a cura di Leandro Casini
Vladimir Vysockij (o Vysotskij o, con traslitterazione inglese, Vysotsky) fu un artista sovietico a tutto tondo. Fu attore cinematografico e teatrale, mattatore insuperabile del Teatro Taganka di Mosca. Fu inoltre poeta e pioniere della canzone d’autore in Unione Sovietica, autore di pezzi spesso scomodi per il conformismo culturale sovietico del ventennio brežneviano: il fenomeno del “samizdat” (autopubblicazione clandestina) che caratterizzava le opere dei dissidenti sovietici si verificava anche con le registrazioni delle canzoni di Vysockij, che passavano di mano in mano e venivano duplicate e si diffondevano per l’immenso paese. Eppure, a differenza dei dissidenti, Vysockij godeva di un regime di tolleranza inaudita per quei tempi, grazie alla popolarità di cui godeva tra le masse popolari, specie come attore di serie televisive di successo. Era tollerato ma certo non incentivato: i suoi concerti riscuotevano un successo di pubblico inaudito, ma solo quattro furono gli album di sue canzoni che le case discografiche ufficiali incisero fino all’epoca della “perestrojka”, quando – lui già scomparso – la sua figura prese piede anche in veste ufficiale.
In molte delle sue poesie, che poi puntualmente musicava, l’ironia e il sarcasmo erano i tratti dominanti. Ironizzare era un modo per sferzare abitudini e difetti dell’uomo sovietico, sottomesso a delle regole spesso illogiche e banali. Altre canzoni erano dedicate alla guerra, il cui ricordo univa le famiglie sovietiche nell’eroismo della vittoria sul nazifascismo e nel dolore per le enormi perdite umane che quella vittoria costò.
A questo artista dedichiamo uno spazio in questa sezione “Vento dell’Est”, sezione dedicata alla cultura che arriva da Paesi in cui a un certo punto della storia il socialismo ha vinto e, pur con storture e drammi, governato. “Pianeta Vysockij” ospiterà materiali già pubblicati o anche scritti originali, video delle sue canzoni e delle sue sporadiche interviste. Il tutto naturalmente tradotto in italiano.
Marina Vlady e Vladimir Vysockij.
Fonte della foto: https://www.tert.am/en/news/2015/10/12/visocki/1814041
di Gian Piero Piretto
Mosca 1980. Mentre nella capitale sovietica si svolgevano le Olimpiadi, l’intero Paese fu scosso da una notizia che circolò quasi di nascosto: la morte del popolare attore e cantautore Vladimir Vysockij (1938-1980), voce critica della società.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
di Gian Piero Piretto
La definirono la “rivoluzione del magnetofono”. Quello a nastri nei casi più evoluti, a cassette. Non erano in molti a possederne uno ma, soprattutto nelle grandi città, l’oggetto divenne di culto e anche l’industria sovietica, dal 1969, iniziò a produrne su larga scala. Grazie alla disponibilità di registratori a bobine negli anni Sessanta era emerso un ramo specifico della cultura samizdat (“pubblicazioni in proprio”): il magnitizdat. I nastri magnetici avevano sostituito i dischi detti “musica sulle ossa” fatti in casa, che i giovani sovietici realizzavano artigianalmente incidendo brani non conformati sulle lastre dei raggi X. I nastri erano stati utilizzati per riprodurre sia i dischi occidentali sia la musica degli interpreti russi “non raccomandati”: Vysockij, Okudžava, Galič e altri poeti e musicisti. Negli anni Ottanta srebbe toccato ai primi rockettari sovietici. Negli anni Settanta non c’era taxi moscovita, caffè, mensa, cucina privata in cui da un registratore a cassette non risuonasse la voce roca e arrabbia ta di Vysockij o quella suadente e malinconica di Okudžava. La popolarità di Vladimir Vysockij, cantautore e attore del celebrato teatro non conformista Taganka di Mosca, aveva raggiunto ogni angolo del Paese grazie a quel dispositivo. Il regime non apprezzava la sua opera, troppo distante dai canoni, troppo “libera” nelle forme e nei contenuti. I suoi dischi non erano incisi, e tantomeno stampati i testi delle sue poesie-canzoni, ma ogni strato sociale, ogni generazione, ogni categoria professionale lo conosceva a memoria, lo ascoltava e lo cantava. Non fu mai dissidente nel senso stretto del termine, ma al contempo rifiutò la retorica propagandistica ufficiale e le sue tematiche furono sempre improntate alla sincerità, all’effettualità dell’esistenza non ammantata da vuoti quanto verbosi stereotipi. Fu un grande fenomeno di popolarità pansovietica, responsabile di una svolta significativa non soltanto nella storia della canzone d’autore, ma anche in quella della sensibilità, mentalità, cultura nazionale. Ricorda un contemporaneo un momento della vita di Vysockij:
A Naberežnye Čelny, dove era in corso la costruzione di un enorme stabilimento automobilistico, la troupe del teatro Taganka era arrivata in battello. C’era circa un chilometro dal molo all’hotel. Era stato un chilometro di finestre spalancate di case appena costruite e ostelli. Su ogni davanzale suonava un registratore. La voce di Vysockij, molte voci di Vysockij, si intrecciavano sotto il profondo cielo di luglio. (Nadein, 1987)
La figura del cantautore si inserì a pieno diritto nella tradizione dei poeti “non raccomandati” di cui la Russia aveva avuto notevole esperienza, da Puškin in poi. Il regista cinematografico Grigorij Čuchraj in un suo ricordo insistette sul punto della sincerità, della verità che Vysockij onorava con le sue canzoni. «Ci sono artisti prediletti: era dei nostri, era necessario a milioni di persone nel nostro Paese. Perché metteva l’anima in quello che faceva, tanta verità, tanta buona rabbia. Buona collera. Non era maligno, era cattivo. Era intransigente con parassiti, codardi, mascalzoni. E ha amato il popolo, lo ha servito, e quindi il cuore del nostro popolo ha risposto così a questa grave perdita» (Georgiev, 1989, p. 96). La sua biografia contribuì ad annoverarlo nel rango dei poeti maledetti, erede di Majakovskij, di Esenin, anche per la vita sregolata che conduceva, l’alcolismo e le droghe, gli amori disordinati e trasgressivi: avrebbe sposato in ultime nozze, macchiandosi di sospetta esterofilia, l’attrice francese di origini russe Marina Vladimirovna Poljakova, meglio nota col nome d’arte di Marina Vlady, membro del Politbjuro del Partito comunista francese, che gli sarebbe stata al fianco per dodici anni fino alla morte. Avvenuta, ufficialmente, per arresto cardiaco il 25 luglio del 1980. «La causa esatta della morte di Vysockij è ancora controversa, visto che l’autopsia non fu eseguita. La versione più comune: l’alcol, accoppiato a sostanze sedative, ha esercitato un effetto fatale sull’organismo indebolito del poeta che nel sonno è stato vittima di asfissia causata dalla retrazione della lingua» (Sputnikov, 2020, p. 73).
Mosca in quei giorni era calda, blindata e risplendente: a causa dei Giochi olimpici che vi si svolgevano, pur boicottati da diverse nazioni occidentali in segno di protesta contro la guerra in Afghanistan che era in corso (parteciparono solo ottantuno Paesi su centoquarantaquattro); la città era stata ripulita di tutti i soggetti che avrebbero potuto nuocere all’immagine di perfezione e armonia che l’Unione Sovietica intendeva esportare. Ciò che Milan Kundera aveva definito la «negazione assoluta della merda in senso tanto letterale quanto figurato» (1984, p. 254), confutata dal Kitsch totalitario, frettolosamente nascosta sotto il tappeto per dare a chi ci voleva credere l’illusione che non esistesse. «I bambini erano stati mandati in campeggio e nelle dacie dei sobborghi. I dipendenti di molte imprese spediti in vacanza perché non intralciassero gli organi di sicurezza dello Stato e di polizia, responsabili dell’ordine nelle strade» (Vas’kin, 2018, p. 66). Alcolizzati, perdigiorno, prostitute, trafficanti, zingari erano stati spediti al famigerato “chilometro 101”, confino politico ai tempi di Stalin, trasformatosi poi in domicilio coatto per figure indesiderabili: cittadine di provincia che si trovassero a quella distanza di convenzionale sicurezza dai maggiori centri abitati del Paese. Ciò aveva creato intorno alla capitale e ad altre grandi città una cintura con uno specifico contingente di criminalità spicciola, un “ghetto socialista”, per così dire. La rimozione dei cosiddetti antisociali che potevano gettare un’ombra sull’impeccabile sistema socialista era stata particolarmente accurata alla vigilia di grandi eventi internazionali come la celebrazione dell’800° anniversario di Mosca nel 1947, il Festival della gioventù del 1957 e, ovviamente, le Olimpiadi estive del 1980. In quella Mosca ripulita e artificiosamente inappuntabile, dove i negozi erano stati riforniti di un’insolita quantità di prodotti, Volodja Vysockij compì il suo ultimo dispetto al regime: morì in pieni festeggiamenti olimpici. Uno schiaffo alle misure perbeniste e ipocrite. Una specie di inconsapevole sberleffo all’orsetto Miša, simbolo dei Giochi, che imperversava col suo sorriso stereotipato in ogni dove. Gli eventi di lutto di massa sono molto inopportuni sullo sfondo di una grandiosa manifestazione sportiva. Inoltre, Vysockij era stato ucciso da una malattia che in URSS semplicemente non poteva esistere. Come si poteva morire di tossicodipendenza in una Mosca perfettamente immacolata in ogni senso del termine, e davanti a numerosi ospiti internazionali?
«Poche ore dopo [la sepoltura] è uscita Večërka [affettuoso diminutivo per Večernjaja Moskva, la testata più “sbarazzina” dell’URSS] con un trafiletto. Grazie a Večërka, è stata l’unica… Un trafiletto può sembrare modesto, solo poche righe: “Con profondo rammarico… artista del teatro Taganka…”. Beh, è vero. Il trafiletto non è uno spazio per le emozioni. È un documento» (Nadein, 1987). Fu effettivamente l’unica comunicazione ufficiale, pubblicata a funerali avvenuti con un comunicato stringato ed essenziale, ma comunque significativo. La notizia, diffusa in precedenza in lingua russa dalle stazioni radio di Paesi stranieri, come in molti altri casi precedenti, passò di bocca in bocca e già il giorno successivo alla scomparsa un folto gruppo di persone si radunò sotto le finestre della casa in cui Vysockij abitava. La telefonata internazionale fatta alla moglie di Vysockij a Parigi per comunicarle la notizia era stata, come da protocollo, ascoltata da telefoniste e organi di controllo che immediatamente fecero circolare l’ultima nuova. La camera ardente fu istituita al teatro Taganka. Il regista Jurij Ljubimov non accettò imposizioni dall’alto e comunicò che sarebbe stata aperta al pubblico e che proprio là si sarebbe tenuta la cerimonia di commiato civile. Poliziotti e vigili erano tutti stati distaccati al villaggio olimpico e nelle zone delicate per la presenza di delegazioni straniere. Anche il sistema di controllo fu colto alla sprovvista.
Mosca per un giorno mise da parte le Olimpiadi. La cantante pop idolo di quegli anni, Alla Pugačëva, che il 28 luglio si esibì al centro stampa dei Giochi olimpici, all’inizio del concerto propose di onorare la memoria di Vysockij con un minuto di silenzio e iniziò la sua esibizione con il brano Beda (Sciagura) che l’artista aveva composto per la moglie Marina. «Persino i cittadini più perspicaci del Paese rimasero leggermente sconcertati dalla manifestazione di amore popolare che si era riversato su piazza Taganskaja, […] attraverso il fiume Jauza e oltre, per cinque chilometri lungo l’argine. Non c’era dubbio che il modesto vecchio edificio del teatro, dove si stava svolgendo la cerimonia d’addio, avrebbe potuto accogliere solo una piccola parte delle persone in lutto. Ma la gente restava là in piedi» (ibidem). Quando alle più di centomila persone convenute sulla piazza del teatro (secondo i dati ufficiali della polizia) fu chiaro che non ci sarebbero state speranze di essere ammesse alla camera ardente, mazzi di fiori cominciarono a passare di mano in mano, al di sopra delle teste, perché arrivassero al feretro dentro il teatro. Alcuni recitavano ad alta voce i versi del poeta che in molti trascrivevano su quaderni. Poche sono le documentazioni cinematografiche ufficiali. Macchine da presa e pellicole erano state tutte precettate per le Olimpiadi. Tutte le riprese pervenute sono amatoriali, in perfetta sintonia con lo spirito del defunto che le istituzioni non avevano mai accettato e di cui, da parte sua, non aveva mai cercato i favori. Commentò il regista del teatro Taganka, Jurij Ljubimov: «Sono tre giorni che la gente sta in fila, giorno e notte, per salutarlo, per sostare di fronte al suo ritratto, disporre fiori, aprire ombrelli per proteggere i fiori dal sole in modo che non appassiscano. Abbiamo fatto poco per proteggerlo durante la sua vita, ma, a quanto pare, questa è l’amara tradizione della poesia russa» (Georgiev, 1989, p. 95). La Russia aveva storicamente “dissipato” i propri poeti, secondo una ben nota definizione di Roman Jakobson (1931), e Vysockij era tra questi. Un filmato1, costituito dal montaggio di svariate sequenze, con gli stessi momenti ripresi da diversi operatori, conferma le testimonianze scritte: grande spiegamento di forze dell’ordine a piedi e a cavallo, sottratte alle Olimpiadi, seicento družinniki, volontari dell’associazione giovanile del partito, per gestire e arginare l’afflusso di pedoni e garantire la circolazione del traffico automobilistico, gente ovunque, sui tetti dei chioschi, su cassette di legno, sulle piattaforme promozionali dei Giochi in corso, sui piedistalli dei cartelloni propagandistici, sui muretti, a ogni possibile finestra.
A fianco dell’ingresso una marea disordinata e spontanea di fiori con biglietti-dedica lasciati dalle persone tra una chitarra e i programmi degli spettacoli del Taganka che lo avevano visto protagonista. All’interno del teatro altri fiori accumulati attorno al feretro a mano a mano che arrivavano dalla piazza. Un cartello annunciava che lo spettacolo Amleto era stato sospeso e sarebbe stato sostituito da una serata in onore di Vladimir Vysockij. Quando la bara, rivestita di tessuto plissettato bianco, fu portata a spalle fuori dal teatro il pubblico ammutolì. Sfilarono le corone, poi caricate su un apposito furgone. Il defunto teneva una rosa appassita tra le mani. La gente continuò a gettare fiori in direzione del feretro a costituire un tappeto fiorito per il suo passaggio e poi un frenetico battimano salutò la partenza dell’autobus con la bara.
Allontanatosi il bus, il silenzio dell’intera piazza fu improvvisamente riempito dalle canzoni di Vysockij: centinaia di coloro che erano convenuti avevano con sé registratori portatili, e altri magnetofoni stavano sui davanzali delle finestre spalancate delle case. La “rivoluzione del magnetofono” segnò una pagina nuova della sua storia replicando con nuove valenze l’episodio riportato in apertura di capitolo. La registrazione, sostiene Maurizio Ferraris, «ha il potere di differire e rinviare, di fissare e posporre, rendendo solido e permanente ciò che appare invece volatile e mutevole» (citato in Sisto, 2018, p. 28). Questa circostanza riportò Vysockij in vita attraverso la moltiplicazione della sua voce registrata. Si creò disordine: i cavalli, spaventati dalla potente onda sonora, saltarono sulla folla, qualcuno pensò che fosse stato dato l’ordine di caricare e si udirono grida di “Fascisti!”. Alcune persone presero a fotografare il caos che si era creato e i poliziotti, su ordine dei superiori, sequestrarono loro le macchine fotografiche. L’autobus funebre fu scortato per alcuni chilometri da gente assiepata sui bordi delle strade che continuava a lanciare fiori, poi procedette spedito verso il cimitero dove la folla che lo attendeva era minore.
In modo del tutto casuale, ma grottescamente contrastante con la situazione, risulta a posteriori il cartellone propagandistico che sovrasta la folla assiepata per l’addio a Vysockij. Il riferimento allo slogan lanciato da Brežnev al XXV Congresso del partito nel 1976, “Il nostro modello di vita sovietico”, non potrebbe risultare più assurdo, artificioso e fuori luogo, ma il suo essere sepolto da quella folla, pur casualmente scortato da un poliziotto, ne esalta la portata simbolica. Il concetto-cliché brežneviano implicava «atmosfera di genuino collettivismo e cameratismo, solidarietà e amicizia di tutte le nazioni e i popoli del Paese, che si rafforzano di giorno in giorno, salute morale che ci rende forti e risoluti: tali sono gli aspetti luminosi del nostro modello di vita, come lo sono le grandi conquiste del socialismo che sono diventate parte della nostra realtà in carne e ossa» (Brežnev, 1976, p. 113). Paradossale che a incarnare quei principi, al di fuori di ogni roboante retorica partitica, a legare tra loro genti delle repubbliche sovietiche, a personificare cameratismo e solidarietà in quel giorno e su quella piazza fosse invece la morte di un personaggio che più lontano dai vuoti sermoni politici non poteva essere stato. Raccontò Marina Vlady, la moglie, nelle proprie memorie:
Come in tutte le grandi città, a Mosca non seppelliscono più nei cimiteri centrali. Solo in casi eccezionali. In generale si deve uscire dalla città e andare molto lontano. Là le autorità volevano che seppellissero mio marito. […] Andammo in intera delegazione dal direttore del cimitero Vagan’kovskoe. Si trovava a pochi passi da casa nostra. Arrivò Iosif Kobzon2. Non appena il direttore lo fece entrare in ufficio, quello gli disse: “Abbiamo bisogno di un posto per Vysockij” – e gli porse un pacco di biglietti da cento rubli, una fortuna. Con voce rotta dai singhiozzi, il direttore del cimitero ribatté: “Come ha potuto pensare che avrei preso dei soldi? Io sono un suo grande ammiratore! Ho già preparato il posto migliore, proprio nel mezzo del piazzale, all’ingresso, in modo che la gente possa venire qui per rendergli omaggio”. (Vladi, 1989, p. 167)
Per la cronaca, il direttore avrebbe perso il posto, ma la folla di persone che in ogni occasione anniversaria tuttora confluisce alla tomba per inondarla di fiori, cantare le sue canzoni e organizzare dei veri e propri happening dimostrò di aver apprezzato l’investimento e il sacrificio. Sei anni dopo la morte fu eretto un monumento retorico e altisonante, causa di tante discordie. La versione finale fu scelta dai genitori, contro il parere della moglie che, nelle proprie memorie, senza mezzi termini, non perse occasione di manifestare il proprio disappunto, soprattutto nei confronti del padre di Vladimir che mai aveva apprezzato l’attività del figlio:
Questo ubriacone, questo antisovietico, questo apostata, quest’uomo senza talento, questo mascalzone, questo nemico, questo pazzo, questo pessimo figlio, questo padre disgustoso, questo degenerato che se la fa con una straniera è suo figlio, Semën Vladimirovič. […] Lei avrebbe voluto che il suo lavoro non uscisse dai ranghi solitamente accettati. Non è mai stato veramente interessato all’arte di suo figlio. Non hai mai capito la sua lotta perché non corrispondeva alla sua idea di vita. (Ibidem, p. 171)
Come dopo ogni scomparsa si dovettero fare i conti con le eredità, familiare, artistica, sociale. I contrasti fra la moglie, i figli avuti da un precedente legame e i genitori del defunto riemersero. C’erano debiti da saldare. C’era un mito che non accennava a estinguersi, anzi, si rinfocolava assumendo nuove connotazioni. Scrisse uno degli amici più cari di Volodja: «È iniziata la competizione accanto alla bara. Chi parlerà per primo… chi scriverà per primo, chi si giustificherà per primo. Da quel momento avrebbe definito qualsiasi intervento, tranne il proprio, dal palcoscenico o sulla stampa, “gara accanto alla bara”» (Ваkin, 2011, pp. 19-20). I molteplici tentativi di organizzare serate o pubblicazioni commemorative si scontrarono con l’opposizione del regime.
Il rifiuto ufficiale del nome e dell’opera di Vysockij dall’ufficialità del Paese che era stato caratteristico dei suoi anni in vita continuò per molto tempo ancora. Solo tra molte difficoltà si riusciva a pubblicare articoli su di lui, le serate commemorative erano sistematicamente cancellate; i libri delle sue poesie iniziarono ad apparire, ma come conseguenza di edizioni straniere piene di imprecisioni ed errori; programmi e spettacoli televisivi erano stati banditi o sottoposti a severa censura, il teatro Taganka non poté introdurre nel repertorio lo spettacolo Vladimir Vysockij dedicato alla sua vita e al suo lavoro. (Bakin, 2011, p. 6)
Soltanto l’anno successivo alla sua scomparsa Ljubimov, tra mille contrarietà, riuscì a mettere in scena lo spettacolo che preparava da mesi. Il braccio di ferro con le autorità si concluse con la proibizione di replicare la serata. Così recitava il rapporto del KGB:
Il regista Ljubimov ha espresso disaccordo con le indicazioni fornite per la realizzazione dello spettacolo. Non ha ascoltato l’opinione degli organi superiori. La serata si è svolta il 25 luglio di quest’anno, alle 19.00, nei locali del teatro Taganka. Vi hanno partecipato circa seicento spettatori invitati. Lo stesso giorno, la tomba di V. Vysockij al cimitero Vagan’kovskoe è stata visitata da quattordici-quindicimila persone, per lo più giovani, oltre a un centinaio di lavoratori del teatro Taganka. (Ibidem, pp. 58-59)
Il mito Vysockij non si sarebbe mai arenato. Nella Russia ormai postsovietica del Duemila uno dei figli, Nikita, realizzò un racconto cinematografico, poi diventato film, in cui riprendeva elementi della biografia del padre e aggiungeva carne al fuoco manipolando a favore di camera particolari che, all’epoca, non avevano riscosso particolare attenzione. «Tale, per esempio, è il mitologema “Vysockij-proprietario di una Mercedes”. Nel film Vysockij. Grazie per essere vivo (Vysockij. Spasibo, čto živoj), quest’auto appare solo nelle scene girate a Mosca, ma piuttosto attivamente mitizza il suo proprietario come persona che ama la guida veloce (e talvolta anche in grado di infrangere le regole del traffico) e come un felice proprietario di un’auto di marca straniera tedesca» (Afanas’ev, 2012, p. 69). “Solo Brežnev a Mosca possiede una Mercedes” recitava uno dei luoghi comuni del periodo. Falso, tra l’altro, perché pur nella Mosca sovietica le auto di quella marca erano più d’una. La perestrojka avrebbe liberato dall’anatema il nome e la produzione dell’artista. Molti furono i mezzucci per sfruttare il nome e la fama post mortem del poeta. Alcuni dignitosi e degni di attenzione, altri su cui la storia ha già steso un provvidenziale oblio. Un vero evento per gli amanti della poesia fu la pubblicazione di una raccolta di poesie di Vladimir Vysockij, Nerv (Nervo), a cura del poeta Robert Roždestvenskij (1981). La tiratura di cinquantacinquemila copie andò esaurita all’istante e un anno dopo apparve una seconda edizione: altre cinquantamila copie. Oggi è diventata una rarità bibliografica. Ne possedevo un esemplare acquisito, lo ammetto, non senza un senso di colpa. Lo comprai al negozio Berëzka, quello riservato agli stranieri in cui si pagava soltanto in valuta pregiata e al quale l’accesso ai cittadini sovietici era vietato. Fu una delle poche occasioni in cui approfittai del privilegio dato dal mio passaporto e dai dollari che avevo in tasca. Ho fatto ammenda, anni fa, regalandolo a uno studente italiano che amava Vysockij e ci scrisse la tesi di laurea.
Gian Piero Piretto
(Tratto da: Gian Piero Piretto, L’ultimo spettacolo. I funerali sovietici che hanno fatto storia, Milano, Raffaello Cortina Editore, 2023, pp. 175-187).
Note
1 https://youtu.be/CHkLCevX2bQ.
2 Famosissimo cantautore dell’era sovietica inserito in tutti i circuiti ufficiali.
Inserito il 03/09/2024.
Vladimir Vysockij (1938-1980).
Fonte della foto: https://mspru.org/uploads/posts/2021-07/1625410672_vysockij3.jpg
di Dmitrij Karalis
Lo scrittore pietroburghese Dmitrij Karalis ricorda la volta in cui, da giovane giornalista freelance e scrittore in erba, era riuscito a intervistare il celebre attore, poeta e cantautore Vladimir Vysockij (1938-1980), voce critica della società sovietica, tollerato dalle autorità per la sua enorme popolarità nel cinema e al Teatro Taganka di Mosca. L’artista era allora in visita a Leningrado, la capitale del Nord, e il giovane cronista locale non si fece sfuggire l’occasione.
Lo scarso apprezzamento del potere per le idee anticonformiste dell’artista venne ulteriormente dimostrato dal destino infausto dell’intervista, che non trovò nessuno disposto a pubblicarla, come racconta lo stesso Karalis, che a distanza di anni ne ha ricostruito genesi, svolgimento e conseguenze grazie al suo taccuino.
Clicca per aprire
↓ ↓ ↓
Un’intervista perduta a Vladimir Vysockij
di Dmitrij Karalis
Un giorno di ottobre del 1974 per i corridoi dell’istituto si sparse una voce: quella sera Vladimir Vysockij si sarebbe esibito al Palazzo della Cultura dei marinai.
Trasalii per l’agitazione e subito mi precipitai a chiamare un mio amico del comitato del Komsomol. Biglietti esauriti, tutti distribuiti tra le varie facoltà.
Al secondo piano del Palazzo della Cultura dei marinai c’era l’ufficio del corrispondente del giornale «Vodnyj transport» [«Il trasporto acquatico»]: avevo già collaborato con loro per qualche tempo. Corsi a perdifiato nell’ufficio.
– Le va bene se provo a intervistare Vysockij? Però bisogna mettersi d’accordo con la guardia perché stasera mi faccia passare.
Il responsabile della redazione, un brav’uomo cui la vita aveva giocato brutti scherzi, tirò fuori lentamente da sotto il tavolo una bottiglia di Porto, ne versò il contenuto in un bicchiere, bevve fino in fondo, fece una smorfia e alzò le spalle:
– Beh, provaci. Ma che diavolo c’entra lui con noi? Il nostro è un giornale marittimo. E lui? Non si capisce quel che è. E comunque…
– Conosce per caso il suo patronimico?
– Certo. Vladimir Vladimirovič! Come Majakovskij!
Due signorine della redazione del giornale «Morjak Baltiki» [«Il marinaio del Baltico»] entrarono in ufficio tacchettando provocatoriamente. Subito si accesero una sigaretta, pigolarono qualcosa e scoppiarono a ridere.
– Oggi Vysockij si esibisce da noi! – disse loro con tono solenne il responsabile dell’ufficio, e si versò di nuovo da bere. – Kalaris vuole intervistarlo.
– Karalis – corressi.
– E io che ho detto? Kanaris – il giornalista bevve un sorso e morse una fetta di salame.
Le signorine mi guardarono interessate: – Che bello!
Anche a loro venne l’idea di intervistare il cantante-attore!
– A che ora?
Vedendo in loro delle concorrenti importune, alzai le spalle: – Non ne ho idea.
Mi misi d’accordo col guardiano: dovevo stare in silenzio al tornello dell’ingresso di servizio e aspettare il cantante. Nell’attesa feci mente locale sulle domande da porre e cominciai a preoccuparmi.
Quello era il tempo di Vysockij. I nastri delle sue canzoni risuonavano in ogni registratore. Camminavi per strada e sentivi dalla finestra aperta:
Un po’ più lenti, cavalli miei,
un po’ più lenti!
Ti fermavi, colpito dagli accordi penetranti e dall’opportunità del suggerimento, ed entravi in una birreria. E cos’altro potevi fare dopo parole così singhiozzanti? Sederti alla scrivania e calcolare febbrilmente la durata media del servizio di una nave di classe «fiume-mare» prima della sua ristrutturazione completa? Vai in birreria con un rublo e lì il registratore emetteva con allegra energia quella voce rauca:
Dove sono i tuoi diciassett’anni?
Sul Bol’šoj Karetnyj1!
E dov’è la tua pistola nera?
Sul Bol’šoj Karetnyj!
E dopo il terzo bicchiere di birra iniziavi a pentirti di essere diventato un ingegnere, e non un bandito romantico con una pistola nera…
Qui bisogna ricordare che cos’erano per i giovani le birrerie a quei tempi.
Erano oasi! Il posto migliore per riunioni, appuntamenti e conversazioni. Scuola di vita. Teatro. Luppolo leggero abbinato a una buona compagnia. Per tre rubli potevi comprarti dieci bicchieri di birra, un antipasto di pesce con pane tostato e ci rientrava anche una rissa. Oppure un’amicizia. Studenti e studentesse saltavano le lezioni stando nei bar, venivano anche ragazzi sempliciotti delle fabbriche e ricercatori con gli occhiali. Viaggiatori d’affari dalla faccia arrossata sedevano tracannando avidamente birra, spolpavano con le mani orate e semplici voble e tagliavano con cura con i coltelli pesci dai nomi stravaganti: nelma, verdone, austromerluzzo, pesce ghiaccio… Storie stravaganti, indovinelli sulle scatole dei fiammiferi, braccio di ferro, facili promesse di matrimonio o di divorzio…
– Che si può comprare da mangiare da voi a Omsk?
– Caschi male! Sottaceti in ogni negozio! Puoi comprare frutta e bacche al mercato già alle dieci del mattino. Come dice Vysockij! «I miei amici non hanno giubbotti di lusso, e non si staccano dalla famiglia. Bevono schifezze per risparmiare, anche al mattino, ma se le pagano da sé!».
– Sì, ha ragione! Conosce la vita che facciamo!
Le sue canzoni avevano dato origine a leggende su Vysockij. Si diceva, ad esempio, che sotto Stalin era stato in prigione e che quando fu rilasciato vagò per la tajga con delle squadre di geologi, estrasse carbone a Sachalin, beveva, faceva risse di continuo, giocava a carte, era stato camionista e poi gli proposero di diventare un attore, per cui fu un po’ riverniciato e gli insegnarono le buone maniere. Ai giovani piaceva che fosse un uomo che conosceva la vita, coraggioso e onesto. Non canticchiava sottovoce, non aveva la voce nasale, ma diceva la cruda verità sulle nostre rozze vite con roca voce maschile. Era uno di noi! Dicevano anche che aveva incantato la francese Marina Vlady e che era persino riuscito a sposarla. Ma questa sembrava ovviamente un’invenzione. Anche se… chi lo sa…
Ed eccomi qui. Ottobre 1974. Con taccuino e penna aspetto Vladimir Vysockij all’ingresso di servizio del Palazzo della Cultura dei marinai. A quel tempo non esistevano in natura eleganti registratori vocali delle dimensioni di due dita piegate. Il registratore domestico più piccolo, il “Romantik”, pesava circa cinque chili e non entrava nemmeno nella grande valigetta di un professore.
Sono preoccupato. Temo di vedere un uomo selvaggio dalla barba incolta: con un maglione bruciacchiato, papirosa2 in bocca, una bottiglia di vodka e una chitarra sciupata appesa al petto. E se non dovessi piacergli e mi manda via? Lui è fatto così, può farlo. Il guardiano è tranquillo: non gli piace la voce roca di Vysockij, preferisce Lemešev e Edit P’echa.
La porta si apre e dalla strada entrano due uomini: uno alto, con una cesta di capelli neri, e uno più basso, pulito e senza barba, in un elegante impermeabile con il colletto rialzato. Tiene la chitarra sulla spalla come una mazza. Vysockij! Spinge con sicurezza la barra del tornello, entrambi passano oltre il guardiano e sento una voce rauca: – Ti immagini! Ho recitato due atti senza interruzione! Due atti senza pausa!
Si allontanano per il corridoio. Corro per superarli e mi inchino:
– Vladimir Vladimirovič, sono un corrispondente freelance del giornale «Vodnyj transport»…
– Mi chiamo Vladimir Semënovič! – mi corregge Vysockij ad alta voce.
– Oh, scusi… Vladimir Semënovič, è possibile intervistarla per il nostro giornale?
– È possibile. Venga da me dopo il concerto. – Si rivolge al suo compagno e continua a raccontare con fervore: – E quel brav’uomo non mi disse neanche “grazie”! Sorrise dolcemente e allargò le braccia! Che tipo?…
Camminavano lungo il corridoio dondolando le spalle e io li seguivo, inalando un strano odore di acqua di Colonia; avevo realizzato che la promessa di Vysockij era il mio lasciapassare per il concerto, e non potevo non approfittarne…
Dietro le quinte, dove mi ero infiltrato, un pompiere o un amministratore avrebbero potuto scacciarmi da un momento all’altro, ma scendere nella sala gremita di studenti era rischioso: come avrei fatto a tornare dopo il concerto? Inoltre non si vedevano posti liberi: la gente era seduta sui gradini, sui termosifoni, persino sul pavimento…
Passavano importanti esponenti dell’amministrazione, io avevo già pronte le mie credenziali di corrispondente non ufficiale delle «Izvestija» e del «Vodny Transport», ma nessuno mi si avvicinò né mi disse niente: tutti aspettavano che Vysockij uscisse. Da dietro le quinte un settore della sala con le prime file era chiaramente visibile: lì stavano installando silenziosamente numerosi registratori portatili.
Un uomo in giacca si avvicinò al microfono, alzò la mano chiedendo silenzio e fece un discorso un po’ enigmatico: – È nostro ospite è l’artista del Teatro Taganka Vladimir Vysockij con il suo collega Ivan Dychovichnyj; parleranno di come vivono i lavoratori di scena, di quali compiti il teatro si prefigge nell’educazione patriottica della gioventù, e poi si esibiranno con alcuni brani musicali…
Fissavo Vysockij, che stava sistemando la chitarra e si preparava a entrare in scena. Bello! Una camicia lilla con spalline e bottoni gialli, jeans firmati, stivali di pelle dalla punta stretta tipo Beatles. Acconciatura: capelli su capelli. Un bel ragazzo. Niente che si avvicinasse a un ubriacone, a uno sfaccendato o a un camionista. Ma perché chiacchierano invano e mettono in giro così tante voci?!…
Vysockij salì sul palco, si inchinò di fronte al pubblico che scoppiò in un applauso, e fece un giochetto con i microfoni. Senza fare nessun discorso sui compiti del teatro nella società contemporanea, annunciò la prima canzone, si schiarì leggermente la voce e cominciò a cantare.
Era la canzone dei marinai del brigantino pirata Eščë ne večer [Non è ancor sera]:
Per quattro anni la nostra nave corsara ha perlustrato il mare,
Il nostro vessillo non si è sbiadito con le battaglie e le tempeste.
Abbiamo imparato a rammendare le vele
E a tappare le falle coi nostri corpi.
…………………
Ma il capitano ci disse calmo:
“Non è ancor sera, non è ancor sera!”
Era difficile ascoltare da dietro le quinte: i suoni dal vivo e quelli riflessi si confondevano, ma potevo vedere da vicino come le vene sul collo di Vysockij si gonfiavano e vedevo la punta lucente della sua scarpa che batteva dolcemente il ritmo. Finita la canzone, fece un gesto imperioso con le mani per fermare gli applausi e, dopo aver detto poche parole, iniziò la successiva. Vysockij non cantò nulla di proibito o di sovversivo.
Finì abbastanza alla svelta la propria esibizione canora e, quando dal pubblico cominciarono ad levarsi le richieste di altre canzoni di cui si citavano i titoli, disse qualcosa di questo tipo:
– Cari compagni! Io non faccio bis perché preparo un repertorio a parte per ogni esibizione. Grazie per la vostra ospitalità! Ora parlerà il mio amico e collega Ivan Dychovichnyj.
Questi subito comparve con la sua chitarra.
Vysockij scese dal palco dritto verso di me. Gocce di sudore gli brillavano sulla fronte. I capelli erano ora un po’ spettinati.
– Andiamo! – fece l’occhiolino. – Parliamo un po’!
Una studentessa dagli occhi neri, Tanja, volò da noi con una costosa Zenit e una scatola di flash:
– Posso farle una foto? Vengo da un circolo studentesco di fotografia…
– Sì, sì, Vladimir ehm… Semënovič, sarebbe carino avere una sua foto per l’intervista…
Vysockij si bloccò con la chitarra in mano e sorrise. Un clic, ancora un clic. Vysockij cambiò posizione. Per scherzo prese la chitarra di lato, la prese per il collo, come se fosse una grande bottiglia, fece una specie di inchino.
Lo snello Dychovichnyj dai capelli neri stava già cantando, con voce dolce, una specie di romanza. Le prime file della sala cominciavano a svuotarsi…
Camminammo velocemente lungo il corridoio semicircolare, Vysockij spense con la mano le porte dei camerini degli artisti cercando un posto in cui poter parlare. Chiuso. Chiuso. Aperto! Entrammo in una stanza con un arredo da ufficio, Vysockij posò la chitarra in un angolo, si sedette di traverso sul tavolo della cancelleria e tirò fuori un pacchetto di papirosy Stoličnye, rare a quei tempi. Se ne accese una con un bell’accendino. Buttò fuori il fumo con piacere. Aveva la camicia leggermente bagnata.
– Avanti con le domande!
Tanja fece capolino dalla porta.
– Posso?
– Venga – disse ironicamente Vysockij – e chiuda la porta a chiave, altrimenti arriverà qualcun altro.
C’era una chiave con una targhetta che sporgeva dalla serratura. Feci entrare Tanja e la girai.
La nostra scomparsa dal corridoio era stata così rapida che nessuno aveva avuto nemmeno il tempo di battere ciglio. Mi rallegrai: almeno mezz’ora da solo con Vysockij!
– Cosa voleva chiedermi? – Vysockij fumava avidamente, espirando fumo dalle narici.
Le signore del «Morjak Baltiki» correvano lungo il corridoio scalpicciando sui tacchi.
– Devono essere qui da qualche parte! – La maniglia della porta girò. – Chiusa! Dove saranno andati? Saranno usciti?
Avevo delle domande scritte sul taccuino, ma la prima mi venne dal concerto appena sentito:
– Vladimir Semënovič, lei ha iniziato il suo concerto con una canzone sul mare. Perché? Ha navigato? Ha prestato servizio in marina?
Vysockij rispose che il mare ha una sua drammaturgia particolare. Nelle difficoltà si vede subito quanto vale una persona. Ed è per questo che le canzoni sul mare sono facili da scrivere. Disse che amava il mare ma non era mai stato un marinaio… Aveva molti amici marinai: gli avevano raccontato varie storie, inclusa quella sull’equipaggio della nostra nave mercantile che era finito sotto il fuoco americano in Vietnam. Ed era contento che la sua canzone con le parole «Ma il capitano ci disse calmo: “Non è ancor sera, non è ancor sera!”» fosse stata cantata dall’equipaggio della nave in quella difficile circostanza…
– Quante canzoni ha scritto in totale?
– Non le ho mai contate, ma credo che saranno circa quattrocento.
– Le canzoni le vengono facili?
– A volte è facile: stai camminando per strada e la canzone esplode da sola. A volte è dannatamente difficile. Puoi rompere rabbiosamente le matite per una settimana, ma la canzone continua a non funzionare… Vengono fuori in vari modi.
– Chi è il suo scrittore preferito?
– Dostoevskij.
Domandai delle canzoni sullo sport: come erano nate? Che sport praticava?
Cos’altro avresti potuto chiedere se avessi avuto solo due ore per prepararti per l’intervista e conoscessi Vysockij solo dalle sua canzoni e da due o tre film visti, tra cui Služili dva tovarišča [Due compagni in servizio militare]. Domande molto intelligenti e penetranti?…
Vysockij disse che in gioventù amava la boxe. Praticava la ginnastica. Tuttora si manteneva in forma: non se ne può fare a meno se si lavora sul palco. Se volevo poteva anche fare un numero ginnico sul tavolo…
– Che cos’è più importante per lei: il teatro o la canzone? Si sente più un attore o un cantante?
– Sono un attore, – disse sicuro Vysockij, – non mi sono mai considerato un cantante nel vero senso della parola. Non ho la sfacciataggine né la voglia di salire sul palco e cantare le canzoni degli altri. Ciò che canto è un mio atto teatrale. È una cosa mia dall’inizio alla fine. Sono un attore…
– Per favore, può raccontare ai lettori del nostro giornale qualcosa sulla sua famiglia. Proviene per caso da una famiglia di teatro? È un’attività per così dire ereditaria?
Facendo questa sottile domanda, speravo ingenuamente di avvicinarmi alla vita personale di Vysockij e di scoprire qualcosa su Marina Vlady. Che astuto, vero? Se non uno squalo con la penna, sicuramente ero almeno un luccio.
– Se seguissi la linea ereditaria porterei i gradi – rispose semplicemente Vysockij. – Mio padre era un militare.
– Capisco – belai, e cominciai ad affrontare delicatamente l’argomento da un’altra parte: – Quindi nella sua famiglia lei è l’unico attore… non c’è nessun altro?
Vysockij si aprì in un sorriso:
– Perché meni il can per l’aia, ragazzo?! Vuoi chiedermi di Marina Vlady?
– In generale, vorrei sapere… Scusi, forse sono solo pettegolezzi…
– Non sono pettegolezzi, siamo marito e moglie!
– Ho capito. Ancora una volta mi dispiace. Io, lo sa…
– Non c’è bisogno di scusarsi, – Vysockij alzò allegramente le mani, – una domanda è solo una domanda. Me lo chiedono cinque volte al giorno, e ognuno a suo modo!
– Beh… – Sentivo che stavo arrossendo. – Recentemente è uscito un suo disco con i brani Utrennjaja gimnastika [La ginnastica mattutina], Čërnoe zoloto [Oro nero], My vraščaem zemlju [Rivoltiamo il mondo]… Si tratta di un compromesso con le autorità per far autorizzare il disco oppure evita deliberatamente gli argomenti più spinosi?
Vysockij si accigliò, cercò un posto dove gettare il mozzicone e Tanja svuotò la scatola dei fiammiferi e gliela offrì come posacenere. Vysockij annuì in segno di gratitudine. Si sedette sul tavolo, scosse la gamba e non si affrettò a rispondere alla domanda. Tirò fuori dal pacchetto un’altra sigaretta. D’impulso l’accese, fece un tiro e strizzò gli occhi verso la finestra. Aprì la grande finestra governativa. Ammiccò ancora strizzando gli occhi: prima verso Tanja, poi rivolto a me…
– Vedete che succede, ragazzi… – Ci guardò come se fossimo amici ai quali era costretto a raccontare una brutta notizia: – Il fatto è che viviamo nell’atemporalità…
– Cosa significa? – chiese Tanja a bassa voce.
Avrei potuto fare anch’io questa domanda. Mi sembrava che fosse la prima volta che sentivo un’espressione simile.
Non proverò a citare Vysockij: non ho avuto il tempo di scriverlo e non puoi scrivere molto quando una persona ti guarda negli occhi. Ecco la risposta di Vysockij, per quanto ricordo:
– L’atemporalità è, diciamo, un tempo senza tempo, quando non accade nulla. Dopo il Ventesimo Congresso del partito sono iniziati dei cambiamenti, è stato smascherato il culto della personalità, nella società c’era odore di primavera, la gente sentiva almeno una parte della verità su ciò che stava accadendo nel paese, mentre ora tutto è coperto da una gelida cappa di indifferenza, le persone non si sentono persone, tutto viene deciso senza di loro… L’atemporalità è l’atemporalità…
Vysockij guardò la chitarra nell’angolo, scosse la cenere e alzò il dito in modo vagamente solenne:
– E se riesco a pubblicare un disco con Utrennjaja gimnastika presso la casa discografica Melodija va già bene! Sono persino felice. Io so una cosa: una persona stanca tornerà a casa dal lavoro, metterà su il mio disco e la sua vita quella sera diventerà un po’ meno pesante… Avanti con la prossima domanda!
– Immagino che abbia viaggiato molto per il paese… – Vysockij annuì in segno di approvazione. – Ha visto molte cose diverse… La vita l’ha proiettata…
– Eh! – Vysockij sussultò e scosse la testa con disapprovazione. – Non si può dir questo. È una vita come un’altra! Mi è andata bene. Ho studiato all’istituto edile ma Dio mi ha salvato da questa professione utile alla gente e mi ha mandato direttamente allo studio teatrale! Un normale ragazzo di Mosca!
– Ma una tale conoscenza della vita, tali immagini nelle sue canzoni… Da dove vengono?
Vysockij cominciò a parlare della Mosca del dopoguerra, degli invalidi senza gambe sui carretti, delle kommunalki3 in cui lui stesso era cresciuto, dei teppisti da cortile, delle colombaie, delle monete finlandesi in tasca, dei berretti da sei pezzi... Un breve ma appassionato monologo. Non scrissi niente! L’ho poi ricostruito a casa, a memoria.
– La vita è ovunque! Alcuni la vedono, altri non vogliono vederla! Oppure non possono! – Si accese un’altra sigaretta e guardò l’orologio.
Le mie domande intelligenti (“Da bambino quale era la sua aspirazione per il futuro?”, “Le qualità che apprezza di più in una persona?”, ecc.) stavano per finire. Vysockij sembrò tirare un sospiro di sollievo. Gli chiesi un autografo su un taccuino. «Ciao!» scrisse Vysockij e firmò il retro delle mie domande. Non ebbi il coraggio di chiedere di fare una foto con lui. Tanja aveva scattato molte foto, ma senza invadenza.
Quando Vysockij, presa la chitarra, se ne andò, lei scosse i mozziconi di sigaretta accartocciati dalla scatola di fiammiferi e li mise in una piccola borsa, come ricordo. Ridacchiai per l’ingenuità della ragazza.
Uscimmo insieme. Era buio. Alla fermata del tram c’era una folla di persone. Cadeva una pioggia fredda. Dentro di me ero felice ma allo stesso tempo ansioso per la conversazione con Vysockij. Ebbene, chi eravamo noi per lui? Persone a caso. E lui parlava con noi da pari a pari, con rispetto. E quella frase: «Viviamo nell’atemporalità…».
– Me lo immaginavo diverso – disse Tanja.
– Peggiore?
– Solo diverso. Pensavo fosse un attore, ma è una persona. Non mi piacciono gli attori.
– Anch’io me lo immaginavo diverso. Stamperai delle foto per l’intervista?
Tanja disse che le avrebbe sviluppate e le avrebbe portate al dipartimento. Viveva in una casa dello studente in piazza Staček, era venuta a studiare a Leningrado da Taman’.
Tanja di Taman’ aveva scattato per me una quindicina di fotografie, tutte di ottima qualità. Naturalmente, a quel tempo, in bianco e nero: Vysockij in tutta la sua gloria virile, in cui scherza e mostra un’astuzia calcolata…
Alcune le ho regalate, le restanti me le hanno rubate gli amici venuti a trovarmi nella mia stanza da scapolo sulla prospettiva Bol’šoj. Pensavo che avrei sempre ritrovato questa Tanja del circolo fotografico e avrei chiesto altre stampe, ma ecco, Tanja si era poi laureata ed era tornata a casa… Ehi, Taman’! Rispondi, Tanečka! Forse ce le hai ancora?
… Con quell’intervista in seguito tutto è andato storto. Al «Vodnyj transport» lo stesso giovane che mi aveva dato il patronimico errato di Vysockij lesse i due fogli di carta dattiloscritti e grugnì incredulo: – Come fa a vivere con Marina Vlady? Per corrispondenza o cosa?
Alzai le spalle:
– Non lo so. È quello che ha detto, e io l’ho scritto. La pubblicherai? Vedi, lì parla bene dei marinai…
– No, non va bene per il nostro giornale, non parla di argomenti che trattiamo noi. Mettila in una busta e non mostrarla a nessuno!
Al «Sovetskij vodnik» [«Il trasportatore fluviale sovietico»], giornale ufficiale di grande tiratura, promisero che ci avrebbero pensato. Ci pensarono qualche giorno e mi convocarono:
– Il comitato del partito è contrario.
– Perché?
In gran segreto dissero: – Vedi, alcune cose che canta sono senza capo né coda, e noi diventeremmo suoi complici… – Era chiaro dagli occhi che mentivano.
– Ma in questo caso si fa informazione – dissi io. – C’è stato un incontro creativo con gli artisti del Teatro Taganka, e poi Vladimir Vysockij ha risposto alle domande del nostro corrispondente… Non c’è una parola sul concerto.
– No, no, no… Non funzionerà. Vysockij non è la figura che fa per noi.
Chiamai poi Lev Sidorovskij al quotidiano «Smena» [«Cambiamento» o anche «Nuova generazione»]: aveva pubblicato alcuni miei racconti umoristici e lui stesso aveva intervistato artisti e varie celebrità.
– Lev Isaevič, ho intervistato Vladimir Vysockij, forse il suo giornale potrebbe essere interessato.
– No, no… – risponde a monosillabi, ma in un certo senso emozionato. – Non sarà possibile.
– E perché?
– No, no, grazie.
– Un’intervista fresca, delle fotografie meravigliose… Si tratta Vladimir Vysockij! Quello che canta!
La risposta fu qualcosa di incomprensibile, come se provasse disagio a parlare.
– Forse lei stesso l’ha incontrato e ha scritto del materiale su di lui?
– No, no. Sì, sì. Le auguro il meglio! Arrivederci!
Lo lessero attentamente, ma anche alla rivista «Avrora» [«Aurora»] si scoraggiarono per quel materiale: – No, questo non è un eroe per la nostra gioventù!…
Le due pagine dattiloscritte dell’intervista passarono per le mani dei miei amici e alla fine andarono perdute.
Tutto ciò che restava era un taccuino con domande e risposte e l’autografo di Vysockij. (Un paio di anni fa ho consegnato quel quaderno con la copertina beige, insieme ai miei diari, agli archivi della Casa Puškin – Istituto di letteratura russa.)
Poi, qualche anno dopo la morte di Vysockij, cominciarono a chiamarmi dalle varie redazioni:
– Avevi fatto una meravigliosa intervista a Vladimir Vysockij, ora vorremmo pubblicarla.
– Ora è tardi.
– In che senso?
– In tutti i sensi. Ora ogni addetto al guardaroba che gli ha consegnato un cappotto si sforza di rilasciare la propria intervista: “Era un ragazzo di mondo!”. E chi aveva bevuto un bicchiere con Vysockij ora appare in TV con la formuletta “Avevamo stretto una forte amicizia!”. Che ne provava fastidio ora si ritiene suo amico. Chi lo aveva attaccato dice che lo amava come un fratello. È disgustoso. Non voglio. Inoltre, l’intervista è andata perduta. Ma è difficile ripristinarla dal blocco note. Grazie…
E mi torna alla mente la triste frase di Vysockij: «Viviamo nell’atemporalità…».
Mi chiedo come Vysockij chiamerebbe il nostro tempo. Cosa canterebbe Vladimir Vysockij adesso?
Dmitrij Karalis
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Dmitrij Karalis, Poterjannoe interv'ju (Vladimir Vysockij), 25 luglio 2023: https://mspru.org/pulicistika/21056-poterjannoe-intervju-vladimir-vysockij.html visitato il 23 agosto 2023; la ricostruzione di Karalis è stata ripubblicata, con alcuni tagli, dalla «Literaturnaja gazeta», n. 36, 13-19 settembre 2023: https://lgz.ru/article/poteryannoe-intervyu/).
Note
1 Il Bol’šoj Karetnyj pereulok era la via di Mosca in cui Vysockij aveva vissuto da giovane con il padre e la matrigna.
2 Sigaretta russa e sovietica contenente tabacco a ridotto contenuto di nicotina; senza filtro, ha un cannello cartaceo che viene schiacciato con le dita e la cui lunghezza fa in modo che si possa fumare senza togliersi i guanti. Diffusasi nella seconda metà del XIX secolo, dominò in Unione Sovietica fino agli anni Settanta, alla fine dei quali cominciò ad essere soppiantata dalle sigarette col filtro.
3 Appartamento in cui due o più famiglie occupano una stanza ciascuna, utilizzando in comune gli spazi relativi ai servizi di cucina, bagno, lavanderia, ecc.
#vysockij #vysotsky #vysotskij
Inserito il 23/09/2023.
La canzone d’autore – In questa intervista del 1975 a un giornalista tedesco occidentale (non proprio un’aquila, a giudicare dalla prima domanda che gli pone) Viysockij parla delle sue canzoni, dell’importanza che esse hanno nel suo sentirsi creatore nel campo artistico. L’incontro si svolge a Peredelkino, il cosiddetto “villaggio degli scrittori”, situato nei dintorni di Mosca, composto in prevalenza di dacie che all’epoca sovietica venivano assegnate dallo Stato agli scrittori, ai poeti, agli artisti. Dal punto di vista artistico, interessante la “canzoncina” sulla metempsicosi, la trasmigrazione delle anime, la reincarnazione, che presenta all’inizio: la definisce uno «scherzo». Lo scherzo, la burlesca e l'invettiva, che cita nella sua intervista, rappresentano per Vysockij i generi di composizione musicale attraverso i quali può esprimere le sue idee, il suo “credo”. In questa ultima fase della sua vita il teatro e la canzone d’autore non sono più per lui due mondi paralleli, ma dice esplicitamente che è proprio la musica ciò a cui vuole dedicarsi con maggior impegno.
Come iniziò… – Vladimir Vysockij ricorda i primi anni in cui componeva canzoni per condividere pensieri ed emozioni con una ristretta compagnia di amici, non pensando al successo che avrebbe riscosso in futuro.
Vysotskij, la censura, le critiche – Da un’intervista concessa nel 1979 al corrispondente della RAI da Mosca Demetrio Volcic.
Io non amo – Io non amo (Я не люблю) è una canzone del 1969. In essa l’autore esprime la parte negativa del suo “credo”, ciò che lui più di tutto detesta.
La caccia ai lupi – La caccia ai lupi (Охота на волков) è una canzone scritta intorno al 1970.
Le canzoni sulla guerra - Fosse comuni – Vladimir Vysockij parla delle sue canzoni sulla guerra in questa intervista del 1974 alla televisione jugoslava. Esegue poi la sua prima canzone scritta per un film intitolata Fosse comuni (Братские могилы). Nel filmato abbiamo montato anche la scena del film del 1966 del regista bielorusso Viktor Turov in cui viene eseguita la canzone. Il film, intitolato Io vengo dall’infanzia (o, letteralmente, Mi ha generato l’infanzia, in russo Я родом из детства), vide la partecipazione di Vladimir Vysockij non solo come autore dei brani, ma anche come attore, nel ruolo del tenente dei carristi Volodja. Nel film Vysockij canta personalmente due brani, ma non Fosse comuni, canzone che viene interpretata da Mark Bernes.