«Per parecchi mesi a Pietrogrado, ed in tutta la Russia, ogni angolo di strada fu una tribuna pubblica. Nei treni, nei tram, ovunque, zampillava improvvisamente la discussione».
John Reed (I dieci giorni che sconvolsero il mondo, 1919)
Dalla rivista online «Marxismo oggi»
di Gabriele Repaci
«Il piano non è una cosa meccanica che si crea per elucubrazione di laboratorio, una cosa semimetafisica, che poi si trasmette verso il basso. Il piano è una cosa viva, che è fondamentalmente destinata a trarre dal paese le riserve finora sopite, e a metterle al servizio della produzione. A questo scopo va destato quel grande fattore di produzione che è il popolo, ossia il popolo deve sapere che cosa vogliamo, discutere ciò che vogliamo caso per caso, presentare le sue controproposte, approvare il piano dopo averlo capito. (…) la massa non ha partecipato a questa concezione del piano, e il piano cui non partecipa la massa è un piano che corre serio pericolo di fallimento» (Ernesto Che Guevara, Il primo piano economico, in Opere, II. Le scelte di una vera rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 97 e 118).
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Ripensare la pianificazione socialista
di Gabriele Repaci
Prima parte
«Il piano non è una cosa meccanica che si crea per elucubrazione di laboratorio, una cosa semimetafisica, che poi si trasmette verso il basso. Il piano è una cosa viva, che è fondamentalmente destinata a trarre dal paese le riserve finora sopite, e a metterle al servizio della produzione. A questo scopo va destato quel grande fattore di produzione che è il popolo, ossia il popolo deve sapere che cosa vogliamo, discutere ciò che vogliamo caso per caso, presentare le sue controproposte, approvare il piano dopo averlo capito. (…) la massa non ha partecipato a questa concezione del piano, e il piano cui non partecipa la massa è un piano che corre serio pericolo di fallimento».
— Ernesto Che Guevara, Il primo piano economico, in Opere, II. Le scelte di una vera rivoluzione, Feltrinelli, Milano 1968, pp. 97 e 118.
Introduzione
La crisi finanziaria globale del 2007-2008, esplosa a partire dal mercato dei mutui subprime negli Stati Uniti, non è stata il frutto del caso né il risultato di un momentaneo malfunzionamento del capitalismo. Al contrario, essa ha rappresentato, nelle sue caratteristiche fondamentali, l’essenza stessa del modo di produzione capitalistico: la corsa sfrenata al massimo profitto, la compressione dei diritti della classe lavoratrice e i tentativi disperati di sfuggire alla crisi di sovrapproduzione attraverso la speculazione finanziaria, l’espansione del credito e la creazione artificiosa di moneta. Quando i profitti non possono più essere sostenuti dalla produzione reale, il sistema reagisce spostando la contraddizione nel regno del denaro e del debito, gonfiando bolle speculative e alimentando un’instabilità cronica che si traduce in crisi sociali e politiche. L’irrazionalità del capitale — la sua anarchia, la sua disumanità — emerge così in tutta la sua drammaticità, travolgendo le speranze di milioni di persone in ogni continente.
Le crisi più recenti non hanno fatto che confermare questa tendenza. La pandemia di Covid-19 ha mostrato l’incapacità dei mercati globali di garantire la sicurezza collettiva anche di fronte a un’emergenza sanitaria, rivelando la fragilità delle catene di approvvigionamento e la dipendenza di interi settori da logiche di profitto immediato. Il conflitto in Ucraina e la guerra in Gaza hanno evidenziato il nesso sempre più stretto tra economia e militarismo, con la produzione di armi e l’energia trasformate in strumenti di egemonia e di ricatto geopolitico. Nel frattempo, la crisi climatica e ambientale ha reso evidente il carattere autodistruttivo di un modello fondato sull’accumulazione illimitata: incendi, alluvioni, siccità e migrazioni di massa sono i segni tangibili di un’economia che consuma le proprie condizioni di esistenza. Tutte queste crisi — sanitaria, bellica, ecologica — non sono eventi separati, ma manifestazioni convergenti della crisi strutturale del capitalismo globale.
In questo contesto, parlare di socialismo e di pianificazione economica in Europa significa ancora oggi sfidare un tabù. La stessa Unione Monetaria Europea sorse dalle ceneri del socialismo reale, cioè del primo tentativo storico di organizzazione pianificata dei rapporti sociali alternativa alla riproduzione capitalistica. A più di trent’anni dall’implosione dell’URSS, non si è ancora riusciti a elaborare pienamente quell’esperienza: i suoi risultati, i suoi errori, i suoi orrori continuano a essere trattati come materia ideologica più che come oggetto di indagine scientifica. Questa mancata elaborazione del passato ha prodotto una rimozione collettiva del problema della pianificazione: la questione di come coordinare coscientemente la produzione sociale — in luogo della concorrenza cieca del mercato — è stata semplicemente espunta dal dibattito politico e accademico.
Eppure, l’epoca attuale ne reclama il ritorno. La combinazione di crisi economiche ricorrenti, disuguaglianze crescenti, emergenze climatiche e conflitti geopolitici ha reso evidente che il capitalismo globale non è in grado di garantire un equilibrio sostenibile né sul piano sociale né su quello ambientale.
È giunto il momento di elaborare il “lutto sovietico”, di delimitare storicamente quella vicenda, riconoscerne i limiti e le grandezze, e restituire legittimità teorica e politica al discorso sulla pianificazione. Solo una riflessione nuova sulla pianificazione socialista — capace di integrare democrazia, sostenibilità e razionalità collettiva — può rispondere alle sfide del nostro tempo.
A partire da queste considerazioni, è necessario tornare alle radici teoriche della questione.
Il dibattito sulla pianificazione economica socialista ha accompagnato tutto il XX secolo, attraversando l’intera parabola delle esperienze storiche del socialismo reale. Dalla critica di Ludwig von Mises e Friedrich Hayek alla risposta dei socialisti di mercato come Oskar Lange, fino alle analisi di Alec Nove e dei teorici contemporanei della “pianificazione computazionale”, la questione di fondo è rimasta la stessa: è possibile coordinare un’economia complessa senza il mercato?
Per lungo tempo la risposta è stata cercata nel terreno tecnico. L’insuccesso dei sistemi di pianificazione centralizzata veniva attribuito all’enorme quantità di informazioni che un organo centrale avrebbe dovuto raccogliere, elaborare e tradurre in decisioni operative. La conclusione, comune tanto ai liberali quanto a molti socialisti riformisti, era che nessun piano può funzionare senza il mercato come meccanismo informativo. La pianificazione, si diceva, è condannata perché non può “sapere abbastanza”.
Ma questa diagnosi, pur contenendo un nucleo di verità, ne ha sempre trascurato un’altra più profonda: il problema della pianificazione socialista non è la quantità dell’informazione, bensì la sua qualità politica. In altre parole, non è tanto una questione di calcolo quanto di libertà. L’esperienza sovietica ha mostrato che un sistema può disporre di immense risorse di raccolta dati, di organi statistici imponenti, di migliaia di piani settoriali — e tuttavia produrre informazioni false, distorte, inutilizzabili. Questo perché l’informazione, per essere vera, richiede un ambiente sociale in cui dire la verità sia possibile, e anzi incoraggiato.
La pianificazione sovietica non fallì per mancanza di computer o di mercato, ma per mancanza di democrazia: non fu un errore tecnico, ma politico. In assenza di libertà di critica, di partecipazione e di feedback reale da parte dei produttori e dei consumatori, l’informazione economica perdeva progressivamente significato: le imprese comunicavano ciò che i superiori volevano sentire, i funzionari adattavano i dati ai piani già approvati, e il piano diventava una rappresentazione fittizia della realtà.
La pianificazione socialista, se vuole essere razionale, non può quindi ridursi a un esercizio di ingegneria amministrativa o informatica. Essa è, prima di tutto, un processo politico e comunicativo, un campo di confronto e di cooperazione in cui le diverse componenti della società devono potersi esprimere, criticare, correggere e apprendere collettivamente. Solo un effettivo controllo operaio sulla produzione può generare un’informazione economica autentica, capace di sostituire ai segnali ciechi del mercato la coscienza collettiva dei produttori e dei consumatori. Il presente saggio intende ripensare la questione della pianificazione socialista a partire da questa prospettiva: non come problema di potenza di calcolo, ma come problema di verità sociale.
Esaminerò dapprima il dibattito classico sul calcolo economico e le sue aporie, per poi mostrare come la crisi dell’URSS e l’esperienza del socialismo di mercato abbiano rivelato i limiti della pianificazione tecnocratica. A partire da ciò, proporrò una riflessione sul concetto di qualità dell’informazione, intesa come espressione della partecipazione democratica e dell’autonomia dei soggetti produttivi. Infine, discuterò le prospettive attuali aperte dall’informatica e dal cosiddetto “socialismo cibernetico”, mostrando come la tecnologia possa essere utile solo se inserita in un quadro di libertà e deliberazione collettiva.
Non si tratta, marxianamente parlando, di servire “ricette per le osterie dell’avvenire”, ma di restituire alla pianificazione socialista il suo carattere di auto-organizzazione consapevole, radicato nella qualità dell’informazione e nella partecipazione.
1. Il dibattito classico: calcolo, mercato e piano
Il dibattito sul calcolo economico in regime socialista nasce negli anni Venti del Novecento e costituisce una delle controversie più importanti dell’economia del XX secolo. Nel 1920, l’economista austriaco Ludwig von Mises (1881–1973) pubblicò il celebre saggio Economic Calculation in the Socialist Commonwealth, nel quale negava la possibilità stessa, per una società socialista, di risolvere in modo razionale il problema dell’allocazione delle risorse produttive. Il suo ragionamento è semplice e radicale: senza un mercato dei mezzi di produzione non può esistere calcolo economico. Per Mises, la razionalità economica presuppone una valutazione quantitativa relativa delle risorse, resa possibile soltanto da un sistema dei prezzi formatosi attraverso la concorrenza tra proprietari privati di beni e servizi. Il socialismo, sopprimendo la proprietà privata e sostituendo all’agire del mercato le direttive di un centro di pianificazione, elimina il mercato dei beni capitali e, con esso, il meccanismo di formazione dei prezzi. Senza questi “indici delle alternative”, sosteneva Mises, non è possibile determinare l’uso più efficiente dei fattori produttivi, né stabilire dove e come investire: senza prezzi non c’è calcolo; senza calcolo non c’è economia razionale. Il socialismo, in questa prospettiva, equivarrebbe dunque alla soppressione stessa della razionalità economica.
Per Mises — e, in seguito, per Friedrich von Hayek — il mercato non è soltanto un meccanismo di scambio, ma un dispositivo cognitivo: il luogo in cui le informazioni disperse tra milioni di individui si condensano nei prezzi. Questi ultimi non sono meri numeri contabili, ma messaggi sintetici che incorporano conoscenze tacite, preferenze, rischi e aspettative. Un piano centrale, per operare razionalmente, dovrebbe raccogliere e coordinare esplicitamente tutte queste informazioni — un compito che, anche con la migliore burocrazia, sarebbe impossibile. Hayek parlerà, a questo proposito, di “presunzione fatale” (The Fatal Conceit): la convinzione che una mente centrale possa sostituire il processo spontaneo di scoperta che caratterizza il mercato.
La replica socialista non si fece attendere. Negli anni Trenta, Oskar Lange e Abba Lerner cercarono di dimostrare che la razionalità del mercato poteva essere riprodotta all’interno di un’economia socialista. Il loro modello del socialismo di mercato prevedeva imprese pubbliche che, pur non essendo di proprietà privata, si comportavano come se lo fossero: reagivano ai prezzi fissati da un’autorità di pianificazione, perseguivano l’efficienza, e fornivano segnali utili per l’allocazione delle risorse. Il “comitato di pianificazione” avrebbe poi aggiustato i prezzi — al rialzo o al ribasso — fino a raggiungere l’equilibrio tra domanda e offerta, un po’ come nel modello walrasiano del mercato perfetto. Lange poteva così sostenere ironicamente che, grazie al socialismo, il mercato avrebbe finalmente funzionato “come avrebbe dovuto funzionare anche nel capitalismo, se non fosse distorto dal profitto”.
Tuttavia, l’eleganza formale del modello nascondeva una fragilità concettuale. Il meccanismo di Lange era logicamente coerente, ma sociologicamente vuoto: presupponeva agenti obbedienti, informazioni sincere, e un’autorità benevola che “aggiusta” i prezzi senza interessi propri. Ignorava ciò che Mises e Hayek avevano colto — forse per vie ideologicamente opposte — con maggiore realismo: che l’informazione economica non è un dato neutro, ma il prodotto di rapporti sociali e istituzionali. L’ipotesi che un organo centrale possa conoscere e correggere tutto presuppone un contesto di verità, di fiducia e di responsabilità che non può essere imposto dall’alto.
A partire dagli anni Cinquanta, economisti come Ota Šik in Cecoslovacchia, János Kornai in Ungheria e poi Alec Nove nel Regno Unito ripresero la questione cercando soluzioni più realistiche. Le esperienze del cosiddetto “socialismo riformato” — dalla Jugoslavia di Tito alla Polonia di Gierek — mostrarono che era possibile introdurre elementi di mercato all’interno della pianificazione, ma non eliminarne del tutto le contraddizioni. Come riconosceva Nove, “non si può avere mezzo mercato”: se le imprese pubbliche non rischiano il fallimento, il mercato è fittizio; se lo rischiano davvero, il socialismo scompare. Il risultato fu una serie di compromessi instabili, in cui la logica del profitto e quella della pianificazione continuavano a coesistere in tensione permanente.
In questo quadro, il problema della pianificazione socialista è rimasto prigioniero di un’alternativa fallace: da un lato, la pianificazione tecnocratica incapace di apprendere; dall’altro, il mercato autoregolato incapace di garantire giustizia e coerenza sociale. Entrambi presuppongono un’informazione perfetta e impersonale — il piano la vuole centralizzare, il mercato la lascia fluttuare — ma nessuno dei due affronta la questione decisiva: chi produce l’informazione economica, e in quali condizioni sociali lo fa?
Questa domanda, rimossa dal dibattito classico, è invece la chiave del problema. Se la pianificazione è un processo politico, allora l’informazione economica non può essere ridotta a un problema di quantità di dati, ma diventa una questione di qualità sociale: di partecipazione, di libertà di parola, di controllo reciproco. Laddove questi elementi mancano, nessun meccanismo — né il piano né il mercato — può generare razionalità. La sfida, dunque, non è scegliere tra piano e mercato, ma ripensare la produzione dell’informazione come espressione di una società realmente democratica.
2. Il caso sovietico: quantità d’informazione, scarsità di verità
L’Unione Sovietica rappresentò, per oltre sessant’anni, il più vasto esperimento di pianificazione economica della storia moderna. Nel suo apparato di piani quinquennali, di ministeri settoriali, di uffici statistici e di commissioni centrali, il socialismo “reale” cercò di trasformare in pratica ciò che per i teorici del calcolo economico era rimasto un paradosso: la possibilità di coordinare un’economia complessa senza mercato.
E in effetti, a partire dagli anni Trenta, l’URSS riuscì a mobilitare risorse enormi, industrializzare un Paese arretrato, e realizzare imprese tecnologiche di prim’ordine. Il sistema produceva molta informazione: migliaia di indicatori, rapporti mensili, piani fisici per settori e sottosettori, un flusso costante di dati inviati dal basso verso il centro. Tuttavia, proprio questa abbondanza apparente nascondeva la sua debolezza strutturale: l’informazione non era veritiera.
Ogni livello della burocrazia tendeva ad adattare i dati agli obiettivi del superiore, per evitare sanzioni o per ottenere risorse. Le imprese dichiaravano di aver raggiunto gli obiettivi del piano anche quando la produzione era di qualità scadente o parzialmente inutilizzabile; i dirigenti manipolavano le cifre; i ministeri centrali gonfiavano o riducevano gli obiettivi per non esporsi a critiche. L’intero sistema soffriva di ciò che l’economista ungherese János Kornai avrebbe definito “razionalità amministrativa”: l’obbedienza formale sostituiva la razionalità economica, e il rispetto delle procedure prendeva il posto della verità.
Con il consolidarsi del sistema, la pianificazione sovietica assunse un carattere sempre più quantitativo e formalistico. Le imprese venivano valutate in base al rispetto degli indicatori fisici del piano — tonnellaggio, metri di tessuto, unità prodotte — anziché per la qualità o l’utilità effettiva dei beni. Questo orientamento creò un insieme di incentivi perversi: le fabbriche tendevano a privilegiare la quantità rispetto alla funzionalità, a gonfiare le scorte o a produrre beni di grandi dimensioni per raggiungere gli obiettivi numerici. L’innovazione tecnica e organizzativa risultava scoraggiata, poiché implicava il rischio di rallentamenti, di deviazioni dal piano o di perdita di posizioni all’interno della gerarchia amministrativa. Nei settori destinati ai consumatori, la distanza tra produzione pianificata e domanda reale divenne crescente. L’assenza di canali informativi attendibili e la separazione sociale della burocrazia dai bisogni quotidiani della popolazione alimentarono un generale declino qualitativo.
Già Trockij aveva colto questa contraddizione, osservando che misurare il progresso economico soltanto in termini fisici equivaleva a giudicare la forza di un individuo dalla sua altezza. Le statistiche lo confermavano: nel solo 1971 milioni di articoli dell’industria leggera furono oggetto di reclami per difetti di fabbricazione o inadeguatezza all’uso. Il sistema, pur capace di mobilitare risorse imponenti, non riuscì a sviluppare meccanismi di responsabilità economica decentrata, né una reale capacità di apprendimento. La stessa logica si estese alla sfera ambientale: la devastazione del lago d’Aral, l’inquinamento del Bajkal e la catastrofe di Černobyl’ rappresentarono il riflesso materiale di una pianificazione cieca, che continuava a produrre dati anche quando aveva smesso di produrre verità.
Alcuni economisti sovietici compresero lucidamente la natura del problema. Tra essi, Viktor Vasil’evič Novožilov osservò che “la democratizzazione della direzione è necessaria non solo perché, essendo l’economia nazionale un sistema troppo complesso, la sua direzione non può essere del tutto centralizzata, ma anche per lo sviluppo dell’attività creativa delle masse popolari”. In questa affermazione si coglie l’intuizione — rimasta inascoltata — che la razionalità economica dipendeva dalla partecipazione, non dalla potenza di calcolo. Novožilov aveva intuito che la complessità crescente del sistema produttivo richiedeva una diffusione orizzontale dell’informazione e del potere decisionale: solo così la pianificazione avrebbe potuto trasformarsi da comando gerarchico in cooperazione sociale.
In teoria, il piano sovietico doveva garantire coerenza, coordinamento, previsione; nella pratica, produceva una realtà duplicata: una nei documenti ufficiali, un’altra nelle fabbriche e nei negozi. Il flusso informativo era quantitativamente imponente, ma qualitativamente vuoto. I numeri salivano, ma il loro contenuto di conoscenza diminuiva. Il sistema di pianificazione, fondato sul comando, generava un’informazione sistematicamente distorta perché nessuno era libero di dire ciò che non corrispondeva alle aspettative del centro. In un contesto politico autoritario, la menzogna diventava razionale: dire la verità era un errore amministrativo.
L’esempio più eloquente di questo paradosso emerge dal confronto tra due settori dell’economia sovietica: quello militare e quello civile. Nel primo, l’apparato statale agiva come un committente forte. I ministeri della difesa e dell’industria bellica disponevano di competenze tecniche, risorse e potere contrattuale; potevano criticare, respingere, esigere miglioramenti. La relazione tra domanda e offerta, pur dentro un sistema pianificato, era reale e reciproca. Quando un prototipo non funzionava, il committente ne richiedeva la revisione; quando una tecnologia era insufficiente, si aprivano nuovi laboratori di ricerca; e l’esito — missilistica, aviazione, elettronica militare — fu di livello mondiale.
Nel settore dei beni di consumo, invece, il “cliente” non esisteva. I consumatori non avevano voce, i negozi non potevano scegliere i fornitori, i produttori rispondevano solo ai numeri del piano. Nessuno chiedeva miglioramenti, perché nessuno poteva farlo. Il risultato fu la nota combinazione di penurie, sprechi e scarsa qualità. La pianificazione funzionava dove esisteva un rapporto di forza concreto, e falliva dove regnava il silenzio.
Questo contrasto mostra che non è il mercato a generare informazione utile, ma il dialogo reale tra soggetti dotati di parola e di potere. Il piano sovietico non era troppo grande per funzionare; era troppo muto. L’assenza di potere reale della classe lavoratrice sui processi produttivi, di libertà di critica e di intervento dal basso, rese impossibile il corretto feedback tra i livelli dell’economia. La verità, in senso economico, è una funzione politica: un sistema che reprime la parola della classe produttrice genera inevitabilmente menzogna sistemica.
Ecco dunque il paradosso dell’URSS: più cresceva la sua capacità tecnica e statistica, più peggiorava la qualità dell’informazione. L’introduzione di nuovi strumenti di calcolo, di macchine elettroniche, di uffici sempre più sofisticati non risolse il problema — lo aggravò. Ogni incremento nella quantità dei dati amplificava l’illusione di controllo, mentre la distanza tra piano e realtà cresceva. La burocrazia sapeva sempre di più su ciò che non esisteva.
Il fallimento della pianificazione sovietica fu quindi, prima di tutto, un fallimento comunicativo: l’impossibilità di far circolare informazione autentica in un sistema fondato sul comando e sulla paura. Dove non esiste libertà di parola, non può esistere razionalità economica. E dove non c’è contraddittorio, il piano diventa cieco.
Questo caso storico mostra che la questione della pianificazione non si risolve né nei computer né nei mercati, ma nel modo in cui la società organizza la propria verità. Solo una pianificazione democratica, basata su relazioni di cooperazione e critica reciproca, può generare un’informazione capace di guidare decisioni razionali. Il problema dell’URSS non fu dunque l’assenza di dati, ma l’assenza di fiducia — la mancanza di un ambiente politico in cui il dato potesse essere discusso, contestato e migliorato.
(1/2. Continua).
Gabriele Repaci
(Tratto da: https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/731-ripensare-la-pianificazione-socialista).
Inserito il 03/11/2025.
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Ripensare la pianificazione socialista
di Gabriele Repaci
Seconda parte
3. La qualità dell’informazione come categoria politica
Dopo il fallimento delle grandi esperienze di pianificazione centralizzata, molti interpreti hanno tratto la conclusione che il problema del socialismo risiedesse in un difetto tecnico: troppa complessità, troppi dati, troppa lentezza di calcolo. Ma questa interpretazione, per quanto diffusa, scambia il sintomo per la causa. Il piano sovietico non era inefficiente perché “mancavano i computer”, ma perché mancava la libertà. Il difetto non era la quantità d’informazione, ma la sua qualità politica e sociale.
Il concetto di qualità dell’informazione va inteso qui in senso radicalmente diverso da quello tecnico. Non riguarda la precisione statistica, la rapidità di trasmissione o la potenza di calcolo, ma la veridicità e la significatività sociale dei dati. Un’informazione è di qualità quando nasce in condizioni di libertà e di responsabilità, quando riflette bisogni e conoscenze reali dei soggetti coinvolti, e quando può essere discussa, criticata e corretta. Questi requisiti, più che tecnici, sono profondamente politici: solo un contesto democratico può garantire che l’informazione economica sia affidabile, perché solo dove esiste libertà di parola è possibile comunicare gli errori, segnalare gli sprechi, ammettere i fallimenti. Là dove il potere è concentrato e incontestabile, ogni dato tende a conformarsi alla volontà del centro, e dunque a perdere significato cognitivo.
In un sistema socialista, la qualità dell’informazione dipende dalla partecipazione diretta dei produttori e dei consumatori. Il mercato, nel capitalismo, sostituisce questa partecipazione con un meccanismo impersonale di segnalazione: i prezzi. Nel socialismo, il compito del piano non è semplicemente “replicare” il mercato con altri strumenti, ma renderlo superfluo attraverso la coscienza collettiva e l’interazione democratica. I segnali di prezzo possono essere sostituiti dall’azione consapevole dei lavoratori e dei cittadini, se questi sono liberi di esprimersi, proporre, criticare. In questo senso, la pianificazione non è un apparato, ma un processo deliberativo: un insieme di spazi e di procedure in cui la società discute se stessa.
Ciò che nel mercato è automatico — l’incontro di domanda e offerta — nella pianificazione socialista deve diventare cosciente e dialogico. La corrispondenza tra bisogni e produzione non si ottiene più attraverso il profitto, ma attraverso il confronto. Il lavoro, il consumo e la cittadinanza economica non sono ambiti separati, ma momenti di un’unica conversazione collettiva. La razionalità economica nasce qui non dal calcolo, ma dal riconoscimento reciproco: la possibilità di far sentire la propria voce, di rispondere a quella altrui, di apprendere dagli errori.
Questo principio ha una portata pratica molto concreta. Ogni sistema produttivo, anche capitalistico, ha dovuto riconoscere che l’informazione utile non può essere imposta dall’alto. Già a partire dagli anni Sessanta, la complessità industriale ha costretto le imprese a introdurre forme di cooperazione interna: i circoli di qualità, il metodo Kanban, la produzione snella della Toyota. Si trattava, in fondo, di una parziale ammissione: che il sapere produttivo è diffuso, e che la rigidità gerarchica distrugge informazione preziosa.
Nel socialismo, questo principio avrebbe dovuto essere portato a compimento, estendendo la partecipazione dal livello aziendale a quello sociale. La democrazia economica non è un ornamento, ma il motore stesso della pianificazione.
La qualità dell’informazione, dunque, coincide con la qualità della democrazia. Un’informazione libera è quella che nasce da rapporti di fiducia, di reciprocità, di responsabilità condivisa. Nel linguaggio marxiano, potremmo dire che la conoscenza diventa una “forza produttiva immediata” solo quando è sottratta al dominio del capitale e resa comune. In un’economia pianificata, ciò significa che la conoscenza deve circolare senza censura, come bene sociale, e non come strumento di potere.
Per questa ragione, la questione dell’informazione è inseparabile da quella della forma politica del socialismo. Non basta cambiare la proprietà dei mezzi di produzione: bisogna trasformare i rapporti comunicativi che attraversano la produzione stessa. Una pianificazione realmente socialista non è un sistema che comanda, ma un sistema che ascolta. La sua razionalità non deriva dall’autorità, ma dalla discussione; non dalla previsione perfetta, ma dalla capacità di correggersi. Solo un piano che accetta la critica può essere intelligente.
In definitiva, la qualità dell’informazione non è una variabile tecnica, ma una misura della libertà collettiva. Dove gli uomini sono liberi di discutere il proprio lavoro, di dire la verità sui risultati e sui bisogni, anche il piano più complesso può funzionare. Dove invece regna la paura o l’indifferenza, anche la più sofisticata tecnologia informatica produce solo rumore. L’informazione, per il socialismo, non è un mezzo: è il riflesso vivo della sua forma politica.
4. Il feticismo della tecnica: il caso Cockshott e Cottrell
Negli anni Novanta, con la diffusione dei computer e delle reti informatiche, il vecchio problema del calcolo socialista sembrò improvvisamente riaprirsi. Due studiosi britannici, Paul Cockshott e Allin Cottrell, pubblicarono nel 1993 Towards a New Socialism, un libro che proponeva una tesi audace: le difficoltà della pianificazione centralizzata del passato non erano intrinseche, ma tecnologiche. Se il piano sovietico era fallito, non era per limiti logici, ma perché non disponeva ancora degli strumenti informatici adatti. Grazie ai computer moderni, agli algoritmi di ottimizzazione lineare e alla potenza di calcolo crescente, la pianificazione integrale sarebbe finalmente possibile.
La loro proposta, a prima vista, risolveva brillantemente il problema posto da Nove e dagli austriaci: una rete di calcolatori potrebbe raccogliere i dati di produzione e di consumo, elaborare le tabelle input–output e trovare in tempo reale la combinazione ottimale delle risorse. I prezzi, nel senso capitalistico, diventerebbero superflui: ogni bene sarebbe valutato in tempo di lavoro socialmente necessario, e l’allocazione delle risorse avverrebbe attraverso un algoritmo che minimizza sprechi ed esternalità. Il risultato, secondo gli autori, sarebbe un’economia efficiente, stabile e democratica, finalmente liberata dal mercato e dalla burocrazia.
Eppure, proprio questa promessa tecnologica rivela un nuovo tipo di illusione: il feticismo della tecnica. Cockshott e Cottrell, pur muovendo da intenzioni radicalmente socialiste, finiscono per riprodurre la stessa logica che avevano criticato nei pianificatori sovietici: la convinzione che il problema della pianificazione sia una questione di calcolo, non di potere. Nel loro modello, la razionalità del sistema dipende interamente dall’efficienza dell’algoritmo; la partecipazione umana è ridotta a preferenze aggregate, la decisione politica a un processo di ottimizzazione. Ma nessun algoritmo può sostituire il conflitto, la deliberazione e la coscienza collettiva che definiscono la vita sociale.
Il feticismo della tecnica consiste nel credere che la verità possa essere prodotta da una macchina.
Si sposta la fede dal mercato al computer: ciò che prima era il “meccanismo impersonale dei prezzi” diventa il “meccanismo impersonale del calcolo”. In entrambi i casi, il sapere umano e la partecipazione democratica vengono considerati superflui, sostituiti da un dispositivo neutrale e automatico. Ma la tecnica, come ogni forma di sapere, non è mai neutrale: incorpora sempre le intenzioni, i valori e le gerarchie della società che la utilizza. Affidare la pianificazione al calcolo significa, di fatto, depoliticizzarla.
Il rischio è quello di creare una nuova burocrazia digitale, non più composta da funzionari, ma da tecnici e programmatori, custodi del codice che governa la produzione. La promessa di trasparenza e controllo collettivo si rovescia così nel suo contrario: una pianificazione opaca, perché comprensibile solo a pochi specialisti. La conoscenza non torna alla società, ma si concentra in nuove mani, in un nuovo linguaggio. La sostituzione della burocrazia con l’algoritmo non garantisce libertà; semplicemente, la traveste.
La forza della tecnologia, tuttavia, non va negata, ma ricontestualizzata. Gli strumenti informatici possono ampliare enormemente la capacità cognitiva della società, ma non possono definire gli scopi di quella conoscenza. Un piano automatizzato può indicare come minimizzare i costi energetici o ambientali, ma non può decidere quanto sacrificare la crescita per la sostenibilità, o quali bisogni considerare prioritari. Queste sono scelte di valore, e quindi politiche. La pianificazione socialista, per non cadere nel feticismo della tecnica, deve porre la tecnologia al servizio della deliberazione collettiva, non come suo sostituto.
Come scriveva Cornelius Castoriadis, “l’autonomia non consiste nel governo della ragione astratta, ma nella capacità di una collettività di riflettere e decidere su se stessa”. La vera sfida non è costruire un piano perfetto, ma una società capace di interrogarsi sui propri fini. La tecnologia può aiutare a gestire la complessità, ma non può sostituire la libertà. Anzi, in assenza di libertà, diventa uno strumento di dominio più efficiente.
In questo senso, Cockshott e Cottrell rappresentano l’ultima forma di quella “presunzione razionalista” che, da Saint-Simon al Gosplan, ha attraversato tutta la storia del socialismo tecnico: la convinzione che la società possa essere governata come una macchina. Ma una società socialista, se vuole essere anche democratica, non può fondarsi sul calcolo, bensì sulla comunicazione. L’informazione, come abbiamo visto, non è un dato da raccogliere, ma un processo da costruire collettivamente. Un computer può sommare, correlare, ottimizzare — ma non può ascoltare. E senza ascolto, nessun piano è possibile.
Questa tentazione tecnocratica non appartiene solo al passato. Nel dibattito politico contemporaneo, l’idea di una pianificazione “scientifica” riemerge in forme apparentemente rinnovate. Un caso significativo è la proposta del Partito Comunista della Federazione Russa (PCFR), che negli ultimi anni ha promosso il progetto di un ritorno alla pianificazione statale basata sull’intelligenza artificiale. Secondo il documento programmatico presentato dal partito e discusso nel 2022, il nuovo piano economico nazionale dovrebbe fondarsi su un sistema integrato di calcolo automatico dei flussi intersettoriali, capace di elaborare in tempo reale i dati provenienti da ministeri, imprese e autorità fiscali.
Il modello prevede la creazione di un “bilancio intersettoriale potenziato”, costruito secondo le matrici input–output di Leontief, ma aggiornato con strumenti di machine learning e simulazioni algoritmiche. L’obiettivo dichiarato è quello di rendere la pianificazione “più oggettiva e scientifica”, sostituendo i meccanismi del mercato con un sistema di previsione automatica della domanda e dell’offerta. La proposta include anche la formazione di un “centro unificato di informazione economica”, una sorta di banca dati nazionale contenente indicatori di produzione, consumi, risorse energetiche e bilanci pubblici, che l’intelligenza artificiale dovrebbe analizzare per suggerire decisioni ottimali al governo.
Si tratta di un’idea che riflette il nuovo feticismo tecnologico del nostro tempo: la convinzione che la complessità sociale possa essere domata attraverso la computazione e che l’intelligenza artificiale, grazie alla sua capacità di elaborare enormi volumi di dati, possa sostituire la deliberazione politica. Come nel caso dei modelli di Cockshott e Cottrell, il problema non risiede nella tecnologia in sé, ma nella sua funzione sociale. Anche il più avanzato sistema tecnologico, se separato dal controllo sociale, non produce socialismo ma amministrazione automatizzata. La tecnica è uno strumento, non un soggetto: può servire la pianificazione solo se è diretta da una volontà collettiva, non se pretende di sostituirla.
La pianificazione democratica, al contrario, non può essere il prodotto di una macchina che “calcola per tutti”, ma di una società che discute e decide su sé stessa.
5. Per una teoria socialista della comunicazione economica
Se la pianificazione non può ridursi a un problema tecnico, ma è innanzitutto un processo comunicativo e politico, allora il compito del socialismo nel XXI secolo non è costruire un “piano perfetto”, ma una forma di comunicazione economica capace di produrre verità collettiva. La sfida non consiste nel sostituire il mercato con un algoritmo, ma nel creare un sistema di scambio di informazioni in cui le decisioni produttive, le esigenze sociali e le conoscenze diffuse possano incontrarsi liberamente. In questo senso, la pianificazione socialista può essere intesa come una rete deliberativa che traduce la cooperazione sociale in coordinamento economico.
L’economia moderna è già, in larga misura, una rete di comunicazione. Ogni impresa, ogni catena di fornitura, ogni sistema logistico si fonda sulla trasmissione di informazioni. Ma nel capitalismo, questa comunicazione è privata, parziale e orientata al profitto: i dati sono proprietà delle imprese, i flussi informativi sono segmentati, la conoscenza è concentrata. Una pianificazione socialista deve invece socializzare la conoscenza, rendendola pubblica, condivisa e criticabile. Solo così l’informazione diventa una forza produttiva autenticamente comune.
Immaginare una pianificazione socialista come sistema di comunicazione significa riconoscere che il sapere economico è distribuito, situato e in continua trasformazione. Ogni lavoratore, ogni comunità, ogni settore produttivo possiede frammenti di conoscenza indispensabili alla razionalità del tutto. La funzione del piano non è centralizzare questi frammenti, ma metterli in relazione, costruendo un flusso di retroazioni costante tra chi produce, chi distribuisce e chi consuma. Non si tratta di un centro che comanda e di una periferia che obbedisce, ma di un tessuto di nodi interconnessi in cui le informazioni circolano orizzontalmente.
In un tale sistema, il concetto di “piano” cambia significato: non è più un documento quinquennale fissato dall’alto, ma un processo permanente di comunicazione e apprendimento collettivo. Le decisioni economiche vengono prese attraverso una combinazione di criteri tecnici, deliberazioni democratiche e sperimentazioni locali. Le tecnologie digitali possono servire da infrastruttura — piattaforme pubbliche, reti di dati aperti, sistemi di coordinamento cooperativo — ma il cuore del sistema resta umano: la capacità di discutere, negoziare, proporre. Invece di sostituire la coscienza collettiva con un algoritmo, la pianificazione socialista dovrebbe amplificarla.
Un’economia socialista della comunicazione non elimina il conflitto, ma lo rende produttivo. Il conflitto di interessi, di visioni e di priorità non è un ostacolo alla pianificazione, bensì la sua condizione di vitalità. Solo in un ambiente dove i diversi soggetti possono confrontarsi apertamente — lavoratori, tecnici, consumatori, comunità locali — l’informazione si arricchisce, si affina, diventa realmente rappresentativa dei bisogni sociali. Il piano, in questo senso, è la forma organizzata del dialogo: un modo per tradurre il disaccordo in decisione comune.
Da questa prospettiva, la democrazia operaia non è un complemento etico, ma una necessità funzionale. Senza partecipazione, il piano si svuota; senza conflitto regolato, diventa dogma; senza trasparenza, degenera in arbitrio. Una pianificazione socialista efficiente è tale solo se è trasparente e discutibile, perché la sua efficienza dipende dalla capacità di autocorrezione continua. Ciò che nel capitalismo è affidato al “feedback dei prezzi”, nel socialismo deve essere affidato al feedback della parola. La parola collettiva — il dibattito, la critica, la proposta — è il vero segnale informativo dell’economia democratica.
In questo senso, la pianificazione socialista può essere concepita come un’estensione della sfera pubblica dentro la produzione. La fabbrica, l’impresa, l’istituzione produttiva non sono più spazi separati dal discorso politico, ma luoghi in cui si esercita la cittadinanza economica. Le assemblee di lavoratori, i consigli di settore, le piattaforme pubbliche di deliberazione diventano i nodi attraverso cui la società riflette su se stessa e orienta la produzione ai propri fini collettivi. La razionalità del piano non consiste più nella previsione perfetta, ma nella capacità di apprendere dai propri errori e di adattarsi.
Una teoria socialista della comunicazione economica riconosce dunque che la conoscenza è il principale mezzo di produzione del nostro tempo, e che la libertà è la condizione della sua produttività. La pianificazione, in questo quadro, non è una negazione della spontaneità, ma la sua organizzazione consapevole. Non sopprime l’iniziativa individuale, ma la integra nel tessuto cooperativo della società. Laddove il mercato coordina gli individui attraverso la concorrenza, la pianificazione democratica li coordina attraverso la comunicazione. Entrambi sono meccanismi di informazione, ma solo il secondo è cosciente del proprio scopo.
6. Verso una pianificazione intelligente e democratica
Il problema della pianificazione socialista non è mai stato soltanto economico. Dietro le questioni di calcolo, di efficienza e di coordinamento si nasconde sempre una domanda più profonda: chi decide, e come si comunica la verità economica. L’esperienza del XX secolo ha mostrato che nessun sistema può essere razionale se non è anche libero, e che la quantità di informazione non serve a nulla se la sua qualità è corrotta dalla paura o dall’indifferenza. Un piano perfettamente calcolato ma politicamente muto non è un segno di razionalità: è una forma di alienazione.
La pianificazione socialista del futuro dovrà fondarsi su un principio opposto: l’intelligenza collettiva.
In un’epoca in cui la produzione è sempre più basata sulla conoscenza e sulla cooperazione, la libertà di comunicare diventa la principale forza produttiva. Non è l’automazione che può salvare la pianificazione, ma la partecipazione. Le tecnologie dell’informazione possono costituire una rete di supporto, ma non sostituire la deliberazione umana. Un’economia realmente socialista non potrà nascere da un calcolo centrale, bensì da una coscienza sociale distribuita, capace di apprendere e di decidere in comune.
Il socialismo, inteso in questo senso, non è l’abolizione del mercato come luogo di informazione, ma la sua trasformazione in un processo consapevole di comunicazione. Dove il mercato traduce i bisogni in prezzi, la pianificazione democratica li traduce in parole, in decisioni collettive, in orientamenti verificabili. La “mano invisibile” diventa la voce pubblica della società. La razionalità economica non è più il risultato di una competizione cieca, ma di una cooperazione cosciente.
Questa trasformazione richiede istituzioni nuove: consigli di produzione, assemblee di settore, piattaforme di deliberazione pubblica, sistemi di autogestione e di revisione partecipata — in altre parole, ciò che Lenin riassumeva nella parola d’ordine “Tutto il potere ai soviet”. Non si tratta di un ritorno nostalgico alla pianificazione amministrativa, ma di una sua rinascita democratica, fondata sul principio che la verità economica è un bene comune. Solo un’economia trasparente, in cui i flussi di informazione siano pubblici e discutibili, può essere anche efficiente, sostenibile e giusta.
La pianificazione socialista, intesa come processo di comunicazione collettiva, rappresenta così la forma più alta della democrazia: una società che decide non solo su chi governa, ma su come e per cosa lavora. La libertà non è più confinata alla sfera politica, ma entra nel cuore della produzione. In questo senso, il socialismo non è un progetto di controllo, ma un progetto di autonomia, un modo per rendere la società capace di governarsi da sé.
La sfida che si apre oggi, nell’epoca dell’informazione globale e dell’automazione, è proprio questa: restituire alla pianificazione la sua dimensione umanistica, liberandola dal feticismo della tecnica e dall’illusione del mercato. Il futuro del socialismo non dipenderà dalla potenza dei computer, ma dalla potenza della parola libera. Un sistema socialista pianificato ha bisogno della democrazia come un corpo ha bisogno dell’ossigeno: non come ornamento, ma come condizione vitale della propria esistenza. Solo dove l’informazione è condivisa, discussa e compresa da tutti, la pianificazione può diventare intelligente — e la libertà, concreta.
Il socialismo non è il dominio del piano sulla società, ma la società che diventa piano di se stessa.
21 ottobre 2025
(2/2. Fine)
Gabriele Repaci
(Tratto da: https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/731-ripensare-la-pianificazione-socialista).
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9. E. H. Carr – R. W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. III: Il partito e lo Stato, Einaudi, Torino, 1978.
10. E. H. Carr – R. W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. IV: L’Unione Sovietica, il Komintern e il mondo capitalistico, Einaudi, Torino, 1978.
11. E. H. Carr – R. W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. V: I partiti comunisti nel mondo capitalistico, 1926-1929, trad. di Aldo Serafini, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1980.
12. E. H. Carr – R. W. Davies, Le origini della pianificazione sovietica. VI: L’Unione Sovietica e la rivoluzione in Asia 1926-1929, Collana Biblioteca di cultura storica, Einaudi, Torino, 1984.
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18. F. A. von Hayek (a cura di), Collectivist Economic Planning: critical studies on possibilities of socialism, Routledge & Kegan Paul, Londra, 1935.
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20. J. Kornai, The Socialist System: The Political Economy of Communism, Princeton University Press, Princeton, 1992.
21. O. Lange, Socialismo ed economia socialista, La Nuova Italia, Firenze, 1975.
22. V. I. Lenin, Stato e rivoluzione, Editori Riuniti, Roma, 1970.
23. E. Mandel (a cura di), 50 Years of World Revolution, Pathfinder Press, New York, 1971.
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25. K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie, Dietz Verlag, Berlino, 1953.
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27. A. Nove, L’economia sovietica, Comunità, Ivrea, 1963.
28. A. Nove, L’economia di un socialismo possibile, Editori Riuniti, Roma, 1986.
29. A. Nove, An Economic History of the USSR 1917-1991, Penguin, Londra, 1993.
30. Partito Comunista della Federazione Russa, Il partito comunista vuole tornare alla pianificazione statale, ma basata sull’intelligenza artificiale, «Voxkomm», 7 giugno 2022, disponibile all’indirizzo https://voxkomm.noblogs.org/post/2022/06/07/russia-il-partito-comunista-vuole-tornare-alla-pianificazione-statale-ma-basata-sullintelligenza-artificiale/.
31. O. Šik, Piano e mercato nel socialismo, Editori Riuniti, Roma, 1969.
32. L. Trotsky, The Revolution Betrayed: What is the Soviet Union and Where is it Going?, Pathfinder Press, New York, 1972 (ed. orig. 1937).
33. E. Zaleski, Stalinist Planning for Economic Growth 1933-1952, The University of North Carolina Press, Chapel Hill, 1980.
Inserito il 03/11/2025.
Dal sito «laletteraturaenoi.it»
di Beppe Corlito
«Vorrei sottolineare il fatto nuovo emerso nell’ultimo mese. “La Flotilla di terra” è stata guidata da gruppi di operai, che hanno boicottato le operazioni di carico e scarico delle navi dei porti europei, ma soprattutto italiani (Marsiglia, Genova, Livorno, Ravenna, Atene). In alcuni casi come a Ravenna hanno ottenuto il supporto delle autorità civili. Con un sicuro istinto internazionalista, in cui brilla la più gloriosa tradizione del movimento operaio fin dalle origini, hanno dichiarato: “Se Israele blocca la Flotilla, non uscirà dal porto neppure un chiodo”. “Blocchiamo tutto” è diventata l’indicazione di tutte le manifestazioni popolari. Non voglio illudermi sulle prospettive, ma in quel momento il punto di vista dei portuali, degli operai, ha preso la testa dell’intero movimento per la pace».
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Esiste ancora la classe operaia?
di Beppe Corlito
La Global Sumud Flotilla ha fatto detonare la protesta sociale
Nel chiudere il precedente articolo dell’11 settembre sulla questione della pace e della guerra auspicavo la necessità di sostenere in ogni modo la Global Sumud Flotilla per il contributo che può dare a superare la debolezza del movimento per la pace. Nell’arco di un mese ci sono state, in Italia e in Europa, una miriade di iniziative per la fine del genocidio del popolo palestinese e per la pace. Le 42 barche, provenienti da molti paesi del mondo, sono state illegalmente abbordate in acque internazionali dalle navi della marina militare israeliana, dopo numerosi attacchi di droni e dopo il tentativo di denigrare l’impresa dicendo che era compromessa con Hamas. In Italia si sono mobilitate centinaia di migliaia di persone, soprattutto lavoratrici e lavoratori, studentesse e studenti. La Flotilla, anche se in maniera simbolica, ha dimostrato che è possibile ciò che i governi occidentali non sono stati in grado di fare per la loro complicità con lo stato criminale di Israele: forzare il blocco navale della Striscia di Gaza, che dura da oltre 15 anni illegalmente, rivendicare un corridoio umanitario e portare aiuti alla popolazione affamata, mentre i viveri vengono fatti marcire nei camion ai confini e i centri di distribuzione israeliani sono usati come strumenti di attrazione per il tirassegno dei cecchini. Il 72% degli intervistati di una inchiesta dell’IZI, azienda di analisi e valutazioni economiche e politiche, è favorevole all’iniziativa della Flotilla con una ovvia discrepanza tra gli elettori dei partiti di maggioranza (55,8%) e di opposizione (88,6%) [Agenzia stampa DIRE del 30.9.2025]. È da notare la maggioranza trasversale, che sembra riflettersi anche nelle mobilitazioni popolari degli ultimi giorni. Il fatto ha di certo preoccupato il governo se si considerano le dichiarazioni dei suoi rappresentanti, in particolare la protervia di Giorgia Meloni con la battutaccia che “il weekend lungo e la rivoluzione non vanno d’accordo”, poichè lo sciopero del 3 ottobre cadeva di venerdì. Evidentemente non conosce (o forse lo teme) che gli operai della prima rivoluzione proletaria della storia, la Comune di Parigi, spaccarono gli orologi a segnare la liberazione dai tempi del lavoro salariato e richiesero la riduzione dell’orario di lavoro. Landini, il segretario generale della CGIL, le ha dovuto ricordare che chi sciopera ci rimette una giornata di salario e che i lavoratori sono coloro che pagano con certezza le tasse che fanno funzionare il paese.
I due scioperi generali
Lo sciopero generale del 3 ottobre, secondo gli organizzatori, ha mobilitato oltre due milioni di lavoratrici e lavoratori con manifestazioni pacifiche in 100 città italiane; una massa imponente di cittadine e cittadini per uno sciopero con un obbiettivo politico, che non veniva convocato da anni in Italia. Lo sciopero ha superato la partecipazione di quello precedente proclamato separatamente dalla CGIL (19 settembre) e la USB (22 settembre). La manifestazione di sabato 4 ha portato a Roma oltre un milione di persone, che piazza San Giovanni non è riuscita a contenere, mentre la coda del corteo stava ai Fori Imperiali. Ma il fatto politico più importante ai fini della mia argomentazione è il richiamo all’unità che la mobilitazione di massa, in larga misura spontanea, ha indotto nelle sigle sindacali, che hanno dovuto convergere sulla stessa data a differenza dello sciopero precedente. Quello del 3 è stato convocato da CGIL, USB, COBAS e CUB. Sono le sigle con una tradizione più decisamente “di classe”, come preferisco indicarla invece dell’espressione generica “di sinistra”. I sindacati più filo-padronali (o filo-governativi) CISL, UIL e UGL non sono apparsi all’orizzonte. Landini ha motivato lo sciopero generale, dichiarando a La 7 che “senza pace non esistono nè diritti del lavoro nè democrazia”, ricordando gli scioperi operai del 1943 contro la guerra. Tali motivazioni fanno calare una pietra tombale sulle chiacchiere di Matteo Salvini, che concorre nella potervia con Giorgia Meloni per qualche frazione di punto nei sondaggi, a proposito dell’illegittimità dello sciopero senza preavviso. In realtà la protesta sociale, guidata dai lavoraratori, che la Flotilla ha fatto detonare nelle piazze, affonda le radici nell’ampio dissenso dell’opinione pubblica e nel popolo italiano verso le politiche belliciste del governo. Nel n. 6 del 2025 la rivista di geopolitica Limes riporta un sondaggio sulla “percezione della guerra” condotto dal Censis su un campione stratificato di 1.007 individui. Di là dalle battute ironiche poco felici dell’autore Massimiliano Valerii che “gli italiani non si considerano una stirpe di focosi guerrieri”, le quali a mio avviso affondano le radici nel macello della Grande Guerra, chi è “pronto a combattere” rappresenta un magro 16%. Il grosso del campione (il 39%, che sale al 41% della chiamata a combattere dai 18 ai 34 anni) si dichiara pacifista, è pronto a protestare contro la guerra e propende per “la via maestra… della neutralità”. Ricordo che era la scelta europeista del Manifesto di Ventotene, cioè della generazione che aveva combattuto il fascismo e che versò il sangue per la lotta di liberazione.
L’emergere delle avanguardie operaie dei porti (e non solo)
Vorrei sottolineare il fatto nuovo emerso nell’ultimo mese. “La Flotilla di terra” è stata guidata da gruppi di operai, che hanno boicottato le operazioni di carico e scarico delle navi dei porti europei, ma soprattutto italiani (Marsiglia, Genova, Livorno, Ravenna, Atene). In alcuni casi come a Ravenna hanno ottenuto il supporto delle autorità civili. Con un sicuro istinto internazionalista, in cui brilla la più gloriosa tradizione del movimento operaio fin dalle origini, hanno dichiarato: “Se Israele blocca la Flotilla, non uscirà dal porto neppure un chiodo”. “Blocchiamo tutto” è diventata l’indicazione di tutte le manifestazioni popolari. Non voglio illudermi sulle prospettive, ma in quel momento il punto di vista dei portuali, degli operai, ha preso la testa dell’intero movimento per la pace. Dall’appello del rappresentante del Collettivo Autonomo Lavoratori Portuali di Genova apprendiamo non solo che l’impresa della Flotilla è la più grande inziativa civile di pace di tutti i tempi, ma che esiste anche un Coordinamento Internazionale dei portuali. C’è anche un altro piccolo, ma significativo segnale di ripresa della soggettività operaia di cui questo blog ha dato puntuale notizia fin dal primo festival della working class letterature (Francesca Di Marco, 2023) presso lo spazio occupato dagli operai della GKN di Firenze, molto attivo nell’iniziative di “urlo per Gaza”. Uno degli esponenti del Collettivo di Fabbrica, Dario Salvetti, ironicamente dichiarava di voler mantenere il festival ogni anno: un pesce d’aprile che la working class fa a un sistema che la invisibilizza, la spinge verso la frammentazione, le toglie la parola e la narrazione, “il nostro personale pesce d’aprile a una storia che vuole gli oppressi muti e chi domina a spargere narrazioni false e tossiche”.
La narrazione neo-liberista e l’attualità di Marx
La Scuola economica di Chicago fin dagli anni 50 ha costruito la rivincita del liberismo sulle ragioni del movimento internazionale dei lavoratori. Ha posto fine ai golden thirty, siglati dalle democrazie occidentali e dal potere di interdizione dei lavoratori. Dagli anni Novanta ha lanciato sulle basi della terza rivoluzione industriale, quella elettronica, la globalizzazione. Edward Luttvak l’ha chiamato “il capitalismo supersonico” (1998). Vi è stato l’arricchimento smisurato della classe capitalista internazionale e la narrazione della “fine della storia”, in cui non vi sarebbero stati più conflitti sociali, predicando l’inutilità dei sindacati. Tali “magnifiche sorti e progressive”, tolte le briglie allo sviluppo capitalistico, nel giro di un decennio hanno prodotto: la crisi finanziaria del 2010, la crisi economica di sovrapproduzione, l’accelerazione della crisi climatica e le conseguenti migrazioni, la pandemia, la crisi delle democrazie occidentali e dello stato sociale europeo, l’ondata nera dell’autoritarismo e inevitabilmente le guerre commerciali per la conquista dei mercati per finire con l’inevitabile guerra aperta a rischio di escalation planetaria e atomica. Il sociologo Luciano Gallino ha ricostruito tutti i singoli passaggi di questa evoluzione drammatica, pur all’interno di un discorso keinesiano di porre un limite allo sviluppo selvaggio del capitalismo, introducendo il concetto di “lotta di classe dall’alto” nel saggio-intervista con Paola Borgna La lotta di classe dopo la lotta di classe (2012). A fronte dello sviluppo di una potentissima “classe capitalistica transnazionale” sosteneva che si è formato “un proletariato globale, le cui condizioni di lavoro ricordano da vicino quelle del proletariato industriale di metà Ottocento” (p. 151). È il ripristino della tesi di Marx delle due classi contrapposte che si contendono i destini storici del pianeta. Contro la narrazione neo-liberista che la lotta di classe sarebbe finita o addirittura che le classi non esisterebbero più, la teoria marxiana della crisi è invocata come la più predittiva dagli stessi economisti borghesi. Emerge l’esistenza della lotta di classe feroce dall’alto delle classi ricche verso i diseredati del pianeta. Per quanto l’omogenizzazione dei consumi e degli stili di vita — soprattutto nei paesi del primo mondo — rendano meno appariscenti le disugualianze sociali, queste sono crescenti e in epoca successiva al saggio di Gallino sono ritornate quelle del 1929 (Marco Revelli, La lotta di classe esiste e l’hanno vinta i ricchi, 2014). Per spiegare come mai sembra non esistere il proletariato globale, più esteso che nelle epoche precedenti con le delocalizzazioni delle produzioni e i processi di proletariazzazione indotti dalla rivoluzione elettronica, Gallino ricorre alla distinzione marxiana “tra classe in sé” e “classe per sé”. “Una classe sociale esiste indipendetemente dalle formazioni che ne risconoscono o meno l’esistenza, e persino da ciò che i suoi componenti pensano o credono di essa” (p. 4). In estrema sintesi esiste la classe che può fare da “becchino” del capitalismo ed è più estesa di prima, ma non esiste ancora in quanto consapevole di sé come organizzazione soggettiva. Per questo è decisivo riconoscere i germi del formarsi di gruppi anche piccoli di avanguardie operaie.
Problemi aperti: l’organizzazione del movimento per la pace, la costruzione della sua direzione e il ruolo del sindacato
Ho scritto della debolezza del movimento per la pace, ma nell’ultimo mese — come accade spesso nella storia in cui ci sono giorni che contano anni — si sono trovate fianco a fianco in piazza la generazione dei “vecchi”, formatasi nelle lotte degli anni Settanta, e quella dei “giovani” che dalle scuole e soprattutto dai luoghi del lavoro si affacciano oggi sulla scena politica. La scommessa è il saldarsi di queste esperienze per dare corpo all’organizzazione del movimento per la pace. I “giovani”, di cui quasi ritualmente si è sottolineato il disinteresse per la politica, possono formarsi una coscienza politica nella lotta contro la guerra e per il loro futuro. Il ruolo del sindacato — da cui l’insistenza sull’unità dello sciopero generale per la Flotilla e contro il genocidio dei palestinesi — è il primo momento del formarsi del punto di vista soggettivo di classe, sostenuto da Gallino sulla scorta di Marx. Una prima cartina di tornasole del processo in atto l’avremo nella prossima marcia per la pace Perugia-Assisi.
12 Ottobre 2025
Beppe Corlito
(Tratto da: https://laletteraturaenoi.it/2025/10/12/esiste-ancora-la-classe-operaia/).
Inserito il 17/10/2025.
Xi Jinping.
Fonte della foto: https://www.rsi.ch/info/mondo/Xi-Jinping-al-culmine-del-potere--1812372.html
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Cina socialista, capitalista o…?
L’importanza del dibattito
Fin dai tempi in cui al potere della Repubblica Popolare Cinese era asceso Deng Xiaoping tra i comunisti e i marxisti di tutto il mondo si era aperto un dibattito sulla natura politica, sociale ed economica del sistema cinese: poteva ancora essere considerato socialismo? L’introduzione di capitali privati nelle sfere produttive rendeva tale sistema prettamente capitalistico? Oppure si poteva parlare di capitalismo di Stato, visto lo schiacciante predominio del potere politico del Partito Comunista Cinese sulle determinazioni dell’economia cinese?
In fin dei conti, salvo qualche eccezione, tutti gli studiosi e gli osservatori concordavano più o meno sul fatto che si trattava comunque di un sistema ibrido, ma con che grado di aderenza al socialismo?
La presidenza Xi Jinping ha portato la superpotenza cinese ai vertici del dominio del mondo che sta superando l’unipolarismo occidentale e il dominio statunitense. E il dibattito sulla natura del sistema cinese si è riacutizzato negli ultimi anni. Gli animi si scaldano quando si tratta di studiosi e militanti marxisti perché per noi il tema della collocazione di un sistema in un campo o in un altro è sempre stato delicato. Ha sempre diviso. Che ci possiamo fare? È più forte di noi, siamo facili alle divisioni, agli scontri.
In questa sede però siamo propensi al dibattito, al confronto, all’approfondimento piuttosto che allo scontro, e quindi abbiamo pensato di raccogliere via via articoli e interventi che sul tema hanno scritto alcuni studiosi marxisti, vedendo come si articolano le loro posizioni e quali argomenti pongono a sostegno delle proprie tesi.
Buona lettura.
La redazione
Fonte della foto: https://italian.cri.cn/2024/07/18/ARTIEOunaJdotQE7kTRZDOhf240718.shtml
Cina socialista, capitalista o…? / 1
Dal sito di «Transform! Italia»
di Ernesto Screpanti
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Un capitalismo con caratteristiche cinesi
di Ernesto Screpanti
Prima parte
Recentemente mi è capitato di leggere e ascoltare diverse favole sulla natura sociale e politica della Cina, ad esempio che si tratta di un sistema socialista. In questo articolo vorrei tentare di smontarle. Ovviamente lo farò come si può fare in un articolo di dieci pagine. Per approfondire scientificamente lo studio del sistema cinese ci sarebbe bisogno di scrivere almeno due libri, uno sugli aspetti politici e uno sugli aspetti economici. Ma credo che le cose essenziali si possano dire anche in modo semplice e sintetico.
Visto che tratterò di capitalismo, imperialismo e socialismo, devo fare una breve premessa teorica. Il capitalismo lo definisco come un sistema economico in cui il lavoro è mobilitato con il contratto di lavoro subordinato e il controllo dei mezzi di produzione è assegnato al capitale, il quale usa il lavoro salariato per estrarre plusvalore e impiega il plusvalore per valorizzare e accumulare il capitale stesso. L’imperialismo lo definisco come un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese sfrutta risorse umane e naturali di un altro paese e usa il plusvalore e la ricchezza così estratti per valorizzare e accumulare il capitale su scala mondiale.
Più difficile è definire il socialismo, se non altro per la varietà di teorie cui si può attingere. Per essere più ecumenico possibile, lo definirò facendo riferimento a due posizioni molto diverse, quasi polarmente opposte. In tal modo chiunque può scegliere quella che preferisce, tra la gamma di definizioni collocabili tra i due poli, e ognuno può valutare come vuole il grado di socialismo di un sistema reale. La prima definizione la definirò “marxista”, pur sapendo che qualche marxista non la condividerà. Secondo questo punto di vista, il socialismo è un sistema in cui il reddito è distribuito in modo da dare a ognuno secondo le sue capacità, il potere economico in modo da assegnare ai produttori il controllo della produzione e il potere politico in modo da attribuire al popolo il controllo democratico dello stato. La seconda definizione la definirò “bellamista”.
È quella proposta da Edward Bellamy in Looking Backward 2000-1887. In questo romanzo utopistico viene presentato un modello di società in cui tutta l’industria è statalizzata, la “nazione” è l’unico datore di lavoro e i lavoratori sono organizzati in una struttura gerarchica denominata “esercito industriale”. Lo Stato non è un’istituzione politica vera e propria, ma una tecno-struttura che svolge la funzione di amministrazione economica e che gestisce la produzione e le risorse in modo efficiente. Non esistono partiti perché il socialismo realizzato riscuote il consenso di tutti i cittadini. Gli amministratori sono eletti non in base a ideologie, programmi e interessi, bensì in base alle capacità tecniche e alle doti morali. C’è una completa uguaglianza distributiva: tutti i cittadini ricevono lo stesso reddito. Le differenze di gravosità dei lavori sono bilanciate da differenze dell’orario di lavoro. Questo modello è piaciuto ad alcuni marxisti, immemori del fatto che secondo Marx la prima fase del comunismo, quella che Lenin denominò “socialismo”, abolisce il lavoro salariato e avvia la realizzazione del regno della libertà, e all’oscuro del fatto che Bellamy, un colonnello dell’esercito americano, aveva preso l’organizzazione delle forze armate come modello di società perfetta.
Un socialismo con caratteristiche cinesi?
Per entrare nel vivo della materia: devo constatare che sono pochi quelli che dichiarano esplicitamente di credere che in Cina c’è il socialismo. Molti di più sono quelli che, non osando dichiararlo, lo lasciano trapelare da diverse osservazioni e valutazioni apparentemente neutrali.
Alcune valutazioni colte e raffinate partono dalla constatazione che la diversità della Cina rispetto al resto del mondo è dovuta alla sua eredità confuciana, e che questa eredità favorirebbe il socialismo. Perché? Perché il confucianesimo esalta i valori collettivi e l’armonia sociale a discapito dell’individualismo. Effettivamente il confucianesimo favoriva la virtù ren, la benevolenza verso i propri simili esercitata in conformità alla collocazione degli individui nella gerarchia politica e famigliare; gerarchia che si sviluppa entro cinque rapporti fondamentali: sovrano-suddito, padre-figlio, marito-moglie, fratello maggiore-fratello minore, amico-amico. Quanto alla struttura sociale come la concepisce il confucianesimo, è basata su una scala dei gradi di perfezione umana. Gli uomini si dividono in tre gruppi: quelli perfetti, quelli superiori e quelli comuni. Così la collettività si articola in tre strati: l’imperatore con la sua corte, i nobili e la massa popolare.
Devo aggiungere altro per far capire il motivo per cui il confucianesimo fu osteggiato e represso dopo la proclamazione della Repubblica Popolare e fortemente contestato durante la rivoluzione culturale? Per i comunisti rivoluzionari cinesi il confucianesimo era una religione di stato elitaria, autoritaria e classista. Era la base religiosa del vecchio sistema imperiale, e in quanto tale era accusato di sostenere il rigido ordinamento tradizionale e una morale centrata sull’obbedienza e la deferenza all’autorità. Era visto come uno strumento ideologico usato dalle classi dominanti per giustificare la sottomissione del popolo e perpetuare i rapporti di sfruttamento.
Dunque ci deve far riflettere il fatto che dopo la morte di Mao e le riforme di Deng Xiaoping il confucianesimo è stato progressivamente riabilitato, fino a essere oggi promosso come parte essenziale dell’identità culturale cinese. Il governo attuale lo usa proprio per sostenere i valori di disciplina e armonia sociale.
Un tipo di argomentazione a favore del carattere socialista dell’economia cinese fa leva sulla distribuzione del reddito. Molti sono convinti che in Cina ci sia qualcosa che può essere definito “eguaglianza” o “equità” o “giustizia”, o almeno che di queste caratteristiche ce ne sia una dose maggiore che nei paesi capitalistici occidentali. Se come teoria della giustizia adottiamo il modello bellamista, l’equità distributiva si ottiene quando tutti i cittadini ricevono lo stesso reddito. È un caso limite che potremmo usare quale metro di misurazione, così da poter dire che la distribuzione del reddito di un paese è tanto più “socialista” quanto più si avvicina a quella del modello bellamista, quindi quanto meno disuguaglianza c’è nella distribuzione del reddito.
Nella ricerca scientifica, quando si vuole valutare il grado di equità distributiva di un paese, si fa riferimento a varie misure:
1. la percentuale di cittadini che vivono in condizioni di povertà assoluta,
2. la percentuale di cittadini che vivono in condizioni di povertà relativa,
3. la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi personali,
4. la percentuale di reddito guadagnato dal top 10% della popolazione,
5. la quota salari sul prodotto interno lordo.
Quanto alla povertà, è ormai diventato un luogo comune sostenere che la Cina l’ha debellata al proprio interno e che ha dato il maggior contributo alla riduzione della povertà nel mondo negli ultimi 40 anni. In effetti se guardiamo alla percentuale di poveri assoluti, secondo una certa misura di povertà usata in passato dalla Banca Mondiale (è povera una persona che vive con un reddito giornaliero non superiore a $1,90, in Parità di Potere d’Acquisto PPA 2011), la percentuale di poveri in Cina è scesa dal 66,2% del 1990 allo 0,1% del 2019, un risultato strabiliante. Senonché la soglia di povertà di $1,90 poteva andar bene nel 1990, non negli anni più recenti. Ebbene, il governo cinese ha rifatto i calcoli applicando una linea di povertà di $2,30, e sulla base di questa nel marzo 2021 Xi Jinping ha potuto vantare una “vittoria totale” sulla povertà.
La Banca Mondiale ha definito differenti linee di povertà per differenti gruppi di paesi classificati secondo il livello del PIL pro-capite. E ciò ha senso. Se applicassimo una linea di $2,30 all’Italia, risulterebbe che nel nostro paese non ci sono poveri. Invece l’Istat ci dice che nel 2023 il 9,7% della popolazione (5,7 milioni di individui) viveva in condizioni di povertà assoluta. Recentemente la Cina è stata classificata nel gruppo delle economie a reddito medio-alto, gruppo al quale si applica una linea di povertà di $5,50. In base a tale soglia, nel 2021 il 17% della popolazione cinese viveva in condizioni di povertà assoluta (The Global Economy, 2021). Nel 2025 o nel peggiore dei casi nel 2026 la Cina verrà classificata tra i paesi ad alto reddito, ai quali si applica una linea di povertà di $6,85 (PPA 2017). Con questa soglia è stato stimato ancora un 17% di popolazione povera nel 2023 (World Bank, 2023). Per fare un confronto: negli USA il numero dei poveri assoluti (secondo lo US Census Bureau, che usa una linea di povertà di $35) era pari al 13,1% della popolazione nel 2018.
In un’economia capitalistica la lotta alla povertà è come un lavoro di Sisifo: si vince per mezzo dello sviluppo economico e delle politiche sociali. Senonché lo sviluppo stesso obbliga ad alzare le linee di povertà, e i poveri riemergono ogni volta.
Più valido del concetto di “povertà assoluta” è quello di “povertà relativa”, definita da una soglia di reddito pari al 50% (o 60%) del reddito mediano. In tal caso la linea di povertà si innalza automaticamente al crescere del reddito. Purtroppo non esistono accurate statistiche ufficiali per la Cina su questo parametro. Comunque uno studio scientifico serio (Zou, Cheng, Fan e Lin, 2023) ha rilevato che nel 2015 la percentuale di cittadini cinesi in condizioni di povertà relativa era pari al 32,11%. Anche qui si può fare qualche confronto. Nello stesso anno negli Stati Uniti la percentuale di poveri relativi era pari al 16,8%, in Italia al 14,4%, in Germania al 10,1% (OECD 2015).
Nel 2018 la Banca Mondiale ha elaborato una misura della Societal Poverty Line (SPL), definita così: SPL = max ($2,15, $1,15 + 0,5 × mediana nazionale dei consumi o del reddito) (in PPA 2017). Questa linea di povertà combina i concetti di povertà assoluta e relativa. Viene applicata ai paesi con reddito medio-alto e alto. Risulta che nel 2021 la percentuale di poveri era pari a: 19,1% in Cina, 19,7% in USA, 16,6% in Italia, 13,2% in Francia, 12,0% in Germania (2020) (World Bank, 2025).
Un altro concetto di equità distributiva è quello che definisce la disuguaglianza nella distribuzione statistica dei redditi personali. La misura più diffusa è l’indice Gini. È un numero che va da 0 a 1. Quando c’è perfetta eguaglianza (come sarebbe nel modello bellamista) l’indice assume un valore nullo. Quando c’è perfetta disuguaglianza (un cittadino riceve tutto il reddito, gli altri cittadini non ricevono nulla) l’indice assume valore 1.
Premettendo che questo indice è stato stimato da varie fonti con risultati un po’ dissimili, si può rilevare che:
L’indice Gini della Cina era piuttosto basso (0,30) nel 1980; poi ha cominciato a salire rapidamente raggiungendo un picco di 0,55 nel periodo 2002-04; successivamente si è ridotto gradualmente fino a raggiungere il valore di 0,46 negli anni 2019-20 (Xie e Zhou, 2014; Wikipedia, 2023).
Sulla base di dati del National Bureau of Statistics of China l’indice Gini era stato stimato a 0,49 nel 2008 (Chen, 2013; Zhao, 2013) e 0,47 nel 2019 (Lin e Brueckner, 2023).
Secondo altre stime, l’indice ha toccato un massino di 0,44 nel 2010, per poi scendere gradualmente fino allo 0,36 nel 2021 (Countryeconomy, 2025; World Bank, 2024).
Per fare un confronto: USA 0,48 (2021), Italia 0,32 (2021), Germania 0,32 (2022), Francia 0,29 (2021) (USCB, 2022; ISTAT, 2023; Destatis, 2023; INSEE, 2023). Può consolare il fatto che alcune misurazioni degli indici cinesi, a differenza di quelle degli altri paesi, sono effettuate su redditi prima di tasse e trasferimenti (che tuttavia in Cina incidono poco).
Per restare in tema di evoluzione della disuguaglianza distributiva, la quota del PIL cinese guadagnata dal 50% più povero della popolazione è passata dal 27% del 1978 al 15% del 2015 (a questa data il 50% più povero della popolazione percepiva il 12% del PIL negli USA e il 22% in Francia). Invece la quota di PIL guadagnata dal 10% più ricco della popolazione è passata dal 27% del 1978 al 41% del 2015 (a questa data negli USA era del 45%, in Francia del 32%). Infine la quota di ricchezza cinese appartenente al top 10% della popolazione ha raggiunto il 67% nel 2015 (negli USA era del 72% in Francia del 50%) (Piketty, Yang e Zucman, 2019).
Se usassimo come target di riferimento il modello di uguaglianza bellamista, dovremmo rilevare che oggi la Cina sarebbe ben lontana dal “socialismo”. Certo, si può dire che quello bellamista è un modello fasullo, almeno in base alla concezione di Marx, secondo cui nella prima fase del comunismo varrebbe il principio distributivo “a ciascuno secondo le sue capacità”. Questo principio implica la sopravvivenza di una certa disuguaglianza economica, ma non alta quanto in un regime capitalista. Infatti il controllo della produzione da parte dei produttori e il controllo dello stato da parte del popolo dovrebbero portare all’eliminazione di tutte le posizioni di rendita, di tutti i guadagni speculativi e di tutti i profitti capitalistici. Esiste un indicatore approssimativo di questa realtà? Certo che esiste: è la percentuale della quota salari sul reddito nazionale. La differenza di questo numero rispetto a 100 misura la quota di tutti gli altri redditi. Considerando che buona parte di questi “altri redditi” sono plusvalore, cioè profitti, interessi, rendite e guadagni di capitale, si potrebbe considerare la quota salari come una misura, se non del grado di socialismo distributivo, sicuramente del grado di sfruttamento capitalistico. Infatti la quota salari è una trasformazione lineare di quello che Marx chiamava “saggio di plusvalore” (siano: S=monte salari, P=plusvalore, Y=S+P=prodotto interno lordo, S/Y= quota salari; allora Y/S=S/S+P/S; e il saggio di plusvalore è P/S=Y/S-1). Perciò possiamo dire che l’andamento della quota salari sul reddito nazionale varia inversamente al saggio di sfruttamento del lavoro: quando la quota salari si riduce è perché sta aumentando il saggio di sfruttamento.
Per studiare l’andamento della quota salari in Cina bisogna attingere da diverse fonti poiché non esiste una serie unica completa. Chiarito ciò, ecco la serie più attendibile che sono riuscito a trovare:
Quota salari su PIL in Cina
1983–56,2 1985–56,1 1990–53,4 1995–51,4 2000–47,7 2005–41,4 2010–45,3 2015–47,9 2017–48,3 2018–48,4 2019–47,9 2020–47,5 2021–47,7 2022–47,8
(Fonti: Bai e Qian, 2010; ILO, 2015; Dao, Das, Koczan e Lian, 2017; NBS, 2023a; OECD, 2024)
La serie può essere suddivisa in tre periodi. Fino al 2005 c’è stata una forte diminuzione della quota salari – diminuzione che è stata causata: 1) dalle politiche di dumping sociale finalizzate all’attrazione di investimenti diretti esteri, 2) dalla compressione dei consumi operai finalizzata al mantenimento dell’alto tasso di risparmio necessario per sostenere l’accumulazione primitiva, 3) dal forte aumento dei profitti causato dall’accumulazione primitiva stessa. Dopo la grande crisi del 2007-09 c’è stato un aumento della quota salari che è stato determinato dal tentativo del governo di reagire alla crisi alimentando la domanda interna anche con i consumi operai. Dopo il 2018 c’è stata una diminuzione e una stabilizzazione. Notare comunque che il trend complessivo è decrescente.
Notare anche che la stabilizzazione finale è avvenuta attorno a un livello piuttosto basso, almeno a confronto dei principali paesi capitalistici. Secondo dati AMECO7 (2025), nel 2022 la quota salari era pari al 59,4% negli USA, 64,8% in Giappone, 62,4% nell’area euro, 58,4% in Italia, 62,7% in Germania, 68,3% in Francia.
Secondo un’altra fonte (FRED, 2021), che però è considerata poco attendibile, la quota salari cinese sarebbe più alta di circa 4-5 punti percentuali rispetto a quella mostrata nella tabella. Seguirebbe lo stesso andamento a U, con un trend comunque decrescente, e resterebbe più bassa di quelle dei principali paesi capitalistici.
Tutti gli osservatori sono concordi nello spiegare il trend decrescente della quota salari in Cina con gli aumenti della produttività e dei profitti causati da uno strepitoso sviluppo economico.
Possiamo arrivare a delle prime conclusioni. In nessun senso la distribuzione del reddito vigente in Cina è così egualitaria da poterci far dire che ha approssimato a un’equità socialista. Anzi, tutti i diversi indicatori della distribuzione ci dicono che in Cina la disuguaglianza e lo sfruttamento capitalistico sono più forti che nei principali paesi capitalistici cosiddetti “avanzati”. Non solo, ma lo sfruttamento ha esibito una tendenza ad aumentare nel corso del tempo.
C’è un altro aspetto del modello di “socialismo” bellamista che potrebbe forse illuminarci: in quel modello tutti i mezzi di produzione sono di proprietà “nazionale”. Potremmo quindi valutare il grado di socialismo di un paese reale misurando la percentuale del PIL che è prodotta da imprese pubbliche.
Secondo il governo cinese nel 2016 c’erano in Cina circa 150.000 SOE (State-Owned Enterprises), imprese statali o statalizzate (escludendo le imprese finanziarie), il 68% delle quali erano a proprietà mista (Morrison, 2018). Nel 2022 esistevano complessivamente circa 362.000 SOE (incluse le imprese finanziarie) (Shi, 2024). Secondo una stima che sembra un po’ esagerata, nel 2020 le SOE hanno prodotto il 40% del PIL cinese (Tjan, 2020). Più realistica è la cifra di 25% stimata da Leutert (2024).
Bisogna dire peraltro che il peso delle SOE è andato sistematicamente diminuendo negli ultimi decenni, proprio come nei paesi capitalistici occidentali. Si pensi che negli anni ’70 la percentuale del PIL prodotto da imprese statali in Cina si aggirava tra il 75% e 85% (Naughton, 2007; World Bank, 1985). In quel decennio le quote di PIL prodotto da imprese pubbliche o a partecipazione statale erano intorno al 25-30% in Francia, 20-25% in Italia, 15-20% in Gran Bretagna, 10-12% in Germania Ovest, 5-8% negli USA (OECD, 1976; Millward, 2005).
Sembrerebbe che i “socialisti” bellamisti possano portare a casa un buon risultato. La struttura proprietaria dell’economia cinese è più “socialista” di quelle europee, e perfino più di quella dell’Italia demo-socialista degli anni ’70! Ma si può veramente sostenere che l’impresa pubblica è socialista? Dipende, come spiegherò nella prossima sezione. Comunque nel caso della Cina direi proprio di no.
Intanto mi sia permesso di richiamare l’ultima genialata che mi è capitato di sentire: che la Cina ha un sistema economico socialista perché l’economia è sotto il controllo o l’egemonia del PCC, ovvero, parole testuali: “economia capitalista in stato socialista”. In altri termini, il fatto che l’economia è controllata da un partito che si autodefinisce comunista sarebbe una garanzia del suo carattere socialista. Come dire che nell’Italia degli anni ’60 e ’70 c’era un sistema economico cristiano-socialista perché l’economia era governata dal centro-sinistra.
Qui per “controllo” non s’intende solo “proprietà pubblica”, s’intende più in generale “controllo politico”. Ora, se si vuol dire che il governo fa politiche industriali, allora non c’è dubbio: nella Cina moderna il governo fa politiche industriali per sostenere lo sviluppo, precisamente come facevano i governi italiani prima dell’arrembaggio neoliberista. Ma che c’entrano le politiche industriali con il socialismo? Tutti i governi dei paesi capitalistici hanno fatto politiche industriali quando hanno voluto sostenere lo sviluppo. Accadde già nella Francia del Seicento sotto Colbert; il quale non solo cercava di incentivare le esportazioni con politiche di dumping, incentivi fiscali, protezione delle capacità tecniche eccetera, ma addirittura creò con le “manifatture reali” un consistente settore industriale a proprietà pubblica – tipico esempio di socialismo con caratteristiche francesi.
Un capitalismo misto
Credo che nessuno neghi che in Cina c’è il capitalismo. Non lo negano neanche quelli che sostengono che c’è il socialismo – potenza della logica dialettica! E qui raggiungiamo il massimo di virtuosismo. Sentite questa: in Cina c’è il capitalismo, ma è usato per aumentare il benessere sociale – una frase che troverei esilarante, se non fosse agghiacciante. È agghiacciante perché nella sua apparente semplicità enuncia due postulati che nessun socialista può accettare: 1) che il socialismo di per sé non è in grado di assicurare il benessere sociale, ma ha bisogno del capitalismo per farlo; 2) che il capitalismo è in grado di farlo.
Per capire in che modo e in che misura l’economia cinese è capitalistica vediamo innanzitutto qual è la struttura proprietaria delle sue imprese.
Come già osservato, ci sono le imprese pubbliche, le SOE “pure”, che sono di proprietà del governo centrale o locale. Poi ci sono le imprese a partecipazione statale o proprietà mista, Joint Ventures e Partenariati Pubblico-Privato; a questo gruppo appartengono molte imprese pubbliche che sono state parzialmente privatizzate e sono quotate in borsa, delle quali però lo stato conserva il controllo. Abbiamo visto sopra che nel periodo 2020-2023 l’insieme delle imprese pubbliche e a partecipazione statale copriva tra il 25% e il 40% del PIL.
Molte imprese pubbliche o a partecipazione statale sono di grandi dimensioni e molte sono multinazionali. Se guardiamo alla classifica Fortune Global 500 del 2023, che elenca le 500 più grandi imprese del mondo, ci accorgiamo che vi comparivano 135 imprese cinesi, 85 delle quali erano di proprietà statale o a partecipazione statale; secondo la SASAC (State-owned Assets Supervision and Administration Commission of the State Council) attualmente ci sono tra le 200 e le 300 SOE multinazionali. Invece le multinazionali cinesi private sono circa 1.500 secondo il rapporto UNCTAD (2023).
Inoltre ci sono le imprese collettive, aziende appartenenti a comunità locali. Una volta erano chiamate TVE (Township and Village Enterprises). Erano piccole imprese presenti soprattutto nelle comunità rurali, nell’edilizia, nella piccola industria e nei servizi. Spesso i loro dirigenti erano nominati dalle autorità amministrative locali o dai lavoratori; potrebbero essere in odore di socialismo. Tale tipo d’impresa era piuttosto diffuso negli anni ’80, quando copriva circa il 25-30% del PIL; ma dagli anni ’90 molte di queste imprese sono state privatizzate e molte sono uscite di mercato a causa della concorrenza delle imprese private. Oggi la categoria di “Township and Village Enterprises” è caduta in disuso ed è stata sostituita da quella di “Collectively-Owned Units”, che sono ciò che resta delle TVE dopo che la maggior parte di esse è stata privatizzata. Il National Bureau of Statistics of China stima che nel 2022 il contributo al PIL delle “Collectively-Owned Units” era meno dell’1% (NBS, 2023b).
C’è anche un piccolo settore cooperativo, che comprende per lo più cooperative agricole e cooperative di consumo; nel 2021 il settore cooperativo copriva circa il 6-7% del PIL. Non si hanno dati statistici ufficiali sul numero e il fatturato delle vere cooperative, le cooperative di produzione e lavoro, quelle che, avendo abolito il lavoro salariato e avendo attribuito ai produttori l’autogestione della produzione, potrebbero dare una genuina impronta socialista all’economia. Tuttavia, usando dati del National Bureau of Statistics of China, l’International Labour Organization (ILO, 2017) ha stimato che a questa data il contributo produttivo delle vere cooperative si aggirava tra l’1 e il 3% del PIL.
Tutto il resto è capitalismo privato, con proprietari cinesi e stranieri; in questo settore ci sono le multinazionali straniere, le cosiddette WFOE (Wholly Foreign-Owned Enterprises), che contribuiscono al 25-30% del valore aggiunto industriale.
I socialisti bellamisti potrebbero osservare che c’è comunque un forte settore pubblico e che ciò è segno di socialismo. Si può dire che il socialismo con caratteristiche cinesi è un socialismo almeno al 30-40? Non credo. E non c’è bisogno di scomodare i critici comunisti dell’URSS (da Amadeo Bordiga a Tony Cliff a Raya Dunayeskaya) per capire cos’è il capitalismo di stato. Basta Lenin. Il quale prima della rivoluzione aveva teorizzato il capitalismo di stato come forma di potere monopolistico dello stato borghese, dopo la rivoluzione aveva teorizzato la proprietà pubblica come una forma di capitalismo di stato, durante la NEP aveva sostenuto che il capitalismo di stato è superiore alla piccola produzione privata dispersa e può essere usato per preparare il passaggio al socialismo. L’argomento centrale è che il capitalismo di stato sarà anche proprietà pubblica, ma è pur sempre capitalismo. Si noti en passant che né Lenin né Stalin hanno mai preteso che in URSS ci fosse il socialismo. Pensavano che ci fosse un’economia in transizione verso il socialismo. Per quanto mi risulta, il primo ad affermare che in URSS c’era il socialismo realizzato, o meglio, il “socialismo sviluppato”, fu Breznev. Ironia della sorte: lo fece al XXIV Congresso del PCUS (1971), un ventennio prima del crollo, cosicché fu facile gioco per i pugilatori a pagamento di tutto il mondo dar conto di quella catastrofe come di un crollo del socialismo invece che della fine di un capitalismo di stato piuttosto inefficiente. Per tornare alla Cina, quello che si può dire è che ha un capitalismo misto, pubblico-privato, che produce circa il 94-97% del PIL.
E comunque Marx potrebbe fare una domanda molto semplice per capire se la proprietà pubblica è capitalismo o socialismo: ha abolito il lavoro salariato? Domanda che potremmo articolare nelle seguenti: La classe operaia è sfruttata? È oppressa? Ha il potere? Controlla la produzione?
La risposta a tutte queste domande è semplice: In Cina i lavoratori sono assunti dalle imprese con il contratto di lavoro subordinato, che siano imprese private o pubbliche. Le imprese fanno profitti e usano i profitti per valorizzare e accumulare il capitale. Le decisioni d’investimento, di produzione e d’organizzazione del lavoro sono prese dai consigli d’amministrazione non dai consigli di fabbrica. Tra parentesi, un’altra perla che mi è capitato di sentire è che il capitalismo in Cina si sta estinguendo perché le decisioni d’investimento ormai le prende l’intelligenza artificiale.
Come che sia, per quanto possa estinguersi il capitalismo manageriale, resta il fatto che la classe operaia è viva e vegeta, e più che mai oppressa e sfruttata. In Cina c’è un’organizzazione sindacale ufficialmente riconosciuta: la Federazione Sindacale di Tutta la Cina (All-China Federation of Trade Unions, ACFTU). È integrata nella struttura statale ed è controllata dal PCC, che la usa soprattutto per assicurare la stabilità politica e assecondare lo sviluppo economico. Per dirlo eufemisticamente: “Nello svolgere il suo duplice ruolo di difensore degli interessi dei lavoratori e dello stato l’ACFTU spesso manca dell’autonomia necessaria per opporsi alle politiche governative e alle decisioni manageriali che violano i diritti dei lavoratori” (Everycrsreport, 2006). E neanche le sue strutture di base hanno l’autonomia necessaria per organizzare scioperi e altre azioni industriali a livello locale. I lavoratori che danno vita a forme autogestite di rappresentanza e azioni industriali spontanee subiscono arresti e intimidazioni.
Durante il movimento di protesta di piazza Tian’anmen (1989), i lavoratori di Pechino organizzarono un Sindacato Autonomo, che però fu sciolto dopo la repressione del 4 giugno, mentre i suoi leader venivano condannati a lunghe pene detentive. Per aggirare la proibizione dell’attività sindacale autonoma alcuni gruppi di lavoratori si sono organizzati nella forma di ONG del lavoro (ad esempio a Shenzhen e Guangzhou). Queste organizzazioni assistevano legalmente i lavoratori che scendevano in lotta. Tra il 2015 e il 2019 il governo le ha represse arrestando alcuni loro leader.
Ciononostante, scioperi e disordini continuano, anche se sono considerati illegali. Le principali cause delle lotte di fabbrica riguardano: ritardi nei pagamenti, non pagamento degli straordinari, chiusure o trasferimenti di fabbriche, licenziamenti ingiustificati, violazioni dei diritti dei lavoratori. Molte proteste sono state causate dalle politiche di privatizzazione delle SOE e dalle conseguenti politiche aziendali di licenziamento, tagli ai salari e ai benefici sociali.
Ecco alcuni esempi delle lotte più rilevanti. Nel marzo 2002 ben 30.000 lavoratori di 20 fabbriche nel Liaoyang esibirono un’incredibile capacità di autorganizzazione nel mettere in atto proteste e manifestazioni per resistere a tagli dei salari e delle pensioni e agli arresti di militanti. Lo stesso anno 50.000 lavoratori di raffinerie petrolifere protestarono contro licenziamenti nel Daqing. Nel 2004 migliaia di lavoratori del tessile nella provincia di Shaanxi fecero uno sciopero che durò sette settimane. Sempre nel 2004 sono state registrate 863 proteste che hanno coinvolto più di 50.000 lavoratori nella provincia di Guangdong (Everycrsreport, 2006). Nel 2010 un grande sciopero spontaneo alla Honda di Foshan si concluse con la conquista di aumenti salariali.
Il primo decennio del millennio ha esibito un aumento delle dispute di lavoro a causa delle politiche di privatizzazione. Ma è stato solo l’inizio di un crescendo di lotte. I conflitti industriali sono triplicati dal 2011 al 2024. Nel 2015 ne sono stati rilevati 2.600, anche se alcune stime arrivano fino a un numero di 10.000. Nel 2023 ci sono state 1.794 azioni industriali; nel 2024 ce ne sono state 1.509 (Šebok, 2023; Chinaworker, 2024; Han e Song, 2024; Doherty, 2025). Gran parte delle informazioni sulle lotte sono state raccolte e documentate dal China Labour Bulletin (CLB, 2025), un’organizzazione non governativa fondata nel 1994 a Hong Kong per difendere i diritti dei lavoratori cinesi. Si deve tener presente che le cifre pubblicate dal CLB, da cui dipendono quelle pubblicate da diversi altri studi, sono fortemente sottostimate perché a loro volta dipendono da fonti pubbliche, le quali tendono a censurare e rimuovere rapidamente le informazioni di questo tipo.
In Cina, come abbiamo visto, la quota salari sul PIL ha esibito un trend decrescente a partire dagli anni ’80. La causa principale della tendenza risiede nel sistematico e forte aumento dei profitti e della produttività del lavoro (aumento del plusvalore relativo, direbbe Marx). I salari reali sono aumentati anch’essi sistematicamente. Cosa gli ha impedito di aumentare al punto di dare una sterzata alla tendenza alla diminuzione della quota salari? Due fatti: da una parte la difficoltà di organizzare azioni industriali incisive per contrattare collettivamente i salari; dall’altra un consistente esercito industriale di riserva.
(1/2. Segue).
Ernesto Screpanti
(Tratto da: https://transform-italia.it/un-capitalismo-con-caratteristiche-cinesi/).
Clicca per aprire la seconda parte
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Un capitalismo con caratteristiche cinesi
di Ernesto Screpanti
Seconda parte
Secondo Marx l’esistenza di un grosso esercito industriale di riserva gioca un ruolo decisivo nella regolazione dei salari e del grado di sfruttamento in un sistema capitalistico. Purtroppo in mancanza di statistiche adeguate non conosciamo l’entità dell’esercito di riserva in Cina. Possiamo usare come proxy il tasso di disoccupazione. Ma anche in questo caso le statistiche sono inadeguate. Lo sono perché in Cina viene rilevata solo la disoccupazione urbana, che peraltro non include i lavoratori immigrati dalle campagne e i lavoratori informali, i quali costituiscono una quota significativa della forza lavoro cinese. Inoltre non si hanno dati sulla disoccupazione, l’inoccupazione e la sottoccupazione nelle campagne. Ebbene il tasso di disoccupazione ufficiale era dell’1,8% nel 1985, dopo di che è andato sistematicamente crescendo fino a raggiungere il 5,3% nel febbraio 2024. Ma tutti gli osservatori sono concordi nel ritenere che il tasso ufficiale sottovaluta sistematicamente quello reale. Vari studi suggeriscono che il tasso effettivo di disoccupazione può essere tra il doppio e il triplo di quello ufficiale (Giles, Park e Zhang, 2005; Feng, Hu e Moffitt, 2015; Lam, Liu, e Schipke, 2015). Più recentemente Yao Yang, decano della National School of Development all’Università di Pechino, ha stimato un tasso di disoccupazione reale del 15% quando quello ufficiale era del 5,7% (He e Zhu, 2023).
Infine, ecco un’informazione a beneficio di coloro che credono che “in Cina si lavora di meno” perché c’è il socialismo o qualcosa del genere. Tra gennaio 2022 e luglio 2025 le ore lavorate settimanali medie per addetto sono oscillate tra un minimo di 46,2 a un massimo di 49,1 (Trading Economics, 2025a). Nello stesso periodo questa grandezza negli Stati Uniti è oscillata tra 34,1 e 34,6 (Trading Economics, 2025b). Secondo l’ufficio statistico tedesco, nel 2023 le ore settimanali lavorate in media per lavoratore erano 36,9 nell’EU, 34,4 in Germania, 37,0 in Francia, 37,3 in Italia (Destatis, 2025). Dunque i lavoratori cinesi non solo sono spremuti capitalisticamente, ma lo sono molto di più dei loro colleghi occidentali.
Per venire alla dimensione politica della condizione operaia, mi limiterò a osservare che in Cina, oltre al PCC, ci sono ben 8 “partiti democratici”, i quali “collaborano” tutti strettamente con il PCC in ossequio al principio della “cooperazione multipartitica e consultazione politica sotto la leadership del Partito Comunista Cinese”. Nell’Assemblea Nazionale del Popolo, il PCC occupa 3/4 dei seggi, ma esercita un controllo totale in quanto la Costituzione prevede un fronte unito che comprende tutti gli altri 8 “partiti democratici”.
I dirigenti cinesi sostengono che nel mondo esistono diverse forme di democrazia e che da loro ce n’è una particolare tipica della Cina. I comunisti filocinesi occidentali che apprezzano questo discorso aggiungono che in occidente non c’è una vera democrazia. Hanno perfettamente ragione, considerando che da noi ormai viviamo in un regime di “postdemocrazia” (Crouch) o “democratura” (Galeano, Matvejevic). Infatti di che parliamo quando definiamo democratico un sistema come quello inglese, per fare un esempio qualificato, in cui votano solo i cittadini moderati (nelle elezioni del 2024 l’affluenza è stata del 59,7%) e in cui un partito che riceve il consenso del 20,12% della popolazione con diritto di voto (33,7% di voti × 59,7% di affluenza) conquista una maggioranza del 63% in parlamento? Be’, se questa è una forma di democrazia allora lo è anche quella cinese.
La quale, sia nei discorsi ufficiali sia in quelli dei comunisti filocinesi occidentali, parte da una certa svalutazione della democrazia procedurale. Conta di più la democrazia sostanziale – dicono. Che consiste in cosa? Consiste nel buon governo esercitato nell’interesse del popolo. E il popolo è un’entità olistica che non ha bisogno della libertà di organizzazione per esprimere la propria volontà (“bastano i sondaggi”: sì, ho sentito pure questa). Come nel modello bellamista: che bisogno c’è di veri partiti quando tutti i cittadini sono concordi nel consenso al buon governo della nazione? Ne consegue che, siccome ciò che assicura il buon governo è l’efficienza, i politici sono selezionati non sulla base di proposte politiche, linee strategiche e ideologie alternative. Sempre secondo il modello bellamista, sono selezionati in base alle capacità tecniche e alle doti morali. Ergo: la sostanza della democrazia si manifesta nella meritocrazia. In Cina i dirigenti sono selezionati in base alla competenza. Le libere elezioni sono sostituite dagli esami, tanto che “la Cina è governata dagli ingegneri e il Partito Comunista è pieno d’ingegneri” (Douthat e Wang, 2025). Capite perché Confucio è tornato a essere centrale nella cultura che il PCC cerca di infondere nelle masse?
Marx, sia nel criticare la filosofia del diritto pubblico di Hegel sia nell’analizzare l’esperienza della Comune di Parigi, aveva elaborato il concetto di “vera democrazia” per definire un sistema politico in cui vigono il suffragio universale, il vincolo di mandato e l’eutanasia dei politici di professione, tanto per restare alla democrazia procedurale. Secondo lui, un sistema del genere permetterebbe al proletariato, maggioranza della popolazione in un paese capitalistico avanzato, di instaurare la “dittatura del proletariato”, cioè il predominio della volontà della maggioranza proletaria della popolazione, e quindi di avviare democraticamente il processo di espropriazione degli espropriatori. Certo che oggi Carletto ci pare un po’ ingenuo, ma d’altra parte ai suoi tempi non solo non c’era il suffragio universale, non c’erano neanche la radio, la televisione, il cinema e i dipartimenti di Scienze della Comunicazione.
Tuttavia il concetto di “vera democrazia” è essenziale nella definizione di socialismo. Se questo consiste nel controllo della produzione da parte dei produttori, allora la proprietà pubblica può assumere un carattere socialista solo nella misura in cui è controllata da uno stato che esprime la volontà dei produttori. Un sistema socialista dovrebbe combinare un settore economico di vere cooperative controllate direttamente dai lavoratori con uno di imprese pubbliche controllate indirettamente e democraticamente dal popolo.
In conclusione, qualsiasi parametro usiamo per valutare il sistema economico – distribuzione del reddito, distribuzione dei diritti di proprietà, distribuzione del potere – del sistema cinese si può senz’altro dire che ha caratteristiche cinesi ma non che ne ha di socialiste. E allora, se non è socialista cos’è? Be’, a questo punto mi pare chiaro: è capitalismo puro e semplice.
Un imperialismo con caratteristiche cinesi
Non c’è capitalismo senza imperialismo, perché la legge di Mosè e di tutti i profeti è: “accumulare accumulare!” E l’accumulazione si svolge in profondità e in estensione – estensione anche geografica, su quello che Marx chiamava “mercato mondiale”.
Ma devo subito dire che l’imperialismo con caratteristiche cinesi è veramente particolare, di un tipo che si differenzia per molti aspetti da quello “occidentale”. Tanto per cominciare, non ha assunto caratteristiche di espansione militare. La Cina ha una sola base militare all’estero, a Gibuti, e una mezza dozzina di installazioni “dual use” (commerciale-militare) in Africa e Asia. Niente, a confronto delle 750-800 basi militari americane in un’ottantina di paesi (OBRACC, 2025), delle 145 basi militari britanniche in 42 paesi (Miller, 2020), delle 21 basi militari estere della Russia (Sharkov, 2018) e delle 11 basi militari estere francesi (Wikipedia, 2025).
Ma l’aspetto per cui quello cinese si differenzia più nettamente dall’imperialismo occidentale è il suo carattere, diciamo così, munifico. La Cina sta investendo massicciamente nel Sud globale, specialmente in Africa e in America Latina, fornendo ai paesi in via di sviluppo aiuti sostanziosi al decollo industriale e ai processi di modernizzazione. Investe con prestiti del governo e delle banche e con investimenti diretti delle imprese multinazionali statali e private. E costruisce strade, ferrovie, porti, aeroporti, scuole, ospedali, dighe e intere città nuove, oltre che fabbriche. Naturalmente vi esporta anche molto, di ogni genere di beni di consumo e d’investimento, e anche di personale tecnico.
Tra il 2000 e il 2023, la Cina ha erogato prestiti a 49 paesi africani per un ammontare di 182 miliardi di dollari (Morro, Bien-Aimé e Engel, 2024; Farraj, 2024). Tra il 2005 e il 2022, la China Development Bank e la Export-Import Bank of China hanno prestato 141 miliardi di dollari a governi e imprese dell’America Latina (Witgens, 2022). Tra il 2008 e il 2021 in relazione alla Belt and Road Initiative la Cina ha prestato circa 240 miliardi di dollari a 22 paesi latino-americani e asiatici (Rajvanshi, 2023). Complessivamente tra il 2000 e il 2021 la Cina ha concesso prestiti ai paesi in via di sviluppo per un ammontare di 911 miliardi di dollari (Miriri, 2025).
I cinesi fanno pagare sui propri prestiti tassi d’interesse differenziati in funzione del rischio, con punte che arrivano all’8%, ma comunque piuttosto bassi (circa il 2% in media) (Nyabiage, 2020), certamente più bassi di quelli applicati dalle istituzioni finanziarie private occidentali (5% in media) (Toussaint, 2024).
Quanto agli investimenti diretti esteri cinesi in Africa, hanno avuto un’impennata subito dopo il Forum on China-Africa Cooperation (FOCAC) del 2006, quando la Cina s’impegnò ufficialmente a sostenere lo sviluppo economico africano. In una prima ondata gli investimenti si sono orientati verso la costruzione di infrastrutture e l’estrazione di risorse minerarie. In America Latina la prima ondata è cominciata nel 2010, quando gli investimenti sono stati orientati principalmente verso l’approvvigionamento di soia brasiliana, rame cileno, petrolio venezuelano. Una seconda ondata è iniziata nel 2016 sotto la spinta della Belt and Road Initiative. Allora i cinesi si sono interessati, tra l’altro, alla produzione di energia idroelettrica in Etiopia e di energia rinnovabile in Brasile. Successivamente c’è stato un rallentamento causato sia dalla pandemia Covid sia dal default del debito verso la Cina da parte di alcuni paesi africani e latino-americani.
Ecco un po’ di dati quantitativi. Secondo l’OECD nel periodo 2017-2022 le imprese cinesi hanno investito 74 miliardi di dollari in Africa, coprendo il 18% degli investimenti diretti esteri globali verso quel continente (ANA, 2023). Secondo il Ministero del Commercio cinese e la China-Africa Research Initiative, nel periodo 2005-2023 la Cina ha investito in Africa più di 110 miliardi di dollari. In America Latina invece negli anni 2003-2022 ha investito circa 187,5 miliardi di dollari (Chin@Strategy, 2024). Secondo la Economic Commission for Latin America and the Caribbean vi ha investito più di 200 miliardi di dollari tra il 2000 e il 2023.
Infine bisogna osservare che la Cina incoraggia i paesi del Sud globale a crescere con le esportazioni. A tal fine ha tenuto piuttosto bassi i dazi verso quei paesi e anzi recentemente si è mossa verso una politica di zero dazi – una politica che favorisce la crescita del PIL di quei paesi e quindi delle loro importazioni.
In conclusione, mi sembra credibile l’opinione di chi sostiene che questo tipo d’imperialismo è gradito ai popoli che lo accolgono. Senz’altro è più gradito di quelli americano, inglese e francese, che sono invece apprezzati dalle classi dirigenti golpiste e dalle borghesie compradore. Voglio aggiungere che personalmente tifo per la Cina (e i paesi BRICS) nell’attuale partita per il nuovo ordine mondiale, non solo perché il moderno impero celeste ha assunto caratteri munifici e non bellicisti, ma anche perché si trova sotto l’attacco dell’imperialismo americano (Screpanti, 2025).
Ci si può domandare: in che senso è imperialismo quello cinese se è così munifico? La risposta è: nel senso che resta comunque un sistema di potere internazionale in cui il capitale di un paese estrae plusvalore e ricchezza da altri paesi. La Cina lo fa verso i paesi del Sud globale in diversi modi:
Innanzitutto c’è il pagamento degli interessi sui prestiti; per quanto i prestiti offerti dalla Cina siano a basso costo e per quanto siano graditi ai paesi che li ricevono, resta il fatto che un costo ce l’hanno; e gli interessi sono plusvalore estratto dal lavoro dei paesi debitori e incamerato dal capitale del paese creditore.
In secondo luogo ci sono i profitti delle imprese multinazionali cinesi, pubbliche e private, profitti che sono prodotti dai lavoratori dei paesi in via di sviluppo e in buona parte importati dalle case madri.
In terzo luogo c’è uno sfruttamento da scambio ineguale; le ragioni di scambio sono sfavorevoli ai paesi del Sud globale in cui la Cina investe perché il costo del lavoro vi è più basso.
In quarto luogo ci sono i profitti guadagnati dalle imprese esportatrici cinesi; sono guadagnati dal capitale cinese nel suo complesso nella misura in cui la Cina gode di un sistematico surplus commerciale verso i paesi in via di sviluppo; nel 2023 il surplus commerciale verso l’Africa era pari a 282 miliardi di dollari, quello verso l’America Latina era pari a 485 miliardi di dollari.
In quinto luogo il capitale cinese si avvale del più basso costo del lavoro dei paesi in via di sviluppo per produrvi beni che poi riesporta ad alti profitti nei paesi più sviluppati.
Infine bisogna ricordare il land grabbing che la Cina pratica nei paesi del Sud globale; consiste in parte in acquisti di terre e in parte in contratti a lungo termine (25-99 anni) per concessioni agricole e joint venture con governi locali; la Cina è tra i primi 5 paesi acquirenti di terra a livello mondiale, per una superficie di circa 6-7 milioni di ettari di terre agricole acquisite o gestite in leasing da imprese o fondi cinesi (Lay et al. 2021; Nuñez Salas, 2022; Russo, 2024).
Conclusioni
Vorrei chiudere ricordando che il decollo industriale cinese era cominciato già negli anni ’50. Spesso si trascura il fatto che la Cina ha assistito a una “costante ed elevata crescita in tutto il periodo post-rivoluzionario” (Marchetti, 2020), non solo dopo le riforme di Deng. Il tasso di crescita medio annuo del PIL per gli anni ’50, ’60, e ’70, è stato stimato da diversi ricercatori su cifre che si collocano tra il 6% e il 10%. In particolare: il National Bureau of Statistics of China stima intorno al 6,7% il tasso di crescita negli anni 1953-1978 (Morrison, 2019). Yao (2020) lo stima al 6,14% per gli anni 1954-1977. Più ottimista Morgan Stanley (2023), che fornisce le seguenti stime: 8,9% negli anni ’50; 9,8% negli anni ’60; 9,3% negli Anni ’70.
Stando così le cose, non sembra che le riforme di Deng abbiano fatto fare alla crescita del PIL cinese quell’enorme balzo che si dice. Certamente Il tasso di crescita medio anno è stato elevatissimo nel periodo 1980-2005. Secondo il Fondo Monetario Internazionale e la Banca mondiale si è collocato tra il 9,7% e il 10,1%. Certo, elevatissimo, ma non molto più elevato di quello prevalente nei precedenti trent’anni. Perciò si può dire che in sostanza le novità apportate dalle riforme della fine degli anni ’70 si riducono a due: un lieve aumento del tasso di crescita fino alla grande crisi del 2007-9 e una drastica ristrutturazione capitalistica.
Le riforme avviate il 18 dicembre 1978 dall’“architetto generale” Deng Xiaoping – che tra l’altro promosse un sacco di ingegneri nelle sfere di comando dello stato e del partito (Douthat e Wang, 2025) – hanno forzato un processo di trasformazione che ha esibito tutte le caratteristiche di un’accumulazione primitiva. La forte guida dello stato, le politiche mercantiliste aggressive che praticavano il dumping sociale, fiscale, ambientale e normativo, la massimizzazione del tasso di risparmio, la compressione della crescita dei salari e dei consumi, la graduale privatizzazione delle imprese pubbliche, l’accelerazione delle esportazioni e delle importazioni, il forte aumento degli investimenti diretti esteri in entrata e in uscita, sono tutti fenomeni che hanno svolto funzioni decisive nel sostenere il processo di accumulazione primitiva in Cina. Nessun economista potrà mai lodare abbastanza il ruolo giocato dal PCC nel dirigere questo processo.
L’accumulazione primitiva, che era iniziata negli anni ’50, si è conclusa con la crisi del 2007-9, dopo la quale l’economia cinese è entrata in un sentiero di sviluppo più autosostenuto, più centrato sull’innovazione tecnologica autonoma, più permissivo nei confronti della crescita dei salari e dei consumi, ma anche più lento (nel periodo 2010-2025 il tasso di crescita medio annuo del PIL è stato del 6,4%).
Come che sia, è importante non dimenticare che la trasformazione e l’accumulazione capitalistiche governate dal PCC non sarebbero state possibili se non sulla base di una clamorosa vittoria dei “revisionisti” in un decisivo episodio di lotta di classe, ovvero la drammatica sconfitta della rivoluzione culturale negli anni ’70. La rivoluzione era iniziata nel 1966 e raggiunse il culmine nel periodo 1972-76, quando emerse un movimento ribelle che, in forza della parola d’ordine “critichiamo Lin Biao, critichiamo Confucio”, portò avanti una contestazione radicale contro burocrati di stato e di partito. Nel settembre 1976 morì Mao Zedong, in ottobre fu arrestata la cosiddetta la “Banda dei Quattro”, e la Rivoluzione Culturale fu sconfitta e repressa. Dopo di che, non solo il gruppo dirigente, ma tutto il movimento rivoluzionario fu criminalizzato.
Allora vabbè, si può lodare il PCC attuale; ma si deve essere consapevoli del fatto che non è proprio menzognera l’ironia di chi lo intende come Partito Confuciano Cinese o Partito Capitalista Cinese.
(2/2. Fine).
Ernesto Screpanti
(Tratto da: https://transform-italia.it/un-capitalismo-con-caratteristiche-cinesi/).
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Inserito il 19/09/2025.
Cina socialista, capitalista o…? / 2
Dalla rivista online «Marx 21»
Giulio Chinappi recensisce il volume
(Diarkos Editore, 2024, pp. 288, 24 euro)
Lucida analisi critica sull’evoluzione economica della Cina, L’economia cinese contemporanea di Alberto Gabriele esplora il modello del socialismo con caratteristiche cinesi, analizzando con rigore le dinamiche di proprietà, innovazione e sviluppo. Un’opera fondamentale per comprendere il “miracolo cinese”.
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Un’analisi del modello di socialismo con caratteristiche cinesi
Giulio Chinappi recensisce il volume
Alberto Gabriele
L’economia cinese contemporanea
Imprese, industria e innovazione da Deng a Xi
L’economia cinese contemporanea (Diarkos, 2024), opera postuma dell’economista marxista Alberto Gabriele, recentemente scomparso, è un libro che riesce a offrire una visione approfondita e sofisticata dell’evoluzione economica della Cina, tracciando un percorso che va dalle riforme di Deng Xiaoping fino all’attuale leadership di Xi Jinping. Questo lavoro si distingue per il suo approccio critico, informato da un punto di vista marxista, e rappresenta un tributo postumo all’impegno intellettuale di Gabriele, che ha contribuito significativamente al dibattito italiano e internazionale sull’economia cinese.
Il libro è introdotto dalla preziosa prefazione di Vladimiro Giacché, che evidenzia l’importanza di quest’opera per il pubblico italiano e la sua rilevanza per comprendere il “miracolo economico” cinese. Nell’opera, infatti, Gabriele propone di analizzare i fattori chiave che hanno permesso alla Cina di raggiungere un successo economico senza precedenti, facendo leva su una combinazione unica di proprietà pubbliche, private e cooperative. Egli sottolinea l’importanza della “diversità istituzionale” e dell’”approccio pragmatico” della Cina, che ha permesso al Paese di sviluppare una sorta di economia mista socialista di mercato. Questo modello, definito ufficialmente come “economia di mercato orientata al socialismo“, si distingue per la presenza di un forte controllo statale e per l’adozione di politiche di lungo termine focalizzate sull’innovazione e sullo sviluppo sostenibile (p. 67).
Uno dei punti focali dell’analisi di Gabriele riguarda la politica industriale e tecnologica cinese, un aspetto che ha visto un intervento statale massiccio e costante nel corso degli anni. L’autore evidenzia come il successo della Cina in settori tecnologicamente avanzati, come la produzione di veicoli elettrici, sia stato possibile grazie a politiche mirate e a un coordinamento tra istituzioni pubbliche e aziende private. A tal proposito, Gabriele cita esempi di piani strategici, come il Piano quindicennale per la scienza e la tecnologia 2006-2020, che hanno contribuito a trasformare la Cina in una potenza tecnologica mondiale, superando persino i Paesi occidentali in alcuni ambiti: “La strategia di innovazione della Repubblica popolare punta ad assorbire ed endogenizzare le pratiche più avanzate dei leader tecnologici mondiali […], ma questa strategia è anche peculiare per due aspetti cruciali: la dimensione del Paese e la sua specifica forma di socialismo di mercato” (p. 139).
Gabriele approfondisce l’interessante tema delle “imprese non capitaliste orientate al mercato” (p. 57), tra le quali figurano anche le imprese municipali e di villaggio, che costituiscono un pilastro fondamentale del modello economico cinese. A differenza delle aziende private, queste imprese mantengono uno stretto legame con le autorità locali e sono guidate da un’ottica di interesse pubblico, pur essendo inserite in un contesto di mercato: “Con il termine “orientata al mercato” si identificano tutte quelle imprese che vendono i propri prodotti (o servizi) in uno o più mercati, ivi incluse quelle imprese che perseguono obiettivi complementari o totalmente diversi dalla massimizzazione del profitto […]. Le Incom comprendono tutte quelle imprese orientate al mercato che differiscono dal modello della classica impresa privata” (p. 60). Gabriele sottolinea come tali imprese abbiano svolto un ruolo cruciale nella crescita economica della Cina e nella riduzione della povertà nelle aree rurali, integrando in modo armonioso il settore privato e il controllo statale.
Il sistema finanziario cinese è un altro aspetto analizzato in dettaglio nel libro, in cui Gabriele evidenzia la particolare struttura del sistema bancario cinese, dominato da grandi banche pubbliche. Questo modello, sebbene in parte criticato per la sua inefficienza e la corruzione, ha permesso al governo di mantenere il controllo sull’economia nazionale e di incentivare la crescita degli investimenti industriali e infrastrutturali. Il sistema di “repressione finanziaria” cinese, sostiene Gabriele, è stato uno strumento efficace per evitare le crisi economiche cicliche tipiche delle economie capitalistiche avanzate, offrendo al contempo un sostegno finanziario alle imprese statali e ai progetti strategici di sviluppo: “La straordinaria crescita della Cina è stata possibile proprio grazie al suo cosiddetto sottosviluppo finanziario e alla radicale differenza tra il suo sistema a controllo pubblico e quello speculativo e sempre a rischio di crisi dei Paesi capitalisti” (p. 29).
Il testo passa poi ad esaminare anche il ruolo della Cina nel commercio globale e l’evoluzione del suo modello di esportazione. Come noto, la Cina ha saputo sfruttare le catene del valore globali e la manodopera a basso costo per espandere la propria presenza sui mercati internazionali. Tuttavia, negli ultimi anni, il governo cinese ha avviato una transizione verso un modello economico più orientato al consumo interno, riducendo gradualmente la sua dipendenza dalle esportazioni. Questo approccio, secondo Gabriele, rappresenta un’evoluzione significativa nella strategia di crescita cinese, che mira a garantire una maggiore stabilità economica a lungo termine (pp. 36-37).
Lungi dall’essere un’opera ideologica, il libro dedica ampio spazio all’analisi della distribuzione della ricchezza e delle disuguaglianze sociali in Cina, che resta uno dei principali punti deboli del sistema economico del paese asiatico e “la maggiore contraddizione del socialismo di mercato cinese” (p. 46). Se Gabriele riconosce i successi della Cina nell’eliminazione della povertà assoluta, senza precedenti nella storia umana, egli evidenzia anche l’emergere di disuguaglianze economiche e sociali (p. 40). Negli ultimi decenni, la Cina ha visto crescere la disparità di reddito tra le aree urbane e rurali, con un aumento del coefficiente di Gini, un indicatore che misura la disuguaglianza economica. Gabriele critica dunque questa tendenza, e sottolinea la necessità di politiche redistributive più incisive per promuovere un modello di “prosperità comune”, un obiettivo dichiarato dal Partito Comunista Cinese, anche se allo stesso tempo afferma che “da circa dieci anni, nonostante la sostanziale permanenza di elevati livelli assoluti, sembra emergere una tendenza alla diminuzione della disuguaglianza” (p. 45).
Nell’ultima parte del libro, Gabriele affronta la sfida di definire la natura del modello economico cinese contemporaneo. Egli osserva come la Cina abbia creato un sistema ibrido, in cui il socialismo convive con elementi di capitalismo, in un equilibrio instabile ma produttivo. Questo modello, secondo Gabriele, rappresenta una “terza via” tra il capitalismo occidentale e il socialismo sovietico, offrendo un’alternativa pragmatica che potrebbe ispirare altri Paesi in via di sviluppo. Secondo l’autore, “il capitalismo di Stato è una componente necessaria di qualsiasi tentativo di costruire un socialismo del XXI secolo orientato al mercato, ma diretto dallo Stato. […] In questo quadro, non c’è contraddizione nell’affermare che la Rpc sia un’economia socialista di mercato ancora relativamente poco sviluppata e che incorpori elementi di capitalismo di Stato” (p. 232). Le conclusioni di Gabriele sono arricchite dalla sua esperienza personale e dalla sua formazione intellettuale, che gli permettono di offrire una prospettiva unica e originale sull’economia cinese.
A nostro modo di vedere, L’economia cinese contemporanea di Alberto Gabriele rappresenta un contributo prezioso e innovativo per comprendere le dinamiche economiche della Cina moderna, certamente senza precedenti nella letteratura in lingua italiana. Il libro si distingue per l’analisi rigorosa e la capacità di Gabriele di esporre concetti complessi in modo chiaro e accessibile, rendendo la lettura stimolante e coinvolgente anche per i non specialisti del settore. La scomparsa di Gabriele rende questo volume un’opera postuma particolarmente significativa, che testimonia la sua passione per l’analisi critica e la sua volontà di contribuire alla comprensione del mondo contemporaneo da un punto di vista rigorosamente marxista ma non ideologico.
“Gabriele era […] un intellettuale appassionato, scevro da ogni approccio semplicistico e propagandistico, e al tempo stesso fermo nel combattere le mistificazioni e il nichilismo storico. […] Questo libro è una testimonianza eloquente e postuma della sua onestà intellettuale e del suo desiderio di comprendere e migliorare il mondo” (dalla prefazione di Vladimiro Giacché, p. 9).
30 novembre 2024
Giulio Chinappi
(Tratto da https://www.marx21.it/cultura/leconomia-cinese-contemporanea-alberto-gabriele/, ripreso a sua volta da: https://giuliochinappi.wordpress.com).
Inserito il 20/09/2025.
Cina socialista, capitalista o…? / 3
(MarxVentuno Edizioni, Bari, 2024, pp. 580, 30 euro)
Introduzione di Vladimiro Giacché
Presentiamo l’Introduzione al volume dell’economista cinese Cheng Enfu, un’opera sostanzialmente teorica che ricolloca il sistema socialista di mercato nell’ambito del marxismo.
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INTRODUZIONE
di Vladimiro Giacché
Credo che il modo migliore per introdurre alla lettura di questo libro di Cheng Enfu sia partire da un’osservazione contenuta nella prefazione di John Bellamy Foster all’edizione inglese: “Per i marxisti occidentali, ciò che probabilmente sarà più sorprendente è l’approccio poliedrico al marxismo mostrato in tutta quest’opera”. Foster ha ragione. Uno dei motivi di interesse di questo libro è il fatto di avvicinarci a un uso del marxismo dalle molte sfaccettature, e comunque molto diverso da quello al quale siamo abituati in Occidente. In effetti, le distanze che separano il marxismo occidentale dal marxismo cinese sono notevoli a più riguardi. In un mio saggio recente le ho compendiate così:
Primo, un diverso approccio al pensiero di Marx e di Engels. Questo pensiero è considerato in Cina quale una organica visione del mondo e al tempo stesso un metodo utilizzato come guida per la prassi. Per contro, il marxismo occidentale si è ormai abituato a dissezionare il pensiero di Marx e di Engels per poi rivolgere la propria attenzione ad aspetti specifici, sovente molto particolari, di quel pensiero. Ciò viene fatto dando per scontato che non esista qualcosa come “il marxismo”, ma un pensiero di Marx a sua volta articolato in diverse fasi ben distinto da quello di Engels e dei successivi esponenti della tradizione che a Marx si richiama: e che ogni considerazione del marxismo quale corpus teoretico unitario sia pertanto un’operazione indebita e priva di valore sul piano scientifico.
Secondo, la diversità dei temi posti in primo piano, che in parte deriva da un diverso atteggiamento nei confronti del rapporto tra teoria e prassi (tuttora molto stretto in Cina, mentre […] in Occidente è quasi ovunque venuto meno ormai da decenni un rapporto organico tra pensiero marxista e prassi politica).
Terzo, una differenza di contesto: il marxismo è adoperato nella Cina post-rivoluzionaria come una guida per la costruzione della società socialista, anziché, come accade in Occidente, come la base teorica per una analisi critica dei rapporti di produzione capitalistici.1
Nell’opera di Cheng questi aspetti sono tutti presenti, ma risaltano in particolare il primo e il terzo.
Quanto all’approccio al marxismo, è molto chiara già l’introduzione, in cui il marxismo è inteso come un “sistema teorico” che è stato “iniziato da Marx ed Engels e, da allora, è stato gradualmente sviluppato e migliorato dai loro successori” [pp. 40-41]. Cheng propone una concezione “olistica” del marxismo, che va studiato “nel suo insieme”, al fine di “correggere le carenze dei precedenti studi di argomenti isolati e approfondire la nostra comprensione” [p. 43].
Concezione “olistica” non significa però piegare lo studio del marxismo a esigenze politiche: “il marxismo politico – afferma Cheng – non può essere usato per sostituire il marxismo accademico” [p. 50]. E non significa neppure che il marxismo possa essere inteso come un corpus di dottrine ossificato, dato e fissato una volta per tutte, che si tratterebbe soltanto di “applicare”. Al contrario: “i principi di base del marxismo possono essere arricchiti, ampliati e modificati attraverso lo sviluppo della pratica o l’approfondimento della comprensione teorica. È possibile, per esempio, sviluppare la teoria del valore-lavoro di Marx, la teoria del plusvalore, la teoria della riproduzione, ecc., così come è possibile sviluppare le teorie di Lenin sull’imperialismo, lo Stato e la rivoluzione. Allo stesso modo, è possibile introdurre innovazioni nella teoria dello stadio primario del socialismo, nella teoria dell’economia di mercato socialista, e così via” [p. 61].
Queste ultime osservazioni sono di grande importanza. La teoria dello stadio primario del socialismo e il concetto di economia di mercato socialista rappresentano in effetti – come osservavo nello scritto già citato – altrettanti esempi di “innovazione nella tradizione” marxista2. La teoria dello “stadio primario del socialismo” rinvia alla riformulazione del concetto di socialismo, concepito come una fase relativamente lunga: questa riformulazione è stata proposta, nella tradizione marxista cinese, da Deng Xiaoping3. Ma anche il concetto di “economia di mercato socialista” (o “socialismo di mercato”) rappresenta un’innovazione rispetto alle teorie di Marx ed Engels, i quali prevedevano la fine della produzione mercantile sin dalla prima fase del comunismo – quella fase che da Lenin in poi sarebbe stata designata col termine di “socialismo”4.
Entrambe le innovazioni sono ora approfondite e sviluppate da Cheng Enfu negli scritti raccolti in questo libro. In particolare, lo “stadio primario del sistema economico socialista” è definito nei termini seguenti: “una varietà di proprietà pubblica come corpo principale (con la proprietà privata come corpo ausiliario) + la distribuzione orientata al mercato secondo il proprio lavoro come corpo principale (con la distribuzione secondo il capitale come corpo ausiliario) + l’economia di mercato guidata da piani nazionali” [p. 59]. A questo stadio seguono due ulteriori fasi del socialismo (“stadio intermedio” e “stadio avanzato”) prima di arrivare al “comunismo” [p. 58].
Allo “stadio primario”, nel quale la Cina si trova attualmente e che rappresenta una delle possibili declinazioni dell’“economia di mercato socialista”, Cheng Enfu dedica gran parte delle riflessioni contenute in questo libro.
Lo stadio primario del socialismo e i suoi tratti distintivi rispetto ad altri modelli economici
Le principali caratteristiche economiche della “fase primaria del socialismo con caratteristiche cinesi” sono quattro: “1) un sistema di molteplici diritti di proprietà basato sulla proprietà pubblica, 2) un sistema di distribuzione multifattoriale basato sul lavoro, 3) un sistema di mercato a struttura multipla guidato dallo Stato, e 4) un sistema aperto multiforme autosufficiente” [p. 78].
È importante notare che per Cheng questo modello rappresenta non soltanto un “superamento dell’economia mercantile capitalistica”, ma anche “una negazione dei modelli dell’economia naturale del nostro paese e della tradizionale economia di prodotti rigidamente pianificata (un modello distorto e irrealistico)” [p. 432].
Il cenno all’“economia naturale” cinese si giustifica col fatto (ovvio, ma talora trascurato dai marxisti) che, “come ogni nuovo sistema sociale che comincia a emergere si confronta con i resti lasciati dalla vecchia società, anche il sistema socialista deve scegliere un percorso di sviluppo coerente con la sua situazione istituzionale nel momento in cui comincia ad affermarsi” [p. 396]. E all’epoca della presa del potere da parte del Partito Comunista, nel 1949, dal punto di vista economico la Cina era largamente caratterizzata da un’“economia naturale” pre-capitalistica e basata sull’agricoltura.
Più importanti gli altri due modelli citati nel testo, e ai quali il socialismo di mercato cinese si contrappone. Vediamo più da vicino le osservazioni che Cheng dedica all’“economia mercantile capitalistica”. I caratteri del “moderno sistema economico capitalista” sono: “predominio della proprietà privata + predominio della distribuzione secondo il capitale + economia di mercato diretta dallo Stato” a beneficio del capitale [p. 59]. Al di là di questa caratterizzazione sintetica, Cheng dedica all’economia capitalistica un’analisi approfondita, che punta in particolare ad individuarne le contraddizioni interne che rappresentano un limite per lo stesso sviluppo economico. “Rispetto all’epoca di Marx e Lenin, la contraddizione fondamentale dell’economia capitalista nel mondo di oggi è la contraddizione tra la continua socializzazione e globalizzazione dell’economia mondiale, con la sua combinazione di proprietà privata, collettiva e statale delle forze produttive, e l’anarchia e il disordine che prevalgono nelle economie nazionali e nell’economia mondiale. Questa contraddizione economica di base, operante su scala globale allargata, ha portato alla crisi dei mutui subprime, alla crisi finanziaria globale, alla crisi della produzione e della gestione, alla crisi fiscale e alla persistente depressione economica della nuova normalità” [p. 115].
Più in particolare, “gli effetti sui Paesi occidentali” della crisi sono il risultato di cinque ulteriori “contraddizioni specifiche”, su cui Cheng si sofferma (per brevità, ne riporto solo le relative definizioni):
In primo luogo, il monopolio privato e il suo modello di gestione dell’impresa sono inclini a perseguire, da parte dei dirigenti, la massimizzazione del profitto a breve termine per ottenere il maggior reddito personale possibile […]
In secondo luogo, un monopolio privato che opera all’interno di un’economia di mercato è incline a formare un modello di sovrapproduzione relativa e di squilibrio tra l’economia reale e quella virtuale5 […] In terzo luogo, i gruppi monopolistici privati e le oligarchie finanziarie sono inclini a opporsi alla supervisione e regolazione statale […] In quarto luogo, la combinazione del monopolio privato con un’economia di mercato è incline a creare una polarizzazione tra ricchi e poveri in termini di ricchezza sociale e distribuzione del reddito. Questo dà luogo a una contraddizione tra l’espansione illimitata della produzione e una relativa riduzione della domanda da parte delle masse, che sono meno in grado di pagare i beni […]
Quinto, il potere dei monopoli privati e una considerevole riduzione da parte dei governi delle entrate fiscali prelevate dalle imprese private, insieme a grandi aumenti delle spese militari, l’incapacità di ridurre le spese generali del governo e l’uso delle entrate fiscali raccolte dai cittadini per salvare le grandi imprese private, porteranno inevitabilmente a un aumento dei deficit finanziari, all’aumento del debito pubblico e a restrizioni fiscali sul benessere pubblico e sull’istruzione statale. Ciò causa una serie di crisi e costituisce la nuova normalità economica a livello di finanza nazionale [pp. 115-120].
Per Cheng il socialismo con caratteristiche cinesi, a differenza dell’Occidente capitalistico, riesce a sfuggire alle conseguenze della “contraddizione economica di base operante su scala globale allargata” precisamente in ragione delle sue caratteristiche distintive. Vediamole più da vicino.
1. La centralità della proprietà pubblica
Prima caratteristica: “Un sistema di molteplici diritti di proprietà basato sulla proprietà pubblica” [p. 78]. Nel sistema cinese coesistono diverse forme di proprietà, ma con un ruolo strategico attribuito alla proprietà pubblica dei mezzi di produzione (inclusa la terra). In altri termini, abbiamo un sistema ad economia mista in cui “l’economia pubblica” è “dominante”, quella non pubblica è “ausiliaria”6. Questo predominio si esprime attraverso le imprese possedute (in parte o del tutto) dallo Stato, ma anche – al di là della stessa presenza nel capitale delle imprese – attraverso “il ruolo di guida e controllo dell’economia statale” [p. 78], ossia attraverso gli indirizzi dati allo sviluppo economico.
2. La distribuzione basata sul lavoro
Seconda caratteristica: “un sistema di distribuzione multifattoriale basato sul lavoro” [p. 78]. Con riguardo alla distribuzione è prevalente il sistema di remunerazione basato sul lavoro (sancito nella Costituzione della Repubblica Popolare Cinese), al quale, dopo l’inizio della politica di “riforme e apertura” intrapresa da Deng e proseguita dai suoi successori, si sono affiancati altri sistemi di remunerazione.
È interessante notare che Cheng riconduce in ultima analisi tutti questi sistemi di remunerazione alternativi alla remunerazione secondo il lavoro a un unico fattore, quello legato al capitale: “In senso stretto, la distribuzione per fattori e diritti di proprietà può essere definita come distribuzione secondo il capitale (escluso il fattore lavoro); cioè il denaro, la proprietà reale, la tecnologia, l’informazione, la conoscenza e altri elementi sono convertiti e quantificati in determinate quantità di capitale o azioni e la quota di capitale apportata da un proprietario di capitale in un’entità produttiva o commerciale è presa come criterio di base per la distribuzione del plusvalore e dei profitti o guadagni da esso derivati” [pp. 196-197].
3. L’economia di mercato guidata dallo Stato e le sue leggi
Terza caratteristica: “un sistema di mercato a struttura multipla guidato dallo Stato” [p. 78]. L’economia cinese è un’economia basata sulla produzione mercantile, dove però sussistono diverse tipologie di produttori (privato, pubblico, cooperativo, misto pubblico-privato), e dove il mercato coesiste con una “pianificazione limitata” [p. 69] e il funzionamento generale del sistema economico è guidato dallo Stato.
Questo punto (la coesistenza mercato-governo dell’economia) è quello fondamentale. Non a caso, Cheng gli dedica riflessioni piuttosto approfondite, individuando tra l’altro quattro “leggi economiche da seguire in un’economia di mercato socialista”.
3.1. Legge dello sviluppo proporzionale
La prima legge è la “legge dello sviluppo proporzionale” [p. 202]. Per Cheng “la legge dello sviluppo proporzionale è una legge universale” che ha regolato la divisione del lavoro (ossia la ripartizione della forza-lavoro tra i vari settori) in tutte le fasi storiche; qui Cheng rinvia a Marx7.
Al riguardo possiamo aggiungere che Marx osserva anche come in una società capitalistica tale divisione del lavoro, e così pure lo sviluppo dei diversi settori economici e già la stessa ripartizione del capitale tra il settore dei beni di investimento e quello dei beni di consumo, avvengano in modo disordinato attraverso gli aggiustamenti a posteriori di domanda e offerta sul mercato, con periodiche crisi da “sovrapproduzione”; quest’ultima quindi “entro la società capitalistica è un elemento di anarchia”. Per contro, in una società socialista (“una volta abolita la forma capitalistica della riproduzione”), la necessità, ad esempio, di produrre mezzi di produzione supplementari rispetto al bisogno immediato rientra in un’ottica di sviluppo pianificato dell’economia e quindi nel “controllo della società sui mezzi oggettivi della sua propria riproduzione”8.
Sulla base di queste osservazioni di Marx, in Unione Sovietica fu elaborata la “legge dello sviluppo pianificato proporzionale dell’economia”, con riferimento alle “parti ed elementi della produzione sociale”, nonché alla “corrispondenza tra la struttura della produzione e i bisogni”9. La legge era coerente con l’assunto secondo cui “nel socialismo conformità al piano e proporzionalità sono due processi inscindibilmente legati tra loro”; per contro, “nel capitalismo le necessarie proporzioni [nella divisione del lavoro e dei mezzi di produzione tra i diversi rami dell’industria] sono raggiunte in modo spontaneo”, cioè “soltanto attraverso continue oscillazioni e sproporzioni, attraverso lo scoppio periodico di crisi da sovrapproduzione, strutturali, finanziarie e valutarie, che rispecchiano e rafforzano la contraddizione fondamentale del capitalismo”10. Non si intende la “legge dello sviluppo proporzionale” di cui parla nel suo libro Cheng Enfu se non si tiene presente questo retroterra teorico. Ma come agisce in concreto questa legge nell’economia cinese contemporanea? “Nell’economia di mercato socialista cinese – risponde Cheng – la legge dello sviluppo proporzionale si manifesta nella combinazione della divisione del lavoro all’interno di un’unità di produzione organizzata con una divisione sociale del lavoro pianificata e gestita”. Ma soprattutto “la legge dello sviluppo proporzionale opera attraverso l’integrazione organica con la legge della regolazione del mercato (o legge del valore) e la legge della regolazione statale (o legge della pianificazione)” [p. 203].
3.2. Legge del valore
La seconda legge da tenere presente è per l’appunto la “legge del valore” [p. 204]. “La legge del valore dice che il valore di una merce è determinato dal tempo di lavoro socialmente necessario per produrre la merce, e lo scambio di merci si realizza secondo il principio del valore corrispondente”. Questa legge “è la legge generale che governa l’allocazione delle risorse in un’economia mercantile”. In particolare, “nello stadio di un’economia mercantile più socializzata, la legge del valore gioca un ruolo decisivo nell’allocazione delle risorse, perché il valore di scambio acquisisce una posizione dominante”.
I “punti di forza funzionali” della legge del valore riguardano “l’allocazione delle risorse a breve termine, il micro-equilibrio e la trasmissione dei segnali” attraverso i prezzi. Ma già nell’allocazione delle risorse “la legge di regolazione del mercato (o la legge del valore)” evidenzia forti limiti.
In particolare, “la regolazione del mercato indirizza i produttori a mirare solo alla massimizzazione dei propri interessi particolari, ignorando gli interessi generali della società. Le questioni in gioco qui includono problemi di protezione ambientale, protezione culturale e salute pubblica; i proprietari privati di capitale, va ricordato, sono particolarmente riluttanti a investire in settori senza scopo di lucro o a basso profitto come l’istruzione, la salute e la ricerca di base. Questa situazione crea una spirale discendente di esternalità negative”.
Infine, Cheng osserva che, se per un verso “la funzione di innovazione tecnologica del mercato, attraverso i meccanismi della concorrenza, stimola i produttori di beni a migliorare la loro tecnologia e la loro capacità di gestione”, essa può avere anche l’effetto di ostacolare il progresso tecnologico: infatti “i produttori di merci che hanno ottenuto il monopolio della tecnologia possono ostacolare la corretta diffusione e l’uso delle tecnologie nella società” [p. 205; sui limiti funzionali della regolazione del mercato vedi anche il paragrafo “Regolazione di mercato e suoi punti di forza e di debolezza”: pp. 458-462].
3.3. Legge del plusvalore
Oltre alla legge del valore Cheng menziona anche la “legge del plusvalore”. Al riguardo lo studioso cinese osserva: “La legge del plusvalore può essere considerata come l’espressione dell’obiettivo diretto degli investitori nella produzione di merci all’interno dell’economia di mercato, che è quello di estrarre quanto più plusvalore possibile sviluppando l’appropriazione del pluslavoro. La legge del plusvalore è la legge universale del movimento nel capitalismo e, in modo più controllato, nelle operazioni di mercato delle economie mercantili socialiste nella fase primaria del socialismo” [p. 205].
C’è però un’importante differenza: “In un’economia capitalista, con una proprietà privata quasi generalizzata, la legge del plusvalore si manifesta come legge del plusvalore privato. La proprietà capitalista dei mezzi di produzione implica che il plusvalore creato dai lavoratori impiegati dal capitale privato verrà appropriato dai capitalisti privati” [p. 206]. Questo produce una sempre maggiore polarizzazione delle ricchezze. “In un’economia di mercato basata sulla proprietà privata capitalistica, l’effetto combinato di tali leggi di regolazione del mercato come la legge del valore e la legge del plusvalore privato porta a crisi economiche periodiche, che si traducono in un enorme spreco di risorse sociali” [p. 206].
Per contro, “in un’economia socialista con proprietà pubblica, la legge del plusvalore si incarna nella legge del plusvalore pubblico”. Questo significa che “La proprietà pubblica socialista dei mezzi di produzione determina che il plusvalore creato dai lavoratori nelle imprese pubbliche andrà o allo Stato o alla collettività. Parte di questo plusvalore viene girato allo Stato come profitti e tasse, mentre il resto viene convertito in anticipi di capitale, che costituiscono la fonte di benefici generali e a lungo termine per i lavoratori”. Per questa via, “l’accumulazione di capitale in un’economia socialista”, in cui la “proprietà pubblica” ha un ruolo dominante, fa da contrappeso alla polarizzazione della ricchezza e anzi pone le basi “per eliminare lo sfruttamento e la polarizzazione, ottenendo così una prosperità comune per tutti i lavoratori” [p. 207; vedi anche pp. 221-223].
3.4. Legge dello sviluppo proporzionale e legge del valore: un’unione impossibile?
Queste osservazioni faranno storcere il naso a più di un marxista: come è possibile pensare di unire la legge dello sviluppo proporzionale con la legge del valore e con quella del plusvalore? Non aveva forse Marx identificato la società socialista con una società in cui non esiste più appropriazione di plusvalore?
In verità, l’idea che la legge dello sviluppo pianificato e proporzionale non escludesse la legge del valore – almeno in una prima fase della società socialista – non è nuova nella tradizione marxista. Questo punto di vista fu sostenuto da Stalin nello scritto Problemi economici del socialismo nell’URSS (1952), in cui mise in guardia dalla tendenza a contrapporre semplicemente la legge dello sviluppo pianificato e proporzionale dell’economia alle leggi economiche con queste parole: “Si dice che la necessità dello sviluppo pianificato (proporzionale) dell’economia del nostro paese dà la possibilità al potere sovietico di sopprimere le leggi economiche esistenti e di crearne delle nuove. Ciò non è affatto vero [...] Si dice che alcune leggi economiche, tra cui anche la legge del valore, vigenti da noi col socialismo, siano leggi ‘trasformate’ o persino ‘trasformate in modo radicale’ sulla base dell’economia pianificata. Anche questo non è vero”11.
L’idea che l’obiettivo cui tendere sia, più che l’abolizione del plusvalore, una sua diversa appropriazione, è stata riproposta più di recente dallo storico marxista Nicolao Merker, nella pagina conclusiva di una sua impegnata monografia su Marx: “Nella vita economico-sociale vengono prodotte continue contraddizioni delle varie forme di creazione del plusvalore. Il quale tuttavia è in ogni tipo di società una necessità generale. Ma deve per forza la generalità, l’universalità, venir contraddetta dalle forme particolari della sua attuazione? Deve perpetuarsi ad esempio il contrasto tra la produzione sociale-collettiva del plusvalore e l’utilizzazione privatistica di esso?”12.
A queste domande Cheng darebbe una risposta negativa, rafforzata dall’ultima legge dell’“economia di mercato socialista”: la “legge della regolazione statale” [p. 203].
3.5. Legge della regolazione statale
Quest’ultima legge esprime il fatto che “lo Stato impiega i meccanismi economici, giuridici, amministrativi, coercitivi e altri meccanismi del potere statale e, seguendo leggi oggettive riguardanti lo sviluppo della produzione sociale su larga scala, elabora in anticipo un piano generale per la produzione sociale in linea con le condizioni di funzionamento specifiche e le tendenze di sviluppo della società interessata. Lo Stato regola anche la distribuzione del lavoro sociale totale nei vari settori di produzione in modo propriamente scientifico”.
Pertanto, “la legge della regolazione statale è un modo per realizzare la proporzionalità nella produzione di beni socializzati regolata dallo Stato” [p. 207].
Qui Cheng osserva come Marx abbia sottolineato che in una società basata sulla produzione sociale, “la società deve ripartire il suo tempo in maniera pianificata per conseguire una produzione adeguata ai suoi bisogni complessivi […] Economia di tempo e ripartizione pianificata del tempo di lavoro nei diversi rami di produzione, rimane dunque la prima legge economica sulla base della produzione sociale”13. Ora, aggiunge Cheng, “nel capitalismo monopolistico di Stato e nella fase iniziale del socialismo, a causa della permanenza dello Stato, è responsabilità del governo completare la pianificazione generale e la regolazione globale della produzione sociale” [p. 207]. Con la differenza che nel capitalismo monopolistico di Stato l’intervento dello Stato è funzionale agli interessi del capitale privato, mentre nella fase iniziale del socialismo esso è rivolto al benessere della collettività.
I punti di forza funzionali della legge della regolazione statale per Cheng riguardano in particolare la fissazione di “obiettivi generali di sviluppo economico e sociale”, la “stabilità macroeconomica”, la capacità di perseguire uno “sviluppo coordinato” [p. 463], nonché l’allocazione a lungo termine delle risorse naturali, ma anche di risorse “non materiali” quali “l’educazione e la cultura”; infine, la regolazione della distribuzione della ricchezza e del reddito [pp. 207-208]. Anche la regolazione statale, però, ha i suoi limiti. Infatti “le preferenze normative del governo possano essere inadeguate”; inoltre regole e procedure “possono essere gestite in modo improprio”; ancora, può esservi un coordinamento insufficiente tra le diverse aree del governo; infine, può esservi “mancanza di motivazione nei funzionari governativi incaricati di applicare le norme” [p. 466]. Tutti questi limiti serva Cheng sono stati evidenziati dalla “prassi socialista del passato” [p. 419].
4. Un sistema aperto e autosufficiente
Una volta esaminate le leggi dell’economia di mercato guidata dallo Stato che connotano per Cheng lo stadio primario del socialismo, possiamo passare alla quarta e ultima caratteristica di tale stadio: “un sistema aperto multiforme autosufficiente” [p. 78]. Nel pensiero di Cheng l’apertura è immediatamente contemperata con l’autosufficienza. Già da questo possiamo capire come egli quanto all’“apertura” sia più cauto di altri studiosi cinesi. Il punto di vista di Cheng è espresso senza mezzi termini in questo passo: “Al fine di gestire correttamente la relazione tra l’apertura completa e reciproca, la sicurezza economica e il benessere del popolo man mano che si costruisce il sistema di apertura, la Cina deve eliminare l’atto insensato di aprire per il gusto di aprire. Per aprire efficacemente l’economia reale è necessario implementare in modo completo una strategia di sviluppo guidata dall’innovazione, incentrata sull’innovazione indipendente con caratteristiche cinesi” [p. 188; corsivo dell’autore].
Il richiamo all’“innovazione indipendente” non è estemporaneo; esso trova la sua radice nella “teoria dei vantaggi dei diritti di proprietà intellettuale indipendenti” sviluppata dallo stesso Cheng [vedi in proposito p. 271]. Questa teoria che colloca il nostro autore su una posizione opposta a quella di un altro importante economista cinese, Justin Yifu Lin, il quale – lo ricorda lo stesso Cheng – ha esortato la Cina “a prendere le misure necessarie per evitare di cadere nella trappola dell’innovazione indipendente” [p. 270].
Il dibattito che fa da sfondo a questa controversia vede contrapporsi due modelli di sviluppo che sono stati nel tempo abbracciati dai paesi emergenti: quello che vede la leva più efficace per lo sviluppo nella sostituzione delle importazioni (attraverso la creazione di autonome capacità produttive), e quello che ritiene molto meno costoso e più profittevole comprare la tecnologia anziché produrla ex novo. Cheng contesta quest’ultimo punto di vista, teorizzato da Justin Yifu Lin nel suo Demystifying the Chinese Economy14, ritenendo che esso esprima “un’errata lettura del concetto di apertura come sostituto dell’innovazione”. Cheng reputa ad esempio l’apertura dell’industria automobilistica cinese “un evidente fallimento” e quella dell’industria aeronautica “un fallimento ancora più grande”. A questi due esempi negativi egli contrappone quello dei sistemi ferroviari ad alta velocità: “Un caso in cui questa visione errata è stata contrastata con successo è rappresentato dalla R&S e dalla produzione di sistemi ferroviari ad alta velocità. Il ministero delle ferrovie ha preso l’iniziativa di rompere il monopolio tecnologico di alcune grandi compagnie occidentali. L’alta velocità ferroviaria è diventata così uno dei biglietti da visita internazionali del Made in China” [p. 269; corsivi dell’autore].
Vi è però un genere di apertura su cui le posizioni dei due autori sono molto più vicine, come lo stesso Cheng riconosce [vedi ad es. p. 286]: si tratta della liberalizzazione dei movimenti di capitale.
Cheng individua precisamente nella mancata apertura completa dei movimenti di capitale, nel mantenimento del controllo su di essi, “una delle ragioni più importanti” per cui la Cina ha evitato difficoltà alle quali sono andati incontro altri Paesi emergenti negli ultimi decenni [p. 493].
Conclusione
Ho voluto riproporre alcune tra le più importanti tesi di Cheng Enfu integrandole con qualche riferimento al loro sfondo teorico e al dibattito entro cui si inseriscono, da un lato per aiutare il lettore a meglio orientarsi nel testo, dall’altro per porre in evidenza la tradizione all’interno della quale Cheng consapevolmente si colloca. È a partire da questa peculiare tradizione, quella del marxismo nella sua ricezione cinese, che Cheng si confronta con le teorie economiche egemoni in Occidente, senza forzature propagandistiche ma senza alcun complesso di inferiorità teorica. Ritengo che questo sia l’approccio corretto per quel confronto tra sistemi, modelli e soluzioni ai problemi economici del nostro tempo che è oggi quanto mai necessario, non solo in Cina.
Non è qui possibile approfondire i numerosi ulteriori spunti che si potrebbero ricavare dalla lettura di quest’opera. Vale però la pena, conclusivamente, di accennare almeno a un’altra caratteristica importante di questo libro. Si tratta dello schietto riconoscimento dei problemi che l’economia cinese si trova oggi ad affrontare, quali l’eccesso di capacità produttiva (ad esempio nelle industrie del carbone, dell’elettricità e dell’acciaio [107]) o l’insufficiente sviluppo dei consumi privati. Con riferimento a quest’ultimo problema, è importante osservare che Cheng non si limita ad attribuirne l’origine soltanto all’elevato tasso di risparmio cinese (spiegazione oltretutto pericolosamente prossima a una tautologia). Al contrario: un’importante causa del livello relativamente basso dei consumi privati è individuata da Cheng in problemi distributivi, a loro volta legati ai rapporti di proprietà (“il consumo dipende dalla distribuzione, e la distribuzione dipende dai diritti di proprietà”, p. 389). In questo modo Cheng fa direttamente i conti con la presenza rilevante di forme di proprietà capitalistica in Cina. Inoltre, un’altra causa dei consumi privati poco elevati è ravvisata nella diminuzione della “propensione marginale dei cittadini al consumo”, a sua volta occasionata dall’insufficienza dei sistemi di welfare: le “riforme orientate al mercato” degli scorsi decenni hanno infatti caricato direttamente sui cittadini gli oneri relativi a svariate prestazioni sociali [p. 389].
Questi problemi sono evidentemente riconducibili alla dialettica tra “mercato” e “governo” dell’economia che attraversa la Cina contemporanea. Cheng ritiene che “la differenza cruciale tra socialismo e capitalismo come sistema economico di base si manifesti nella struttura della proprietà sociale dei mezzi di produzione”, cioè nel fatto che un’economia mista “sia dominata dal capitale pubblico o dal capitale privato” [p. 472]. Se si accetta che questo sia il discrimine tra socialismo e capitalismo, è senz’altro lecito definire la Cina come “socialista”15. Ma è la compresenza stessa delle due forme di capitale entro un unico sistema economico a determinare non soltanto i problemi distributivi visti sopra, ma, più in generale, una vera e propria sfida per l’egemonia all’interno della formazione economico-sociale cinese contemporanea. Questa sfida è tuttora aperta. L’opera di Cheng può essere letta, non da ultimo, come una presa di posizione a favore del predominio del “capitale pubblico” nel contesto di questa sfida.
Vladimiro Giacché
(Tratto da: Vladimiro Giacché, Introduzione al volume: Cheng Enfu, Dialettica dell’economia cinese. L’aspirazione originale della Riforma, Bari, MarxVentuno Edizioni, 2024, pp. 9-26).
Note
1 V. Giacché, Quattro priorità per rilanciare il marxismo in Occidente, «Marx Ventuno, n. 3, luglio-settembre 2022, p. 195.
2 Ivi, p. 197.
3 Deng Xiaoping, Excerpts from talks given in Wuchang, Shenzhen, Zhubai and Shanghai [1992], in Selected Works of Deng Xiaoping, vol. III (1982-1992), Beijing, Foreign Languages Press, 1994, p. 367. Questa formulazione cominciò a circolare dal 1981, per essere infine sancita, su iniziativa di Deng Xiaoping, col XIII Congresso del Partito Comunista, svoltosi nel 1987. In merito cfr. E. Kopf, Eine chinesische Reformation. Zum Werden eines neuen Zivilisationstyps, Köln, Papyrossa, 2019, p. 12; Zhang Boying, Il socialismo con caratteristiche cinesi. Perché funziona?, Marx Ventuno Edizioni, Bari 2019, pp. 87 sgg.
In un diverso contesto un concetto analogo era stato proposto, venticinque anni prima, da Walter Ulbricht, il quale aveva definito il socialismo come una “formazione economico-sociale relativamente indipendente” (Walter Ulbricht, Die Bedeutung des Werkes „Das Kapital” von Karl Marx für die Schaffung des entwickelten gesellschaftlichen Systems des Sozialismus in der DDR und den Kampf gegen das staatsmonopolistische Herrschaftssystem in Westdeutschland, 1967, in W. Ulbricht, Zum ökonomischen System der Sozialismus in der Deutschen Demokratischen Republik, Band 2, Dietz, Berlin 1969, p. 530).
4 Ho approfondito questo tema in: V. Giacché, «La fine della produzione mercantile nella Critica al Programma di Gotha di Marx. Vicende novecentesche di una teoria», in Marx200, a cura di Francesco Cerrato e Gennaro Imbriano, Mucchi Editore, Modena 2018 [numero monografico di «Dianoia. Rivista di filosofia del Dipartimento di Filosofia e Comunicazione dell’Università di Bologna», n. 26, giugno 2018), pp. 203-221; V. Giacché, Socialismo e fine della produzione mercantile nell’Anti-Dühring di Friedrich Engels, in «Marx Ventuno», n. 1, gennaio-febbraio 2021, pp. 105-125.
5 Il termine “virtuale” qui adoperato da Cheng rinvia al concetto marxiano di “capitale fittizio” e si riferisce ai mercati finanziari.
6 Sulle diverse forme di proprietà presenti in Cina e sul predominio di forme non assimilabili alla proprietà privata vedi V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in Più vicina. La Cina del XXI secolo, a cura di P. Ciofi, bordeaux edizioni, Roma 2020, pp. 29-30.
7 K. Marx, Il capitale. Libro primo, tr. it. di D. Cantimori, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 402.
8 K. Marx, Il capitale. Libro secondo, tr. it. di R. Panzieri, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 487.
9 Vedi ad es. L. Abalkin, G. Schulz (Hrsg.), Ökonomische Gesetze des Sozialismus. System, Besonderheiten der Wirkung, Formen und Methoden der Ausnutzung, Dietz, Berlin 1981, p. 159.
10 Vedi Wörterbuch der Ökonomie. Sozialismus, Berlin, Dietz, 1973, p. 347 (voce: “Gesetz der planmäßigen proportionalen Entwicklung der Volkswirtschaft”). In argomento si veda anche il Manuale di Economia Politica dell’Accademia delle Scienze dell’URSS. Istituto di Economia, seconda edizione, vol. II, tr. it. s.l., Editrice Pomel, 1997, pp. 109-125 (сар. ХХХ: “La legge dello sviluppo pianificato e proporzionale dell’economia nazionale”).
11 Stalin, Problemi economici del socialismo nell’URSS, Edizioni Rinascita, Roma 1953, pp. 15-17.
12 N. Merker, Karl Marx. Vita e opere, Laterza, Roma-Bari 2010, p. 220.
13K. Marx, Grundrisse der Kritik der politischen Ökonomie [1857-58-Il denaro, quaderno I, tempo di lavoro e produzione sociale), tr. it. di E. Grillo, Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, vol. 1, La Nuova Italia, Firenze 1968, pp. 118-19.
14 Justin Yifu Lin, Demystifying the Chinese Economy, Cambridge University Press, Cambridge 2012, pp. 14 sgg, e passim.
15 Per una più articolata trattazione del tema rinvio a V. Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, op. cit., pp. 66-67 e passim.
di Alessandro Volpi
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USA-UE: l’accordo che sancisce la sottomissione europea
di Alessandro Volpi
Torno sull'accordo tra Ue e Stati Uniti perché mi sembra surreale il modo in cui viene valutato. Mi spiego meglio. La presidente Von der Leyen ha elogiato tale accordo perché garantisce stabilità e certezza. Non sono parole casuali. Il problema vero infatti non è costituito solo dalla pesantezza dell'accordo, ma dalla chiara dipendenza dell'Europa dagli Stati Uniti, tanto marcata che senza quella dipendenza non è possibile per l'Europa alcuna stabilità e alcuna certezza. In altre parole il neoliberalismo ha costruito, negli anni, un sistema per cui, in termini economici, gli Stati Uniti sono il mercato indispensabile delle merci europee, sono il terminale dei risparmi europei, sono i possessori dei data base necessari per l'economia europea, sono i detentori di una moneta, il dollaro, di cui, paradossalmente nonostante l'euro, gli europei non possono fare a meno, sono fondamentali per il sistema dei pagamenti europei, per la tenuta del sistema bancario, per la sopravvivenza dei fondi pensione europei, dominati da quelli Usa, sono essenziali per i semi conduttori e per buona parte dell'innovazione tecnologica europea. In estrema sintesi, il neoliberalismo ha costruito almeno gli ultimi quarant'anni sull'impossibilità per l'Europa di fare a meno degli Stati Uniti secondo un modello che ha reso i ricchi, europei, più ricchi e impoverito larga parte della popolazione europea. Per questo Von der Leyen e la classe dirigente europea, in cui si è perfettamente integrata anche la destra ex sovranista, non possono tollerare una “guerra economica” con gli Stati Uniti; perché la dipendenza è diventata strutturale e, dunque, ora che il capitalismo Usa è in grave affanno, l'Europa neoliberale è terrorizzata di un suo possibile crollo, destinato, appunto, a destabilizzare l'intero capitalismo, non solo americano. Quindi, adesso, servono a poco i distinguo nazionali rispetto a Von der Leyen che ha interpretato in maniera ortodossa, e di conseguenza, suicida il dettato del capitalismo liberale.
Alessandro Volpi
(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore, 28 luglio 2025).
Fonte dell’immagine: https://vnews24.it/wp-content/uploads/2015/01/disuguaglianza.jpg
Dal sito di «Arianna Editrice»
di Andrea Zhok
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Sul collasso morale dell’Occidente
di Andrea Zhok
L’Occidente è un concetto strano, recente e spurio.
Con “Occidente” si intende in effetti una configurazione culturale che emerge con l’unificazione mondiale dell’Europa politica e di quello che dal 1931 prenderà il nome di “Commonwealth” (parte dell’impero britannico).
Questa configurazione raggiunge la sua unità all’insegna del capitalismo finanziario, a partire dal suo emergere egemonico negli ultimi decenni del ’900.
L’Occidente non c’entra nulla con l’Europa culturale, le cui radici sono greco-latine e cristiane.
L’Occidente è la realizzazione di una politica di potenza economico-militare, che nasce nell’Età degli Imperi, che sfocia nelle due guerre mondiali e che riprende il governo del mondo verso la metà degli anni ’70 del ’900.
Purtroppo anche in Europa l’idea che “siamo Occidente” è passata, divenendo parte del senso comune.
L’Europa storica, ad esempio, ha sempre avuto legami strutturali fondamentali con l’Oriente, vicino e remoto (Eurasia), mentre l’Occidente si percepisce come intrinsecamente avverso all’Oriente. Così l’Europa culturale è in ovvia continuità con la Russia, mentre per l’Occidente la Russia è totalmente altro da sé.
Questa premessa serve a illustrare una grave preoccupazione di lungo periodo, che non riesco a trattenere.
La preoccupazione è legata al fatto che l’Occidente, plasmato attorno all’impianto – mentale non meno che pratico – del capitalismo finanziario, ha sradicato l’anima dei popoli europei.
La cultura e spiritualità europea, quella efflorescenza straordinaria che va da Sofocle a Beethoven, da Dante a Marx, da Tacito a Monteverdi, da Michelangelo a Bach, ecc. ecc. è la prima vittima della cultura occidentale, cultura utilitarista, strumentale, abissalmente meschina, che comprende la bellezza dell’arte, dei territori, delle tradizioni solo se è un “asset” trasformabile in “cash”.
Noi abbiamo imparato ad accettare questa misurazione di ogni valore come prezzo, e di ogni prezzo come margine di profitto.
La nostra società, la nostra educazione, le nostre comunità sono state spinte a forza ad accettare queste equivalenze che desertificano l’anima. Ed è stato fatto perché prometteva di preservare uno statuto di potenza, di predominanza ed egemonia materiale dell’Occidente sul resto del mondo.
Per quanto molte persone abbiano tentato, anche con qualche successo, di opporsi a questa deriva desertificante, tuttavia essa si è imposta nelle istituzioni, nelle accademie, nella scuola. Chi vuole resistere a questo immiserimento deve farlo in modo carbonaro, come resistenza individuale, pagando prezzi personali, mentre tutto il resto, finanziamenti, programmi, prebende, vanno in direzione opposta.
Ma oggi siamo arrivati al capolinea, al giro di boa.
Quella desertificazione dell’anima che l’Occidente ha prodotto ha plasmato una tra le classi dirigenti più moralmente infami che la storia ricordi. Prima dell’emergere della mentalità occidentale, un secolo e mezzo fa circa, ci sono certo stati tiranni più sanguinari dei leader occidentali odierni, ma nessuna forma di vita altrettanto cinica.
L’Occidente non uccide e stermina per odio, né per convinzione, né per dare l’esempio, neppure per schietto senso di superiorità.
No, l’Occidente uccide perché fatica sempre di più a percepire come rilevante la distinzione di valore tra la vita e la morte. Perché è, in profondità, una cultura di morte nel senso fondamentale in cui non riconosce una divergenza di valore essenziale tra la vivacità di un conto in banca e quella di un bambino, tra quella di un algoritmo e quella di un cucciolo.
L’Occidente odierno, quello esemplificato oggi in maniera paradigmatica dalle classi dirigenti americane e israeliane, ma rappresentato altrettanto bene dalla servile spazzatura che parla a nome dell’Unione Europea, sta raggiungendo livelli di abiezione raramente toccati.
Non è più questione di “doppi standard”.
Si tratta di un impegno quotidiano nella menzogna illimitata, nella schietta accettazione che ogni affermazione, ogni parola, ogni pensiero conta solo per gli effetti in termini di denaro-potere che può produrre.
Si può dire tutto e il contrario di tutto.
Si può negare l’evidenza e poi negare di averla negata.
Si possono infrangere le promesse e i trattati.
Si può svolgere una trattativa e intanto cercare di uccidere quello con cui si trattava, e poi protestare con la faccia seria perché l’altro non vuole più proseguire a trattare.
Si può manipolare l’informazione ufficiale h24 e poi chiedere punizioni esemplari per contrastare il potere manipolatorio sui social della parrucchiera Pina.
Si può costruire, a Milano come a Londra, la società più classista, gentrificata, oligarchica ed escludente, mentre si predica soavemente l’accoglienza e l’inclusività.
Si può assistere a un genocidio in diretta mondiale per due anni e spiegare che è legittima difesa.
Ecc. ecc.
Ecco, il mio problema, oltre al disgusto per tutto quanto avviene, consiste nella consapevolezza che alla condanna storica di questa oscenità spirituale non potremo sottrarci.
Vi saremo coinvolti anche se non abbiamo personalmente approvato nulla, anche se lo abbiamo contestato in tutti i modi che ci erano disponibili.
Vi saremo coinvolti perché questa depravazione è l’Occidente e abbiamo accettato questa etichetta, abbiamo imparato a pensarci come Occidente e il mondo così ci percepisce.
Quando verremo chiamati a pagare il conto dai 7/8 del pianeta – e nessuno si illuda che non accadrà – sarà incredibilmente difficile, forse impossibile, spiegare che la grande, millenaria, cultura europea non ha niente a che spartire con il deserto nichilista dell’Occidente contemporaneo.
Come nell’immediato dopoguerra molti non riuscivano a sentir parlare tedesco – la lingua di Goethe e Mozart – senza un moto di disgusto (qualcuno dei meno giovani lo ricorderà senz’altro), così, ma in modo molto più radicale potrebbe accadere per tutto ciò che odorerà, a torto o a ragione, di Occidente.
“Dopo tutto, se studiare Dante, Cervantes o Shakespeare vi hanno portato a due guerre mondiali e poi al nichilismo conclamato, quale lezione il mondo dovrebbe apprendere da questa tradizione?” – Questo ragionamento, nella sua crudezza, ci può sembrare irragionevole solo perché siamo abituati a essere sempre quelli che giudicano e mai quelli che vengono giudicati.
Perdere l’egemonia mondiale è oramai fatale, e lungi dall’essere un problema, sarà una benedizione.
Ma perdere la stima e comprensione per tutto ciò che è stata la lunga storia europea, questo in parte è già avvenuto per involuzione interna e il colpo di grazia potrebbe essere inferto a breve. Perdere l’anima è immensamente più grave di perdere il potere.
25 luglio 2025
Andrea Zhok
(Tratto da: https://www.ariannaeditrice.it/articoli/sul-collasso-morale-dell-occidente).
Fonte della foto: https://www.avvenire.it/c/2018/PublishingImages/4a2976054dbe482ea3609f20440b3fcd/israele-583846.jpg?width=1024
di Mario Capanna
«Questo Paese esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso.
Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità».
(Golda Meir, Primo ministro di Israele dal 1969 al 1974)
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La realtà di Israele
di Mario Capanna
«Questo Paese esiste come il compimento della promessa fatta da Dio stesso.
Sarebbe ridicolo chiedere conto della sua legittimità».
(Golda Meir, Primo ministro di Israele dal 1969 al 1974)
Israele non ha una Costituzione. A cavallo del 1948 ci fu un dibattito circa la necessità o meno che il nuovo Stato se ne dotasse. La conclusione fu che non era utile, bastando, per regolare la società e le istituzioni, i precetti contenuti nella Torah (i primi cinque libri del vecchio testamento biblico, chiamati Pentateuco dai cristiani).
In quei testi Dio definisce gli ebrei “un popolo consacrato al Signore, Iddio tuo, che ti ha scelto, affinché sia il suo popolo speciale fra tutti i popoli della terra” (Deuteronomio, 7,6); poi ingiunge: “Distruggi tutti i popoli che il Signore, Iddio tuo, mette in tua balìa, non si impietosisca l’occhio tuo su di loro” (ibidem, 7,16); già prima Dio aveva indicato la “terra che io vi darò in possesso ereditario” (Esodo, 6,8).
Se per delle menti razionali queste sono favolette, per i coloni fascisti, che massacrano i palestinesi e li cacciano dalle loro terre – protetti dai soldati, gli uni e gli altri autorizzati dal governo e dallo Stato israeliano – sono invece precetti divini.
Si capisce meglio, allora, la situazione attuale in Palestina. Se la terra, “dove scorrono il latte e il miele” (Deuteronomio, 26,9), è data da Dio, per di più “in possesso ereditario”, essa non è negoziabile, e la parte mancante va conquistata a ogni costo, “distruggendo tutti i popoli” che…abusivamente ci vivono.
Non c’è chi non veda la perfetta coerenza fra le “parole di Dio” e il comportamento di Israele, volto prima a massacrare i palestinesi, e poi a deportare i superstiti. Ed è pure conseguente la decisione del Parlamento: “Mai dovrà esserci lo Stato palestinese”. Inoltre: è dell’altro giorno la deliberazione circa l’annessione della Cisgiordania (70 voti a favore, approvata anche da parte dell’“opposizione”…).
Al posto della costituzione sono state varate delle “leggi fondamentali”, fra cui l’ultima del 2018, che proclama Israele come lo “Stato ebraico”, con Gerusalemme capitale. Legge discriminatoria, che viola i diritti delle minoranze, compreso il 20% della popolazione palestinese interna.
A questo punto il quadro è perfetto: il “popolo eletto”, seguendo gli ukase di Dio, non ha mai fissato i propri confini, allargandoli a piacimento a ogni guerra – vedi da ultimo Libano e Siria, oltre Gaza e Cisgiordania – e insegue il progetto dell’Eretz Israel (il Grande Israele).
Che, nel fare questo, lo Stato sionista abbia raggiunto il record mondiale di violazioni delle risoluzioni dell’Onu, primeggiando sugli Usa, è del tutto trascurabile per le cancellerie occidentali.
Israele è, inequivocabilmente, uno Stato teocratico, al pari dell’Iran e dell’Afghanistan: non si può sfuggire a questa verità. Un ebreo limpido, come Stefano Levi Della Torre, ha affermato: “Il dio dei coloni israeliani è feroce come il dio dei talebani”. Per fortuna ci sono settori della società israeliana che si oppongono a questa deriva e, in particolare, sono attivi nella diaspora gli ebrei democratici.
Obiezione: “Israele è l’unica democrazia del Medioriente”. Già, perché si vota? Ma, allora, sono “democratici” anche l’Iran, l’Egitto, la Turchia, la Russia, la Bielorussia ecc.: anche lì si vota. Le elezioni, di solito pilotate, sono una copertura delle autocrazie. E’ così persino negli Usa, figuriamoci in Israele. Che è un’autocrazia sanfedista. Al punto che, se Netanyahu scomparisse, il successore potrebbe difficilmente fare la differenza.
Prima ancora c’è una questione preliminare e dirimente: può essere definito “democratico” uno Stato che dilania il popolo confinante e, oltre agli ordigni di sterminio, usa ignominiosamente la fame e la sete come armi di guerra, e ogni giorno assassina a sangue freddo decine di derelitti in cerca di cibo, mentre fa morire bambini e anziani di inedia? Chi non si pronuncia su questo non ha diritto di pronunciarsi su tutto il resto.
Ad Auschwitz venivano usati i gas, in Palestina i droni, i missili, i bombardieri, i carri armati, i cecchini, i coloni: analoga la finalità di annientamento. Doppiamente aberrante, proprio perché c’è stata la disumanità dell’olocausto. Che i figli delle vittime di ieri si comportino come i loro carnefici, dice che la storia è maestra di vita, ma molti discepoli scelgono di essere ottusi.
Sostiene Luciano Canfora: “Lo Stato di Israele in questo momento è l’erede del Terzo Reich, con le potenze occidentali che fingono di opporsi”. Forse esagera, ma è proprio lontano dalla realtà?
Lo Stato sionista si è portato dentro una corrente fascista fin dall’inizio, come denunciarono Albert Einstein e Hannah Arendt nella lettera pubblicata sul New York Times (2 dicembre 1948), in occasione della visita di Menachem Begin negli Usa, accusandolo di avere “apertamente predicato la dottrina dello Stato fascista”. Non a caso Begin fondò nel 1973 il Likud, il partito oggi al governo di Israele sotto la guida di Netanyahu.
Logico: quando Dio è tirato a destra e a manca – dal “Deus vult” (Dio lo vuole) delle crociate, al “Gott mit uns” (Dio con noi) inciso sui cinturoni delle SS – l’esito non può che essere la più spietata repressione.
Senza il sostegno e la complicità di Usa e Ue, lo Stato teocratico di Israele, con il suo fascismo, non potrebbe reggere: ecco la responsabilità perversa dell’Occidente, sempre più isolato dai popoli del mondo.
Sono queste le ragioni in più per contrastare i guerrafondai. Occorre una decisa pressione internazionale, senza la quale lo Stato palestinese non potrà sorgere. Bene la Francia che, primo Paese del G7, ha deciso di riconoscerlo.
Bisogna affrettarsi, perché l’eroica resistenza dei palestinesi non può durare in eterno. Permettere che quel popolo sia cancellato sarebbe la sconfitta irrimediabile dell’umanità.
Non possiamo – non dobbiamo – consentirlo. La speranza si traduca in mobilitazione delle coscienze.
Mario Capanna
(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore, 28/07/2025).
Dal sito di «Disarma»
di Linda Santilli
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Il grande silenzio
Ovvero: come l’Italia libera zittisce chi dissente
di Linda Santilli
Negli ultimi anni, da quando la guerra in Ucraina è diventata la nuova religione civile dell’Occidente e quella in Palestina il suo tabù più scomodo, abbiamo imparato che in Italia si può dire tutto, c’è libertà d’espressione purché sia espressione di consenso. La libertà insomma è libera di chiuderti la bocca, gettandoti in una centrifuga di parole tranello, che mescola e fonde giudizi e pregiudizi, da cui esci putiniano antisemita filohamas complottista. Così, tutto d’un fiato.
L’annullamento del concerto di Valery Gergiev a Caserta per “ragioni etiche” è l’ultima commedia dell’assurdo. Direttore d’orchestra russo, colpevole di non aver condannato abbastanza Putin, è stato cancellato mentre stava per suonare Ravel e Čajkovskij che, a quanto pare, è diventato “propagandista retroattivo” del Cremlino.
La scena sarebbe grottesca, se non fosse istruttiva: mentre si pretende dal musicista russo la dissociazione pubblica dal suo governo, nessuno chiede nulla all’israeliano Daniel Oren, pur legato a un governo che sta devastando Gaza con bombe al fosforo. Anzi, guai a farlo. Sarebbe “antisemitismo”. Così funziona oggi la nuova neolingua: i concetti si svuotano, le parole si rovesciano.
Come scriveva George Orwell, la guerra è pace, la libertà è schiavitù, l’ignoranza è forza. Il pensiero unico funziona quando viene introiettato come buonsenso, e chi osa metterlo in discussione è fuori dalla civiltà. Ovviamente la civiltà Occidentale, quella superiore a tutte le altre. Per meglio dire, la unica e sola che meriti questo nome.
E in questa civiltà il dissenso è una malattia da curare
Chi osa parlare di diplomazia o criticare le narrazioni ufficiali viene trattato come un virus da isolare. Prendete Elena Basile, ex ambasciatrice, autrice di saggi lucidi e appassionati. Invitata (e poi dimenticata) in talk show dove le analisi geopolitiche devono restare entro il perimetro NATO. Ha osato dire che la guerra va capita, non solo condannata. Risultato: bollata come “filoputiniana”, “ambigua”, “pericolosa”. L’unico pericolo reale, in effetti, era per la narrazione bellica, che lei incrinava.
Chef Rubio, cuoco anomalo e testardo, è stato invece cancellato dai social come si elimina un insetto fastidioso. Ha detto troppo forte: “genocidio”, “Palestina occupata”, “responsabilità dell’Occidente”, “Governo israeliano terrorista”. Per lui si è scomodata l’Antiterrorismo, mentre le redazioni dei giornali che si sentono portatori della superiorità morale dell’Occidente non sono capaci di fare i conti con un concetto elementare: ogni vita vale, anche se nasce a Rafah e non a Tel Aviv.
Foucault ci aveva avvisato: la verità non è mai fuori dal potere. Le società moderne non usano più la censura per silenziare. Usano la selezione. La visibilità è concessa solo ai discorsi compatibili con il sistema di potere. Il resto è “estremismo”, “fake news”, “deriva”. Non serve vietare: basta spegnere la luce.
Mentre si sventola la bandiera ucraina nei palazzi istituzionali, il massacro quotidiano dei palestinesi scivola via come un fastidio marginale. Le stesse testate che hanno dato 15 pagine alla diga di Kakhovka distrutta, ne dedicano mezza al bombardamento di un ospedale a Gaza. I civili vanno pianti, certo, ma solo se sono i nostri civili.
Non è più questione di opinioni. È un’architettura del discorso, dove esistono parole legittime e parole tossiche. Il massacro russo è “crimine di guerra”. Quello israeliano è “azione militare mirata”. Hamas è “terrorismo puro”. Azov è “battaglione contestato”. Il tutto dentro un racconto pulito, impacchettato, facilmente digeribile. E funziona.
La società repressiva moderna non sopprime il dissenso con la forza, ma lo neutralizza integrandolo o ridicolizzandolo. Lo sguardo di Marcuse vale oggi più che mai. Il pensiero critico viene trasformato in una caricatura, accettabile solo se innocuo, mai se radicale. Se chiedi la pace, sei debole. Se critichi l’Occidente, sei nemico. Se parli dei bambini palestinesi sterminati dal disegno terroristico di Israele che vuole eliminare un popolo, sei antisemita.
Nel frattempo, le reti televisive invitano ogni sera esperti “indipendenti” a senso unico: ex generali NATO, editorialisti atlantisti, sedicenti fact-checker che smentiscono la realtà con la velocità di un algoritmo. Intellettuali critici, giornalisti non allineati, esperti fuori dalla comfort zone, non entrano mai in studio. O se entrano, è per fare da avversari dialettici in un processo pubblico.
I talk show funzionano come tribunali, solo che manca l’avvocato difensore. Così Ginevra Bompiani viene interrotta a ripetizione, Elena Basile espulsa, Rubio oscurato, le fonti alternative demonizzate. E la platea applaude, contenta di non dover pensare.
È questo il paradosso: in nome della “lotta alle fake news”, la verità si fa unica. In nome della “libertà di stampa”, si censura chi stampa liberamente. In nome della “pace”, si zittisce chi la invoca.
Non è censura. È conformismo organizzato.
Alla fine, non è nemmeno questione di complotti. È una logica sistemica. I media italiani, come buona parte di quelli occidentali, sono ormai dispositivi di filtraggio culturale. Se dici che l’Italia è succube della NATO, sei “no vax”. Se citi Foucault, sei un anarcoide. Se usi la parola “apartheid” per Israele, sei un provocatore. Se parli di negoziati in Ucraina, sei “contro la democrazia”.
Non è repressione brutale, è normalizzazione del consenso. Non ti mettono in galera. Ti rendono invisibile. Non ti tappano la bocca: svuotano di senso le tue parole.
Eppure, tornando a Orwell, “Nel tempo dell’inganno universale, dire la verità è un atto rivoluzionario”. E oggi la verità è un dovere.
Perché prima o poi, anche il silenzio fa rumore.
22 luglio 2025
Linda Santilli
(Tratto da: https://www.disarma.it/leditoriale/2025/07/il-grande-silenzio).
Il fallimento dei referendum su lavoro e diritti
Il mancato raggiungimento del quorum ai 5 referendum dell’8 e 9 giugno 2025 (per limitare la precarizzazione del lavoro, per ripristinare alcuni dei diritti tolti ai lavoratori dal Jobs Act e per permettere agli stranieri l’accesso alla cittadinanza italiana in tempi meno biblici) si presta a diverse interpretazioni e analisi.
Pubblichiamo un primo contributo al dibattito.
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«Ennesima conferma dello scollamento tra “sinistra” e classi popolari»
di Stefano Gallerini
Una volta tanto mi permetto di dissentire dalle analisi di un esperto conoscitore dei flussi elettorali come Antonio Floridia, che, qualche giorno fa, commentando l’esito della consultazione referendaria dell’8 e 9 giugno, ha parlato di «una buona prova di compattezza e mobilitazione, un segnale di ritrovata sintonia con il proprio elettorato di riferimento» da parte del campo largo della sinistra (cfr. Una possibilità per la sinistra da quei sì sul lavoro su «il manifesto» del 10 giugno 2025).
Io penso esattamente l’opposto. L’esito negativo del referendum è stata l’ennesima conferma del drammatico scollamento tra la cosiddetta “sinistra” e le classi popolari, che, reduci da decenni di arretramenti, sconfitte e tradimenti, si sentono ormai talmente abbandonate e passivizzate da non prendere nemmeno più parte ad una prova come quella referendaria che metteva il popolo nella condizione di esercitare direttamente la propria sovranità per ripristinare diritti elementari in materia di lavoro come quelli oggetto dei quesiti referendari dell’8 e 9 giugno.
I referendum erano stati promossi dalla CGIL per abrogare la legislazione, in gran parte introdotta da governi di centrosinistra, in particolare il famigerato Jobs Act, fortemente voluto dal governo allora presieduto dal segretario del PD, Matteo Renzi. Una mossa quanto meno tardiva, se si considera che nel 2014 il principale sindacato italiano fece poco o nulla per contrastare una legge dal chiaro impianto neoliberista, che modificava i rapporti di forza tra imprese e lavoratori ad esclusivo vantaggio delle prime. Diciamo che, sul piano politico, la cosiddetta “sinistra” paga la scelta strategica di essere diventata la componente “democratica” e “progressista” del partito unico del capitalismo. Mentre la CGIL, che da tempo ha smesso di praticare la lotta di classe per privilegiare le logiche della concertazione, si sta sempre più trasformando in un grande ente parastatale, in grado di fornire servizi ai propri iscritti, ma incapace di sviluppare conflittualità e mobilitazione sociale. In assenza di vere e proprie lotte sociali, il referendum si è configurato come una fuga in avanti e una scorciatoia per aggirare quei problemi di radicamento e di rappresentanza che pesano ormai da anni come un macigno sulle varie articolazioni, politiche e sindacali, della cosiddetta “sinistra”. Il fatto che, a livello nazionale, il quorum si sia fermato al 30,6% e che, neanche nelle regioni che un tempo si sarebbero definite “rosse”, è stata raggiunta la percentuale del 50,1%, la dice lunga sulla disaffezione e sulla fuga dalla politica da parte delle classi popolari, che si sentono sempre meno rappresentate dal “paese legale”, come dimostrano le percentuali record raggiunte dall’astensionismo nelle elezioni politiche.
Facendo un confronto, esprimere una valutazione positiva su quel che è successo l’8 e 9 giugno 2025, ci porta oggettivamente a rivalutare il referendum promosso da Rifondazione comunista il 15 giugno 2003 per estendere le garanzie previste dall’art. 18 dello Statuto dei lavoratori anche alle imprese con meno di 15 dipendenti, quando in un’Italia serrata nella morsa di un caldo equatoriale con temperature intorno ai 40°, il 25,7% degli aventi diritto al voto si recò alle urne sfidando i diktat del partito unico del capitalismo (allora anche i Democratici di sinistra fecero campagna per l’astensione, così come fatto da Giorgia Meloni e da Ignazio La Russa).
Stefano Gallerini
(Tratto dalla pagina Facebook dell’autore, 11 giugno 2025).
Questo articolo di Tommaso Nencioni, apparso sulla rivista “Jacobin”, analizza efficacemente gli errori della classe dirigente del Partito Democratico nel corso della sua storia; in fondo non fa che confermare i motivi della nostra sfiducia e diffidenza nei confronti di quel Partito. Ma crediamo che l’utilità di una lettura risieda anche nella sua capacità di suscitare, socraticamente, delle domande. Ecco quelle che ci ha suggerito l’articolo:
1) A chi, a quali classi o settori sociali, a quali soggetti si dovrebbe rivolgere un moderno movimento politico che si possa dire veramente di sinistra? E se questi settori sociali sono, oggi, da un lato i milioni di italiani sotto la soglia di povertà assoluta o relativa, di malpagati e sfruttati (citazione Rino Gaetano), di persone che dipendono dal reddito di inclusione, e dall’altro lato la piccola e media borghesia intellettuale, costituita da laureati, professionisti, insegnanti, le istanze di queste due classi sociali coincidono davvero, potrebbero conciliarsi nel programma di un Partito?
2) Con la parola “sinistra” intendiamo tutti la stessa cosa quando auspichiamo un diverso, grande Partito di sinistra? Una sinistra moderna dovrebbe o no uscire dal recinto del neoliberismo in cui ha finito per rinchiudersi dopo il 1990? Porterebbe voti a questo fantomatico Partito definirsi “anticapitalista”?
3) Nell’articolo di Nencioni la storia del PD è scandita attraverso i suoi leader. Per fare politica oggi, si può prescindere dal leaderismo?
Per il momento ci fermiamo qui con le domande, ma Socrate aveva ragione: è uno straordinario esercizio cercare di farsi le domande “giuste”, cioè utili – speriamo.
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Come i democratici sono diventati il partito dell’establishment italiano
di Tommaso Nencioni
I Democratici italiani si sono spesso posti come garanti della stabilità istituzionale e della linea atlantista di Roma. L’attuale leader Elly Schlein ha virato a sinistra, ma ha fatto poco per cambiare l’identità del partito come forza per stabilizzare il capitalismo italiano.
In vista delle elezioni di giugno per il parlamento dell’Unione Europea, il primo ministro italiano Giorgia Meloni turba il sonno dell’opinione pubblica progressista, non solo in patria ma in tutto il Vecchio Continente. La sua posizione interna è così forte che la leader postfascista Meloni è ora un punto di riferimento per le forze conservatrici europee in generale.
Ma la forza politica di Meloni si deve anche alla debolezza dell’opposizione. La semplice verità è che la destra italiana non godrebbe di una posizione così dominante se non fosse per le numerose mosse autodistruttive della principale forza del centrosinistra, il Partito Democratico. Ciò vale anche sotto la nuova segretaria (leader del partito) Elly Schlein, che ha suscitato molte speranze quando è stata eletta a questo incarico nel marzo 2023.
Ma questo ci dice anche qualcosa di più ampio sui Democratici e sulla loro posizione attuale. Le tante scelte dannose del centrosinistra italiano non sono state follie individuali o addirittura esplosioni di follia collettiva. Piuttosto, sono radicate nella storia recente e nella cultura politica di questo partito – e nella sua particolare base sociale.
Fuori tempo
Il Partito Democratico ha una storia breve, ma ha già attraversato diverse fasi, talvolta sorprendentemente contraddittorie. Il partito nasce nel 2007 dalla convergenza dei Democratici di Sinistra (eredi diretti del Partito Comunista Italiano) e della Margherita (erede di parte della Democrazia Cristiana). Ma sotto la guida di Walter Veltroni, il nuovo partito fu caratterizzato meno da un tentativo di sintetizzare le tradizioni post-comunista e post-democratica cristiana, quanto da un tentativo di allontanarsi dalle culture politiche esistenti in Italia. Il modello – a cui si fa riferimento esplicitamente anche nel nome del partito – era quello dei Democratici statunitensi e della Terza Via sostenuta da Bill Clinton e Tony Blair.
Tuttavia, la leadership di Veltroni fu di breve durata. A trascinarlo verso il basso sono stati la dura sconfitta elettorale per mano di Silvio Berlusconi nel 2008 e l’impossibilità di recintare l’intero spazio politico del centrosinistra all’interno di un unico partito. Ma, cosa ancora più fondamentale, gli sforzi di Veltroni sono falliti perché il quadro all’interno del quale il partito era stato concepito – la missione di una governance neoliberista stabile – è fallito.
Il peccato originale del Partito Democratico non è stato quello di aver sommato culture politiche diverse (e già allora fortemente diluite), ma di essere stato concepito per un momento politico già superato. È stata fondata in un’epoca in cui si immaginava ancora che la “globalizzazione reale” fosse – e avrebbe continuato ad essere – un fattore di progresso per l’intera società e in particolare per una certa classe media che i democratici consideravano centrale nella vita nazionale. Questa promessa riguarda soprattutto i settori creativi della finanza e della cultura, considerati strutturalmente più idonei a trarre profitto dalle opportunità di un mercato mondiale sempre più aperto.
Il Partito Democratico si presentava così ai cittadini come un partito postideologico, postnazionale e postclasse che avrebbe guidato efficacemente l’inserimento dell’Italia nel “villaggio globale”, garantendo al tempo stesso alle classi lavoratrici livelli di welfare che avrebbero permesso loro di resistere alla crescente precarietà lavorativa. A questo proposito, l’impegno dei democratici verso l’UE (in Italia chiamato europeismo) non era tanto mirato alla creazione di una struttura politica europea con una forte identità sociale e autonomia dagli interessi geopolitici statunitensi. Lo consideravano piuttosto il mezzo migliore per inserire l’Italia nella rete delle interdipendenze globali, rompendo i vari conservatorismi che ostacolavano questa operazione.
La crisi finanziaria e le sue ricadute hanno devastato sia questo approccio che quello adottato da Pier Luigi Bersani, succeduto a Veltroni alla guida. Bersani ha promesso un approccio più classicamente socialdemocratico, ispirandosi all’esempio dei socialisti francesi di François Hollande (la cui presidenza dal 2012 al 2017 lascerà sicuramente poche tracce negli annali del socialismo europeo).
In teoria, quindi, questa avrebbe dovuto essere una svolta a sinistra. Ma, paradossalmente, è stato sotto la guida di Bersani che i democratici hanno preso la direzione opposta. Per la sua leadership è iniziata l’era del sostegno a governi variamente tecnocratici, austeristi o comunque totalmente favorevoli alle imprese sotto Mario Monti (2011-2013) e Mario Draghi (2021-22). Tra questi due governi guidati da tecnocrati – entrambi sostenuti acriticamente dai Democratici, ed entrambi sfociati in una rovinosa sconfitta elettorale – la leadership di Matteo Renzi e Nicola Zingaretti non ha rotto con lo schema iniziato con il governo Monti. Il governo formato dal centrosinistra in alleanza con il Movimento Cinque Stelle (2019-21), sotto la guida del primo ministro Giuseppe Conte, è stato più sofferto che realmente sostenuto dai democratici. Il popolare primo ministro Conte (un promotore di politiche pro-lavoro, intollerante all’austerità e aperto a una visione multipolare della politica internazionale) è stato scaricato alla prima occasione, per tornare al rifugio sicuro della tecnocrazia e dell’atlantismo sfrenato sotto l’ex capo della banca centrale Draghi.
Una caratteristica cruciale di questa lunga fase è stata la cessione della leadership di fatto del Partito Democratico al Presidente della Repubblica, una figura che non è né capo del governo né eletto direttamente dagli elettori. Tuttavia, il partito lo ha fatto in un momento in cui la Presidenza (prima di Giorgio Napolitano e poi di Sergio Mattarella) stava attraversando una svolta considerevole, poiché gli occupanti di questa carica passavano dal loro ruolo storico di garanti della Costituzione del 1948 a quello – talvolta esplicito — di garanti dei vincoli economici e geopolitici esterni alla politica italiana. In particolare, l’uso del veto presidenziale ha delimitato le scelte del governo e le nomine ministeriali, tutte escluse quelle che obbedivano a un quadro comunitario e atlantista, eufemisticamente noto come collocazione dell’Italia.
Il suicidio politico di Bersani, che sostenne una svolta “a sinistra” ma finì impantanato nel sostegno al gabinetto di tecnocrati Monti – nonostante la sua presunta neutralità politica, il governo più palesemente classista e perfino più genuinamente “di destra” nella storia della repubblica – non può essere spiegato senza considerare questo cambiamento nel ruolo del Presidente.
Indispensabile
Qui dovremmo anche considerare un elemento della cultura politica dei democratici che spesso viene trascurato. Le discussioni su questo partito lo vedono quasi sempre nei termini della sua derivazione dal Partito Comunista Italiano. La sinistra ha la ben nota mania di scrivere la propria storia e, data la sua incapacità di avere un reale impatto politico, si è nominata custode della memoria storica della diaspora post-comunista. Nei giornali e nei dibattiti televisivi italiani, la “storia” sui colpi di scena che hanno dato vita al Partito Democratico è raccontata da personaggi di origine comunista. Ma del tutto assente da questa autorappresentazione è il contributo alla sua cultura politica proveniente dall’ex partito democristiano, che ha prodotto anche una parte massiccia, se non maggioritaria, del gruppo dirigente democratico.
Questo contributo democristiano è importante. L’analisi del suo ruolo dovrebbe partire da due angolazioni. Il primo è che questo partito si considerava “indispensabile” e identificava la propria egemonia (ha guidato il governo dal 1945 al 1981 e ci è rimasto fino al 1994) con la salvezza della democrazia in Italia. In altre parole, più che un partito di governo, si è trasformato in un partito-stato. L’altro elemento connesso è il ruolo della Democrazia Cristiana come garante dei “vincoli esterni” all’azione del governo italiano, e la sua quiescenza ai diktat della NATO. In quest’ottica, non solo era essenziale che i democristiani rimanessero al governo: oltretutto, senza questo partito nella sala di controllo, le istituzioni liberali italiane avrebbero vacillato; la crisi di questo partito sarebbe andata di pari passo con la crisi della repubblica stessa. L’alternativa sarebbe stata il caos e la presa del potere da parte dei comunisti.
Per molti sembra più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Partito Democratico.
Questo elemento della cultura politica democristiana ha fortemente influenzato il Partito Democratico fin dalla sua fondazione nel 2007. Tuttavia, la visione dei leader democratici del loro partito come fulcro della democrazia italiana fa appello anche a una parte dell’opinione pubblica progressista. Ogni volta che si tengono le primarie per eleggere un nuovo leader democratico, molti della sinistra partecipano a questo rito nonostante non appartengano al partito, non abbiano mai votato a suo favore e, a seconda del risultato e in alcuni casi anche indipendentemente dal risultato, non avendo intenzione di votarlo in futuro. Molti italiani votano alle primarie democratiche per paura del baratro. Oh Dio, il Partito Democratico potrebbe scomparire, che ne sarà di noi? E che dire della povera vecchia Italia?
Per molti sembra più facile immaginare la fine del mondo che la fine del Partito Democratico. Ciò non fa altro che alimentare la caratteristica percezione di sé di questo partito, ereditata dai Democratici Cristiani, di considerarsi indispensabile. È come un gatto che si morde la coda: il Partito Democratico si identifica con lo Stato neoliberista; tradisce regolarmente il proprio elettorato per sostenere quest’ordine; l’elettorato punisce il Partito Democratico per essersi autoimmolato in nome della logica neoliberista; e allora lo stesso elettorato che lo ha appena punito si precipita con gioia a salvarlo, per evitare di perdere il partito indispensabile alla salvezza dello Stato neoliberista, come se dimenticasse perché lo ha punito fin dall’inizio.
Qui mi limiterò solo a delineare brevemente un’ulteriore considerazione, ovvero che dalla metà degli anni ’70 una parte significativa del gruppo dirigente del Partito Comunista – non a caso, lo stesso di cui lo stesso presidente Napolitano nel 2006-2015 era stato una figura di spicco – aveva anch’esso adottato questa visione. Ha sviluppato questa idea sia da un punto di vista istituzionale (il Partito Comunista “doveva” essere al governo, perché la democrazia dipendeva da esso) sia da un punto di vista socioeconomico (riformismo non come conquista graduale del potere da parte della classe operaia, ma come un appello a riforme “d’emergenza”. La parola “riforma” è stata qui intesa come qualsiasi misura che possa contribuire a fornire le condizioni ideali per rimettere in moto i meccanismi tormentati dell’accumulazione capitalista).
Nel 2014, quando alla guida del partito vinse Renzi – personaggio totalmente avulso dalla storia e dalle ragioni della sinistra – la (auto)giustificazione data da leader e attivisti del partito per l’ enorme voto per l’ex sindaco di Firenze fu che lui era "un vincitore". Il Pd deve cioè vincere, deve poter andare al governo, a prescindere dai contenuti dell’azione di governo stessa, per salvaguardare le istituzioni democratiche italiane, altrimenti destinate a finire in balia del “populismo”.
Per il Partito Democratico, quindi, l’esperienza del gabinetto tecnocratico Monti – sostanzialmente confermata dal governo Draghi 2021-22 – ha significato il passaggio da un “partito di governo” a un modello di partito-stato. Ciò conferisce anche un certo carattere razionale al suicidio politico dell’allora leader democratico Enrico Letta quando il governo Draghi entrò in crisi nell’estate del 2022. Ruppe l’alleanza dei democratici con il Movimento Cinque Stelle – provocando un disastro elettorale per il centrosinistra e una vittoria schiacciante per la coalizione di destra di Meloni.
Allora, cosa stava facendo Letta? Per prima cosa, voleva allontanare i democratici da un alleato (i Cinque Stelle) ritenuto “inaffidabile” in termini di rispetto dei “vincoli esterni” sull’Italia e sulle sue istituzioni. Ciò era particolarmente importante in un momento in cui il governo risultante dalle elezioni sarebbe stato chiamato a votare la riforma del Patto di stabilità e crescita dell’UE (ovvero, una nuova ondata di austerità) e a includere il Paese nella coalizione contro la guerra della Russia. Inoltre, nella lettura di Letta, un governo di destra non avrebbe resistito a queste richieste e il Partito Democratico sarebbe stato nuovamente richiamato al governo sotto la pressione delle istituzioni internazionali, con UE e NATO in testa. Letta non ha capito che la coalizione di destra di Meloni era – e rimane – perfettamente in grado di fungere da garante dei vincoli esterni all’Italia. Non appena il governo Meloni ha avuto la possibilità di dimostrare la sua “affidabilità” ai suoi partner internazionali, Letta ha proclamato che il governo si sta dimostrando “migliore del previsto”.
Dopo questo ennesimo suicidio politico, l’eredità disastrosa è caduta nelle mani di Elly Schlein, una giovane politica formatasi nelle campagne presidenziali americane di Barack Obama e senza un background storico né nella tradizione comunista né in quella democristiana. Nel partito di Schlein assistiamo alla difficile coesistenza di due modelli: la visione originaria di Veltroni, anche se in chiave un po’ più di sinistra – alla base della spinta dei non iscritti che ha portato Schlein a vincere le primarie del 2023 – e il modello di sostegno ai governi tecnocratici, che rimane assolutamente dominante nell’apparato del partito.
Clientelismo
Una tale combinazione presenterebbe comunque difficoltà oggettive. Ma più recentemente è esplosa una polemica sulle accuse di clientelismo, dopo gli scandali sulla presunta compravendita di voti e i legami tra funzionari democratici e loschi interessi economici. Vale la pena soffermarsi più da vicino su questa controversia, perché, anche al di là delle questioni morali o giuridiche coinvolte, può costituire un’interessante cartina di tornasole della funzione del Partito Democratico nella società italiana e nelle sue istituzioni.
Non appena il governo di Giorgia Meloni ha avuto la possibilità di dimostrare la sua “affidabilità” ai suoi partner internazionali, l’ex leader democratico Enrico Letta ha proclamato che questo governo si è dimostrato “meglio del previsto”.
Il clientelismo ha sicuramente una lunga storia nella vita pubblica italiana. Sia l’ordine liberale-elitario successivo all’unificazione nazionale che il fascismo erano (anche) regimi clientelari. Per quanto riguarda la repubblica fondata nel 1946, il clientelismo fu la risposta della seconda generazione di leader democristiani al fallimento del modello di politica economica liberista di Alcide De Gasperi nell’immediato dopoguerra. Questo clientelismo non era il prodotto – come ci viene solitamente detto – degli eccessi dello Stato, ma piuttosto dell’eccessiva ritirata dello Stato.
Era impossibile raccogliere un consenso di massa attorno al modello liberista dell’immediato dopoguerra e la presa di coscienza di questo fatto da parte del gruppo dirigente democristiano avvenne contemporaneamente all’avanzamento della secolarizzazione e all’inizio della distensione internazionale. Anche il consenso militarizzato della crociata anticomunista, così evidente nelle cruciali elezioni generali del 1948, fallì per il partito cattolico. Mentre il movimento operaio si collocava sul terreno della democrazia di massa, cercando di costruire il rapporto tra conflitto sociale e potere istituzionale, i democratici cristiani organizzavano un consenso di tipo verticale, costruendo artificialmente le classi medie attraverso la spesa pubblica e la permissività nella tassazione. Questa organizzazione verticale del potere spiega anche, tra le altre cose, il carattere particolaristico del welfare italiano, in cui le prestazioni sociali non sono un diritto universale, ma un favore concesso dal partito al potere.
Quindi, prima di esprimere il nostro stupore per il fatto che il Partito Democratico sia invischiato in accuse di clientelismo, dovremmo considerare 1) il fallimento del modello neoliberista degli anni ’90-2000, che fu ancora più aggressivo nell’ indebolire i lavoratori rispetto ai governi degli anni ’40-’50, e 2) la massiccia iniezione di cultura politica democristiana nella formazione del Partito Democratico.
Allora, cosa si chiede veramente ai democratici, quando si chiede loro di rompere con il clientelismo? Data la struttura di questo partito, gli si chiede in effetti di rinunciare a porsi il problema del sostegno di massa. In teoria, sarebbe una buona cosa se esistesse un partito che rappresentasse “puramente” la classe media urbana progressista e quel poco che resta di una classe operaia protetta e con forti garanzie. Un partito di questo tipo costituirebbe (come è sempre stato, a partire dai fronti popolari degli anni ’30) un elemento cruciale di qualsiasi coalizione progressista. Ma, nella crisi occidentale post-2008, questa forma di rappresentanza difficilmente garantisce un grande successo elettorale, nonostante la generale sovrarappresentanza delle classi medie urbane e altamente istruite. I voti vengono o guadagnati rappresentando interessi parziali ma potenzialmente maggioritari – quelli che una volta venivano chiamati interessi di classe – oppure acquistati (non necessariamente illegalmente!) costruendo un consenso verticale e interclassista attraverso l’uso del potere burocratico e della spesa pubblica, oltre alla distribuzione diretta di incarichi politici.
Idealmente, negli anni a venire, costruire un’alleanza tra il mondo del lavoro precario e i ceti medi urbani sarebbe una grande cosa. Ma ciò richiederebbe un primo passo, e per molti sgradevole, una mossa almeno temporanea per spezzare il peso del sostegno storicamente accumulato dietro il Partito Democratico.
Tommaso Nencioni
(Traduzione di Barbara Cipriani)
(Tratto da: Tommaso Nencioni, How the Democrats Became Italy’s Establishment Party, in: https://jacobin.com/2024/05/italy-democratic-party-history?utm_source=substack&utm_medium=email).
Inserito il 31/05/2024.
La piramide del sistema capitalista (1911).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/e/e8/Pyramid_of_Capitalist_System.jpg
L’articolo sul PD di Tommaso Nencioni e le domande lanciate dalla redazione del nostro sito hanno stimolato un primo, graditissimo contributo da parte dell’amico e compagno Marco Bartalucci, fiorentino con radici senesi che collabora con noi da Kassel, la città tedesca nella cui Università tiene dei corsi di Storia della filosofia.
All’intervento di Marco seguiranno altri, speriamo numerosi.
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«Classi come mondi separati. Superare la subalternità alla cultura anglosassone»
di Marco Bartalucci
Per rispondere alla prima domanda si dovrebbe anzitutto, a mio parere, chiarire se le persone che vivono sotto o sul limite della cosiddetta soglia di povertà da un lato e la piccola borghesia intellettuale hanno o possono avere una stessa cultura o modelli di pensiero. Se hanno le stesse chiavi interpretative che gli permettono di interfacciarsi alla loro esperienza quotidiana. In soldoni, se hanno le stesse disillusioni o le stesse speranze. O se almeno queste si assomiglino.
Andare a ripescare qualche impressione di fondo dalle riflessioni di Pasolini non guasterebbe.
Azzardando una osservazione personale direi che i due mondi siano decisamente separati. La piccola e media borghesia intellettuale aspira a realizzare per sé ideali che lei stessa non ha creato ma che ha assorbito da una cultura straniera, d’origine sostanzialmente anglosassone. È una classe che vorrebbe tanto insegnare quali sono le cose giuste e quelle sbagliate, vorrebbe “illuminare” gli altri, il popolino ignorante e grezzo, arretrato culturalmente perché inconsapevole delle buone maniere di una inclusività sbandierata per ogni dove. È una classe che si ritiene moralmente superiore anche se insoddisfatta delle sue condizioni e della sua mancanza di potere.
La classe di coloro che devono lottare quotidianamente in situazioni di degrado non solo economico ma anche civile in generale – leggi periferie, area della disoccupazione o sottoccupazione che imperversa da nord a sud ma che specie al sud raggiunge livelli estremi – ha una rabbia impotente che si rivolge contro tutto e tutti, a partire dai propri stessi vicini e compagni di sventura, basta che siano un poco “diversi” (colore della pelle o accento dialettale fa lo stesso).
Allora, prima di pensare a programmi politici che riuniscano in una stessa formazione politica questi due gruppi, queste due classi, si dovrebbe pensare a un ambito culturale che possa rispondere alle esigenze che dovrebbero essere comuni. Ma questo è possibile solo se entrambi i gruppi possono essere messi in condizione di sviluppare una loro comune autonoma cultura di riferimento. Dovrebbero potersi riscoprire come attori e non come fruitori di idee e modi di pensare importati. Un primo passo sarebbe quello di evitare di cadere nella provincialità dei colonizzati. Si dovrebbe smettere di guardare oltre Manica o oltre oceano, smettere di pensare inglese. E questo vale per entrambe le classi di cui sopra. Entrambe, infatti, sono colonizzate, seppure in modi diversi, da modelli culturali che provengono da quel mondo. Senza questa subalternità che le due classi subiscono non avremmo avuto la spirale involutiva della sinistra esplicata nei vari stadi di disfacimento descritti dal Nencioni.
Questo “recupero di sé” sarebbe la premessa per la presa di coscienza comune della necessità di allentare e, in prospettiva, di liberarsi dai cosiddetti “vincoli esterni” che sono oggi più che mai i nemici degli ideali propugnati dalla nostra Costituzione. Quelli che – esempio sia la Grecia di Syriza – impediscono qualsiasi cambiamento reale nel nostro paese e che lo impedirebbero nel caso di una “semplice” vittoria elettorale (oggi peraltro molto improbabile). Insomma, anzitutto riconoscere quale è il vero impedimento.
La seconda domanda esige una risposta netta: sì, si deve capire come navigare la crisi del neoliberismo e del capitalismo occidentale, che ha tentazioni belliciste, per risollevare le proprie sorti. Dunque antibellicismo e anticapitalismo sono oggi più che mai urgenze da connettere e da porre alla base dell’agire politico. Ma qui più che di ricostruzione di forze democratiche o di sinistra in generale ne va della nostra sopravvivenza fisica.
Per quanto riguarda la terza domanda, sulla necessità di un “leader”, rimando alle considerazioni che Nencioni fa riguardo al successo iniziale di Renzi nell’ambito della “sinistra”: si voleva qualcuno che fosse un “vincitore”. Bell’esempio, questo, di schema mentale ricevuto dal mondo americano. Si è visto a cosa porta una deriva del genere.
Kassel, 1 giugno 2024
🔴 Marco Bartalucci
Inserito il 01/06/2024.
Una manifestazione del 2022 indetta dal collettivo di fabbrica ex GKN di Campi Bisenzio (Firenze). In primo piano Adelmo Cervi.
Fonte della foto: https://fondazionefeltrinelli.it/scopri/la-classe-operaia-senza-il-paradiso/
L’articolo sul PD di Tommaso Nencioni e le domande lanciate dalla nostra redazione hanno stimolato un contributo al dibattito sulla sinistra da parte del nostro compagno Stefano Gallerini, storico della Resistenza e dell’antifascismo, docente di Storia e Filosofia in un liceo fiorentino, uno dei curatori di questo stesso sito.
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Sinistra di classe o sinistra di élite?
di Stefano Gallerini
L’articolo di Tommaso Nencioni descrive in modo efficace il percorso che ha portato il PD a diventare il partito di riferimento dell’establishment, più e meglio di quanto abbiano potuto fare i maggiori partiti dello schieramento di centrodestra: prima Forza Italia e poi Fratelli d’Italia. Il suo maggior pregio sta nell’individuare il ruolo di partito del presidente progressivamente assunto dal PD. Essendo diventato il presidente della repubblica, prima con Giorgio Napolitano e poi con Sergio Mattarella, il garante del vincolo esterno che subordina il nostro paese ai diktat della troika USA-NATO-UE, il fatto che entrambi i presidenti provenissero dalle file del PD ha ulteriormente contribuito a fare di questo partito, che aveva già nel suo DNA l’allineamento alle politiche atlantiste e neoliberiste proposte da Washington, Bruxelles e Francoforte, il partito di riferimento dell’establishment. Invece il maggior difetto consiste, a mio giudizio, nell’assenza di una seria analisi di classe della natura politica del PD. Anche se ufficialmente il partito nasce nel 2007, dalla fusione dei Democratici di Sinistra (DS) con la Margherita, in realtà già l’operazione avviata nel 1989 con la proposta di scioglimento del PCI puntava a costruire un blocco sociale eterogeneo e interclassista che, in una sorta di versione neocorporativa del “patto dei produttori”, tendeva a saldare, sotto l’egemonia dei poteri forti dell’economia e della finanza (banche, grandi imprese, ecc.), ampi settori di quella che Nencioni chiama «classe operaia protetta e con forti garanzie» – un tempo si sarebbe detto molto più semplicemente «aristocrazia operaia» (Lenin) – con i cosiddetti ceti medi riflessivi, ossia la forza lavoro intellettuale inserita nel mondo della comunicazione e della formazione e la borghesia delle libere professioni. Erano queste le componenti della società più sensibili alla retorica dei diritti individuali, che di fatto andavano a soppiantare i diritti sociali per i quali fino ad allora si era tradizionalmente battuta la sinistra. Infatti, dal 1989 la cosiddetta “sinistra” ha cominciato a parlare soltanto di diritti, sempre però declinati in chiave rigorosamente individuale, e non più di bisogni, di cittadini e non più di lavoratori, di elettori e non più di popolo. Questa narrazione, termine non a caso molto caro ai teorici del postmoderno, rappresenta, insieme ad un antifascismo agito in modo strumentale per demonizzare lo schieramento avversario, il fondamento dell’identità (pseudo)progressista di quella che, dopo il 1989, si configura come la sinistra liberale (e liberista). Dall’altra parte, Silvio Berlusconi riusciva a mettere in piedi un blocco sociale altrettanto composito ed eterogeneo, che aveva i suoi punti di forza nella piccola e media impresa, nel lavoro autonomo e, più in generale, in un ceto medio sempre più immiserito ed incattivito dall’impossibilità di accedere a qualsiasi prospettiva di mobilità sociale ascendente. Il fatto che lo schieramento di centrodestra sia riuscito progressivamente ad erodere crescenti consensi anche tra i lavoratori dipendenti e i disoccupati è dovuto alle scelte di classe compiute dalla sinistra di élite – la cosiddetta sinistra ZTL – le cui politiche, a torto o a ragione, sono state percepite dai ceti popolari come molto più aggressive e lesive delle loro condizioni di vita rispetto a quelle praticate dai governi di centrodestra.
Se questo tipo di analisi, per quanto estremamente schematica, ha un fondamento ne deriva come logica conseguenza che a costituire la base sociale di riferimento per un nuovo soggetto politico di classe possono essere soltanto coloro che stanno al di fuori dei due schieramenti che compongono il partito unico del capitalismo. In primo luogo, quei settori di classe operaia che hanno conservato un minimo di coscienza di classe. Anche se, a prima vista, la classe operaia, a seguito dei processi di trasformazione che hanno travolto il mondo del lavoro, appare come una nebulosa di atomi individuali, esistono ancora avanguardie di lotta e nuclei di resistenza: l’esempio più eclatante ed anche più vicino a noi dal punto di vista territoriale è quello dell’ex GKN. Queste realtà dovrebbero andare a costituire la punta di diamante di un blocco sociale anticapitalistico, capace di aggregare tutti coloro che, a partire dalla loro condizione di lavoratori salariati, vivono sulla propria pelle una situazione di alienazione, oppressione e sfruttamento. Si tratta, quindi, di andare oltre la tradizionale distinzione tra lavoratori garantiti e non garantiti e di non perdere nemmeno troppo tempo a fantasticare di nuovi soggetti sociali destinati a mettere in moto il processo rivoluzionario, come hanno fatto certi intellettuali postoperaisti, autori di studi e ricerche su figure sociali quali, per esempio, i lavoratori precari impiegati nei settori della conoscenza – i cosiddetti knowledge workers – o dei servizi, e qui il soggetto sociale più gettonato è quello dei riders. Più semplicemente – ma sapendo che, come diceva Brecht, il comunismo è «la semplicità difficile a farsi» – si tratta di mettere insieme le fasce più deboli e meno protette del lavoro salariato con la multiforme galassia del mondo del non lavoro (disoccupati, inoccupati, ecc.) e del precariato fino ad arrivare ad includere quello che Herbert Marcuse, nelle pagine finali de L’uomo a una dimensione, chiama «il sostrato dei reietti e degli stranieri, degli sfruttati e dei perseguitati di altre razze e di altri colori». Tutto questo richiede, in primo luogo, un grande e lungo lavoro di inchiesta per comprendere chi siano veramente i soggetti sociali disponibili a dare vita ad un nuovo progetto politico anticapitalistico – a quanto mi risulta il tentativo più serio compiuto in anni recenti è stato quello del collettivo Clash City Workers che una decina di anni fa pubblicò un saggio significativamente intitolato Dove sono i nostri. Lavoro, classe e movimenti nell’Italia della crisi (La Casa Usher, Lucca, 2014). E, in secondo luogo, un’organizzazione politica di classe che diventi il luogo di ricomposizione di un mondo del lavoro e del non lavoro sempre più frammentato e spezzettato dai processi di ristrutturazione che lo hanno investito.
Detto questo, penso di aver già cominciato a rispondere alla seconda domanda. Oggi la radicalità delle questioni che sono al centro del dibattito politico prefigura un vero e proprio passaggio epocale. L’esplosione delle disuguaglianze sociali e delle povertà testimonia in modo drammatico l’attualità della contraddizione tra capitale e lavoro. Ma alla questione sociale bisogna aggiungere il rischio sempre più elevato dello scoppio di un conflitto generale tra la NATO e la Russia, che potrebbe essere il preludio della terza guerra mondiale, scelta a cui la triade dell’imperialismo collettivo – USA, NATO e UE – potrebbe fare ricorso per contrastare il declino sempre più accentuato dell’anglosfera a livello planetario. Per non parlare della catastrofe ambientale a cui ci sta conducendo la lucida follia del capitale. In queste condizioni, più che di un partito genericamente di sinistra, c’è bisogno di un nuovo soggetto politico di classe che abbia la lungimiranza di proporre una vera e propria alternativa di civiltà. Infatti, mi sembra del tutto evidente il fatto che, nell’era del totalitarismo neoliberista, la sinistra, in tutte le sue versioni, è diventata parte integrante del sistema. Se la sinistra liberale (e liberista) si è trasformata nella proiezione politically correct delle élites capitalistiche, la sinistra cosiddetta radicale (?) si è adattata al ruolo di coscienza infelice del partito unico del capitalismo. Quindi, è inutile coltivare illusioni o sperare in una inversione di rotta. Il fallimento in tutte le sue articolazioni e declinazioni di quella che l’informazione mainstream chiama “sinistra” rende oggettivamente necessaria la ricostruzione di un partito anticapitalista. Dal mio punto di vista, tale partito di classe non può essere altro che un moderno partito comunista. Che, però, sia veramente tale per identità, organizzazione e programma, che deve essere articolato in pochi punti, ma facilmente comprensibili dalle masse popolari. No alla NATO, no alla UE, lotta alla disoccupazione attraverso la riduzione delle ore della giornata lavorativa – nelle sue Prospettive economiche per i nostri nipoti (1930!) Keynes ipotizzava già una settimana lavorativa di quindici ore redistribuita su cinque giorni – e rilancio dello stato sociale finanziato attraverso il drastico taglio delle spese militari. Inoltre, dal momento che quella che oggi è presentata come democrazia in realtà altro non è se non una vera e propria dittatura dei mercati finanziari perché non pensare a qualche forma di nazionalizzazione del sistema bancario, proposta, peraltro, già presente sia nel Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels sia nelle Tesi di aprile di Lenin?
Se questo partito vedrà mai la luce, la partecipazione alla competizione elettorale dovrà essere l’ultimo dei problemi. Quello più importante, che deve andare di pari passo e affrontato in modo contestuale alla costruzione del partito, è quello del radicamento sociale, con l’obiettivo di riannodare i fili con quella parte di società che la sinistra di élite ha scelto di non rappresentare più. Una volta impostata in questi termini la questione, il problema della leadership è anche questo del tutto marginale. Se è vero che avere un leader che si sa muovere di fronte ai mezzi di comunicazione di massa aiuta, è anche vero, come dimostra la storia recente, che di leaderismo un partito può anche morire. È successo ad Alleanza Nazionale con Fini, che prese la folle decisione di sciogliere il partito nel più ampio raggruppamento di centrodestra fondato da Berlusconi, ed è successo al Partito della Rifondazione Comunista (PRC), sacrificato da Bertinotti sull’altare dell’accettazione delle compatibilità di sistema e del conseguente inserimento nelle dinamiche perverse del bipolarismo. Nato come partito antisistema, il PRC si è ridotto ad essere l’ala sinistra – in tutti i sensi! – del centrosinistra, con l’intento di limitare i danni che le politiche euroliberiste applicate dai governi di centrosinistra provocavano alle già precarie condizioni di vita dei ceti popolari. In tal modo Rifondazione Comunista è prima passata dall’anticapitalismo all’antiliberismo e poi anche quest’ultimo si è sempre più stemperato in una sorta di «liberismo progressista», secondo la felice espressione coniata dalla filosofa statunitense Nancy Fraser, una delle poche intellettuali capaci di coniugare il femminismo con il marxismo. Ecco, dal mio punto di vista, la vicenda del PRC rappresenta l’esempio negativo di tutto ciò che non dovrebbe essere fatto da un nuovo soggetto politico di classe che abbia l’ambizione di costituire un punto di riferimento per le classi popolari.
18 giugno 2024
🔴 Stefano Gallerini
Inserito il 19/06/2024.
L’analisi e la drastica conclusione del filosofo Agamben sull’Unione europea («un patto fra stati» che «agisce oggi come una succursale della NATO») alla vigilia delle elezioni per il Parlamento europeo («non un vero parlamento»).
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Europa o l’impostura
di Giorgio Agamben
È probabile che ben pochi fra coloro che si apprestano a votare per le elezioni europee si siano interrogati sul significato politico del loro gesto. Poiché sono chiamati a eleggere un non meglio definito «parlamento europeo», essi possono credere più o meno in buona fede di star facendo qualcosa che corrisponde all’elezione dei parlamenti dei paesi di cui sono cittadini. È bene subito chiarire che le cose non stanno assolutamente così. Quando si parla oggi di Europa, il grande rimosso è innanzitutto la stessa realtà politica e giuridica dell’Unione europea. Che si tratti di una vera e propria rimozione, risulta dal fatto che si evita in tutti i modi di portare alla coscienza una verità tanto imbarazzante quanto evidente. Mi riferisco al fatto che dal punto di vista del diritto costituzionale, l’Europa non esiste: quella che chiamiamo «Unione europea» è tecnicamente un patto fra stati, che concerne esclusivamente il diritto internazionale. Il trattato di Maastricht, entrato in vigore nel 1993, che ha dato la sua forma attuale all’Unione europea, è l’estrema sanzione dell’identità europea come mero accordo intergovernativo fra Stati. Consapevoli del fatto che parlare di una democrazia rispetto all’Europa non aveva pertanto senso, i funzionari dell’Unione europea hanno cercato di colmare questo deficit democratico stilando il progetto di una cosiddetta costituzione europea.
È significativo che il testo che va sotto questo nome, elaborato da commissioni di burocrati senza alcun fondamento popolare e approvato da una conferenza intergovernativa nel 2004, quando è stato sottoposto al voto popolare, come in Francia e in Olanda nel 2005, è stato clamorosamente rifiutato. Di fronte al fallimento dell’approvazione popolare, che di fatto rendeva nulla la sedicente costituzione, il progetto fu tacitamente – e forse bisognerebbe dire vergognosamente – abbandonato e sostituito da un nuovo trattato internazionale, il cosiddetto Trattato di Lisbona del 2007. Va da sé che, dal punto di vista giuridico, questo documento non è una costituzione, ma è ancora una volta un accordo tra governi, la cui sola consistenza riguarda il diritto internazionale e che ci si è pertanto guardati dal sottoporre all’approvazione popolare. Non sorprende, pertanto, che il cosiddetto parlamento europeo che si tratta di eleggere non sia, in verità, un parlamento, perché esso manca del potere di proporre leggi, che è interamente nelle mani della Commissione europea.
Qualche anno prima il problema della costituzione europea aveva dato del resto luogo a un dibattito fra un giurista tedesco di cui nessuno poteva mettere in dubbio la competenza, Dieter Grimm, e Jürgen Habermas, che, come la maggior parte di coloro che si definiscono filosofi, era del tutto privo di una cultura giuridica. Contro Habermas, che pensava di poter fondare in ultima analisi la costituzione sull’opinione pubblica, Dieter Grimm ebbe buon gioco nel sostenere l’improponibilità di una costituzione per la semplice ragione che un popolo europeo non esisteva e pertanto qualcosa come un potere costituente mancava di ogni possibile fondamento. Se è vero che il potere costituito presuppone un potere costituente, l’idea di un potere costituente europeo è il grande assente nei discorsi sull’Europa.
Dal punto di vista della sua pretesa costituzione, l’Unione europea non ha pertanto alcuna legittimità. È allora perfettamente comprensibile che una entità politica senza una costituzione legittima non possa esprimere una politica propria. La sola parvenza di unità si raggiunge quando l’Europa agisce come vassallo degli Stati Uniti, partecipando a guerre che non corrispondono in alcun modo ad interessi comuni e ancor meno alla volontà popolare. L’Unione europea agisce oggi come una succursale della NATO (la quale NATO è a sua volta un accordo militare fra stati).
Per questo, riprendendo non troppo ironicamente la formula che Marx usava per il comunismo, si potrebbe dire che l’idea di un potere costituente europeo è lo spettro che si aggira oggi per l’Europa e che nessuno osa oggi evocare. Eppure solo un tale potere costituente potrebbe restituire legittimità e realtà alle istituzioni europee, che – se impostore è secondo i dizionari «chi impone ad altri di credere cose aliene dal vero e operare secondo quella credulità» – sono allo stato attuale nient’altro che un’impostura.
Un’altra idea dell’Europa sarà possibile solo quando avremo sgombrato il campo da questa impostura. Per dirla senza infingimenti né riserve: se vogliamo pensare veramente un’Europa politica, la prima cosa da fare è togliere di mezzo l’Unione europea –, o quanto meno, essere pronti per il momento in cui essa, come sembra ormai imminente, crollerà.
20 maggio 2024
Giorgio Agamben
(Tratto da: Giorgio Agamben, Europa o l’impostura, in «Quodlibet»).
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Animus perverso
Dalla fine degli anni ’80 ad oggi tra coloro che hanno continuato a sentirsi di sinistra, alcuni sono rimasti tra le file di un partito ma molti altri hanno preferito creare movimenti, condurre più specifiche battaglie, organizzare manifestazioni piuttosto che far parte di una formazione politica costituita.
I movimenti per la Pace hanno una storia lunga, ma anche concentrandoci solo sulla prima parte del nostro secolo, troviamo il movimento NO GLOBAL, i girotondi, le lotte per i diritti civili e della comunità LGBTQ+, per la parità di genere, contro la violenza sulle donne e il femminismo in generale; se rivolgiamo lo sguardo agli anni più recenti: il movimento delle Sardine, quello di Fridays for Future, quello in sostegno dei lavoratori della GKN, le occupazioni degli studenti. Come fenomeni sociali e non strettamente politici aggiungiamo anche i Gay Pride, il veganesimo, il vegetarianismo, l’animalismo in generale e tanti altri.
Senza voler in nessun modo togliere niente al valore di chi oggigiorno si mobilita e si attiva, a chi crede ancora nell’unione con gli altri come mezzo per raggiungere gli obbiettivi che ritiene giusti e accogliendo tutti quelli citati come sani segni di resistenza e fuoco vitale nelle coscienze – più prosaicamente “è tutto grasso che cola” con il vento che tira, – tuttavia individuiamo nel movimentismo dei limiti.
Il primo, presente in alcuni di questi fenomeni, è presto detto: hanno trovato la propria forza iniziale, aggregante e assolutamente legittima, nell’opporsi al governante di destra di turno e alla sua politica – i girotondi contro Berlusconi e in quel caso anche contro la «burocrazia di sinistra» (citaz. Nanni Moretti), le Sardine contro Salvini, – ma una volta esaurita quella spinta non sono stati capaci né di far tesoro del consenso né di costruire un soggetto propositivo e dialogante con la politica.
Ma è l’analisi di un altro limite del movimentismo degli ultimi 40 anni che ci appare più interessante e prodigo di riflessioni: ognuno vi conduce “la propria” battaglia, solo la propria, quella che lo riguarda più da vicino e nessun’altra.
I movimenti, i comitati, le associazioni potrebbero in fondo apparire come niente di più che una versione, anche se allargata e condivisa da più persone, dell’individualismo sempre più spinto verso cui persuade il soft power, in un’atomizzazione di interessi e obbiettivi politici ed esistenziali, alla fine dei conti solo deboli energie fintanto rimangono disperse e alienate da tutto il resto.
D’altronde sono lontani i tempi della contestazione studentesca del ’68 che si unì al movimento operaio e oggi è utopistico pensare che i giovani di Fridays for Future o quelli che occupano le scuole partecipino agli scioperi dei lavoratori della GKN e viceversa; ai nostri giorni i giovani comunisti che manifestano a fianco degli operai sono solo poche decine e non riescono a rimpolpare le loro fila.
Sembra mancare insomma una visione d’insieme e Don Milani, nella citazione che apre la nostra Homepage, suggerisce tutt’altro: «Ho imparato che il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è politica». I problemi che viviamo quindi non sono affatto solo nostri, personali, distinti, ma al contrario collegati, tutti frutto di una matrice, o sistema che dir si voglia, che li contiene tutti.
Il mio problema è il capitalismo ma anche il patriarcato e l’omofobia
l’inquinamento e il riscaldamento globale ma anche le armi e il militarismo
la globalizzazione ma anche Giorgia Meloni e così via…
* * * * *
Le istanze dei movimenti, però, confermano prima di tutto che si è perso quasi completamente il senso di appartenenza a uno stesso partito politico e a una stessa classe sociale o lavorativa. In secondo luogo indicano che ciò che adesso mobilita non riguarda più solo l’homo economicus, ma parte da una visione, magari ancora atomizzata, ma più olistica dell’essere umano.
Non ci si aspetta più un cambiamento che venga dalla Politica di palazzo e il proprio impegno ha ristretto il campo nelle scelte di vita personali: tra i tanti esempi che si potrebbero citare, chi volontariamente e coraggiosamente lascia un “buon lavoro” – buono soltanto dal punto di vista salariale – ed esce da un sistema alienante per dedicarsi a un’attività in cui davvero senta di poter contribuire alla società, chi faticosamente promuove cultura, festival, chi contro ogni buon senso apre oggi una libreria, cerca di riattivare una sala cinematografica magari in periferia o in uno dei piccoli, innumerevoli paesini sparsi in tutta l’Italia, chi torna a vivere lì stanco di città diventate sempre più disneyland per turisti, chi attraverso il boicottaggio prova a indirizzare il mercato verso scelte eque, chi sviluppa senso critico nei giovani, tutta questa gente sta facendo politica oggi.
Fare politica. E tentare di avere una visione d’insieme e olistica dell’essere umano.
«È evidente che […] l’uomo è per natura animale politico. Perché la natura nulla fa invano: ora l’uomo, solo fra gli animali, ha il logos, la ragione. […] Questo è proprio degli uomini rispetto agli altri animali: l’aver egli solo il senso del bene e del male, del giusto e dell’ingiusto» (Aristotele).
Il logos: il fondamento dell’equilibrio, la logica e il linguaggio, che poi si attuano nella conoscenza tutta, nella scienza, nella tecnica e nella matematica.
La ragione ci ha salvato dall’autodistruzione, almeno finora. Ci protegge dalle nostre derive, ci salva dalla depressione, dalle nostre ossessioni e nevrosi, filtra e frena le pulsioni.
Tuttavia la Storia passata e sempre più il mondo attuale ci stanno mostrando non soltanto che la ragione da sola non basta, ma che lasciata come unico criterio regolatore delle azioni umane sviluppa, nei secoli, versioni di sé sempre più perverse.
La sana volontà di emanciparsi e migliorarsi, nel mercato ultralibero e nel sistema capitalistico, diventa competizione senza quartiere. Il nostro sguardo corre subito alla società e mentalità statunitensi, in cui la competizione è presente in ogni aspetto e ogni momento della vita, fin dalla culla: scuole materne per futuri manager o, come minimo, piccoli geni in qualcosa, che fanno lievitare il prezzo degli immobili dove sorgono. Ma bando all’ipocrisia, allo spauracchio dell’Amerika, come se noi fossimo immuni da certe tendenze globali.
La lodevole voglia di un individuo di “crescere”, diventa perseguimento cieco e disumano dei propri fini senza scrupoli. I rapporti di lavoro si trasformano in semplici transazioni, solo i numeri contano, decide l’algoritmo.
Se l’uomo, per trarre le fonti del proprio sostentamento, ha sempre plasmato, sfruttato, usato la Terra, dalla meraviglia dei giardini, delle colline e dei campi coltivati, degli animali al pascolo, dove armoniosamente si incontrano la terra, la natura e il lavoro dell’uomo, ha poi prevalso lo spirito predatorio, avido, di nuovo semplice matematica e tecnica applicata alle attività umane – John Steinbeck docet, in The Grapes of Wrath, 1939. Per non parlare di quel che abbiamo fatto al mare.
Durante una guerra, chi la innesca, la sostiene ma soprattutto chi la combatte deve far scorrere liberi gli impulsi atavici di violenza e necrofilia, per resistere deve sospendere la propria lucidità e umanità. La diplomazia, l’intelligenza, il buon senso di sedersi allo stesso tavolo, venire a patti con chi odiamo nonostante tutto, sono frutto della ragione.
Avere come priorità assoluta e adoperarsi con ogni mezzo affinché si ponga termine subito alle stragi di vite più o meno innocenti non nasce però dalla ragione, ma va oltre di essa, muove da sentimenti a nostro avviso imprescindibili per la continuazione della nostra specie, quali la pietà e l’empatia.
Un mondo senza Anima. Siamo ancora in un mondo senza Anima, nell’accezione coniata da Carl Gustav Jung.
«Jung con Anima identificò l’immagine femminile presente nell’uomo, con Animus l’immagine maschile nella donna. In sostanza, secondo Jung, in ogni uomo esistono elementi “femminili” così come in ogni donna esistono elementi “maschili”, elementi che nello sviluppo della personalità devono essere portati a coscienza: l’uomo pertanto deve diventare conscio della propria Anima e la donna conscia del proprio Animus» (Cristina Bisi).
Solo così si attuerà il processo d’individuazione.
Questa intuizione junghiana fornisce a nostro avviso una delle chiavi di lettura per chi ancora oggi, nonostante tutto, voglia fare politica, contribuire nella direzione di una società più giusta, della cura del Pianeta e di un’esistenza umana più felice; questi tre obbiettivi, non solo non sono separati ma al contrario conditio sine qua non l’uno dell’altro.
L’archetipo dell’Anima spazza via con un sol colpo la guerra tra i generi, regalando tutt’altra prospettiva. Appare inoltre attualissima ai giorni nostri dove le nuove generazioni sono molto più sensibili di quelle precedenti ai temi della fluidità di genere.
A nostro avviso può costituire la base di una vera rivoluzione culturale. Prima che l’Animus perverso ci porti all’estinzione.
🔴 Barbara Cipriani
Inserito il 3/3/2023.
Elly Schlein, segretaria del Partito Democratico.
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PD Mutant Chronicles
Parte prima
Partendo dalla fine
Elly Schlein è diventata segretaria del PD vincendo le primarie aperte, ovvero con i voti dei simpatizzanti non iscritti. Nelle sezioni aveva infatti prevalso Bonaccini. A prescindere dal giudizio che si dà sui due candidati, è qualcosa che dovrebbe fare riflettere.
Personalmente ho sempre avuto una feroce ostilità verso lo strumento delle primarie, che considero una modalità non democratica ma plebiscitaria (e sono due concetti molto diversi): si chiamano le masse a scegliere un leader, senza alcuna discussione su idee, programmi, prospettive per il futuro. In pratica è il “crucifige”: Gesù o Barabba, dopo di che si torna a fare altro fino alla prossima occasione.
Si potrebbe obiettare che i candidati propongono idee diverse (almeno apparentemente e in parte) su ciò che il partito dovrebbe essere e fare, ma su queste non vi è alcuna discussione. Al confronto i vetusti congressi di partito, con i loro mille difetti, erano un bijoux di democrazia. Quanto meno, almeno nei miei 25 anni di traversata in Rifondazione, ci si confrontava su documenti che proponevano analisi anche molto articolate sulle principali questioni italiane e internazionali e proposte diverse per la propria organizzazione. Documenti di solito emendabili dai loro sostenitori. Non mancavano certo i trucchetti della burocrazia ma la maggior parte dei congressi dei circoli era vera e la discussione spesso interessante.
Peggio che mai le primarie aperte, dove in nome di un'idea veramente bislacca di democrazia vota chi passa per strada. Il ribaltamento del risultato del voto degli iscritti da parte del “voto dei gazebo” è paradossale: i membri effettivi di un’organizzazione vengono scippati della potestà di decidere chi quell’organizzazione la deve guidare, lo decidono persone esterne ad essa. Credo che anche gli iscritti di una bocciofila avrebbero da ridire in merito.
Proprio questo elemento, ovvero il fatto che la Schlein abbia vinto grazie al voto "aperto", è un’altra cosa che dovrebbe far riflettere. La neosegretaria simboleggiava una volontà di cambiamento e perfino di rottura (a mio avviso non lo è ma era largamente percepita come tale). Orbene, il risultato ci dice che la voglia di cambiamento prevale tra i simpatizzanti del PD ma non tra gli iscritti (che hanno votato in prevalenza Bonaccini). Ammesso e non concesso che la Schlein sia davvero portatrice di una proposta di cambiamento radicale delle politiche del PD (ripeto che per me non lo è) questo pone un’enorme ipoteca sulle possibilità concrete che riesca davvero a metterla in atto.
Parte seconda
Ovvero, come passare dal proletariato al capitale e vivere felici
È possibile indurre un’organizzazione politica a cambiare la propria natura fino a diventare qualcosa di completamente diverso o addirittura opposto a ciò che è stata fin dalla sua nascita? Per tentare di capire quanto la Segreteria Schlein possa produrre un cambiamento reale nel Partito Democratico, è necessario rispondere innanzitutto a questa domanda.
Le caratteristiche di un gruppo dirigente hanno naturalmente un peso nell’orientare il partito che si trovano a guidare ma questo peso è bilanciato dalla natura profonda di quell’organizzazione che può essere modificata solo in parte e solo fino a un certo punto della sua storia.
Nel caso specifico, a prescindere dal giudizio sulle qualità politiche di Elly Schlein (e il mio non è particolarmente lusinghiero), è assai improbabile che il PD possa diventare qualcosa di significativamente diverso da ciò che è, per il semplice fatto che quel partito è il frutto di una mutazione genetica che lo rende a mio avviso irriformabile.
Per comprendere nel dettaglio come si è passati dal più grande partito comunista d’Occidente a un partito alfiere del libero mercato imposto sulla punta delle baionette, delle privatizzazioni, delle guerre della NATO, dovremmo risalire molto indietro nel tempo, analizzare il ruolo dello stalinismo in salsa togliattiana, quello di Berlinguer e su su fino ad oggi. Per non rendere questa modesta riflessione infinitamente più lunga di quanto già non sarà, limitiamoci a tornare al momento dello scioglimento del PCI.
Quando alla fine del 1989 l’allora segretario comunista Achille Occhetto propose di cambiare nome e identità politica al partito che guidava, si intravedeva già quale sarebbe stata la parabola della nuova formazione. La piattaforma della maggioranza moderata del PCI non si limitava a prendere atto di un dato oggettivo, ovvero che ad onta del nome e dell’iconografia il Partito Comunista Italiano era già da un pezzo, nei fatti, niente di più di un onesto partito riformista socialdemocratico. Non si voleva semplicemente far sì che il nome fosse una conseguenza della cosa, si andava molto oltre. Era evidente già allora (perfino a un giovane inesperto appena affacciatosi alla militanza politica come ero io a quel tempo) che la proposta di Occhetto rompeva completamente con l’intera cultura politica del movimento operaio, compresa quella riformista.
Non era un caso che il nuovo nome che sarebbe stato adottato, Partito Democratico della Sinistra, non contenesse alcun riferimento al socialismo nemmeno nella sua variante socialdemocratica.
L’idea era già quella di fondare un partito liberal all’americana, genericamente progressista, che magari nell’idea originaria di Occhetto avrebbe dovuto avere un profilo un po’ più netto, un po’ meno subalterno all’ideologia dominante di quanto poi non avvenne ma in ogni caso estraneo alla tradizione del movimento operaio degli ultimi 150 anni considerata in blocco come non più utilizzabile. L’attuale Partito Democratico non è che il frutto più coerente e maturo di quel percorso.
Un’etichetta molto in voga sui media mainstream per definire il PD è “sinistra delle ZTL”. Volendo usare una definizione meno banalmente giornalistica e più scientifica dovremmo dire che il PD è un partito compiutamente borghese: le politiche liberiste e anti-operaie che ha sempre portato avanti non sono state il frutto di errori ai quali porre rimedio con un cambio al vertice ma di scelte coerenti con il suo essere il rappresentante degli interessi di un settore delle classi dominanti del nostro paese. Allo stesso modo, l’atlantismo guerrafondaio non è che una conseguenza della natura di classe del PD: a un certo stadio di sviluppo di un’economia capitalista, la difesa degli interessi borghesi non può più limitarsi all’interno dei confini nazionali, richiede politiche imperialiste all’estero. E l’Italia, con buona pace dei sovranisti di pseudo sinistra, non è una “colonia americana”, è un paese imperialista. Certo, è un imperialismo debole e in certa misura subalterno a quelli più potenti, USA in primis. Ma è comunque un paese imperialista.
Per queste ragioni, la stessa categoria di “sinistra” non è più applicabile in alcun modo al Partito Democratico.
Per almeno un secolo e mezzo, con il termine “sinistra” si sono identificati quei partiti che rappresentavano, o aspiravano a rappresentare, sul terreno politico gli interessi della classe lavoratrice, il lavoro contrapposto al capitale. Sul piano teorico, il riferimento erano le idee socialiste nelle loro diverse declinazioni, più moderate o più radicali a seconda dei partiti e dei loro dirigenti. Lenin diceva, più o meno, che i dirigenti riformisti erano gli agenti della borghesia nel movimento operaio. Continuo a credere che avesse ragione, in ultima analisi, ma almeno sulla carta (nella pratica era un altro paio di maniche) anche quegli “agenti della borghesia” condividevano con l’ala rivoluzionaria due punti di vista ben precisi:
1. Una visione di classe della società, ovvero la convinzione che le società capitaliste sono divise in classi con interessi contrapposti e quindi la Socialdemocrazia doveva essere il partito dei lavoratori, non dei cittadini genericamente intesi. Nell’ottica riformista si doveva comunque ricercare un compromesso che mettesse d’accordo tutti e i compromessi finivano con l’essere spesso al ribasso ma che si partisse da punti di vista e da interessi contrapposti non era pacifico solo per Lenin e Trockij, lo era anche per i riformisti.
2. Conseguentemente a quanto sopra, anche l’ala riformista del movimento operaio aveva una visione critica del capitalismo. Rifiutava la prospettiva della rivoluzione, rimandava il programma massimo, ovvero il socialismo, a un futuro lontano e indefinito, una sorta di Regno dei Cieli che sarebbe arrivato un giorno non si capiva bene come e quando, confidando che con la forza parlamentare dei partiti socialisti e quella sociale dei sindacati si sarebbe potuto cambiare la società poco alla volta, riforma dopo riforma, fino a ritrovarsi magicamente, in modo quasi omeopatico, in un mondo tutto diverso. Nel fare questo, i riformisti finivano col diventare davvero gli “agenti della borghesia” secondo la definizione leniniana, ma non consideravano certo il capitalismo come la fine della storia umana né il libero mercato la panacea di tutti i mali.
Era ciò che consentiva a un Eduard Bernstein e a una Rosa Luxemburg di stare nello stesso partito.
Di tutto questo nell’attuale Partito Democratico non c’è e non c’è mai stato niente. Per queste ragioni ritengo impossibile che la natura profonda di questo partito possa essere mutata da un cambio di segretario. Peraltro Elly Schlein, per quello che ho avuto modo di leggere in merito alle sue proposte e alla sua biografia, non è affatto la pericolosa estremista che dipingono i Renzi, i Calenda e compagnia cantante. È anche lei una “liberal”, solo un po’ più combattiva e avveduta del dirigente medio piddino. D’altronde, da ragazza era andata negli Stati Uniti per fare campagna per Barack Obama, non esattamente una cosa da bolscevichi.
Chi spera quindi in una rigenerazione del Partito Democratico in una forza pur sempre riformista ma con un profilo perlomeno laburista di sinistra è destinato a subire l’ennesima delusione.
A questo punto so già che cosa si stanno domandando i miei 25 lettori. Vorreste che spendessi due parole su che cosa dovremmo fare noi, su come costruire un’alternativa di sinistra ai partiti borghesi che occupano ormai l’intero spettro parlamentare, sui mille errori e gli altrettanti difetti della sinistra anticapitalista che sta fuori dalle istituzioni. È vero, sarebbe necessaria una approfondita riflessione in merito. Ma a parte che non sono Gramsci né Trockij, sono solo un bischero qualsiasi, ma poi… che devo fare tutto io?
🔴 Sandro Pollini
(Intervento tratto dalla pagina Facebook dell’autore, 1/3/2023).
Inserito il 2/3/2023.
Pubblichiamo un articolo del settimanale tedesco che ha avuto vasta risonanza. Ci basiamo sulla traduzione che ne dà la rivista “Internazionale”, ma ripristinando e riadattando alcune piccole parti mancanti. Seguiranno commenti a mo’ di dibattito sul tema, a partire da una breve analisi di Marxpedia.
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Aveva ragione Marx?
Da qualche tempo si ha l’impressione che la mattina, nella sua villa di duemila metri quadrati, Ray Dalio legga Il capitale di Karl Marx invece del “Wall Street Journal”. «Il capitalismo così com’è non va più bene per la maggioranza delle persone», dice Dalio. Finora il fondatore del Bridgewater Associates, il più grande fondo speculativo del mondo, non poteva certo essere sospettato di avere simpatie socialiste: ha un patrimonio stimato in ventidue miliardi di dollari e il suo saggio I principi del successo (Hoepli 2018), che ha venduto due milioni di copie, è una lettura obbligatoria per chiunque voglia fare l’investitore. Eppure, sul capitalismo oggi Dalio ha idee di questo tipo: «Esagerando con le cose buone, si rischia di farle implodere. Se le cose non si trasformano si autodistruggono». Ormai la ricchezza è distribuita in una sola direzione e i poveri restano poveri. Di pari opportunità quasi non c’è più traccia. Secondo Dalio, il capitalismo ha bisogno di riforme profonde. Altrimenti soccomberà. E sarà giusto così.
Il fatto che di punto in bianco miliardari come Dalio sembrino fan di Karl Marx ci dice molto sullo stato del mondo in cui viviamo.
La critica del capitalismo non è una novità, ma ora, mentre comincia il quarto anno di pandemia e il secondo di guerra in Ucraina, si sta diffondendo. Ci sono troppe cose che non funzionano più: insieme alla globalizzazione sta andando in frantumi anche il modello di crescita economica tedesco e, mentre il mondo si trincera in blocchi contrapposti, l’inflazione aumenta il divario tra ricchi e poveri, la quasi totalità degli obiettivi climatici non è stata raggiunta e la politica non riesce a riparare le continue crepe del sistema. Da più parti s’invoca un nuovo ordine economico. E spesso questa richiesta arriva da fonti insospettabili. Il “Financial Times”, portavoce internazionale dei mercati finanziari, ha annunciato che per il neoliberismo è arrivato il momento di uscire di scena: ora tocca allo stato. I grandi gruppi, dalla Bosch a Goldman Sachs, discutono dell’opportunità di privilegiare finalmente gli interessi della collettività rispetto a quelli degli azionisti.
Gli intellettuali d’avanguardia e i pensatori pragmatici – nei governi e nelle aziende – pongono spesso una questione di fondo importante: è possibile andare avanti mantenendo l’ordine economico attuale, quello di un capitalismo che distrugge l’ambiente, pretende un aumento continuo di consumi, profitti e crescita, e moltiplica le ingiustizie?
La questione era già stata sollevata nel 1972 dal Club di Roma (un’associazione per l’analisi dei principali problemi mondiali composta da scienziati, economisti, imprenditori, attivisti dei diritti civili e politici), ma la discussione che ne è scaturita è stata a lungo di natura esclusivamente teorica o, meglio, ideologica. Sembrava di ascoltare esponenti della gioventù socialista o dei verdi radicali. Ora, invece, molti segnali indicano che il capitalismo – almeno quello degli ultimi 50 o 60 anni – si è lasciato alle spalle la sua età dell’oro.
Insomma, sembra necessaria una svolta epocale. Un’altra ancora? La sola parola ha su molti un effetto scoraggiante: no, grazie, meglio continuare a navigare a vista. Eppure la prospettiva può essere cambiata in senso positivo: finalmente abbiamo un’occasione reale di dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile.
In passato, il capitalismo industriale ha assicurato livelli di benessere e crescita tali da rendere praticamente impossibile imporre nuove proposte sul modo di produrre, lavorare e redistribuire. La storia dimostra che, finché il sistema produce un numero sufficiente di vincenti, si è disposti ad accettare perfino le sue storture più evidenti.
Ma ormai le debolezze del sistema sono così evidenti che non c’è più bisogno di scomodare Marx o l’economista francese Thomas Piketty (Il capitale nel XXI secolo): la globalizzazione è fuori controllo, la ricchezza finisce quasi per intero in tasca al 10 per cento più ricco della popolazione, il consumo irresponsabile delle risorse rovina il pianeta e la finanza si abbandona a eccessi continui.
Adam Tooze, storico dell’economia britannico, riassume così la situazione: «Benvenuti nel mondo della policrisi». Uno dopo l’altro si susseguono enormi problemi collegati tra loro: la crisi energetica, lo scontro commerciale tra Cina e Stati Uniti, il rischio di una guerra mondiale, l’attacco dei populisti e dei leader autoritari alla democrazia.
Fino a poco tempo fa, per tutti questi problemi sarebbe stata proposta una sola soluzione: ci penserà il mercato. Oggi che ci crede più? Soprattutto alla luce del grande moltiplicatore di tutte le storture del sistema: la crisi climatica.
Di sicuro non ci crede più la maggior parte dei giovani. Nei paesi industrializzati cresce da anni una rabbia contro il capitalismo che non è di natura ideologica ma è riconducibile piuttosto all’esplosione del costo degli affitti e al fatto che comprare casa è ormai impensabile. Perché si dovrebbe accettare una macchina della prosperità che consuma risorse, ma non è più in grado di garantire benessere a tutti? Allora meglio lavorare solo quattro giorni alla settimana.
In Giappone, un giovane professore di filosofia è diventato una star grazie alla sua critica ecologica del capitalismo basata su Marx. Kohei Saito afferma che già 150 anni fa Marx aveva individuato i pericoli a cui è esposto il pianeta: ora è il momento di prendere sul serio le sue proposte e fermare la crescita, passando a una distribuzione più equa della ricchezza esistente.
Di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile, ma comunque basato sul mercato, ne circolano tante. Arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi, eppure hanno un tratto in comune: meno mercato, più stato e meno crescita. Salta all’occhio il fatto che dietro ci sono spesso delle donne. Un ordine mondiale più femminile non sarebbe male.
I. Perché ai millennial piace di nuovo Marx
La ricerca di una vita rispettosa del clima e libera dallo stress
Gli ultimi 30 anni sono stati fantastici, penserete. Tra il 1995 e il 2019 i redditi delle famiglie tedesche sono aumentati del 25 per cento. Anche quella dell’economia è stata una storia di crescita costante con qualche piccola interruzione. Nel complesso, in tutti i paesi industrializzati dell’Occidente si è andati sempre e solo avanti. Cifre e dati sembrano dimostrare che, a conti fatti, il capitalismo moderno funziona bene.
Ma allora perché non si sentono gli applausi? È soprattutto tra i giovani sotto i trent’anni che emergono emozioni completamente diverse: frustrazione, rassegnazione rabbia. E un ritrovato amore per le idee socialiste. Negli Stati Uniti il 49 per cento di chi ha tra i 18 e i 29 anni ha un’opinione positiva del socialismo. La deputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez, 32 anni, che si definisce una socialista democratica e vuole una tassa del 70 per cento sui redditi più alti, è una star che ha più di 20 milioni di follower sui social network. Secondo un sondaggio realizzato per “Der Spiegel” dall’istituto demoscopico Civey, quasi metà dei tedeschi ritiene che sia stato il capitalismo a causare la crisi climatica nel mondo.
Il britannico “Economist” ha scritto che «il socialismo sta tornando alla carica», perché fornisce critiche puntuali a tutto ciò che è andato storto nelle società occidentali. E non è poco quel che è andato storto, osserva Carla Reemtsma, 24 anni, portavoce di Fridays for Future in Germania.
«Nessun paese al mondo è riuscito ad aumentare il pil e allo stesso tempo ridurre il consumo di risorse naturali», dice Reemtsma. A lei e a molti suoi coetanei non stanno a cuore tanto le singole questioni politiche, quanto il quadro generale: «Vogliamo una trasformazione profonda del sistema, che renda possibile una vita migliore per tutti e non solo per pochi».
Quando le chiedono che cosa intenda dire con questo, Reemtsma aggiunge: «Noi come società dovremmo di nuovo occuparci delle cose in modo collettivo. Un esempio il traffico: invece di sovvenzionare l’acquisto di auto, lo stato dovrebbe incentivare il car sharing, potenziare le ferrovie e le piste ciclabili. Insomma, dovrebbe fare cose da cui tutti possano trarre beneficio». Secondo Reemtsma, un esempio positivo è il biglietto di 9 euro per la rete ferroviaria e per il trasporto locale che il governo tedesco ha istituito quest’anno durante i tre mesi estivi: pensato come misura sociale redistributiva, era una buona idea anche dal punto di vista ambientale.
Reemtsma studia economia delle risorse a Berlino e non crede ai principi della crescita e della massimizzazione dei profitti. Immagina «un’economia orientata al bene comune», sostenuta da una politica più attiva: «Quando affidiamo la tutela del clima al mercato, creiamo un problema sociale».
Reemtsma non condivide l’argomentazione degli imprenditori secondo cui gli alti costi necessari per una produzione più sostenibile metterebbero a repentaglio posti di lavoro: «Anche se realizzano profitti enormi, le case automobilistiche affidano le mansioni più semplici a lavoratori precari, che poi subiscono il dumping salariale». Che le aziende si preoccupino del benessere dei lavoratori, «ecco, io questa cosa non la vedo proprio».
Possiamo considerare tutto questo semplicemente idealismo giovanile o attivismo di sinistra? Glenn Hubbard, professore di economia finanziaria alla Columbia Business School e in passato capo dei consulenti economici del presidente degli Stati Uniti George W. Bush, si esprime in modo molto simile: «Per avere successo nel lungo periodo un sistema economico deve migliorare il tenore di vita del maggior numero di persone possibile. Non sembra che il capitalismo attuale abbia ampi margini per aumentare il benessere collettivo». Invece produce ricchezza per pochi.
Secondo il Deutsches Institut für Wirtschaftsforschung (DIW, istituto per la ricerca economica), il 10 per cento più ricco della popolazione tedesca possiede più di due terzi della ricchezza nazionale, mentre la metà più povera è costretta ad accontentarsi dell’1,3 per cento. Anche per quanto riguarda la crescita dei redditi il divario si allarga: tra il 1995 e il 2019 il potere d’acquisto del 10 per cento più povero dei tedeschi è aumentato appena del 5 per cento, mentre il 10 per cento più ricco ha registrato un aumento del 40 per cento.
A questo si aggiungono tendenze a lungo termine da cui soprattutto le generazioni più giovani ricavano l’impressione che, per quanti sforzi facciano, è ormai impossibile far parte di coloro che raggiungono il successo. L’esplosione dei prezzi degli affitti rende proibitiva la vita nelle città. I giovani rischiano di dover prolungare la loro carriera lavorativa e allo stesso tempo veder diminuire le pensioni. Secondo un sondaggio, per tre quarti dei tedeschi tra i 18 e i 32 anni la riduzione delle pensioni è un motivo di preoccupazione: perché lavorare tanto se alla fine ci si ritroverà con un pugno di mosche in mano? La promessa delle generazioni precedenti – migliorare la propria condizione e raggiungere il benessere – appare ormai irrealizzabile.
Negli Stati Uniti la situazione è ancor più drammatica, dice Ray Dalio. Per decenni la maggior parte dei redditi è rimasta praticamente ferma, mentre dal 1980, cioè dall’inizio dell’epoca neoliberista moderna, i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione sono quasi triplicati. Per risolvere il problema, Dalio ha una proposta: «Redistribuzione».
A 11.000 chilometri di distanza dal quartier generale di Dalio vicino a New York, Kohei Saito, seduto in un piccolo studio all’Università di Tokyo, ancora si stupisce di ciò che il suo libro ha scatenato tra i giovani giapponesi. Saito, 35 anni, si considera parte di una generazione «fortemente influenzata dallo shock della crisi economica e dell’incidente nucleare di Fukushima». Fin da quand’era studente, ha cercato di riflettere su questi due aspetti: l’ordine economico e la distruzione dell’ambiente. Ed è approdato a Karl Marx.
«In effetti Marx si è occupato molto più di quanto non si pensi delle conseguenze ambientali del capitalismo», osserva Saito, che a questo argomento, nel 2016, ha dedicato la sua tesi all’Università Humboldt di Berlino: Natura contro capitale. L’ecologia di Marx nella sua critica incompiuta del capitalismo.
La tesi ha suscitato un certo scalpore tra gli addetti ai lavori. Ma è stato ancora più stupefacente il fatto che alla fine del 2020 Saito ha scritto un libro su una nuova forma di ecosocialismo, interpretando la crisi climatica come «una manifestazione della produzione capitalista» in termini marxiani. Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalista senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato.
Intanto in Giappone il suo Capitale nell’antropocene ha venduto più di mezzo milione di copie, una cifra raggiunta di solito da libri come Harry Potter. Il suo libro sarà presto pubblicato in inglese e in tedesco. Da quando la tv pubblica NHK ha dedicato all’interpretazione di Marx data da Saito un documentario in quattro puntate, nelle librerie di Tokyo le opere del filosofo tedesco – incluso Il capitale in versione manga – hanno una popolarità sorprendente. Perfino il premier giapponese Fumio Kishida ora promuove un «aggiornamento del capitalismo a una versione più sostenibile».
Saito spiega il successo del suo libro con il fatto che in Giappone i suoi coetanei fanno da tempo i conti con l’instabilità economica e gli «eccessi della globalizzazione». Sono aperti all’idea di un new way of life (un nuovo modo di vivere). Tutte le misure neoliberiste che promuovono la crescita, dalla deregolamentazione ai tagli allo stato sociale, si sono lasciate alle spalle divisioni sociali e instabilità. «Tra le giovani generazioni molti si chiedono perché mai dovrebbero continuare così, impostando la loro vita in base al lavoro, al guadagno e al consumo», dice Saito.
La pandemia ha segnato una svolta: all’improvviso le abitudini sociali sono cambiate e molte persone, invece di andare in ufficio, sono rimaste a casa con la famiglia. L’appello di Saito per una cultura marxista della decrescita, con orari di lavoro ridotti e più attenzione a lavori meno orientati al profitto e con maggiore utilità sociale, come l’assistenza agli anziani e ai malati, ha centrato lo spirito dei tempi.
Ma davvero Marx, che ha scritto la sua critica del capitalismo 150 anni fa, quando ancora sferragliavano le macchine a vapore, è in grado di fornire risposte all’altezza dell’attuale crisi ambientale? Secondo Saito, le risposte del filosofo sono in ogni caso migliori di quelle dei politici contemporanei, che vendono come soluzione degli obiettivi di sostenibilità meno vincolanti. «Questo non è altro che il nuovo oppio per le masse. Le persone devono essere rassicurate».
II. Tutto il potere allo Stato
La fine del neoliberismo e come l’economista preferito del governo federale vuole costruire un’economia verde
Il quotidiano conservatore britannico “The Times” una volta ha definito Mariana Mazzucato «l’economista più temibile al mondo». Di certo non voleva essere un complimento: è ovvio che chi propone di spodestare i mercati e la finanza per mettere lo stato alla guida dell’economia si faccia dei nemici, tanto più se si tratta di una donna intelligente che sa quel che dice.
Mazzucato non si scompone. Anzi: essere preceduta da questa fama non è un problema, soprattutto per una persona che dialoga continuamente con capi di stato e di governo del calibro del presidente statunitense Joe Biden o del cancelliere tedesco Olaf Scholz.
Mazzucato non solo viaggia, attualmente sta facendo il giro del mondo. A dicembre è stata in Venezuela per una consulenza al presidente del paese sudamericano, poi ha partecipato a vari incontri della conferenza mondiale sul clima in Egitto, e infine è tornata per l’ennesima volta a Berlino. Di corsa è anche la conversazione che si fa con lei: veloce, serrata, avanti con le domande.
Italoamericana nata a Roma e cresciuta negli Stati Uniti, Mazzucato ha energie da vendere: così è diventata l’economista più influente del mondo. Tanti governi si rivolgono a lei perché li aiuti a stilare i green new deals, cioè i piani per ristrutturare in senso ecologico il sistema economico e industriale. L’SPD di Berlino ha incluso le sue idee nella sua campagna elettorale. Il ministro federale dell’Economia Robert Habeck ha regolari scambi d’opinione con lei.
Questo è a dir poco stupefacente. Negli ultimi decenni la maggior parte degli economisti e dei governi occidentali aveva le idee piuttosto chiare sulle gerarchie economiche mondiali: la rotta era decisa dal mercato. Quanto allo stato, era considerato un disturbo, e più restava fuori dai giochi, meglio era.
Mazzucato sostiene l’esatto contrario: da solo, il mercato non ha nessuna speranza di vincere le sfide del ventunesimo secolo, soprattutto quella della crisi climatica. Le aziende non hanno buona volontà, stimoli e visione d’insieme. «Lo stato deve indirizzare e imporre obiettivi di rilievo», dice Mazzucato, deve fissare degli obiettivi sociali e concentrarvi tutte le forze. Per arrivare a un’economia a emissioni zero bisogna cambiare l’intero sistema economico, «dal modo in cui costruiamo a ciò che mangiamo e a come ci muoviamo». Se è possibile, nel giro di un anno, far apparire dal nulla impianti di rigassificazione perché lo vuole il governo, perché non dovrebbe essere possibile fare lo stesso con una nuova industria dell'energia solare e con 10.000 nuove turbine eoliche?
Mazzucato ha 54 anni e da venticinque insegna economia, attualmente all’University College di Londra. Grazie ai suoi studi sull’innovazione ha vinto numerosi premi. Quando sentono il suo nome, molti economisti alzano gli occhi al cielo, magari citando la famosa frase di Milton Friedman, premio Nobel per l’economia: «I grandi progressi della civiltà non sono mai arrivati da un governo centrale». La citazione, però, è del 1962, e poi Mazzucato non ha in mente né un’economia pianificata di stampo socialista né una politica industriale in cui la gestione delle aziende è in mani ai funzionari ministeriali.
I suoi sono obiettivi ambiziosi: come lo fu la missione sulla Luna da realizzare in dieci anni decisi a suo tempo dal governo americano. Ma, per raggiungere traguardi di tale portata, bisogna innanzitutto liberarsi della vecchia narrazione secondo cui lo stato serve solo a correggere i fallimenti del mercato. Ancora oggi ci si comporta come se di fatto fosse impossibile imprimere uno scopo e una direzione al capitalismo.
Ma come si fa? «È semplice, – spiega Mazzucato, – non bisogna limitarsi a indirizzare cautamente aziende e settori industriali in una certa direzione, bisogna obbligarli». L’idea di incentivi come la tassa sull’anidride carbonica è buona, ma vuoi mettere l’obbligo per legge di usare esclusivamente cemento “verde”, magari compensato da aiuti economici all’industria? E poi i governi potrebbero vincolare gli aiuti di stato a una riduzione delle emissioni delle aziende, come ha fatto la Francia per i prestiti ad Air France durante la pandemia o per gli aiuti alla Renault.
Ma di misure simili ce ne sono troppo poche. Secondo Mazzucato la colpa è di un «grande errore nel disegno» del moderno shareholder capitalism (capitalismo azionario, basato sulla massimizzazione degli utili), che consente ai gruppi industriali di reinvestire i profitti non nell’innovazione ma nelle speculazioni e nel riacquisto di azioni proprie, a esclusivo vantaggio degli investitori. Mazzucato si agita visibilmente su questo argomento. Per questo anno, le sole società statunitensi hanno annunciato che investiranno circa un trilione di dollari in riacquisti di azioni invece di investirli in nuovi prodotti sostenibili. Per Mazzucato «è una follia».
Lei vorrebbe uno stato investitore che spinga le aziende a puntare su obiettivi di ampio respiro. E il progetto che il ministro tedesco dell’Economia Robert Habeck ha presentato all’inizio di dicembre sembra provenire direttamente dal manuale di Mazzucato. Da quest’anno lo stato siglerà con l’industria i cosiddetti «patti di tutela climatica»: per un periodo massimo di 15 anni rimborserà i costi extra sostenuti da chi, nonostante le spese maggiori, si convertirà a una produzione verde. La misura è pensata soprattutto per spingere l’industria dell’acciaio, quella chimica, quella del cemento e quella del vetro verso un modello sostenibile. Quando le chiediamo che ne pensa, Mazzucato annuisce soddisfatta: «La strada è questa». Anche nelle aziende che si sono a lungo opposte a un intervento pubblico lentamente viene meno il riflesso condizionato che imponeva di tenere a distanza lo stato: le sfide sono semplicemente troppo grandi per affrontarle da soli. Per realizzare una svolta ecologica, osserva per esempio Martina Merz, amministratrice delegata della ThyssenKrupp, sono «irrinunciabili gli strumenti di sostegno statali».
Sembra proprio che l’esperienza pluridecennale neoliberista sia arrivata al capolinea. Nei primi anni Ottanta tutti gli schieramenti politici condividevano l’idea che i mercati da soli potessero garantire la migliore gestione dell’economia. Negli Stati Uniti l’avanguardia ideologica del neoliberismo è stata incarnata dal presidente repubblicano Ronald Reagan, ma la deregolamentazione e la globalizzazione sono state portate avanti nel modo più radicale dal presidente democratico Bill Clinton, e in Germania dal cancelliere socialdemocratico Gerhard Schröder.
L’effetto diretto di decenni di mercati senza controllo è stata la crisi finanziaria del 2008, che ha segnato anche l’inizio della fine del neoliberismo. Gli enormi interventi statali che hanno salvato l’economia dal collasso «dovevano essere interpretati come segnali di un nuovo ordine che avrebbe sostituito il neoliberismo», spiega Tooze. E il colpo di grazia potrebbe essere stata la pandemia: ancora una volta, per impedire il peggio, sono dovuti intervenire i governi. «È impossibile non accorgersi di essere arrivati a un punto di svolta».
Ciò aprirebbe la strada a una politica di bilancio basata sugli obiettivi, come la definisce Mazzucato. A partire dagli anni Ottanta il pareggio di bilancio è stato un fine in sé per gli Stati Uniti e il Regno Unito, e ancora di più per la Germania, con il suo freno all’indebitamento. «Ora, però, Berlino ha stanziato 190 miliardi di euro per sostenere l’economia, mentre durante la pandemia gli Stati Uniti hanno speso cinquemila miliardi di dollari», racconta Mazzucato. «Perché i soldi escono fuori di colpo solo nelle emergenze? Mentre quando si tratta di questioni sociali importanti, come la sanità e l’ambiente si dice: è impossibile, bisogna tenere sotto controllo il debito pubblico».
III. Senza crescita si può?
Le aziende dicono addio al valore per gli azionisti
Parlare di crescita zero nel quartiere finanziario di Londra sembra un’eresia: qui ogni edificio ospita un fondo d’investimento, e per strada si affrettano indaffarati banchieri in gessato e cravatta. In una piovosa giornata inglese di novembre, Tim Jackson guarda questa scena con un sorriso stanco. Non crede molto nella necessità di individuare per forza un nemico, anche se lui stesso si presta bene a ricoprire questo ruolo.
Economista, filosofo, professore alla University of Surrey, più di dieci anni fa Jackson ha scritto Prosperità senza crescita (Edizioni Ambiente 2017), una pietra miliare nella critica moderna al capitalismo. In questo saggio descrive l’economia come un sistema che «per sua natura deve far affidamento sulla presunta voracità dei bisogni umani, nella costante attesa di una crescita continua dei consumi». Il capitalismo insinua che l’essere umano è inevitabilmente portato a desiderare sempre di più: più soldi, più proprietà e altro ancora. Di più, di più, di più.
In realtà sono tutte stupidaggini, dice Jackson. Solo gli economisti credevano che questo fosse l’unico modello possibile. «La buona notizia è che per ottenere la prosperità non serve alcun cambiamento radicale della natura umana». La cattiva notizia, invece, è che «il nostro modello economico è totalmente sbagliato».
Questi ragionamenti Jackson li aveva esposti al governo britannico già nel 2009. Alla domanda se davvero un paese moderno dovesse essere così asservito all’idea di una crescita costante, Jackson rispondeva di no. «Non la presero bene», racconta: il premier dell’epoca, il laburista Gordon Brown, affossò il suo studio.
Oggi però la questione è più attuale che mai: per evitare il collasso economico e la fine della prosperità è davvero necessaria un’espansione infinita in questo nostro mondo finito? A questa domanda l’economia classica generalmente rispondeva con un sì entusiasta. In assenza di crescita le aziende sono costrette a risparmiare licenziando e, di conseguenza, prima collassa il mercato del lavoro e poi i consumi. Nel migliore dei casi si approda alla stagnazione: gli standard di vita peggiorano, la ricchezza non aumenta. Nel peggiore dei casi parte una spirale di recessione permanente o di depressione. Insomma, rischi che nessun politico vorrebbe mai correre.
Solo che, se il pianeta nel frattempo continua a riscaldarsi a questo ritmo, non è chiaro per quanto tempo ancora la rinuncia alla crescita possa essere considerata una scelta volontaria. È proprio necessario che ogni anno ogni produttore di scarpe da ginnastica venda cinque milioni di paia in più? E che ogni anno ogni produttore medio di viti guadagni dieci milioni di euro in più? Ed è proprio necessario che il settore della vendita al dettaglio si abbandoni a un lamento collettivo ogni volta che a Natale il giro d’affari non cresce almeno del 3 per cento rispetto all’anno precedente?
Per Jackson e altri critici la risposta è chiara: non si tratta di “fatti economici concreti” ma di un “mito culturale della crescita”, costruito nel corso di quasi due secoli, che ha messo profonde radici nella psiche collettiva dei paesi industrializzati.
Non l’ha scalfito neanche il primo, rumoroso colpo di avvertimento, esploso cinquant’anni fa. Nel marzo 1972 uscì I limiti dello sviluppo, il primo ampio studio sugli effetti dell’espansione umana, commissionato dal Club di Roma, un’organizzazione senza scopo di lucro che dal 1968 si impegna per un futuro sostenibile. Per realizzarlo i ricercatori usarono nuovi modelli informatici che produssero un risultato chiarissimo: le risorse del pianeta non avrebbero consentito una crescita costante dell’economia e della popolazione oltre il 2100. Per l’essere umano e per l’ambiente si prospettavano conseguenze drammatiche. Le conclusioni della ricerca, sommersa dalle critiche, sono state rifiutate anche nei decenni successivi, nonostante le conferme date da nuovi calcoli.
Oggi, però, il fronte degli scettici si sta ammorbidendo. «In fondo le cose non dipendono dalle dimensioni complessive di un’economia nazionale», spiega il premio Nobel per l’economia Robert Solow. «Se la maggioranza di una popolazione decide di ridurre la sua impronta ecologica, consumando meno beni materiali e puntando di più su tempo libero e servizi, dal punto di vista economico non ci sono ostacoli». Tuttavia, avverte Solow, nel periodo di transizione bisognerebbe farsi carico delle conseguenze di questa decisione, a cominciare dall’aumento della disoccupazione e dalla contrazione dei redditi.
Per questo sono pochi gli economisti che vorrebbero azzerare la crescita. Piuttosto si pensa a rinunce più limitate, in particolare a una separazione della crescita buona da quella cattiva. Si potrebbe incentivare una crescita significativa nel settore delle rinnovabili, per esempio, e ridimensionare l’industria petrolifera. Oppure sostituire le acciaierie con start-up digitali.
Già si vedono i primi successi. Di recente in 30 paesi le emissioni di anidride carbonica sono diminuite mentre l’economia è cresciuta. Anche in Germania. Ma per salvare il pianeta non basta, dice Jackson. E allora perché non accettiamo il fatto che nei paesi industrializzati la crescita economica contribuisce solo in misura limitata alla qualità della vita?
Anche per ragioni geostrategiche, probabilmente: gli europei e gli statunitensi non vogliono stare a guardare mentre l’espansione della Cina e di altri regimi autoritari procede a gran velocità. D’altro canto, però, dal 2000 l’eurozona è cresciuta in media di poco più dell’1 per cento all’anno. «In Occidente la crescita sta per esaurirsi», dice Jackson. E questo dovrebbe bastare per cominciare a ragionare su altri sistemi possibili.
In effetti, un numero sempre maggiore di aziende cerca di trovare la propria strada in un’epoca in cui la crescita non è più l’obiettivo principale. In una dichiarazione congiunta di tre anni fa, le 200 maggiori aziende statunitensi hanno annunciato che in futuro non risponderanno più solo agli azionisti ma a «tutti gli stakeholder»: clienti, dipendenti e partner commerciali, insomma alla società nel suo complesso. Per il Business Roundtable, l’associazione imprenditoriale più potente del mondo, che comprende molti gruppi da Apple a Goldman Sachs, è stato un passo importante. Fino a quel momento le imprese pensavano di dover rispondere solo agli azionisti, fedeli alla famosa massima di Milton Friedman: «La responsabilità sociale delle imprese consiste nell’aumentare i profitti».
Bisogna aspettare per capire se si tratta solo di trovate pubblicitarie o se invece sono dichiarazioni da prendere sul serio. Non tutte le aziende adotteranno comportamenti sostenibili come quelli della Patagonia, colosso statunitense degli articoli sportivi, che reinveste tutti i profitti nella tutela dell’ambiente. Ma anche i piccoli passi sono utili: la sua concorrente Adidas, per esempio, dal 2024 produrrà scarpe e vestiti senza usare poliestere di nuova produzione, ma solo fibre sintetiche riciclate.
Un passo in più lo fa la svizzera Freitag, che ogni anno vende 400.000 tra borse e portafogli in 25 paesi: la cifra non dovrebbe aumentare più di tanto in futuro, non perché il mercato o il personale siano giunti ai loro limiti, ma semplicemente in quanto l’azienda ha deciso di accontentarsi.
Il motto che finora andava per la maggiore – “più in alto, più veloce, più lontano” – non è più «il nostro primo obiettivo», spiega Daniel Freitag, che ha fondato l’azienda trent’anni fa insieme al fratello Markus. I due vogliono che «tutti siano soddisfatti e vivano bene del proprio lavoro». Secondo i Freitag «il turbocapitalismo non riesce più a offrire le risposte giuste» e produce danni eccessivi: le cose possono funzionare anche a ritmo più lento, più equilibrato e «più sano per tutti».
Già negli anni Novanta, dopo i primi successi aziendali, i due fratelli stilarono un piano in cui parlavano di qualità e longevità, dell’introduzione dell’economia circolare. Da anni, da ben prima che i grandi gruppi commerciali e le multinazionali della moda ne facessero una strategia di marketing, i Freitag offrono la possibilità di rimandare indietro le borse usate per farle riparare a prezzo di costo. Il servizio è usato da migliaia di clienti ogni anno. Loro non ci guadagnano nulla, spiega Daniel Freitag. Secondo i due fratelli non è solo la crescita dei profitti a definire “il successo” di un imprenditore.
IV. Persone al posto del mercato
Proposte per una comunità più equa
A prima vista Eva von Redecker e Minouche Shafik non sembrano avere molto in comune. Anzi, in teoria dovrebbero essere agli antipodi. Redecker, tedesca, filosofa tedesca femminista con un debole per Marx, cresciuta in una fattoria biologica, è l’avanguardia intellettuale dei movimenti di protesta ed è convinta che ci sia uno stretto legame tra l’oppressione razziale e il dominio capitalista.
Shafik, economista pragmatica, baronessa, membro della Camera dei Lord britannica, è stata vicepresidente della Banca mondiale e ora dirige la London School of Economics, fucina di quadri capitalisti.
Ma forse una peculiarità di questi tempi di svolte epocali è proprio il fatto che da punti di partenza diversi si arrivi a conclusioni simili. «Oggi in molti paesi le persone sono deluse dal contratto sociale e dalla vita che garantisce, anche se la ricchezza è incredibilmente cresciuta negli ultimi 50 anni», spiega Shafik, l’economista che ha studiato a Oxford. «Il capitalismo distrugge la vita», dice Redecker, la filosofa che si è formata a Cambridge.
Entrambe credono che per una buona convivenza servano nuove regole e riforme pensate a partire dalle persone, non dal mercato. Sull’argomento Shafik ha scritto il libro Quello che ci unisce (Mondadori 2021), mentre Redecker ha pubblicato Revolution für das Leben. Philosophie der neuen Protestformen (Rivoluzione per la vita. Filosofia delle nuove forme di protesta).
Poi, certo, ognuna ha le sue ricette: Shafik, l’esperta di finanza, avanza proposte politiche concrete.
Redecker, la pioniera affilata come un rasoio, esprime idee più radicali e, da filosofa, si rifiuta di delineare come i possibili cambiamenti possano avvenire in concreto. A lei importa soprattutto mettere in discussione una certezza: che il capitalismo nella sua forma attuale possa ancora avere un futuro. Lo ritiene inseparabile da una precisa forma di proprietà che implica il diritto all’abuso: per secoli il signore feudale ha regnato sulla terra e su chi l’abitava. E se il dominio assoluto del feudalesimo è stato superato, lo sfruttamento si è concentrato altrove: la schiavitù dei neri o la svalutazione del lavoro femminile. Tutto è collegato e, proprio per questo, la trasformazione dev’essere simultanea: bisogna cambiare allo stesso tempo i rapporti di proprietà, le relazioni di genere e quello che Redecker chiama «esaurimento della natura».
In risposta a queste sfide, Redecker immagina un «socialismo per il ventunesimo secolo» che parta da Marx per andare oltre Marx, una specie di “comunità di chi condivide”, capace di liberarsi di una serie di problemi legati tra loro: troppo lavoro stancante, sfruttamento selvaggio delle risorse, dominio della proprietà. «Invece di vendere le merci potremmo condividerle», dice. «Potremmo prenderci cura di quanto ci è stato affidato invece di sottometterlo al nostro dominio».
Non è un caso, secondo Redecker, che oggi alla guida del movimento di protesta – da Fridays for future a Black Lives Matter, dalla Bielorussia del 2020 all’Iran – ci siano soprattutto donne: «Nella storia, per secoli le donne sono state intimamente legate alla gestione del quotidiano, al lavoro di cura, alle fondamenta della convivenza. Le donne partorivano i bambini, cioè fabbricavano la vita, mentre gli uomini fabbricavano le merci». Il lavoro delle donne seguiva i bisogni delle persone, non le esigenze del mercato. Forse è per questo che oggi le donne hanno più chiaro degli uomini che qui è in gioco la sopravvivenza dell’umanità.
Minouche Shafik, direttrice della London School of Economics, ha alcune idee concrete su come garantire non solo la sopravvivenza, ma anche la convivenza. Come molti, ritiene che la leva principale sia una diversa concentrazione dei flussi di denaro, solo che secondo lei bisogna garantirla attraverso un maggiore sviluppo dello stato sociale.
«Se si limita a redistribuire, lo stato ha già fallito», spiega. Lo stato deve «pre-distribuire» investendo molto di più nell’istruzione, nelle infrastrutture e in ogni possibile forma di pari opportunità. «In tutti i settori gli investimenti devono avvenire il prima possibile, soprattutto per chi è più svantaggiato. Tutto questo per favorire un’economia più produttiva». Per esempio, ogni persona potrebbe ricevere alla nascita un contributo statale di 50.000 euro da usare per l’istruzione nell’arco di tutta la vita. Oppure si potrebbe garantire «l’assistenza totale e a basso costo dei giovani», dalla scuola materna alla maturità. «I dati parlano chiaro: è lo strumento più importante per garantire pari opportunità. Vanno risolti anche gli squilibri nei sistemi fiscali che favoriscono il capitale e penalizzano il lavoro».
Tutto questo non è una novità, lo sa bene anche Shafik. Le grandi leve – imposte, pensioni, istruzione – influenzano il modo in cui viviamo e quindi la qualità della vita e del lavoro. eppure, secondo lei, nessuno ha il coraggio di metterci mano: «Nella maggior parte dei paesi industrializzati ci comportiamo come se il mondo non fosse cambiato».
Ecco perché è giunto il momento di imprimere una nuova direzione al modello capitalista nella sua interezza. «E probabilmente dev’essere un cambio di rotta radicale», dice Shafik.
Il che, ormai, sembra più una promessa che una minaccia.
Susanne Beyer, Simon Book, Thomas Schulz
(Testo tratto da “Der Spiegel”, n. 1, 30 dicembre 2022 nella traduzione data dalla rivista “Internazionale”, anno 30, n. 1495, 20/26 gennaio 2023, integrata e rivista sulla base dell’originale da Marco Bartalucci).
Inserito il 27/1/2023.
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La disperazione della borghesia non è una decrescita felice
di marxpedia.org
Pubblicato il 24 gennaio 2023
Questo articolo del settimanale tedesco “Der Spiegel”, che “Internazionale” ha tradotto questa settimana e a cui ha dedicato la copertina, mostra quanto i riformisti odino il socialismo al pari dei padroni. La tesi centrale dell’articolo è che è giunto il momento per i governi di ridistribuire la ricchezza perché il mercato non garantisce più lo sviluppo. Solo il ruolo dello stato può salvare il mercato. Tradotto: solo le tasse dei lavoratori potranno salvare ancora una volta i padroni e chiameremo questa politica “socialismo per il 21esimo secolo”. Il tema centrale sottotraccia è che sono necessarie riforme per prevenire la minaccia di una nuova rivoluzione socialista, dato che già negli Stati Uniti un giovane su due ne ha un’opinione positiva.
Quanta paura hanno i borghesi ed i riformisti. La macchina non risponde più ai comandi. Fiducia nella crescita non ve n’è più. Come se lo stato, fatto di rappresentanti borghesi, potesse chiedere ai padroni di smettere di essere tali per il nostro benessere e senza la costrizione di una rivoluzione! Se le direzioni del movimento operaio fossero coscienti, il capitalismo sarebbe già caduto. E invece mentre il pianeta muore si getta il fumo negli occhi della piccola conquista di cui accontentarsi.
Ecco qui un elenco di citazioni da questo articolo che vi faranno ben capire a quale livello di paura e depistaggio ideologico la sinistra riformista europea cerca di aggrapparsi per darsi una ragione di vita:
“Questa volta, però, abbiamo un’occasione reale di dar vita a un capitalismo più equo e sostenibile.”
“Di idee per un ordine economico più giusto e sostenibile, ma comunque basato sul mercato, ne circolano tante. Arrivano dagli schieramenti ideologici più diversi, eppure hanno un tratto in comune: meno mercato, più stato e meno crescita.”
“Negli Stati Uniti la situazione è ancora più drammatica, dice Dalio (uno degli investitori più ricchi del mondo, proprietario della Bridgewater Associates – ndr). Per decenni la maggior parte dei redditi è rimasta praticamente ferma, mentre dal 1980, cioè dall’inizio dell’epoca neoliberista moderna, i redditi dell’1 per cento più ricco della popolazione si sono quasi triplicati. Per risolvere il problema, Dalio propone «la redistribuzione».”
“Il collasso del pianeta potrà essere fermato solo da un sistema postcapitalista senza più crescita, in cui la produzione rallenta e la ricchezza è redistribuita in modo mirato.”
“Ancora oggi ci si comporta come se di fatto fosse impossibile imprimere uno scopo e una direzione al capitalismo. Ma come si fa? «È semplice – spiega Mazzuccato (economista statalista borghese – ndr), – non bisogna limitarsi a indirizzare cautamente aziende e settori industriali in una certa direzione, bisogna obbligarli». L’idea di incentivi come la tassa sull’anidride carbonica è buona, ma vuoi mettere l’obbligo per legge di usare esclusivamente cemento ‘verde’, magari compensato da aiuti economici all’industria?”
“Per realizzare una svolta ecologica, osserva per esempio Martina Merz, amministratrice delegata della ThyssenKrupp, sono «irrinunciabili gli strumenti di sostegno statali».”
“Ecco perché è arrivato il momento di imprimere una nuova direzione al modello capitalista nella sua interezza.”
E con questo non abbiamo altro da aggiungere se non di tornare a leggere davvero Marx e non questi intellettuali, seguaci della decrescita borghese e delle piccole riforme, ostili all’idea di rivoluzione socialista, di economia pianificata e di controllo operaio e territoriale.
Inserito il 27/1/2023.
🔴di Leandro Casini🔴
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“Der Spiegel”, la borghesia, Marx e noi
di Leandro Casini
Vorrei dire la mia sulla pubblicazione dell’articolo su Marx del settimanale tedesco “Der Spiegel”, anche dopo aver letto la critica che ne fa Marxpedia.
Ricordiamoci la sorpresa generale quando, nel duecentesimo anniversario della nascita di Karl Marx, nel 2018, “The Economist” pubblicò nelle sue pagine culturali il seguente appello: «Governanti del mondo: leggete Karl Marx!». Sottotitolo: «Nel suo bicentenario, la diagnosi di Marx sui difetti del capitalismo è sorprendentemente rilevante». E attualissima, aggiungerei.
Inizio da qui per dire che una parte della borghesia non ha mai disdegnato di approfondire la conoscenza di ciò che il filosofo di Treviri scriveva, perché da ciò che pensano gli avversari di classe si può imparare molto, anche per la propria strategia di lotta. Una lezione che a volte noi più o meno marxisti abbiamo colpevolmente dimenticato, magari facendoci le pulci a vicenda per dimostrare di essere più ortodosso o più eretico dell’altro, a seconda delle preferenze.
L’operazione dello “Spiegel” non è del tutto diversa da quella dell’“Economist”; anzi, con quella copertina strizza l’occhio a sinistra, fa un’operazione furba, anche dal punto di vista del marketing (uno come me, che non conosce il tedesco, non avrebbe mai comprato questa rivista senza quella copertina).
Comunque, basta con le forme, parliamo dei contenuti. In fondo è vero, lo “Spiegel” parte da Marx, da alcune sue concezioni di fondo sul capitalismo, che non hanno perso la loro validità anche oggi, per compiere un’operazione utile al salvataggio del sistema capitalistico stesso. Infatti, non a caso il lungo articolo si conclude con i consigli di Minouche Shafik, presentata come «economista pragmatica, baronessa, membro della Camera dei Lord britannica, è stata vicepresidente della Banca mondiale e ora dirige la London School of Economics, fucina di quadri capitalisti»; figuriamoci se da una persona con tale curriculum non possono venire «consigli pragmatici» e «idee politiche concrete». Per far cosa? Certo, per salvare il capitalismo. Il senso conclusivo è questo.
Esperti di finanza e grandi investitori si rendono conto che il sistema della crescita non regge più, che il mercato sempre più libero da vincoli sta facendo scoppiare contraddizioni tali da mettere in discussione l’esistenza dell’intero genere umano; allora si cerca di chiamare gli stati (e quindi i contribuenti, le classi medie e quelle inferiori) a salvare il sistema, a investire per tappare le falle e i buchi creatisi in questi decenni di neoliberismo sfrenato. E allora c’è chi parla di «redistribuzione» (il magnate della finanza Dalio), chi di «pre-distribuzione», di investimenti in formazione e pari opportunità (ancora Minouche Shafik), ma, dice la baronessa, «gli investimenti per chi è più svantaggiato» servono «per favorire un’economia più produttiva»: quindi, tutto sommato, con più produttività si generano ancora più profitti per chi di quell’economia detiene le quote di maggioranza, cioè quel 10% di popolazione che ha il 70% della ricchezza.
Fin qui, come si vede, la mia lettura concorda in linea di massima con ciò che scrive Marxpedia. L’articolo però non è a senso unico, ha una certa ampiezza d’analisi, dà conto di posizioni e sfumature che per noi marxisti non possono non risultare interessanti.
È vero, c’è sempre l’eterna questione di chi «parte da Marx per andare oltre Marx» (Eva von Redecker), e non so più quante volte l’abbiamo sentita, come se tutto il resto del panorama di intellettuali marxisti fosse attardato a riflettere sul sistema produttivo basato sulle macchine a vapore e sugli opifici tessili della fumosa e grigia Manchester di cui a suo tempo scrisse Friedrich Engels.
Ma c’è anche altro. Per esempio si parla del fatto che tra i giovani statunitensi le idee socialiste cominciano a non far più paura e anzi a far presa; oppure che in Giappone, grazie a un giovane filosofo laureatosi a Berlino con una tesi su “Marx e i problemi ecologici”, il Capitale ora si diffonde anche in versione manga. E che il giovane filosofo stesso, Kohei Saito, con il suo libro Capitale nell’antropocene ha raggiunto vette editoriali degne di Harry Potter.
Buono a sapersi, no? Io prima non lo sapevo, ora tenterò di informarmi meglio.
E forse, o soprattutto, dall’articolo emerge un’altra cosa positiva: la consapevolezza diffusa che il liberismo non solo non è utile, ma è dannoso. Non ci potevamo aspettare che dicessero anche che il capitalismo va abbattuto, o anche solo superato, ma è pur sempre un sintomo di disagio nel loro campo (se poi ancora esista o meno un nostro campo è un altro problema, grande come una casa). Forse segno che tra i “liberal-democratici” si ricomincia (era già successo in passato) a discutere su come riformare il capitalismo, perché ormai dovrebbero rendersi conto dei costi sociali insostenibili per sempre più larghe fasce di popolazione. E di conseguenza, se si rimette in movimento il tutto, chissà che non si creino sempre maggiori spazi per movimenti critici e radicali, o anche per chi, come noi (se esistiamo, ripeto), legge o rilegge Marx non per pura smania di citazione, ma per dare un senso alla propria vita di cittadino che lotta per l'uguaglianza e per la giustizia sociale ed economica nel mondo intero.
🔴 Leandro Casini
Inserito il 29/1/2023.
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