara della vita […]. E di questa specie di violenze, che hanno conseguenze meno letali o sanguinose, ne avvengono ogni giorno ovunque, quasi esclusivamente a opera di fascisti. In certe plaghe sono diventate così normali, che non si denunciano, non si raccontano più, e la stessa stampa sovversiva non ne parla.21
La paura diventa il primo effetto delle spedizioni punitive: la morte costantemente minacciata e simulata è uno degli stratagemmi più ricorrenti, ottiene un’efficacia maggiore dell’uccisione, perché permette di allargare gli effetti della violenza reale o simulata ben oltre lo scontro tra minoranze organizzate, riesce a coinvolgere in modo più o meno diretto l’intera popolazione del territorio investito dall’azione punitiva, influisce pesantemente sulle coscienze, blocca preventivamente sul nascere qualsiasi forma di reazione.22 L’azione squadrista è quindi totalizzante: l’intimidazione e la violenza si dirigono in diverse direzioni e sono volte a reprimere non solamente il “nemico sovversivo” ma anche a occupare ogni spazio pubblico e politico. In alcuni casi anche i medici condotti che soccorrono gli esponenti socialisti feriti sono a loro volta oggetto di violenza e intimidazioni e considerati complici. In questo senso la lunga appendice dedicata ai giornalai e agli abbonati, che implorano l’amministrazione dell’edizione milanese dell’“Avanti!” di non spedire il giornale per evitare le spedizioni squadriste, sono quanto mai eloquenti: in poche frasi sintetizzano infatti uno stato di angoscia e impotenza diffuso nei territori, quelli del reggiano ad esempio, fino a pochi mesi prima ritenuti inespugnabili.23 Proprio in Emilia si arriva alla costituzione di “tribunali” nelle sedi locali dei Fasci in cui vengono comminate condanne, regolarmente trascritte in appositi registri, a base di bastonature (8, 10, 12, ecc.) eseguite da più che zelanti squadre, secondo la gravità del presunto “reato” commesso e dell’età della vittima. Questa sarà perciò colpita alla testa se giovane, alla schiena o al costato se anziano, mentre alle donne, soprattutto se indossano nastrini o camicie rosse oppure osano cantare canzoni “sovversive”, si riserva più pudicamente la somministrazione di un liquido oleoso indelebile sui vestiti e sul viso.
Seguendo la periodizzazione suggerita da Mimmo Franzinelli in quello che può essere considerato il più completo lavoro d’insieme sull’argomento, gli eventi qui narrati si riferiscono appunto al periodo che va dai primi mesi del 1919 al maggio-giugno 1921, cioè le prime due fasi del fenomeno: quelle che dalla prima caratterizzazione urbana, con protagonisti gli arditi e i futuristi, aveva visto dopo l’estate 1920 la crescita travolgente del fascismo agrario, lo strutturarsi delle squadre in grado di darsi armamenti e sedi (grazie soprattutto al robusto sostegno economico dei ceti possidenti) e il dilagare e il moltiplicarsi delle azioni contro militanti e istituzioni, case del popolo, cooperative e circoli del movimento socialista.24 Alleanze di difesa cittadina, leghe antibolsceviche, gruppi di nazionalisti, arditi e futuristi sono il contesto, l’ampio movimento d’ordine che precede e accompagna la formazione dei fasci e delle squadre, nella fase in cui sembra aprirsi uno spazio non indifferente di complicità e sostegno anche da parte di pezzi consistenti della magistratura e degli apparati statali per chi si rendeva disponibile allo scontro fisico con le organizzazioni del movimento operaio, un’area che però almeno fino alla metà del 1920 stentava a trovare un’unica espressione politica organizzata.
Nella prima fase, come già accennato, era stato forte il radicamento e la caratterizzazione in senso nazionalista e razzista antislavo, con Trieste, Friuli e Venezia Giulia in primo piano, poi il movimento dilaga rapidamente nella pianura padana e investe con estrema radicalità Emilia Romagna e Toscana. Proprio in Toscana si sviluppa, come noto, uno degli ambienti squadristi più tristemente noti per efferatezza: le province di Pisa, Massa Carrara, Siena, Arezzo e Grosseto vedono il dilagare di episodi di violenza a sedi e persone.25 Roberto Vivarelli riguardo alla genesi dello squadrismo agrario, con uno sguardo non localistico al caso toscano, ha a suo tempo sottolineato come la crisi di legittimità dello stato liberale e insieme la politicizzazione delle masse contadine avesse alimentato tra queste un’aspettativa di miglioramento socio-economico che finì per entrare in contrasto diretto con un ceto di possidenti contrario a mettere in discussione gli antichi rapporti di dipendenza. Tuttavia, secondo i più attenti studiosi del fenomeno squadrista, il campo di battaglia decisivo può essere considerata l’Emilia Romagna, con al centro l’assalto alla sede municipale di Bologna, Palazzo d’Accursio, in cui era insediata l’amministrazione socialista.26
L’assalto al municipio “rosso” di Bologna, il 21 novembre 1920, con il suo macabro carico di morti (11 socialisti e un fascista) e di feriti circa 60), e l’attiva partecipazione di carabinieri e guardia regia a fianco degli squadristi, fece da moltiplicatore per una serie intensissima di violenze squadriste, alimentando l’immagine di invincibilità delle truppe fasciste, ormai in grado di avere il controllo del territorio non solo nelle campagne ma anche in un contesto urbano fino ad allora considerato quasi inespugnabile. Unanime l’accordo degli studiosi sul fatto che lo sviluppo del movimento fascista e il suo tasso di aggressività furono tanto maggiori proprio laddove i socialisti si erano più saldamente affermati, come ricorrente l’accento sull’atteggiamento passivo se non apertamente complice delle forze dell’ordine. Bisogna però aggiungere che non furono risparmiate vaste aree tradizionalmente rimaste sotto il controllo dell’ala riformista del PSI, come nel caso del Polesine di Giacomo Matteotti.27
Diviso per area geografica, il testo presenta un lungo susseguirsi di eventi narrati in modo essenziale e cronachistico da militanti che restano anonimi: dal Polesine, appunto, a Belluno e al Veneto, e poi la Lombardia, il Piemonte e l’Emilia, soprattutto per quanto riguarda le aree rurali. Spazio significativo è riservato alle campagne dell’Italia centrale, in particolare della Toscana e dell’Umbria, mentre il Meridione trova una più ridotta trattazione, soprattutto per il minore radicamento delle organizzazioni socialiste. L’unica regione meridionale che si trovò almeno in parte in condizioni simili a quelle settentrionali è non a caso la Puglia, che aveva visto la crescita di un movimento organizzato dei lavoratori e dove esisteva un’agricoltura relativamente sviluppata e forti tensioni fra proprietari terrieri e contadini. Le azioni degli squadristi ebbero nella primavera del 1921 una fase di estrema virulenza nella bassa Padana, in Venezia Giulia e in Toscana: qualcosa come 550 sedi su 756 distrutte, cioè circa il 75%, erano concentrate in queste zone, e l’inchiesta socialista documenta anche dal punto di vista fotografico la dinamica degli assalti e degli incendi.28
Il ricorso alla violenza, sotto varie forme, non fu certo prerogativa dei soli fascisti. Da ricordare opportunamente sono la permanenza di una legislazione d’emergenza da parte dello Stato e quella esercitata da parte del movimento dei lavoratori, legata soprattutto al tipico “delitto di folla”, mentre nelle fasi di più acuto scontro sociale non mancarono intimidazioni nei confronti dei datori di lavoro, sabotaggi, ecc. È quasi banale ma non inutile ricordare che la violenza politica non è evidentemente un’invenzione del fascismo, e che nella fase di aspra conflittualità sociale del primo dopoguerra lo stesso movimento operaio e socialista non mancò in varie occasioni di utilizzare strumenti di intimidazione anche violenti. Quindi non si tratta di vedere delle “vittime sacrificali”, ma di collocare l’uso organizzato, professionale, della violenza fatto dal fascismo nell’ambito di uno scontro sociale durissimo. Questo tenendo anche conto che, al di là della retorica guerresca e pseudorivoluzionaria, gli squadristi godettero di una relativa impunità da parte della magistratura e delle forze dell’ordine, che non riservarono lo stesso accondiscendente se non apertamente complice trattamento ai militanti socialisti, comunisti e anarchici. Salvatore Lupo, come altri attenti studiosi, ha parlato di «disorganica violenza difensiva» a proposito di sindacati e militanti legati al PSI, ricordando anche come all’8 maggio 1921 i denunciati socialisti fossero 1421 di cui 617 a piede libero, mentre tra gli 878 denunciati fascisti solo 396 risultavano arrestati.29 Va detto che il tentativo di rispondere allo squadrismo sullo stesso piano, quello dell’esercizio della violenza, fu di fatto escluso fin dall’inizio, a parte episodi sporadici e non pianificati. Una vera e propria risposta in questo senso riguardò una piccola parte di militanti del movimento operaio e prese corpo dal punto di vista organizzativo soprattutto a partire dall’estate 1921, quindi fuori dall’ambito cronologico dell’Inchiesta. Grazie a studiosi come Eros Francescangeli o Marco Rossi è oggi disponibile una rigorosa e attendibile storiografia sull’esperienza degli “arditi del popolo”, di fatto osteggiata con varie e diverse motivazioni dal PSI e dal PCd’I e sostenuta da minoranze dei due partiti (ma con una presenza alquanto variegata, dall’area anarchica libertaria a quella repubblicana) e da singoli militanti socialisti e comunisti, spesso accomunati dalla recente esperienza bellica.30
Come già accennato, molto importante e costantemente registrata dall’Inchiesta fu la lotta per i simboli politici: la consegna o l’asportazione delle bandiere rosse è praticamente una regola, ricorrenti i falò in piazza degli opuscoli e del materiale trafugato dalle sedi devastate così come ripetuti gli scontri in occasione di canti e inni contrapposti.
Ampiamente presenti le varie tipologie di violenze e intimidazioni: dal “bando”, cioè l’esilio dei dirigenti più in vista dalle loro case e strutture associative proletarie, alle bastonature, alle devastazioni delle sedi, agli ultimatum per lo scioglimento delle giunte comunali guidate dai socialisti, ma anche descrizioni di scontri all’interno di caffè, osterie e luoghi di ritrovo, in una lotta senza quartiere che aveva nel controllo del territorio una delle espressioni più ricorrenti.
La riproposizione dell’Inchiesta può essere inserita anche nei dibattiti storiografici sull’uso della categoria di “guerra civile” applicata da Claudio Pavone nell’ormai classico studio sulla resistenza e allargata da Enzo Traverso, Fabio Fabbri e altri agli anni del primo dopoguerra italiano ed europeo. Giulia Albanese e Roberto Bianchi, in particolare, hanno insistito sulla permanenza di una legislazione di emergenza anche dopo la fine della Grande Guerra, in un tentativo di disciplinamento in senso autoritario anche se non apertamente ed esclusivamente terroristico delle agitazioni rurali e urbane animate dalle organizzazioni del movimento operaio e contadino.31
Se è da condividere l’impostazione di Robert Paxton, secondo cui nella fase delle origini non si può ritenere scritto tutto il successivo sviluppo del movimento, è comunque assodato che lo squadrismo sia stato nei fatti una matrice originaria del fascismo. Le conoscenze sulle origini del fascismo si sono intanto estremamente ampliate con una larga messe di studi locali, mentre ha visto recentemente la luce il terzo volume della pluridecennale sintesi di Roberto Vivarelli sugli anni della crisi dello stato liberale e della nascita del movimento mussoliniano.32
Qui, sempre a proposito di “guerra civile”, si avvalora peraltro l’idea dell’autorappresentazione del movimento fascista come difensore della “rinascita nazionale” contro le “forze antinazionali”, in primo luogo ovviamente i socialisti. Quella fascista si configurerebbe in sostanza come una risposta difensiva (certo alla fine eccedente lo stesso quadro liberale), in nome degli interessi nazionali, all’ondata di agitazioni sociali, violenze, attacco alla legittimazione delle istituzioni statali liberali conseguente alla suggestione “soviettista” dell’Ottobre russo. La tendenza di molti ultimi lavori è invece quella appunto di ridimensionare il ruolo svolto dal massimalismo socialista del “biennio rosso” (1919-20), visto come un periodo caratterizzato dall’offensiva delle forze socialiste e del movimento operaio sull’onda della suggestione rivoluzionaria, mentre si insiste fortemente sul nesso violenza/politica e in particolare sulla “brutalizzazione della politica” come portato dei nuovi quadri mentali della Prima guerra mondiale, legato al contesto di un conflitto sociale durissimo. Secondo Fabio Fabbri,
più che dalla paura del bolscevismo e della rivoluzione alle porte, il clima politico e sociale fu condizionato dall’affermazione di un potere contrattuale fra i contadini, dalla richiesta del controllo sui ritmi di lavoro da parte degli operai, tutti principi democratici su cui si scagliarono prima gli agrari e poi gli industriali.33
“Altri tempi, altri luoghi” è il titolo che Paxton ha trovato per uno dei capitoli della sua brillante sintesi sul Fascismo in azione, riguardo alla storia dei fascismi. Eppure di fronte alle notizie che ci arrivano da tutta Europa sulla ripresa e lo sviluppo di organizzazioni di carattere apertamente xenofobo e parafascista o addirittura neonazista non si può restare indifferenti. Il proliferare sul web di siti che inneggiano a figure ed eventi legati al nazifascismo, e non di rado allo stesso squadrismo magari trasfigurato in una luce di mistica della violenza, non deve solo preoccupare o spingere a discorsi edificanti.34 Ripubblicare un testo come questo vuole essere un piccolo ma, si spera, duraturo e significativo contributo se non certo a colmare, almeno a contrastare la dilagante e sostanziale ignoranza sulla natura del fascismo e del suo culto della violenza, non solo come mezzo necessario o inevitabile per conquistare o preservare un determinato modello sociale e politico (tratto comune praticamente a quasi tutte le culture politiche, anche progressiste), ma anche e soprattutto come fine in se stesso, come prefigurazione di una società governata da élite guerresche in nome e per conto di una “comunità di popolo” chiamata a obbedire, oltre che a “credere” e combattere.
Il fascismo italiano in quanto regime è stato certo anche altro, ma la matrice più profonda resta quella squadrista, ancora oggi rivendicata da chiassose minoranze. È certo compito della critica storica fornire strumenti per lo studio di passaggi drammatici e complessi come gli anni tra il 1919 e il 1921, soprattutto per quanto riguarda il ruolo e l’impatto avuti dallo squadrismo nel contesto sociale e politico dell’Italia del tempo, qui descritto attraverso il linguaggio piano e accessibile di semplici e anonimi militanti.
In questo senso le pagine drammatiche e umane di questa Inchiesta, così dense di vibrante indignazione e di commossa denuncia, possono non solo contribuire a una migliore conoscenza del fenomeno, ma anche a far riflettere sul senso più profondo e non retorico di parole come “democrazia” e “giustizia sociale”.
Paolo Mencarelli
(Il saggio rappresenta l’Introduzione al volume: Paolo Mencarelli (a cura di), Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Milano, Biblion Edizioni, 2019).
Note
1 Milano, Società editrice Avanti!, 1921.
2 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile. L’Italia dalla Grande Guerra al fascismo. 1918-1921, Torino, Utet, 2009, che dedica particolare attenzione alle “elezioni della reazione” (pp. 518-519, 532-533) e soprattutto corredato da appendici molto utili, in particolare la prima “Statistiche della violenza” (pp. 615-622). Le statistiche sulle vittime della violenza politica della Direzione generale della Pubblica sicurezza sono state pubblicate integralmente in Emilio Gentile, Storia del partito fascista 1919-1922. Movimento e milizia, Bari, Laterza, 1989 (pp. 472-475). Le violenze non risparmiarono la stampa socialista e la casa editrice legata al PSI, le librerie, le biblioteche popolari e le tipografie (a Rovigo si impedì la pubblicazione del settimanale, furono minacciati gli uffici postali; a Pola fu incendiata la tipografia de “Il Proletario”). Sul lavoro di raccolta di dati fatto da Gaetano Salvemini nella prospettiva di un “calendario dei morti” per mano fascista prima della marcia su Roma, vedere Giovanni Scirocco, Un dialogo non interrotto: Arfè e Salvemini tra storia e politica, in “Passato e Presente”, n. 77 (2009), pp. 71-73.
3 Cfr. Mirco Dondi, La stampa liberale di fronte allo squadrismo e al fascismo (1919-1922), in “Mondo contemporaneo”, fasc. 2 (2017), pp. 5-34.
4 Cfr. Mimmo Franzinelli, Squadristi: protagonisti e tecniche della violenza fascista. 1919-1922, Milano, Mondadori, 2003. Di grande utilità per una più ampia conoscenza del fenomeno squadrista sono in particolare gli “apparati”, con un “Dizionario biografico dello squadrismo”, contenente cento profili dei principali squadristi, molti dei quali citati nell’Inchiesta, e una “Cronologia della violenza politica (1919-1922)”. Cfr. anche Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 617-618. Per parte fascista, Giorgio Alberto Chiurco, squadrista lui stesso e primo storiografo del movimento, nella sua monumentale Storia della rivoluzione fascista, Firenze, Vallecchi, 1929, parla di un totale di 180 vittime tra gli squadristi negli anni 1919-1923. Da vedere anche le considerazioni di Salvatore Lupo in Il fascismo: la politica di un regime totalitario, Roma, Donzelli, 2000, pp. 106-107, nel quale si parla di circa 3000 morti solo nel periodo 1921-1922 e di 672 morti fascisti tra il 1919 e il 1922. Per un quadro generale dell’esperienza squadrista anche negli anni del regime, cfr. Matteo Millan, Squadrismo e squadristi nella dittatura fascista, Roma, Viella, 2014.
5 Prendendo a pretesto l’attentato al Teatro Diana il 23 marzo 1922, operato da alcuni anarchici che intendevano rispondere alla carcerazione di Enrico Malatesta, gli squadristi assaltavano la nuova sede del quotidiano socialista in via Settala 22, dove pochi giorni prima era stata pubblicata l’edizione del libro. Dopo essersi aperti una breccia con le bombe e aver incendiato i capannoni con carta e macchinari, gli assaltatori impedirono ai pompieri di intervenire.
6 Tra le sintesi sulla storia del PSI, e in particolare del periodo in questione, si rimanda in particolare a Maurizio Degl’Innocenti, L’età giolittiana, in Storia del socialismo italiano, a cura di Giovanni Sabbatucci, Roma, Il Poligono, 1980-81, vol. II.
7 Angelo Tasca, Nascita e avvento del Fascismo, a cura di Sergio Soave, Firenze, La Nuova Italia, 1996. La prima edizione uscì per Gallimard nel 1938 durante l’esilio dell’autore. In italiano venne pubblicata da Laterza nel 1965 e più volte riedita. A cura di David Bidussa la nuova edizione, con il titolo Nascita del Fascismo, Bollati Boringhieri, 2006.
8 Pietro Nenni, Il Diciannovismo (1919-1922), a cura di Gioietta Dallo, Milano, Edizioni Avanti!, 1962.
9 Cfr. Stefano Pivato, Vuoti di memoria: usi e abusi della storia nella vita pubblica italiana, Roma-Bari, Laterza, 2007; Angelo Del Boca (a cura di), La storia negata: il revisionismo e il suo uso politico, Vicenza, Neri Pozza, 2009. Sulla figura edulcorata e quasi bonaria di Benito Mussolini, e sull’immagine del fascismo nei giornali popolari, vedere l’intervista di Marco Dotti a Mimmo Franzinelli: La fabbrica del consenso, in “Il Manifesto”, 24 maggio 2013. Sul modello del fascismo italiano in chiave europea, cfr. Giulia Albanese, Dittature mediterranee. Sovversione fascista e colpi di stato in Italia, Spagna e Portogallo, Bari, Laterza, 2016.
10 Tra la vastissima bibliografia italiana e internazionale sull’argomento si segnalano almeno: Sven Reichardt, Camicie nere, camicie brune. Milizie fasciste in Italia e in Germania, Bologna, Il Mulino, 2009; Robert O. Paxton, Il fascismo in azione: che cosa hanno veramente fatto i movimenti fascisti per affermarsi in Europa, Milano, Mondadori, 2005.
11 Cfr. Enzo Traverso, A ferro e a fuoco. La guerra civile europea. 1914-1915, Bologna, Il Mulino, 2007, pp. 61-91. Per una messa a punto sulla storiografia, vedere Enrico Acciai, Italia 1918-1922: sull’uso della categoria di guerra civile, in “Officina della storia. Rivista on line di storia del tempo presente”, n. 6 (2011), https://www.officinadellastoria.eu/it/2011/07/17/italia-1918-1922-sulluso-della-categoria-di-guerra-civile-2.
12 Cfr. Giulia Albanese, La marcia su Roma, Roma-Bari, Laterza, 2006, pp. 15-18.
13 Cesare Rossi, Non vogliamo salti nel buio, in “Il popolo d’Italia”, 22 gennaio 1920, citato in Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., p. 161.
14 Chiara Barontini, La Società editrice Avanti!. Profilo storico di una casa editrice socialista (1911-1926), in “L’Almanacco”, a. XXII, n. 43 (dicembre 2004), pp. 11-121; della stessa Barontini da vedere anche l’accurato studio bibliografico Il catalogo della Società editrice Avanti!, in “L’Almanacco”, a. XXIII, n. 46 (giugno 2006), pp. 1-127.
15 Gaetano Arfè, Storia dell’Avanti!, Milano, Edizioni Avanti!, 1956, p. 170. Milano restava la città sede dell’edizione principale del giornale. Per la realtà del socialismo milanese, cfr. Ivan Granata, Milano “rossa”. Ascesa e declino del socialismo milanese (1919-1926), Milano, Mimesis, 2018.
16 Alessandro Schiavi, La casa nostra, in “Avanti!”, 1 maggio 1920.
17 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, cit., p. 264. Argentina Altobelli, organizzatrice infaticabile del movimento contadino emiliano, descrive bene in una sua nota lettera il “fascista proletario”, animato solo da un odio inestinguibile «alimentato in trincea tra la sofferenza e la paura», con implicito riferimento allo stesso Benito Mussolini, passato dalla retorica sulla dittatura proletaria all’essere semplicemente «un sicario pagato dagli agrari»; cfr. https://www.fondazionealtobelli.it/fondazione/la-mostra-su-argentina-a-disposizione-il-materiale/
18 Chiara Barontini, La Società editrice Avanti!, cit., p. 40.
19 Fascismo: inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, cit., pp. 21-22.
20 Sven Reichardt, Camicie nere, camicie brune, cit., p. 70. A questo proposito viene evidenziata una differenza importante nel contesto tedesco rispetto a quello italiano, ovvero il grande attivismo delle formazioni paramilitari legate al KPD, il partito comunista tedesco, nel contrastare sul piano armato le pur efficienti SA, e la minore complicità degli apparati dello stato tedesco rispetto alla relativa impunità di cui poterono godere le camicie nere.
21 Luigi Fabbri, La controrivoluzione preventiva, Bologna, Cappelli, 1922, pp. 225-226, ora nella nuova edizione Milano, Edizioni zero in condotta, 2009.
22 Su questi aspetti della violenza squadrista, vedere la rassegna storiografica di Matteo Millan, L’«essenza del fascismo»: la parabola dello squadrismo tra terrorismo e normalizzazione (1919-1932), Tesi di Dottorato, relatore prof. Carlo Fumian, Scuola di Dottorato in Scienze storiche, Università degli Studi di Padova, Dipartimento di Storia, 27 gennaio 2011.
23 La figura dell’anziano Camillo Prampolini, rimasto quasi da solo a difendere la tipografia de “La Giustizia”, cui gli squadristi concedettero di allontanarsi illeso prima di procedere alla distruzione dei macchinari e della sede del giornale è quasi emblematica della crisi dissolutiva di un modo di intendere la capillare presenza socialista, quello di Reggio Emilia, con case del popolo, cooperative, camere del lavoro, giornali e circoli che subivano lo stillicidio di devastazioni e di bastonature.
24 Cfr. Mimmo Franzinelli, Squadristi, cit. Di grande utilità per una più ampia conoscenza del fenomeno squadrista gli “apparati” con un “Dizionario biografico dello squadrismo” ricco di cento profili dei principali squadristi, molti dei quali citati nell’Inchiesta, e una “Cronologia della violenza politica (1919-1922)”.
25 Cfr. Roberto Cantagalli, Storia del Fascismo fiorentino 1919-1925, Firenze, Vallecchi, 1972; 28 ottobre e dintorni. Le basi sociali e politiche del fascismo in Toscana, Firenze, Polistampa, 1994, p. 11. Per un caso specifico, cfr. Andrea Bellucci, L’ascesa di un partito armato. Squadrismo fascista e istituzioni a Montelupo Fiorentino, in “Zapruder”, n. 4 (2004), pp. 102-105.
26 Cfr. Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., pp. 350-358. L’autore dedica ampio spazio ai “fatti di palazzo d’Accursio”, ponendo in luce anche l’incapacità, l’impreparazione e il pressappochismo da parte socialista nei casi, come questo, in cui fu tentata una reazione organizzata sul piano armato.
27 Tra i numerosi interventi sull’argomento di Giacono Matteotti, vedere almeno Stefano Caretti (a cura di), L’avvento del Fascismo, Pisa, Plus Pisa University press, 2011.
28 Cfr. Sven Reichardt, Camicie nere, camicie brune, cit., p. 43.
29 Salvatore Lupo, Il fascismo, cit., pp. 106-107.
30 Cfr. Eros Francescangeli, Arditi del popolo. Argo Secondari e la prima organizzazione antifascista (1917-1921), Roma, Odradek, 2000; Marco Rossi, Arditi, non gendarmi! Dalle trincee alle barricate: arditismo di guerra e arditi del popolo (1917-1922), Pisa, BFS, 2011, con prefazione di Eros Francescangeli. Per le formazioni antifasciste sorte in alcuni paesi europei, vedere Valerio Gentili, Bastardi senza storia. Dagli Arditi del popolo ai combattenti rossi di Prima Linea: la storia rimossa dell’antifascismo europeo, Roma, Castelvecchi, 2011.
31 Cfr. Roberto Bianchi, Pane, pace, terra. Il 1919 in Italia, Roma, Odradek, 2006; Giulia Albanese, La marcia su Roma, Bari, Laterza, 2006.
32 Cfr. Claudio Pavone, Una guerra civile. Saggio storico sulla moralità nella Resistenza, Torino, Bollati Boringhieri, 1990; Roberto Vivarelli, Storia delle origini del fascismo, Bologna, Il Mulino, 2012, vol. III; Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., p. 153 (in particolare, nel paragrafo “La guerra civile: geografia, obiettivi, metodi”, la posizione del PSI di fronte all’abbandono del marxismo e del metodo della lotta di classe anche in uomini come Camillo Prampolini e Filippo Turati viene definita «equivoca perché insincera»). Sull’interpretazione di Vivarelli, cfr. Marco Fincardi, Lo squadrismo secondo Vivarelli, a quasi mezzo secolo dal suo primo volume, in “Italia contemporanea”, fasc. 276 (2014), pp. 524-540.
33 Fabio Fabbri, Le origini della guerra civile, cit., p. XIV.
34 Cfr. Manuela Caiani, Linda Parenti, Web nero. Organizzazioni di estrema destra e Internet, Bologna, Il Mulino, 2013.
Inserito il 13/01/2023.
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A Livorno, se si pensa al giornale cittadino si pensa oggi al “Tirreno”. Questa è però solo la nuova denominazione de “Il Telegrafo”, assunta dopo una grave crisi finanziaria che a metà anni Settanta colpì il gruppo Monti che controllava questo foglio d’informazione.
Nel 1877, su iniziativa di un fervente garibaldino, Giuseppe Bandi (1834-1894), che alla spedizione dei Mille prese parte e di cui scrisse in seguito la storia1, venne fondato il giornale della sera “Il Telegrafo”. Il quotidiano monopolizzò fin da subito l’informazione cittadina e contribuì allo sviluppo dello spirito progressista dei livornesi.
Dopo la crisi seguita al macello mondiale della Grande Guerra e con l’avvento del fascismo il giornale assunse tendenze politiche inverse rispetto alle tradizioni da cui era nato: la proprietà infatti passò nelle mani della famiglia Ciano, e “Il Telegrafo” divenne l’organo d’informazione personale proprio di Galeazzo Ciano, ministro degli Esteri nonché genero di Benito Mussolini.
Nel 1944 il governo Alleato della città liberata dal giogo nazifascista chiuse il giornale, che riaprì l’anno successivo con una nuova proprietà.
La storia che presentiamo qui di seguito risale alla metà degli anni Settanta del Novecento. Nel 1976 “Il Telegrafo”, giornale di orientamento progressista di una città a maggioranza comunista, subì una chiusura forzata da parte dell’editore, il gruppo Monti. La rivolta dei giornalisti e dei tipografi, che occuparono la sede del giornale e che si costituirono in cooperativa, venne sostenuta dal popolo livornese con alla testa il suo sindaco di allora, il comunista Alì Nannipieri (1925-2007): quando la polizia irruppe al giornale per attuare un’ordinanza di sgombero del Pretore, giornalisti, tipografi, cittadini e alla loro testa il sindaco e i membri della Giunta comunale le si pararono davanti impedendole l’accesso. Ma non solo: la Giunta emanò a sua volta un’ordinanza urgente mediante la quale il Comune requisiva i locali del giornale per gravi necessità pubbliche, come si usa per esempio in caso di calamità. Fu una forzatura? Forse sì, ma del tutto giustificata, perché si trattava di scongiurare un certo tipo di calamità: la negazione della libertà d’informazione per i cittadini di un’intera città. Come scrisse l’allora Stefano Tamburini nel 2020, «[la requisizione dei locali del giornale per gravi necessità pubbliche] altro non era che far sì che ci fosse la possibilità di informare, di essere informati. Quell’atto garantiva il diritto alla conoscenza sul quale si appoggiano le fondamenta della democrazia. Riletto oggi, quel foglio firmato dal sindaco rappresenta una lezione di diritto, è tutto il contrario del “balconismo” imperante che vorrebbe imporre l’eliminazione delle figure di mediazione e far strada ai reggitori di microfono, con il politico, il potente di turno in alto a spiegare a suo modo, senza domande o con domande e risposte fabbricate ad arte. Soprattutto con il popolo sotto il balcone, a testa in su, costretto solo ad ascoltare, inebriato da quel falso contatto diretto che altro non è che l’atto protervo del potere gestito per perpetuarlo»2.
La cooperativa di giornalisti e tipografi poté così continuare la propria opera, cambiando il nome alla testata ne “Il Tirreno” (le due denominazioni si erano già alternate per qualche periodo nel Dopoguerra), così come lo conosciamo anche oggi.
L.C.
Il giornale era stato salvato un anno prima del centenario: in prima pagina il titolo “Non ce ne andremo”
di Mauro Zucchelli
Diceva un vecchio direttore che un cronista deve raccontare senza essere troppo ingombrante sulla scena perché, se i riflettori se li prende lui, tutto il resto sta al buio. Però non sarebbe piaciuta neanche a lui una cronaca che fosse solo uno sciapo resoconto notarile, più noioso del verbale dell’assemblea di condominio. Viene poi il giorno in cui il giornale non si limita a raccontare le notizie ma è la storia. Anzi, fa la storia. E allora deve raccontarlo alla sua comunità: perché un giornale è di chi lo produce ma anche di chi l’ha scelto per leggerselo e utilizzarlo come quotidiano compagno di viaggio per lambiccarsi il cervello e decifrare il mondo. Senza tirarla in lungo con la prosopopea, semplice come bere il caffè la mattina per svegliarsi e mettere ordine nei pensieri.
“Fare la storia” anziché solo riferire le notizie: è capitato anche a noi del Tirreno. Proprio in vista del centenario, il 1977. Macché brindisi, tartine e bigné, era l’inizio dell’estate ’76 e c’era da mettersi a lottare per la sopravvivenza del giornale che, partendo dalle proprie radici sulla costa, voleva guardare con un altro occhio alla Toscana e raccontarla alla sua gente. Un’anomalia: è la periferia della regione che si mettere a parlare invece che starsene zitta a masticare amaro. Un’anomalia anche nell’editoria dei quotidiani italiani: eccezion fatta per La Nuova Sardegna di Sassari e in certo modo per il Messaggero Veneto di Udine, non esistono quotidiani che nascano fuori dalla “capitale” di questa o quella regione e abbiano la sfrontatezza di diventare la voce che vuol parlare alla regione intera o quasi.
Quella storia è fatta di una generazione di giornalisti, tipografi e amministrativi che si erano ritrovati a fare i conti con un editore che voleva chiuderne la voce. Il primo capitolo di questa storia è l’annuncio degli emissari dell’editore che arrivano a tirar giù la saracinesca: prima chiudendo il numero del lunedì e poi una sfilza di edizioni locali, salvo poi due mesi più tardi chiudere e licenziare tutti, saluti e baci. Ma basta girare pagina e il secondo capitolo lo scrivono i lavoratori: il loro “no” lo scrivono a tutta pagina il 20 luglio ’76 perché il giornale è una proprietà privata ma non è una proprietà esclusiva che imprigiona ogni diritto. Risultato: occupano il giornale e dal 1° agosto ’76 si mettono a farlo da soli in autogestione, come se fossero rinchiusi in un fortino per difendersi dal loro editore. In realtà, è proprio questo che al contrario spalanca le porte della città che lo abbraccia per proteggerlo dalle mani altrui.
Nel febbraio ’77 la decisione del giudice sembra segnare la fine di tutto: è di fatto l’apripista per l’operazione di sgombero forzato. La risposta è un titolone: “Non ce ne andremo”. Ma quelle parole di quella generazione di nostri colleghi potevano rischiare di rimanere una bella testimonianza di coraggio civile se non ci fosse stata la città di Livorno attorno: «Useremo ogni mezzo» per difendere il “nostro” giornale, dirà il sindaco comunista di Livorno, Alì Nannipieri. “Grigio”, dicevano di lui, livornese fin nel midollo eppure col certificato di nascita datato Pisa (anzi, “Bagni di San Giuliano”). Era anche funzionario di partito, ma soprattutto era uno di un rigore severo. Magari di poche parole, che però quando le adoperava pesavano come macigni. E soprattutto erano impegni, mica chiacchiere e distintivo. Chissà se quando disse “ogni mezzo” si immaginava di arrivare a usare nientemeno che lo strumento della requisizione: mai nessuno l’aveva fatto prima e mai nessuno lo farà poi. Era fine febbraio ’77, un sabato 26, e quel “grigio” sindaco-funzionario fece la cosa più straordinariamente colorata: prima che del diritto dei giornalisti e dei tipografi a lavorare, parlò del diritto di voi lettori di essere informati. E non in astratto secondo la logica chiacchierona dell’ “occorre bisogna necessita” di cui sono lastricate le vie dei comunicati: fece l’ordinanza e stop.
Di lì a pochi mesi Il Tirreno avrebbe ritrovato quel coraggio della discontinuità che aveva affermato già con Athos Gastone Banti il 28 gennaio ’45: mancava tutto in quella Livorno col porto devastato, le industrie distrutte e le case crollate. Eppure c’eravamo: con i refusi e gli sbaffi d’inchiostro ma c’eravamo. E il 16 giugno ’77, prima ancora di essere acquisiti dal gruppo Caracciolo, con le forze di una cooperativa stremata da mesi di nottate in bianco e senza la certezza di arrivare a dopodomani, avevamo rispolverato l’orgoglio di quella testata: c’eravamo. Eccoci.
“Il Tirreno”, 29 aprile 2021
Note
1 Il libro di Giuseppe Bandi, I Mille, da Genova a Capua, fu pubblicato postumo nel 1902.
2 Stefano Tamburini, Alì e i padri del Tirreno: il giornale salvato dai lavoratori licenziati e dal sindaco, la nostra storia parte da quella ribellione, ne “Il Tirreno”, 16 dicembre 2020.
Inserito il 31/12/2022.
Nella seconda metà dell’Ottocento fecero la loro comparsa in Italia le Società operaie di mutuo soccorso, associazioni in cui i lavoratori poterono autorganizzarsi per la difesa dei propri diritti contro uno sfruttamento disumano e in cui si potevano raccogliere fondi di solidarietà per aiutare le singole famiglie in caso di incidenti sul lavoro, malattie, perdita del lavoro, ecc.
Le Società operaie di mutuo soccorso ebbero un ruolo fondamentale nella costituzione dei primi nuclei locali delle organizzazioni sindacali.
A Firenze ricopre tuttora un ruolo importante la Società di Mutuo Soccorso del quartiere di Rifredi, fondata nel 1883 con il nome di Società di Mutuo Soccorso fra gli Operai ed Industriali di Rifredi.
Con il trasformarsi del quartiere in una zona ad alta concentrazione di industrie (Officine Galileo, Manetti & Roberts, Fonderia del Pignone, Superpila, ecc.) e con la conseguente crescita della popolazione operaia di Rifredi, la S.M.S. assunse un ruolo sempre più importante anche dal punto di vista politico e culturale: nel 1892, con la fondazione del Partito Socialista Italiano, molti dei dirigenti della Società passarono dalle tendenze repubblicane precedenti a quelle socialiste. La crescita inarrestabile del P.S.I. nel quartiere operaio nei primi decenni del Novecento culminò nelle elezioni del novembre 1919, nelle quali il partito ottenne a Rifredi il 63,9% dei consensi: proprio nella sede della Società di Mutuo Soccorso aveva sede la commissione elettorale del Partito Socialista.
La Società fu il centro organizzativo di molti scioperi degli anni 1919-1920, e inoltre, con la costruzione del teatro e della biblioteca, iniziò a rappresentare un attivo centro culturale, la cui presenza non poteva non disturbare le forze reazionarie del capitale e la loro espressione politica più diretta: il movimento dei Fasci Nazionali di Combattimento (che si sarebbe trasformato in Partito Nazionale Fascista nel novembre 1921).
Nella primavera del 1921, in occasione della campagna per le elezioni politiche, una lunga serie di violenze fasciste insanguinò tutto il territorio italiano, e neanche la Società di Mutuo Soccorso di Rifredi sfuggì a tale ondata di aggressioni.
La Società editrice Avanti! tentò una prima, sommaria ricostruzione delle “imprese” dei manipoli di fascisti in tutt’Italia, e la pubblicazione (dal titolo Fascismo: primi elementi di un’inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia) fu distribuita ai deputati appena eletti alla Camera al momento del loro insediamento l’11 giugno 1921.
Il volume che viene oggi ripresentato al lettore italiano da Biblion Edizioni, per la cura dello storico Paolo Mencarelli e con Prefazione di Paolo Bagnoli, riprende la seconda edizione, ampliata, del 1922, e comprende anche il resoconto dell’assalto incendiario fascista della primavera 1921 alla S.M.S. di Rifredi, che riportiamo sotto.
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Rifredi [primavera 1921]
Anche la Società di Mutuo Soccorso di Rifredi, questa fiorentinissima istituzione operaia, doveva esser vittima del fuoco fascista. Come è noto, questo nostro Ente andava, e va svolgendo tuttora, una superba azione nel campo dell’assistenza, in quello della mutualità, in quello della ricreazione e istruzione e in quello della cooperazione. Soprattutto l’azione svolta in quest’ultimo campo è quella che ha determinato la reazione delle classi interessate, ferite gravemente nei loro particolari interessi dalla funzione di remora e di moralizzazione che in nostro Ente cooperativo va svolgendo sul mercato locale.
Sono questi interessi feriti e queste particolari speculazioni offese che hanno costituito la principale causa che doveva dare, come naturale effetto, una serie infinita di episodi, di sopraffazioni e di violenze, che, in definitiva, dovevano culminare nell’incendio dei nostri vasti locali, compiuto con un piano così organico e così preordinato da farci legittimamente pensare che il preciso obiettivo degli incendiari era quello di distruggere totalmente questa nostra istituzione, baluardo di inespugnabile difesa delle classi lavoratrici. L’incendio, che stava per assumere proporzioni oltremodo vaste, poté essere circoscritto dal pronto, energico ed esemplare intervento dei nostri pompieri e dei nostri soci, i quali, in un supremo sforzo delle loro energie – consapevoli com’erano di dare la loro attività a una causa giusta – poterono impedire che dai locali del teatro potesse diffondersi alla parte terrena del corpo centrale dell’edificio e rendere così meno enormi i danni, che sono ascesi egualmente a una cifra veramente considerevole.
L’incendio, provocato nel salone del teatro a mezzo di bombe incendiarie, distrusse completamente tutto il ricco mobilio, che ivi trovavasi, e tutta l’attrezzatura ricca e completa del palcoscenico. Da qui le fiamme dovevano invadere la parte superiore del corpo centrale dell’edificio e appiccare il fuoco alla Segreteria della Cooperativa di consumo, distruggendola interamente, e penetrare da qui nei locali della biblioteca, fino a diffondersi nei locali adiacenti, non esclusa la Segreteria generale, dove vi erano i documenti relativi ai diversi rami d’attività della nostra istituzione. In tutti i locali, invasi dalle fiamme, la distruzione del mobilio, degli uffici e di tutto il resto, eccezione fatta per le pareti interne, è stata completa e impressionante. Da una perizia, fatta con la maggiore obiettività e senza prevenzione di sorta, si è dovuto stabilire come i danni ascendano a L. 300.000. Se si considera che non esisteva il più lontano motivo che potesse comunque giustificare questa aggressione vigliaccamente premeditata e freddamente consumata, con una sadica voluttà, che soltanto ai più biechi elementi della delinquenza potrebbe essere concessa, rimarrà anche facile immaginare quanto grande e unanime sia il senso di alta deplorazione che ogni cittadino manifesta contro il gesto criminale che non trova una adeguata definizione.
(Brano tratto dal volume: Paolo Mencarelli [a cura di], Inchiesta socialista sulle gesta dei fascisti in Italia, Milano, Biblion Edizioni, 2019).
Inserito il 26/12/2022.