«La polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani […] di sopprimere l’alienazione umana «nel pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mondo e non di cambiarlo. Soltanto, per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economico-sociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica. Per il marxista, la forza condizionatrice della natura sull’uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di prologo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futuro) a mero oggetto di attività umana; l’«uomo storico» metterebbe sempre più in ombra, e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il Leopardi, la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido e combattivo».
Sebastiano Timpanaro (Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi)
Presentiamo un estratto dell’Introduzione al volume Il Verde e il Rosso. Scritti militanti, 1966-2000 (Roma, Odradek edizioni, 2001) in cui lo storico Luigi Cortesi traccia un profilo biografico politico-intellettuale di Sebastiano Timpanaro, spesso snobbato dall’intelligencija nostrana, ma che, secondo noi, occupa di diritto un posto d’onore nell’elaborazione teorica del marxismo italiano. Se non altro, per i suoi tentativi – anche ricorrendo al pensiero filosofico di Giacomo Leopardi – di far deragliare il dibattito interno al movimento marxista italiano dai binari che lo portavano a sfociare in direzioni idealistiche e reinserirlo nel filone del materialismo tracciato a suo tempo da Engels e da Lenin.
L.C.
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[…]
Materialismo come “priorità della natura”
La questione prima e fondamentale riguarda la formazione del pensiero di Timpanaro, che a partire da una humus familiare di alta cultura, antifascista, atea ma non materialistica1, si agganciò da un lato al marxismo e dall’altro, complementarmente, al materialismo e al “pessimismo agonistico” di Giacomo Leopardi2. Si trattava di una complementarità che, mentre non chiedeva al Leopardi una compiuta teoria della prassi umana, un’economia politica, una strategia rivoluzionaria, si serviva della sua influenza per presentare alla tradizione marxista, e specialmente a un marxismo ‘ortodosso’ verso il quale Timpanaro nutrì sempre una severa insofferenza – quella che potremmo chiamare ‘l’obiezione biologica’, o, meglio ancora, ‘naturale’.
Nel ben noto saggio del 1966 Considerazioni sul materialismo, che suscitò dubbi e discussioni ma subì il silenzio degli accademici dell’ortodossia3 – e che apre la nostra raccolta così come aperse una nuova stagione dell’impegno politico intellettuale dello studioso, egli scriveva:
“Il marxista si mette in una posizione scientificamente e politicamente debole se, dopo aver respinto gli argomenti idealistici tendenti a dimostrare che l’unica realtà è lo spirito e che i fatti culturali non hanno alcuna dipendenza dalla struttura economica, prende poi a prestito i medesimi argomenti per negare la dipendenza dell’uomo dalla natura”4.
Dove è evidente anche l’aspetto, biograficamente importante, dei rapporti con la cultura paterna e familiare e dello snodo del proprio itinerario mentale. E cioè: a che rifiutare lo Spirito assoluto e l’indipendenza della cultura dal modo determinato della produzione, se poi si negano la consistenza cronologicamente primaria e gli aspetti ancora attuali dell’uomo naturale, se si trascura l’“uomo in generale”?
“La polemica storicistica contro l’‘uomo in generale’ – egli continuava –, giustissima finché nega che siano proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche storico-sociali come la proprietà privata o la divisione in classi, diventa errata quando trascura il fatto che l’uomo come essere biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità all’ambiente esterno, dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e a morte, non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi e con tutta probabilità esisterà anche in futuro. Cambiano, certo, in conseguenza dello sviluppo della società, i modi di sentire il dolore, il piacere e le altre reazioni fisio-psichiche elementari; non c’è probabilmente nell’uomo odierno più nulla di puramente naturale, che non sia stato arricchito e riplasmato dall’ambiente sociale e culturale. Ma tuttavia quegli aspetti generali della ‘condizione umana’ rimangono, e le caratteristiche specifiche introdottevi dalle varie forme di vita associata non sono state tali da sovvertirli completamente. Sostenere che, siccome il ‘biologico’ ci si presenta sempre mediato dal ‘sociale’, il ‘biologico’ è nulla e il ‘sociale’ è tutto, sarebbe, ancora una volta, un sofisma idealistico. Se lo accettiamo, come ci difenderemo da chi, a sua volta, sosterrà che, siccome ogni realtà (compresa quella economico-sociale) è conoscibile solo attraverso il linguaggio (o attraverso il pensiero pensante), il linguaggio (o il pensiero pensante) è l’unica realtà e tutto il resto è astrazione?”5.
Ma una tale accentuazione dell’elemento biologico potrà alla sua volta esporre a rischi di idealismo o di mero esistenzialismo e dar luogo a nuove forme antropocentriche, se non si inquadra il problema in una riconsiderazione complessiva del terreno materiale dello sviluppo della vita, dell’esperienza, della storia. Il fondamento necessario di ogni discorso critico era cioè una definizione rigorosa del concetto di materialismo.
“Ma che cosa dobbiamo intendere per materialismo? e come il materialismo può sfuggire all’accusa di essere anch’esso una metafisica, e una delle più ingenue?
Per materialismo intendiamo anzitutto il riconoscimento della priorità della natura sullo “spirito’, o, se vogliamo, del livello fisico sul biologico e del biologico sull’economico-sociale e culturale: sia nel senso di priorità cronologica (il lunghissimo tempo trascorso prima che la vita apparisse sulla terra, e dall’origine della vita all’origine dell’uomo), sia nel senso del condizionamento che tuttora la natura esercita sull’uomo e continuerà ad esercitare almeno in un futuro prevedibile”6.
La vita di Timpanaro, specialmente nei decenni successivi alle Considerazioni sul materialismo, può intendersi come una lunga battaglia in difesa delle basi materialistiche del marxismo e a sostegno della necessità che il marxismo – anche il marxismo politico, in considerazione della risposta che i partiti storici del socialismo e del comunismo dovevano dare ai problemi vecchi e nuovi che il secolo poneva – si riconoscesse in un materialismo-Weltanschauung (“una Weltanschauung – egli precisava – aperta a tutte le correzioni che il progresso della ricerca scientifica e della pratica sociale rende necessarie, ma non tanto aperta da svanire nell’agnosticismo”)7. Si intende che quella battaglia – per il rigore che postulava e per i limiti filosofico-morali che poneva al politicismo elettoralistico e parlamentaristico, con il suo corredo di grandi ascendenze e di nobili finalità riformiste destinate alla subordinazione e all’integrazione – era costretta in una condizione minoritaria, non voluta ma consapevolmente accettata e pagata, che esponeva lo studioso all’eccentricità e quindi all’esclusione dal novero dei ragionevoli. Ma minoritaria non significa elitaria: Sebastiano faceva politica come militante socialista e sindacale, e nella vita civile – dopo un’esperienza d’insegnamento in una scuola media di provincia8 – fu per molti anni “correttore di bozze”, in realtà “redattore a pieno titolo”9 presso le edizioni La Nuova Italia di Firenze, lavoro che comportava soprattutto lettura e correzione di bozze. Le nevrosi, e soprattutto l’ossessione leopardiana della “infinita vanità del tutto”, lo divoravano: ma il filologo e filosofo insigne sapeva semplificarsi, e ragionava e s’indignava come un compagno di base. Ma divenne un minoritario temuto (e quindi assai poco citato), perché la sua critica andava a rischiarare le condizioni in cui il marxismo veniva recepito in Italia, e a colpire il monopolio politico che il PCI aveva steso sull’interpretazione della linea Marx-Engels-Lenin e sulla propria discendenza da quella, nostra e claudicante, Labriola-Gramsci-Togliatti.
Dai passi che abbiamo citato del saggio del ’66 la linea di ricerca filosofica e la posizione politica di Timpanaro escono già con una certa chiarezza. C’è un atteggiamento nettamente critico [verso il] comunismo ufficiale e il PCI, che era stato già presente nella scelta del socialismo di sinistra, e al quale egli si atterrà sempre. Esso avrebbe trovato via via modo di estrinsecarsi nei richiami a Lenin e a Trockij, i maestri riconosciuti attraverso un grande lavoro di lettura e riflessione storico-politica10, che si svolse coerentemente nella prospettiva del comunismo. Viene di lì anche la critica prognostica a quella “nuova leva di marxisti rivoluzionari venuti su dopo il ’60”, che si sarebbe espressa nei movimenti degli anni successivi. Oscillazioni “tra un marxismo hegeliano con forti venature esistenzialistiche e uno scientismo pragmatista”, tra “filosofemi hegeliani” e “tecnicismo neopositivistico” egli coglie sia in “Quaderni rossi” sia in “Classe operaia”; in un contesto di ostilità a “certe forme di marxismo idealistico (in Italia soprattutto alla forma gramsciana)” non v’era alcuna “accentuazione del materialismo”11. Né egli rilevava nella cultura di quella “nuova leva” segni di una riconsiderazione del pensiero di Engels, il quale “sentì molto più di Marx l’esigenza di tener conto delle scienze della natura, di saldare il materialismo ‘storico’ (delle scienze umane) col materialismo fisico-biologico’12. Nelle successive riflessioni sul movimento del ’68 egli tuttavia rivalutò la prospettiva egualitaria:
“Certo – scrisse nel 1987 –, se fra le tante, spesso confuse e contraddittorie esigenze che furono portate avanti nel Sessantotto, dovessi dire quale mi sembrò e mi sembra tuttora la più valida (anche se ha subìto la più pesante sconfitta), direi: l’egualitarismo, non solamente economico, inserito in una generale eguaglianza di potere decisionale, ma anche economico. L’obiettivo non è certo a breve scadenza, ma perderlo di vista significa rassegnarsi a una perpetua ingiustizia”13.
Le Considerazioni sul materialismo, che riprendiamo nella forma originale in cui furono edite sui “Quaderni piacentini”, furono seguite da commenti e discussioni sulla stessa rivista ed ebbero una vasta eco tra i marxisti non ortodossi (ma non da parte dei gestori della cultura piciista), che vincolarono Timpanaro a repliche e approfondimenti in varie direzioni14. Esse segnano una data nella letteratura marxista, poiché aprirono il discorso ad aspetti teorici e (più mediatamente) politici tutt’altro che consueti sul piano internazionale – dati i vari incroci del pensiero marxista occidentale con elementi idealistici – e perfino scandalosi in Italia, dove il campo era dominato da un gramscismo deteriore e tutto etico-politicistico15. Fu così che l’uscita del primo saggio “militante” di Sebastiano sancì anche il suo sostanziale isolamento nel quadro della sinistra italiana.
“Il livello dell’opera di Timpanaro – scrisse autorevolmente Perry Anderson in sede di bilancio del dibattito marxista dopo la pubblicazione della raccolta dei saggi Sul materialismo – la rende più che meritevole di comparire in ogni analisi d’insieme del marxismo occidentale: allo stesso tempo, però, la sua posizione è talmente isolata, e così esplicitamente critica nei confronti di tutte le altre tendenze del marxismo occidentale, che una pura e semplice inclusione nell’ambito di questo studio potrebbe sembrare gratuita”16.
Le Considerazioni furono per Timpanaro scrittore – studioso di filologia classica e di storia della cultura italiana dell’Ottocento – non soltanto un esordio filosofico militante (tuttavia non privo di anticipazioni), ma anche uno spartiacque nella sua vita intellettuale. Naturalmente anche nei suoi precedenti scritti filologici e letterari ci sono elementi significativi della sua attività di classicista. […] Certo, l’uomo aveva una propria coerente compattezza e, pur nella molteplicità e curiosità del proprio sapere e voler sapere, non concepiva che nell’attività mentale potessero esserci muraglie tra passato e presente, né tra vari e apparentemente lontani interessi intellettuali.
“Una specie di marxismo-leopardismo”
Giustamente anche dal mio punto di vista di osservatore esterno, Sergio Landucci fa partire “l’esigenza indifferibile di scrivere i saggi poi raccolti in Sul materialismo”, dalla Prefazione del 1965 a Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano17 e dalla sua confessata ispirazione a “una specie di marxismo-leopardismo”18, col suo seguito di commenti e sarcasmi, e addirittura dà per scontato che, nella vita di Timpanaro, ci siano state come “due parti”, prima e dopo la “straordinaria esplosione” degli anni ’60; una vera e propria svolta anche sul piano della personalità, non esclusi “un inasprimento del carattere” e la rinuncia alle mitiche “partite a scopone, nelle stanze della Scuola Normale di Pisa”19.
Effettivamente, dopo aver lanciato la provocazione del “marxismo-leopardismo” Sebastiano si vide più volte costretto a illustrare il senso di quel binomio e i confini tra i due elementi. Già ne Il pensiero di Leopardi egli, dopo aver [parlato] di “una reale analogia” della “polemica marxista” contro gli idealismi filosofici, aveva specificato che “per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economico-sociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica”. Ma da allora egli non cessò più di arrovellarsi su Marx e Leopardi, che erano poi due parti della sua stessa personalità e due capitoli di quella che era per lui una sola ricerca. Più nettamente, mi pare, egli si espresse in Antileopardiani e neomoderati nella sinistra italiana e nella successiva ripresa del discorso ne Il “Leopardi verde”, nella quale non mancano preziosi sfondi autobiografici:
“Leopardi mi ha appassionato anzitutto per ciò che non c’è in Marx né in altri, ed è tuttavia vero e vivo: cioè per il materialismo pessimistico e antidialettico, per la rigorosa negazione di qualsiasi antropocentrismo, per la rivendicazione dell’‘ateismo esteso a tutti’, anche al ‘volgo’”20.
Egli negava che il leopardismo fosse una diminuzione o svalutazione del marxismo e, d’altra parte, che potesse essere d’aiuto alla “rifondazione e rigenerazione del marxismo nell’ambito propriamente politico-sociale […] così come […] agli ecologisti”21. Il materialismo di Leopardi poteva utilmente integrare quello di Marx e di Engels; ma non poteva in alcun modo competere con esso sul piano della mobilitazione e liberazione socio-politica, non essendo il poeta e filosofo di Recanati “un socialista nemmeno premarxista”. Troppe erano (e sempre furono) le preoccupazioni di Timpanaro militante politico, perché egli potesse lasciare dubbi e ambiguità al riguardo, e seminasse pessimismo cosmico tra i compagni col suo marxismo-leopardismo; anche perciò preferisco qualificarlo con la meno provocatoria endiadi “marxista e leopardiano”, che egli usò in Il Verde e il Rosso (1989), e […] in altri scritti, e che finì con il preferire.
Timpanaro fu socialista di orientamento e di iscrizione per le tendenze intransigenti e radicali esistenti nel PSI – che “si presentava più del PCI come un partito nettamente classista, anticapitalista”22 – ma soprattutto, a mio avviso, per il rigoroso antistalinismo leninista e trotskista che gli vietava di pensare (a lui, in effetti sul piano teorico un comunista a pieno titolo) ad una adesione al PCI della “svolta di Salerno” e del voto all’art. 7. Militò poi nel PSIUP, la formazione politica socialista costituita nel 1964 da coloro che avevano rifiutato l’indirizzo di centro-sinistra imposto al partito “storico” da Pietro Nenni; infine, dopo il fallimento di quel tentativo (1972), l’adesione al PdUP e la delusione che gli procurò il gruppo de “il manifesto”, fu nella condizione di ‘cane sciolto’23. Più volte egli reagì all’immagine che ci si poteva fare di lui come studioso tagliato fuori dal mondo e portato al minoritarismo:
“[…] presentarmi come un intellettuale isolato e beato del proprio isolamento – scriveva nel 1982 – è una falsificazione che ho il diritto di respingere […]. Per la maggior parte della mia vita […] ho fatto il militante di base in partiti di sinistra. Ho trascorso più tempo nel partecipare a discussioni e manifestazioni politiche, nello svolgere compiti cosiddetti di ‘quadro intermedio’ (ma quasi più vicino alla base che ai vertici), che nello studiare: intendo dare a questa affermazione un valore di esatto computo cronologico, senza alcun esibizionismo populistico, caso mai con una certa retrospettiva autoironia. Non mi sono mai attenuto a quella che, con ridicola espressione coniata da gente anelante a inserirsi in una compatta maggioranza, è stata chiamata la ‘logica minoritaria’”24.
E ancora:
“È stata la chiusura di ogni seria prospettiva comunista ed egualitaria a collocarmi, mio malgrado, fra gli ‘isolati’; e, benché vecchio, non considero il mio isolamento come definitivo, qualora quella prospettiva si riaprisse”25.
I fatti successivi confermano questa sua disposizione. Nel novembre 1990, nel pieno della crisi che stava portando all’autoscioglimento del PCI, egli aderì ad una Dichiarazione di intellettuali comunisti i cui firmatari rivendicavano “la superiorità degli ideali etico-sociali rivoluzionari” e si impegnavano “a lottare per restituire ad essi – al di là dell’esito del congresso del PCI – la loro integrità politica in un’organizzazione comunista”26.
I successivi “scritti militanti” registrano speranze, delusioni e ancora speranze nei confronti del Partito della Rifondazione Comunista, in relazione alla struttura ancora una volta centralistico-burocratica del nuovo partito, au suoi atteggiamenti verso il centro-sinistra e alla posizione decisamente anti-guerra assunta nel 1999. Delle origini e dell’appartenenza socialista gli rimasero sempre una legittima rivendicazione dell’importanza degli istituti storici, precomunisti, del movimento operaio e una certa generosità di giudizio, a volte piuttosto puntigliosa, nei confronti di quei socialisti d’altri tempi che gli sembravano uscire dal profilo del riformismo. Valgano i casi di Giacomo Matteotti, sul quale il nostro volume contiene due scritti27, e di Edmondo De Amicis per il romanzo incompiuto e inedito Primo Maggio, la cui rivalutazione suscitò critiche, che non rimasero senza risposta28. Ma del fallimento del PSI e poi del tentativo “psiuppino” gli rimase anche una profonda amarezza politico-esistenziale, non priva tuttavia di qualche nuova apertura di credito. Timpanaro era un politico di princìpi e un militante appassionato, ma un impolitico di fatto: talvolta il puntiglio cui accennavamo si espresse in termini di recupero di autonomia socialista, che il governo Craxi parve perseguire, ma che si dimostrò impraticabile.
Gli anni del passaggio dal PSI alla cosiddetta sinistra extraparlamentare, o comunque in una posizione di rifiuto delle strategie di integrazione dei partiti ‘operai’, furono quelli in cui Timpanaro si concentrò maggiormente negli studi politici, e in particolare nella riflessione su alcuni problemi che giudicava oggettivamente prioritari e tali da costituire le basi necessarie di una nuova sinistra. Non su tutti quei problemi egli ha potuto lasciarci un contributo organico di elaborazione; ma sempre la sue riflessione scientifico-politica fu contrassegnata non soltanto “dalla ‘fedeltà’ a certi ideali, ma anche da uno sforzo di unire alla fedeltà la lucidità e la volontà di capire”29. Citerò e cercherò di argomentare quelli ai quali mi sembra che sia più legata la sua eredità di marxista critico e di cui la presente raccolta è testimonianza, o contiene tracce rilevanti: 1) il contributo di Engels e di Lenin al materialismo; 2) il giudizio su Gramsci; 3) l’affermarsi della ‘coscienza atomica’ negli anni ’50 e ’60 e, nei tardi anni ’80, con le anticipazioni che rileveremo, della preoccupazione ecologica. […]
Dell’ampio saggio Lo strutturalismo e i suoi successori, incluso nel volume Sul materialismo, posso dire che rappresenta un momento molto impegnativo della sua battaglia contro i “due idealismi” del secolo XX, lo storicista umanistico e lo scientista; ma non mi spingo oltre, in questa sede, in considerazione della mia incompetenza e anche perché (forse in ragione di essa) la sua rilevanza politica mi sembra meno forte (oltre che meno ampia). Altri interessi e altre avventure polemiche – dal Leopardi alla storia del socialismo e della cultura della sinistra di classe in Italia, dalla psicoanalisi alla Cina del “maoismo” e della “rivoluzione culturale” (e ai ‘maoisti’ italiani) – sono presenti in Timpanaro e un loro approfondimenti si imporrà a chi vorrà ricostruire la sua biografia politico-intellettuale nel quadro degli ultimi trent’anni del ’900 e della crisi del movimento operaio e della sinistra. La ricchezza di tempi e di spunti è tale da non poter essere compresa in un elenco. Penso di non esagerare dicendo che negli “scritti militanti” si riflettono i problemi e le preoccupazioni che hanno attraversato la vita delle generazioni marxiste del “secolo breve”; e, in particolare, di chi ha inteso l’impegno politico non come “ossequio inerte ai ‘sacri testi’” – così egli scriveva a proposito del libro di Attilio Chitarrin Sulla transizione –, ma come ricerca permanente che nulla concede alle ventate della mode intellettuale (oltre agli aspetti volontaristici e mistici del maoismo si veda come, qui e altrove, vengono trattati Althusser e l’althusserismo), ma anche a fenomeni storici di indubbia importanza, ma pregni di distorsioni ideologiche, come la cultura del PCI o il volontarismo del ‘lungo ’68’.
In questa Introduzione noi dobbiamo limitarci a cogliere le linee di tendenza del suo pensiero e cercare di individuare il lascito di indicazioni problematiche che gli “scritti militanti” rendono maggiormente manifesto. Un lascito che ci proviene da un travaglio fortemente vissuto sul piano personale, ma che ha il suo riscontro oggettivo nella “crisi di civiltà” in corso e nei termini nuovi e del tutto concreti nei quali si presenta la “fine del mondo”.
[…]
Luigi Cortesi
(Brano tratto da: Luigi Cortesi, Sebastiano Timpanaro, “marxista e leopardiano”, Introduzione al volume: Sebastiano Timpanaro, Il Verde e il Rosso. Scritti militanti, 1966-2000, a cura di L. Cortesi, Roma, Odradek edizioni, 2001).
* Luigi Cortesi (1929-2009) è stato storico del movimento operaio e delle sue espressioni politiche in Italia; ha pubblicato in particolare vari saggi sulle origini del Partito Socialista Italiano e del Partito Comunista Italiano.
Note
1 In vari scritti, anche tra quelli qui raccolti (ad es. ivi, e nel Dialogo sul materialismo, “Marx Centouno”, n. 4 nuova serie, febbraio 1991 […]) Timpanaro parla del proprio ambiente familiare di formazione. Ma possiamo ora attingere all’ultimo suo lavoro, nella cui ampia Premessa egli ne dà ampiamente conto: Maria Timpanaro Cardini, Tra antichità classica e impegno civile, a cura di Sebastiano Timpanaro, Pisa, Edizioni ETS, 2001. Maria Cardini (1890-1978), moglie di Sebastiano Timpanaro senior (1888-1949), “fisico e storico della scienza dotato di vasti interessi per la letteratura e le arti figurative” (Il Verde e il Rosso ecc., cit. […]) e madre di Sebastiano junior (nato nel 1923), fu in età giovanile letterata, e in seguito studiosa della storia e della scienza greca.
2 Per Leopardi “pessimista agonista, ‘renitente al fato’”, si veda S. Timpanaro - F. Minazzi, Dialogo sul materialismo, cit., p. 153 […]; di “pessimismo agonistico” T. scrive anche in Il Verde e il Rosso ecc., cit., p. 103 […].
3 In Prassi e materialismo, “Quaderni piacentini”, n. 32, ottobre 1967, pp. 115-126, Timpanaro rispose a coloro che erano intervenuti sulla stessa rivista a proposito del suo saggio (Giovanni Jervis, Fiamma Baranelli, Francesco Ciafaloni, Massimo Aloisi, Marzio Vacatello). Lo scritto fu poi raccolto, di seguito al primo saggio, in S. Timpanaro, Sul materialismo, Pisa, Nistri-Lischi, 1970. […] Sui “grossi calibri della filosofia italiana, compresi i marxisti” che “che lo snobbarono” si veda la “conversazione” con Luca Baranelli, pubblicata da “La Città”, n. 92, febbraio 2001, sotto il titolo Ricordiamo Sebastiano Timpanaro. Già lo stesso Timpanaro, nello scritto Vent’anni dopo, premesso alla citata III edizione di Sul materialismo, rilevava (p. VIII) che il libro apparso nel 1970 era passato sotto un silenzio pressoché generale: “[…] anche filosofi di sinistra tutt’altro che chiusi nel loro specialismo, tranne pochissime eccezioni, non credettero che valesse la pena di discutermi, nemmeno con asprezza”.
4 Il passo è in S. Timpanaro, Considerazioni sul materialismo, “Quaderni piacentini”, n. 28, settembre 1966, pp. 76-97 […].
5 Ivi, pp. 13-14 […].
6 Ivi, p. 5 […].
7 S. Timpanaro, Engels, materialismo, “libero arbitrio”, in Sul materialismo (III ed.), pp. 47-104; il passo cit. è a p. 54.
8 Ricordiamo Sebastiano Timpanaro, cit. (intervista a Luca Baranelli).
9 Ivi. Di seguito anche la testimonianza di Baranelli sul romanzo di Steiner, Il correttore, che suscitò l’irritazione di Sebastiano.
10 “[…] Sono sempre stato convinto – scriveva nell’ultimo periodo della vita – che il massimo di posizione teorica avanzata (dopo i fondatori, dopo Marx ed Engels) sia stato rappresentato da Lenin e, in buona parte, anche da Trockij, non da Mao”: vedi Parlando di rivoluzioni. Ventuno protagonisti dei gruppi, dei movimenti e delle riviste degli anni ’60 e ’70 descrivono la loro idea di mutamento sociale. Prefazione di Diego Giachetti, Pistoia, Centro di Documentazione, 1998, p. 186.
11 Considerazioni sul materialismo, in Sul materialismo (III ed.), pp. 1-2 […].
12 Ivi, p. 4 […].
13 Il “Leopardi verde”, “Belfagor”, a. XLII, n. 6, 30 novembre 1987 […].
14 In primo luogo, sugli stessi “Quaderni piacentini”, nello scritto già cit. Prassi e materialismo. Ma tutti gli scritti raccolti nel volume Sul materialismo possono essere considerati conseguenze e approfondimenti del saggio del ’66.
15 Sui rapporti di Timpanaro con l’opera di Gramsci ci diffonderemo in seguito. Un nodo interessante delle discussioni e degli studi su Gramsci fu il I convegno di Studi Gramsciani tenutosi a Cagliari nell’aprile 1967 (gli atti sono in Gramsci e la cultura contemporanea a cura di Pietro Rossi, Roma, Editori Riuniti - Istituto Gramsci, 1969 (2 voll.). Da una relazione tenuta in quell’occasione uscì il saggio di Norberto Bobbio, Gramsci e la concezione della società civile, Milano, Feltrinelli, 1976, che illustrava le differenze, ed anzi l’opposizione delle tesi di Marx e di Gramsci su società e Stato. Su Cagliari e sulle posizioni di Bobbio si veda L. Cortesi, Un convegno su Gramsci, “Rivista storica del socialismo”, n. 30, gennaio-aprile 1967, pp. 159-173. L’episodio non ebbe alcun seguito sostanziale (né pare sia stato registrato da Timpanaro), a parte una certa produzione critica da parte del gruppo redazionale della rivista, convinta che un unico discorso critico dovesse investire – sia pure a livelli diversi – Gramsci e il gramscismo deteriore del PCI. Anche la nuova sinistra del ’68 fu soggiogata dal mito di Gramsci, in particolare per la partecipazione giovanile al movimento dei Consigli di fabbrica.
16 P. Anderson, Il dibattito nel marxismo occidentale, Roma-Bari, Laterza, 1977, nota 20 […].
17 Edito in quell’anno a Pisa da Nistri-Lischi, il volume conteneva il saggio su Il pensiero del Leopardi (pp. 133-182) che è in effetti fondamentale, quasi come un preliminare al ‘secondo’ Timpanaro.
18 Classicismo e illuminismo ecc., cit., p. VIII; ma proprio nella Prefazione, p. VII, lo stesso Timpanaro dichiarava l’intenzione di “giustificare in modo più esplicito certi presupposti ideologici di questi saggi, specialmente di quello sul pensiero di Leopardi”.
19 Sergio Landucci, La scomparsa dell’insigne studioso. Sebastiano Timpanaro: leopardiano del XX secolo, “Nuova Antologia”, a. 136°, Fasc. 2217, gennaio-marzo 2001, pp. 229-244. I passi che ci interessano sono alle pp. 239 e 242 (donde citiamo).
20 Il “Leopardi verde”, cit., p. 120 […].
21 Ivi, p. 121 […].
22 Premessa a Maria Timpanaro Cardini, op. cit., p. 16.
23 Per il suo valore autobiografico e la sua singolarità va segnalato lo scritto Il congresso del partito. Scherzo filologico-politico dedicato all’amico Antonio La Penna, “Il Ponte”, a. XXXVII, n. 1, 31 gennaio 1981, pp. 64-80. Timpanaro vi descriveva un immaginario congresso socialista ambientato nella situazione politica del 1949, esperimento “una sorta di disperazione e di impotenza politica ed esistenziale, ma non tale da annullare la scelta ben netta contro il capitalismo” (p. 69).
24 Dalla Prefazione a S. Timpanaro, Antileopardiani e neomoderati ecc., cit., pp. 11-12.
25 Ivi, p. 13.
26 La Dichiarazione fu pubblicata ne “il manifesto” del 29 novembre 1990 e riprodotta, con il titolo Le ragioni del comunismo, in L. Cortesi, Le ragioni del comunismo. Scritti e interventi per la Rifondazione. Prefazione di Armando Cossutta, Milano, Teti Editore, 1991, pp. 31-34. Durante e dopo la stesura del testo mi tenni in contatto con Sebastiano; come altri firmatari, prima di aderire egli dovette superare vari dubbi, anche in relazione alla presenza tra i “rifondatori” – come Cossutta – di personaggi compromessi con la burocrazia del PCI e tuttavia, per breve tempo, curialmente autocritici.
27 Si tratta di [Giacomo Matteotti, riformista-rivoluzionario] e di Le idee combattive e intelligenti di un riformista d’altri tempi, qui raccolti rispettivamente con i numeri 12 e 16.
28 S. Timpanaro, Il socialismo di Edmondo De Amicis. Lettura del “Primo Maggio”, Verona, Bertani editore, 1984. Seguì una polemica con uno dei curatori dell’edizione del Primo Maggio (a cura di Giorgio Bertone e Pino Boero, Milano, Garzanti, 1980): G. Bertone, “Primo Maggio”: un curatore manda a dire; S. Timpanaro, Ben venga il “Primo Maggio”!, entrambi in “Belfagor”, a. XXXIX, 1984, rispettivamente n. 5, 30 settembre e n. 6, 30 novembre.
29 S. Timpanaro, Il congresso del partito ecc., cit., p. 69. L’A. si riferisce con questa espressione all’intera sua militanza politica.
Articolo inserito il 21/12/2022.
Dalla rivista «Quaderni Piacentini» – 1966
«L’unica caratteristica, forse, comune a tutto l’odierno marxismo occidentale (con rarissime eccezioni) è la preoccupazione di difendersi dall’accusa di materialismo. Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegeliano-esistenzialisti, marxisti neopositivisteggianti, freudianeggianti, strutturaleggianti, pur nei profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di collusione col materialismo volgare o meccanico; e lo fanno con tale zelo, da buttar via, insieme alla volgarità o meccanicità, il materialismo tout court».
In questo importante saggio pubblicato sul numero 28 dei «Quaderni Piacentini» Sebastiano Timpanaro cercò di arginare le derive idealistiche che stava prendendo l’elaborazione teorica del marxismo italiano e di riposizionarla sui binari del materialismo tracciato a suo tempo da Engels, Lenin, Labriola.
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CONSIDERAZIONI SUL MATERIALISMO
di Sebastiano Timpanaro
Prima parte
1. L’unica caratteristica, forse, comune a tutto l’odierno marxismo occidentale (con rarissime eccezioni) è la preoccupazione di difendersi dall’accusa di materialismo. Marxisti gramsciani e togliattiani, marxisti hegeliano-esistenzialisti, marxisti neopositivisteggianti, freudianeggianti, strutturaleggianti, pur nei profondi dissensi che li dividono, sono concordi nel respingere ogni sospetto di collusione col materialismo volgare o meccanico; e lo fanno con tale zelo, da buttar via, insieme alla volgarità o meccanicità, il materialismo tout court. Gran parte delle polemiche tra i vari gruppi marxisti verte proprio sulla scelta della salvaguardia più efficace contro il rischio di cadere nel materialismo volgare: se questa salvaguardia debba essere la dialettica o lo storicismo, la rivendicazione dell’«umanesimo marxista» o l’agganciamento del marxismo a un’epistemologia empiriocriticista o pragmatista.
La divisione tra una maggioranza del movimento operaio occidentale che intende il socialismo come integrazione della classe lavoratrice nel sistema capitalistico, e una minoranza, o meglio, più minoranze che pongono, in modi diversi, il problema della rivoluzione socialista mondiale, è oggi molto più netta che cinque o sei anni fa. Ma se i riformisti attuali sono antimaterialisti per uno spiegabile influsso della cultura borghese, non si può dire che la nuova leva di marxisti rivoluzionari venuta su dopo il ’60 abbia rimesso l’accento sul materialismo. Questi nuovi gruppi rivoluzionari sono indubbiamente ostili a certe forme di marxismo idealistico (in Italia soprattutto alla forma gramsciana); ma le loro simpatie oscillano, sembra, tra un marxismo hegeliano con forti venature esistenzialistiche e uno scientismo pragmatista. Lo indica anche il loro linguaggio, spesso inaccessibile ai compagni di base per un duplice motivo, cioè da un lato per un eccesso di filosofèmi hegeliani, dall’altro per un eccesso di tecnicismo neopositivistico: spesso in un medesimo scritto dei «Quaderni rossi» o di «Classe operaia» tutt’e due queste componenti sono riconoscibili. È probabile che in un’accentuazione del materialismo i rivoluzionari degli anni Sessanta vedano il pericolo di un allentamento della tensione volontaristica, di un ritorno a posizioni di attesa del crollo spontaneo del capitalismo, e anche di una perdita di contatto col pensiero scientifico più moderno, che è in larga parte orientato polemicamente verso il vecchio materialismo ottocentesco.
Questo antimaterialismo, del resto, non è una novità nel pensiero rivoluzionario dei paesi occidentali. Anche nel primo dopoguerra i leninisti di Germania e d’Italia professavano, in filosofia, idee ben diverse da Lenin: il nemico da battere sul terreno filosofico non era, secondo loro, l’idealismo, ma il materialismo, che essi consideravano come una deformazione positivistica e socialdemocratica del pensiero di Marx. Mentre Lenin già nel 1908 lottava contro la nuova ideologia borghese vittoriosa (contro la rinascita idealistica), i leninisti degli anni Venti e Trenta compivano un’operazione di aggiornamento del marxismo nei confronti dell’idealismo, accettavano un’impostazione del problema gnoseologico e del rapporto struttura-sovrastruttura che era à la page con le ideologie borghesi contemporanee: Marxismo e filosofia di Karl Korsch, recentemente tradotto in italiano, è una delle espressioni più chiare di questo orientamento. Così la loro filosofia si qualificava come un radicalismo di intellettuali più che come una dottrina del proletariato rivoluzionario.
Nemmeno l’antitesi riforme-rivoluzione, dunque, coincide oggi sul piano filosofico con un’antitesi idealismo-materialismo, anzi, per quel che riguarda l’Occidente europeo, è compresa tutta entro l’ambito antimaterialista. È significativo che nella lunga discussione tra filosofi marxisti italiani che si svolse nell’estate-autunno del 1962 su «Rinascita» l’unico punto sul quale i contendenti furono d’accordo fin dal principio fu la necessità di liberare il marxismo dalle incrostazioni di materialismo volgare. È doveroso precisare che il promotore di quella discussione, Cesare Luporini, aveva un anno prima, con lo scritto Verità e libertà1, formulato una limpida e rigorosa posizione materialista, che spicca per originalità e coraggio nel panorama filosofico degli ultimi decenni; ma più tardi esigenze di aggiornamento e arricchimento culturale del marxismo (e quindi di presa di contatto con gli indirizzi dominanti nella cultura occidentale: la psicanalisi, lo strutturalismo) sono prevalse in lui e han fatto sì che egli non abbia più insistito in quella direzione.
2. Di per se stessa, certo, la polemica contro il materialismo volgare non costituisce alcuna deviazione idealistica dal marxismo, anzi, come è ben noto, fa parte del nucleo originario della dottrina. Ma la cosa singolare è che a questa insistenza della polemica non corrisponde, ormai da molti decenni, una forza di qualche rilievo, anzi nemmeno un’effettiva esistenza del materialismo volgare, il quale in Occidente non si è più riavuto dalla crisi che subì alla fine del secolo scorso. Oggi nella cultura borghese la lotta è – per esprimerci molto schematicamente – tra due idealismi: un idealismo storicista-umanistico e un idealismo empiriocriticista e pragmatista. Le «due culture» di cui si fa un gran parlare sono, all’ingrosso, identificabili con questi due idealismi. La vittoria del secondo è la vittoria della tecnocrazia sul vecchio umanesimo caratteristico di borghesie arretrate. L’umanesimo, tuttavia, nei paesi di avanzato capitalismo viene subordinato ma non distrutto, perché i suoi servigi sono in certa misura ancora necessari (ogni classe sfruttatrice ha sempre bisogno di parlare di «valori dello Spirito»: si sa che perfino il vecchio positivismo ottocentesco lasciava uno spiraglio aperto a evasioni agnostico-religiosizzanti, e il fenomeno si ripete nell’odierna filosofia americana, con le aperture spiritualistiche di molti pragmatisti, metodologisti e naturalisti più o meno «critici»)2.
Sembrerebbe tuttora valida, perciò, la diagnosi in base alla quale Lenin scrisse Materialismo ed empiriocriticismo: una situazione di squilibrio a favore dell’idealismo, donde la necessità di dirigere la polemica più contro questo che contro il materialismo volgare. Invece il marxismo occidentale odierno sembra soprattutto impegnato a dimostrare a se stesso e ai suoi avversari di non essere «rozzo». Proprio all’insegna dell’antimaterialismo (e di un ripudio, d’altra parte, di alcune delle posizioni metafisiche più arretrate) si sta formando una koiné filosofica in cui confluiscono e spesso si confondono marxisti, neopositivisti, esistenzialisti ammodernati, cattolici ben disposti al dialogo.
Questa operazione di autodepuramento del marxismo si concreta e quasi si simboleggia in una svalutazione di Engels, il quale appare a molti come il primo responsabile dello scadimento del marxismo da alta filosofia a «filosofia popolare». Per una sua drammatica contraddittorietà (che meriterebbe uno studio più approfondito), l’opera di Engels è particolarmente esposta a ricevere gli attacchi di tutt’e due le odierne correnti marxiste, la hegeliana e l’empiriopragmatista. Da un lato Engels sentì molto più di Marx la necessità di tener conto delle scienze della natura, di saldare il materialismo «storico» (delle scienze umane) col materialismo fisico-biologico, tanto più nel momento in cui Darwin aveva definitivamente aperto la strada a una considerazione storica della natura stessa; d’altro lato, proprio nello sforzo di non risolvere il marxismo in un positivismo piattamente evoluzionistico ed eclettico, Engels si adoperò con un certo puntiglio ad applicare la dialettica hegeliana alle scienze e a tradurre in termini di «negazione della negazione» e di «conversione della quantità in qualità» i fenomeni fisici e biologici. Ecco dunque che lo si può accusare, di volta in volta, di hegelismo arcaico e di contaminazione col positivismo, di abbandono della grande tradizione filosofica tedesca e di trascuranza degli spunti pragmatistici contenuti nelle Glosse a Feuerbach, di scientismo e di arretrata e superficiale cultura scientifica.
3. Si potrebbe sostenere che la polemica contro le degenerazioni materialistico-volgari si giustifica nell’ambito della lotta contro il dogmatismo staliniano, per far riacquistare al marxismo la sua libera forza creativa. Certo nell’opuscolo di Stalin Del materialismo dialettico e del materialismo storico, che divenne non solo in URSS ma nel movimento comunista mondiale il più diffuso testo elementare di marxismo, è facile cogliere affermazioni schematiche e veramente rozze, soprattutto per quel che riguarda i rapporti fra struttura e sovrastruttura. Ma concepire ed esporre il marxismo in modo rozzo non significa necessariamente accentuarne l’aspetto materialistico. Manca in quell’opuscolo di Stalin e negli altri suoi scritti uno specifico interesse per le scienze della natura e per il rapporto uomo-natura; manca ogni sottolineatura del «lato passivo» della conoscenza, del condizionamento che sull’uomo esercita la sua stessa struttura fisica e l’ambiente naturale. Anzi, certe prese di posizione di Stalin, come l’appoggio dato a Lysenko, come la teorizzazione stessa del socialismo e addirittura del comunismo in un solo paese, possono a buon diritto essere definite idealistiche e volontaristiche: non a torto si è parlato di «soggettivismo staliniano». Il cosiddetto dogmatismo di Stalin e dei suoi seguaci in realtà non è consistito in una coerente posizione materialistica, ma piuttosto in una «politicizzazione» (in senso deteriore) della dottrina, in una riduzione immediata, non solo della scienza a ideologia, ma dell’ideologia stessa a strumento di propaganda e di giustificazione cavillosa delle contingenti prese di posizione politiche: per cui le svolte più brusche venivano ogni volta legittimate con ragioni pseudo-teoriche e presentate come conformi al marxismo più ortodosso.
Se non è vero, dunque, che lo stalinismo abbia significato un’accentuazione dell’aspetto materialistico del marxismo, è però vero che la destalinizzazione – per il modo confuso con cui è stata intrapresa e portata avanti, e per il carattere tendenzialmente socialdemocratico che purtroppo ha ben presto assunto – si è risolta, anche nei paesi comunisti, in una rifioritura di tendenze «occidentalizzanti». La stolta persecuzione che nell’età staliniana aveva colpito gli studiosi di logica formale, di fisica, di psicanalisi, dà luogo oggi, per reazione, ad una forte corrente di simpatia non solo per le acquisizioni scientifiche di quelle discipline, ma anche per l’impostazione ideologica che esse hanno alimentato in Occidente. Molto significative sono in questo senso le lezioni di Robert Havemann raccolte e tradotte recentemente in italiano nel volumetto Dialettica senza dogma. Questo coraggioso scienziato comunista della Germania orientale ha certamente ragione di rivendicare, contro un’incompetente e dogmatica burocrazia di partito, la libertà di espressione e di ricerca scientifica; eppure non si può fare a meno di notare che quello che Havemann chiama «materialismo meccanico» è, semplicemente, qualsiasi materialismo, e che egli tende a dare una vernice di scienza novecentesca a vecchi concetti spiritualistici.
4. Ma che cosa dobbiamo intendere per materialismo? e come il materialismo può sfuggire all’accusa di essere anch’esso una metafisica, e una delle più ingenue?
Per materialismo intendiamo anzitutto il riconoscimento della priorità della natura sullo «spirito», o, se vogliamo, del livello fisico sul biologico e del biologico sull’economico-sociale e culturale: sia nel senso di priorità cronologica (il lunghissimo tempo trascorso prima che la vita apparisse sulla terra, e dall’origine della vita all’origine dell’uomo), sia nel senso del condizionamento che tuttora la natura esercita sull’uomo e continuerà ad esercitare almeno in un futuro prevedibile. In sede conoscitiva, quindi, il materialista sostiene che non si può ridurre l’esperienza né a produzione della realtà da parte del soggetto (comunque si voglia concepire tale produzione), né a reciproca implicazione di soggetto e oggetto. Non si può, in altri termini, negare o eludere l’elemento di passività che c’è nell’esperienza: la situazione esterna, che noi non poniamo, ma che ci si impone; né si può in alcun modo riassorbire questo dato esterno facendone un mero momento negativo dell’attività del soggetto, o facendo del soggetto e dell’oggetto meri momenti, distinguibili solo per astrazione, dell’unica realtà effettuale che sarebbe appunto l’esperienza.
Questa rivendicazione dell’elemento passivo dell’esperienza non pretende certo di essere una teoria della conoscenza (la quale, del resto, può essere costruita solo per via sperimentale, nell’ambito della fisiologia del cervello e degli organi di senso, e non per via meramente concettuale o filosofica); ma è la condizione preliminare di ogni teoria della conoscenza che non si accontenti di soluzioni verbalistiche e illusorie.
Ciò implica una posizione polemica verso gran parte della filosofia moderna, la quale si è sbizzarrita ed esaurita nell’apprestamento di «trappole gnoseologiche» per catturare e addomesticare il dato esterno, per farne qualcosa che esista solo in funzione dell’attività del soggetto. Bisogna rendersi conto che la gnoseologia ha avuto un così enorme (e così sofistico) sviluppo nel pensiero moderno perché non ha corrisposto solo all’esigenza di capire come avviene la conoscenza, ma è stata incaricata del compito di fondare l’assoluta libertà dell’uomo, eliminando tutto ciò che alla coscienza comune sembra restrittivo di tale libertà. Che questo compito sia stato assolto nel senso di un idealismo romantico dell’Io assoluto o nel senso di un empirismo critico, che il rapporto soggetto-oggetto sia stato concepito come un rapporto di creazione, o di scissione di un’unità originaria, o di azione reciproca o di «transazione» o che so io, implica, certo, tutta una serie di importanti differenze di formazione culturale e di ambiente sociale, e rende ragione delle aspre polemiche che vi sono state e vi sono tra i propugnatori di questi diversi idealismi; non ne muta, però, il comune carattere illusionistico. Occorre aggiungere che anche la polemica che contro lo gnoseologismo è stata condotta da pragmatisti e da attualisti di sinistra (basti pensare a Guido Calogero) risponde, in forma esasperata anzi, a quel medesimo scopo di «distruzione della realtà esterna» e di fondazione della libertà umana per cui lo gnoseologismo era sorto: è dunque una polemica che, dal nostro punto di vista, si colloca all’interno dell’indirizzo generale che consideriamo da respingere.
Si dirà che, se l’idealismo dell’Io assoluto è espressione di una cultura fortemente imbevuta di irrazionalismo romantico e di antiscientificità, le posizioni di pensiero empiriocriticiste e pragmatiste sono nate proprio dalla riflessione sulla scienza, e che quindi non è lecito contrapporre ad esse, come «più scientifico», un materialismo basato sulle scienze di un secolo fa, o addirittura sull’ingenua coscienza comune.
Ma è proprio questo un punto su cui sono particolarmente facili gli equivoci.
Certo la conoscenza scientifica è l’unica forma esatta e rigorosa di conoscenza. Ma se la filosofia sposta tutta la sua attenzione dai risultati e dall’oggetto della ricerca scientifica alla ricerca in quanto tale; se, trascurando di prendere in considerazione la condizione dell’uomo nel mondo quale risulta dalla ricerca scientifica, si riduce a metodologia dell’attività dello scienziato, ecco che si ricade nell’idealismo, perché si fa apparire come unica realtà non la natura, ma l’uomo indagatore della natura e costruttore della propria scienza. I risultati della ricerca scientifica ci insegnano che l’uomo occupa un posto marginale nell’universo: che per lunghissimo tempo la vita non c’è stata sulla terra, e che il suo sorgere è dipeso da condizioni particolarissime: che il pensiero umano è condizionato da determinate strutture anatomico-fisiologiche, ed è offuscato o impedito da determinate alterazioni patologiche; e via dicendo. Ma consideriamo questi risultati come meri contenuti del nostro pensiero pensante o della nostra attività sperimentatrice e modificatrice della natura, sottolineiamo che essi non esistono al di fuori di questo nostro pensiero e di questa nostra attività, e «il giuoco è fatto»: l’operazione di escamotage della realtà esterna sarà riuscita, e non sul terreno di un antiquato umanesimo ostile alla scienza, ma invece con tutti i crismi della scientificità e della modernità!
Al momento in cui la filosofia si riduce a epistemologia o metodologia (nel senso più o meno scopertamente soggettivistico su accennato), essa diviene semplicemente la teorizzazione narcisistica dell’attività dello scienziato il quale, producendo fenomeni per conoscerli, elaborando e sistemando concettualmente i risultati del suo sperimentare, si illude di essere «legislatore della natura». Diviene dunque, non la sistemazione di tutto ciò che sull’uomo e sul mondo ci ha insegnato e ci insegna la scienza, ma l’espressione settoriale, corporativa, di una ristretta categoria di uomini: gli scienziati, la cui situazione e la cui attività sono assunte indebitamente come paradigmatiche della condizione umana in generale. In tal modo la filosofia perde, non soltanto la illusoria «universalità» in senso metafisico, ma anche quel tanto di generalità o globalità a cui non può, per definizione, non aspirare.
Da questo punto di vista, nemmeno la vagheggiata «unificazione delle scienze», nemmeno la saldatura sempre più stretta fra conoscenza e azione, fra scienza della natura e tecnica trasformatrice della natura, sono sufficienti a evitare il settorialismo a cui accennavamo, che è un settorialismo a parte subiecti. Una filosofia che sia, anche nel senso più ampio e comprensivo, metodologia dell’agire umano, rischia sempre di eludere o sottovalutare ciò che nella condizione umana è passività, condizionamento esterno.
5. Non mancano certo, nel pensiero contemporaneo, serie correnti di opposizione al metodologismo e al neopositivismo, denunce del suo carattere agnostico e idealisteggiante. Il male è che di solito questi oppositori, mentre ripropongono giustamente l’esigenza della Weltanschauung, rimangono però legati a una formazione culturale indifferente, se non ostile, alle scienze. Si tratta generalmente di hegeliani (o di marxisti per i quali Marx non ha fatto che rendere esplicito ciò che vi era già in Hegel): cioè di sostenitori di un sistema che, riguardo alla concezione della natura, nacque già arretrato (si pensi all’idea hegeliana della natura come eterno circolo e, in confronto, all’apertura di Kant verso l’evoluzionismo) e di un metodo dialettico che può oggi valere solo come polemica contro filosofie negatrici della storicità o interpretanti la storicità come gradualismo antirivoluzionario, ma che non fornisce poi alcun positivo approfondimento dei modi reali attraverso cui si esplica la storicità della natura e dell’uomo. La forza e il fascino del marxismo hegeliano sta nel suo antieclettismo, nel rifiuto di inseguire l’ultima moda filosofica o scientifica (quantunque certe contaminazioni tra hegelismo, esistenzialismo e psicanalisi limitino questo riconoscimento). Ma il prezzo pagato per evitare l’eclettismo è un’ostentata arcaicità, una svalutazione non solo di quanto di nuovo il marxismo rappresenta in confronto a Hegel, ma anche di quanto nella cultura prehegeliana, e in particolare nell’illuminismo, vi è di più avanzato rispetto a Hegel.
Hegeliani e metodologisti eludono dunque entrambi, per vie diverse, l’esigenza di una filosofia come visione del mondo basata sui risultati delle scienze: i primi perché identificano sostanzialmente il mondo e la storia col mondo umano e con la storia umana, i secondi perché considerano la scienza formalisticamente e ricadono così nel soggettivismo.
Bisogna tuttavia osservare che, tra le varie scienze della natura, ve ne sono di più e di meno esposte all’equivoco idealistico. Se la fisica ha svolto nel Novecento una funzione primaria di incubatrice dell’idealismo e del metodologismo (grazie all’ambiguità del concetto di esperienza), molto più tenacemente materialistiche hanno continuato a dimostrarsi le scienze biologiche e, in modo particolare, le scienze storiche della natura, dalla geologia alla paleontologia alla biologia evoluzionistica, le quali pongono direttamente il problema della tarda comparsa dell’uomo sulla terra e quindi del lunghissimo periodo di tempo in cui è esistito – per esprimerci con voluta e opportuna rozzezza – l’oggetto senza soggetto. Non per nulla queste scienze sono state sempre la bestia nera di ogni idealismo e di ogni pragmatismo: non per nulla la reazione idealistica iniziatasi nell’ultimo Ottocento e tuttora perdurante ha avuto come uno dei principali obiettivi la lotta contro Darwin, o almeno la neutralizzazione del darwinismo2bis.
Tale neutralizzazione è stata tentata secondo due diverse linee. Da una parte si è cercato di applicare anche alle scienze storiche della natura il classico sofisma soggettivistico: la natura prima dell’uomo (o dopo la futura scomparsa della specie umana) è, si è detto, soltanto una costruzione della nostra scienza: attribuirle realtà ontologica sarebbe fare della metafisica: darwinismo sì, dunque, ma darwinismo puramente «metodologico»! Senonché questo ragionamento, se provasse qualcosa, proverebbe troppo: non è possibile, infatti, negare realtà ontologica alla storia della natura senza negarla anche a tutto il passato – umano o extraumano, prossimo o remoto che sia – e così pure a tutta la realtà fuori di me, compresi gli altri esseri umani. Dal punto di vista idealistico, aveva perfettamente ragione Gentile di far notare che ammettere una qualsiasi realtà (anche umana, anche «spirituale») al di fuori del pensiero attualmente pensante è naturalismo. Il valore dell’attualismo gentiliano consiste proprio nella consequenziarietà con cui esso svolse fino in fondo, riducendole all’assurdo, le premesse idealistiche. E se Croce aveva buone ragioni di recalcitrare dinanzi all’identificazione di storia e storiografia, di res gestae e historia rerum gestarum, aveva però manifestamente torto nel non voler vedere che il rifiuto di quell’identificazione implicava il rifiuto di tutto l’idealismo. Ora, se le res gestae sono distinte dall’historia rerum gestarum, non c’è proprio nessun motivo di credere alla battaglia di Waterloo come a qualcosa di «realmente avvenuto» e di negare, invece, lo stesso riconoscimento alla formazione del sistema solare o a qualsiasi altro episodio cosmico anteriore all’origine dell’uomo; e il darwinismo «puramente metodologico» si rivela allora un trucco. Né tentativi di soluzioni relazionistiche o transazionistiche («l’esperienza è nella natura ma anche la natura è nell’esperienza»)3 sono tali da eliminare davvero gli equivoci. Le due proposizioni collegate dal ma anche sono tutt’e due vere, ma a ben diversi gradi di fondamentalità e di potere condizionante. La teoria gnoseologica del rispecchiamento, rozza quanto si vuole, ha almeno il merito di esprimere sia pur metaforicamente questa diversità: lo specchio è in un determinato ambiente e l’immagine di quell’ambiente è «nello specchio», ma i due termini non hanno lo stesso grado di dipendenza l’uno dall’altro, il circolo non è perfetto.
L’altra direttrice su cui si è mossa la reazione al darwinismo è consistita in vari tentativi di attribuire un’oggettiva spiritualità alla natura, senza entrare in conflitto troppo evidente coi risultati della scienza moderna, anzi cercando nella scienza del secolo ventesimo la base per un rilancio dello spiritualismo, in contrapposizione alla «antiquata» scienza materialistica ottocentesca. Si è contrapposto al «piatto» evoluzionismo ottocentesco un evoluzionismo «a salti», obbedendo all’esigenza giusta di riconoscere già nell’evoluzione degli organismi naturali (e più che mai in quella della società umana) ritmi di sviluppo diversi da quel ritmo graduale e senza scosse che un certo evoluzionismo spenceriano pretendeva di considerare obbligatorio anche sul piano politico-sociale, – ma cadendo ben presto in concezioni miracolistiche dell’evoluzione, intendendo il «salto» come svincolamento assoluto del superiore dall’inferiore, soppressione di ogni condizionamento. L’Évolution créatrice di Bergson – con gli sviluppi soreliani sul piano sociale, e con la finale involuzione religiosa di Bergson stesso – è l’esempio più chiaro di questa risposta falsa, non rivoluzionaria ma avventuristica, al darwinismo sociale, ma non credo si possa tacere che anche la reazione antipositivistica di un pensatore serio e geniale come Labriola presentò, strettamente intrecciati a motivi validissimi, elementi di avventurismo: nell’«epigenesi» che Labriola contrappose all’evoluzione darwiniana c’è, è vero, la giusta preoccupazione di spiegare scientificamente e non «dialetticamente» i ritmi di sviluppo a salti, ma c’è anche qualcosa dell’évolution créatrice bergsoniana, e significa pur qualcosa il fatto che Labriola, così rigoroso e mordace contro i positivisti, tardasse tanto ad accorgersi di avere spianato la via a liquidatori del marxismo come Sorel e come Croce e Gentile.
Ancora: attraverso la polemica contro la «fallacia riduzionistica» (cavallo di battaglia di Dewey e dei suoi seguaci) si è difesa l’autonomia dei vari «livelli» (fisico, biologico, sociale ecc.). Certo, il monismo frettoloso e pasticcione di un Haeckel rendeva necessaria una difesa dell’autonomia relativa dei livelli superiori rispetto agli inferiori; ma, infilata questa strada, da Boutroux in poi, è stato facile far apparire tale autonomia come assoluta e restaurare così il vitalismo in biologia (basti ricordare l’uso reazionario che ai primi del Novecento è stato fatto della genetica mendeliano-morganiana contro il darwinismo), lo spiritualismo nelle scienze umane. Infine anche la meccanica quantistica e il principio di indeterminazione sono stati utilizzati per ridare una patente di modernissima scientificità al «libero arbitrio», come se l’indeterminazione e la libertà di autodeterminazione fossero tutt’uno, e come se, tanto per fare un esempio, il principio di Heisenberg potesse servire a negare i condizionamenti che sul cosiddetto libero arbitrio esercitano gli stati patologici dell’organismo umano, l’ereditarietà, l’ambiente, la formazione sociale e culturale4.
(1/2. Segue).
Sebastiano Timpanaro
(Tratto da: Sebastiano Timpanaro, Considerazioni sul materialismo, in «Quaderni Piacentini», n. 28, settembre 1966, pp. 76-97).
Note
1 Nel volume collettivo dallo stesso titolo, contenente le relazioni al XVIII Congresso della Società filosofica italiana, Palermo 1960, p. 139 sg.
2 Cfr. Sergio Landucci, Metodologismo e agnosticismo, in «Belfagor» 1961, pp. 637-640. Quanto poco naturalistico sia il «naturalismo critico» americano si vede bene dall’accurata esposizione di G. De Crescenzo, P. Romanell e l’odierno naturalismo statunitense, Firenze 1966.
2bis Osserva giustamente Mario Mirri, in «Critica storica» I, 1962, p. 581 sg.: «Credo che (…) si possa constatare come l’Italia sia uno dei paesi nei quali meno è avvertibile la presenza nella cultura media (…) dei risultati delle scienze naturali e biologiche. Per questo, credo, attecchiscono sempre abbastanza facilmente da noi le diverse forme di spiritualismo ed idealismo». E dopo aver notato come l’interesse scientifico si rivolga prevalentemente verso le scienze fisico-matematiche, aggiunge: «in fondo è sempre possibile ridurre la metodologia matematica o la discussione filosofica sui problemi posti dalla fisica più recente entro premesse spiritualistiche od idealistiche, mentre tali premesse possono facilmente essere escluse sulla base di una aggiornata informazione sulla storia del mondo, della vita sulla terra e degli esseri viventi fino all’uomo. E viene in mente che, se le restaurazioni spiritualistiche ed idealistiche di settanta-sessanta anni fa poterono profittare di una crisi del vecchio positivismo, essa forse si era manifestata proprio sul terreno del decadimento della discussione intorno alle ricerche di storia naturale e di biologia e del loro diminuire di importanza di fronte ad una matematica ed una fisica che ponevano nuovi problemi, mentre insieme se ne aveva sempre più bisogno: cosicché le teorizzazioni convenzionaliste ed empiriocriticistiche sorte in relazione agli sviluppi della matematica e della fisica poterono essere utilizzate in funzione di quelle restaurazioni».
3 Vedi per es. A. Visalberghi, Esperienza e valutazione, 2ª ed., Firenze 1966, capitoli I e VI.
4 Sia lecito esprimere la propria meraviglia nel vedere che anche filosofi seri identificano tranquillamente la libertà (che, se non è intesa mitologicamente, significa capacità di progettazione e di subordinazione dei mezzi al fini) con l’indeterminazione, solo perché l’una e l’altra si contrappongono comunemente al determinismo causale.
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CONSIDERAZIONI SUL MATERIALISMO
di Sebastiano Timpanaro
Seconda parte
6. Tutti questi tentativi di neutralizzazione della spinta materialistica esercitata dalle scienze storiche della natura confermano, col loro carattere sofistico, l’efficacia della spinta stessa. Resta però da domandarsi se la polemica materialistica che abbiamo cercato di svolgere finora sia diretta solo contro le «deviazioni» idealistiche del marxismo, o metta in discussione alcuni aspetti del marxismo stesso soprattutto per ciò che riguarda il rapporto uomo-natura.
Io credo che l’incertezza stessa che in campo marxista vi è sempre stata sul modo di intendere il materialismo, la facilità con cui si sono imposte interpretazioni del marxismo che ne attenuavano o addirittura ne negavano il carattere materialistico, siano dovute, sì, all’influsso della cultura borghese (come abbiamo cercato sia pur rapidamente di mostrare), ma abbiano trovato un terreno favorevole in una mancanza di chiarezza che risale all’origine della dottrina marxista.
Il marxismo è sorto come affermazione della decisività del livello economico-sociale nei riguardi dei fatti giuridici, politici, culturali, e come affermazione della storicità dell’economia. Si potrebbe dire che, nell’espressione «materialismo storico», il sostantivo è polemico contro Hegel e contro tutta una tradizione filosofica che affermava la priorità dello spirito rispetto alla struttura economica, mentre l’aggettivo è polemico contro Feuerbach e, insieme, contro l’economia classica inglese, insomma contro ogni concezione naturalistico-statica della società umana.
Se si considera essenziale al materialismo la critica dell’antropocentrismo e la sottolineatura del condizionamento che la natura esercita sull’uomo, bisogna dire che il materialismo storico di Marx non è propriamente materialismo, ma piuttosto economismo o umanesimo sociale (per quanto anche questi due termini siano inadatti, poiché il primo impoverisce i concetti marxisti di formazione economico-sociale e di sovrastruttura, e il secondo rischia di falsare in senso idealistico il rapporto struttura-sovrastruttura). La natura fisica e biologica non è certo negata nel marxismo, ma costituisce piuttosto un antefatto preistorico della storia umana che una realtà che tuttora limita e condiziona l’uomo. Da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a produrre, pare che egli entri in rapporto con la natura (secondo un famoso passo dell’Ideologia tedesca) soltanto attraverso il lavoro. Si ricade così in quella concezione pragmatistica del rapporto uomo-natura che annulla illegittimamente il «lato passivo» del rapporto stesso: si tace che l’uomo entra in rapporto con la natura anche attraverso l’ereditarietà e, più ancora, attraverso gli innumerevoli altri influssi dell’ambiente naturale sul suo corpo e quindi sulla sua personalità intellettuale, morale, psicologica. Negare tutto ciò appiccicandogli l’etichetta di positivismo o di materialismo volgare non è possibile, sia per la ragione fondamentale che i fatti non si lasciano vincere dalle etichette, sia perché, anche storiograficamente, il materialismo non è stato un privilegio o una macchia della sola età positivistica (tra i positivisti, anzi, è stato una posizione di minoranza), ma ha caratterizzato tutto un filone dell’illuminismo settecentesco (per non parlare di posizioni filosofiche anteriori, e poi di Leopardi e di Feuerbach) che non si può liquidare con due battute polemiche.
Assai più che da Marx – benché, a quel che risulta, non in dissenso con Marx – il problema del rapporto uomo-natura e della costruzione di un materialismo non puramente economico-sociale ma anche «naturale» fu sentito da Friedrich Engels, e ciò costituisce un suo grande merito. A sollecitare questo approfondimento contribuì non solo il clima generale filosofico-scientifico del secondo Ottocento, ma, più specificamente, la svolta che il darwinismo impresse alle scienze naturali, dimostrando definitivamente (contro il concetto di natura accolto da Hegel e da materialisti di formazione hegeliana come Moleschott) la storicità della natura. Ora il problema non era più di contrapporre la storicità della società umana all’astoricità della natura, ma di trovare la saldatura e insieme la differenziazione delle due storicità. Engels contribuì a questo compito specialmente con lo splendido libro sull’Origine della famiglia, nonché con le sue esposizioni generali del marxismo. Soltanto, come già abbiamo accennato, egli rimase combattuto tra una tendenza ad aderire al materialismo fisico-biologico e una tendenza a contrapporre al «minestrone eclettico» dei professori positivisti l’ultima grande filosofia «classica», l’hegelismo. Direi che la testimonianza più significativa di questa contraddizione è quel passo del capitolo I del Ludwig Feuerbach: «Non abbiamo bisogno di discutere qui se questa concezione [la hegeliana] si accorda completamente con lo stato attuale delle scienze naturali, che predicono una fine possibile dell’esistenza della terra stessa, una fine però abbastanza sicura alla sua abitabilità, e quindi riconoscono anche alla storia umana non solo un ramo ascendente, ma anche un ramo discendente. Ci troviamo ad ogni modo ancora abbastanza lontani dal punto culminante, a partire dal quale la storia della società comincerà a declinare, e non possiamo pretendere che la filosofia di Hegel si occupasse di un argomento che ai suoi tempi le scienze naturali non avevano ancora messo all’ordine del giorno». Chi scrive così non considera certo la natura come mero «oggetto del lavoro umano», e toglie ogni assolutezza ai concetti di progresso e di dialettica (la catastrofe cosmica finale sarebbe un tipico caso di «negazione adialettica», di vera distruzione di valori, non di negazione-conservazione); eppure Engels continua a celebrare l’avvento del socialismo come passaggio dalla necessità alla libertà assoluta, e a considerare l’infelicità umana come dovuta soltanto a cause di ordine economico-sociale.
Un’altra seria battaglia per il materialismo è costituita da Materialismo ed empiriocriticismo di Lenin, il cui valore non è affatto infirmato da dieci o da cinquanta errori di fisica che vi si possono trovare. Resta un merito duraturo di Lenin aver individuato il carattere reazionario della rinascita idealistica del primo Novecento, anche là dove essa si presentava come un rilancio di attivismo rivoluzionario contro il quietismo darwinistico-sociale. Tuttavia è evidente che un approfondimento del rapporto uomo-natura esulava dagli interessi di Lenin e dall’urgenza dei compiti rivoluzionari a cui egli era chiamato.
7. Quella che in Engels era una posizione complessa, un odi et amo nei riguardi del materialismo delle scienze della natura, è diventata senz’altro ostilità nei marxisti occidentali del Novecento, anche in quelli più immuni da scivolamenti in senso soggettivistico. E in questa ostilità le ragioni giuste e i sofismi sono strettamente intrecciati.
Quando i marxisti affermano la «decisività» della struttura economico-sociale, e riconoscono perciò a questo livello, e non al sottostante livello biologico, la qualifica di «base» della società e della cultura umana, hanno ragione relativamente alle grosse trasformazioni e differenziazioni della società, le quali avvengono principalmente come conseguenza di mutamenti della struttura economica e non di mutamenti dell’ambiente geografico o della costituzione fisica degli uomini. La divisione dell’umanità in classi sociali ne spiega la storia molto meglio della divisione in razze o in popoli; e sebbene, come dato di fatto, sia esistito ed esista l’odio di razza e il conflitto di nazioni, e sebbene gli ambigui e compositi concetti di nazione e di patria abbiano sempre una componente razzistica, tuttavia è indubbio che tali conflitti, almeno dalla fine della preistoria in poi, sono fondamentalmente (e sempre più diventano) mascherature o sviamenti di conflitti economico-sociali, non contrasti «genuinamente» biologici o etnici. Di qui l’immensa superiorità metodologica della storiografia di Marx in confronto, non diciamo ad una volgare storiografia razzistica, ma anche alla storiografia etnica di un Thierry.
In confronto al ritmo evolutivo della struttura economico-sociale (e dei fatti sovrastrutturali da essa determinati), la natura, ivi compreso l’uomo in quanto essere biologico, muta anch’essa, come ci ha insegnato l’evoluzionismo, ma con un ritmo immensamente più lento e graduale: «sta natura ancor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star», dice il Leopardi. Se dunque studiamo un periodo anche molto lungo di storia umana avendo l’occhio alle trasformazioni della società, può essere legittimo trascurare il livello fisico-biologico, in quanto esso costituisce, relativamente a quel periodo, una costante. E, intendiamoci, analogamente può essere lecito anche al marxista, quando si tratta di fare storia di eventi politici o culturali avvenuti nell’ambito ristretto di una situazione economico-sociale fondamentalmente unitaria e statica, considerare tale situazione come una costante e fare storia della sola sovrastruttura: già Gramsci avvertiva giustamente che sarebbe ingenuo pensare che ogni singolo fatto sovrastrutturale fosse la ripercussione d’un mutamento di struttura, e proprio ora Luporini ha osservato che Marx stesso, nell’Introduzione alla Critica dell’economia politica, afferma esplicitamente la dipendenza della sovrastruttura dalla struttura solo «per il suo aspetto macroscopico e catastrofale, diciamo così, cioè in relazione alle rivoluzioni sociali»5.
Ma se, facendoci forti di questo carattere di relativa immobilità (entro un certo periodo) della struttura economico-sociale, noi volessimo concludere che essa non ha nessun potere condizionante sulla sovrastruttura o addirittura nessuna esistenza reale, commetteremmo un tipico sofisma «storicistico». Ora, un sofisma del tutto analogo consiste nel negare il condizionamento che la natura esercita sull’umanità in generale, per la ragione che questo condizionamento non ha uno spiccato valore caratterizzante rispetto a singole epoche della storia umana. Il marxista si mette in una posizione scientificamente e polemicamente debole se, dopo avere respinto gli argomenti idealistici tendenti a dimostrare che l’unica realtà è lo Spirito e che i fatti culturali non hanno alcuna dipendenza dalla struttura economica, prende poi a prestito i medesimi argomenti per negare la dipendenza dell’uomo dalla natura.
La posizione del marxista, certe volte, sembra simile a quella di chi, standosene al primo piano di una casa, dicesse rivolto all’inquilino del secondo piano: «Lei crede di essere autonomo, di reggersi da solo? Si sbaglia! Il Suo appartamento si regge solo perché poggia sul mio, e se crolla il mio, crolla anche il Suo»; e viceversa all’inquilino del pianterreno: «Cosa pretende Lei? di sorreggere, di condizionare me? Povero illuso! Il pianterreno esiste solo in quanto è il pianterreno del primo piano. Anzi, a rigore, il vero pianterreno è il primo piano, e il Suo appartamento è solo una specie di cantina, a cui non si può riconoscere vera esistenza». A dire il vero, da parecchio tempo i rapporti tra il marxista e l’inquilino del secondo piano sono sensibilmente migliorati, non perché l’inquilino del secondo piano abbia riconosciuto la propria «dipendenza», ma perché il marxista ha molto diminuito le sue pretese, ed è arrivato ad ammettere che il secondo piano è in larghissima misura autonomo dal primo, o, se non altro, che i due appartamenti «si sorreggono a vicenda». Ma verso l’abitatore del pianterreno il disprezzo si è fatto sempre più pronunciato.
La polemica storicistica contro l’«uomo in generale», giustissima finché nega che siano proprie dell’umanità in generale certe caratteristiche storico-sociali come la proprietà privata o la divisione in classi, diventa errata quando trascura il fatto che l’uomo come essere biologico, dotato di una certa (non illimitata) adattabilità all’ambiente esterno, dotato di certi impulsi all’attività e al raggiungimento della felicità, soggetto a vecchiezza e a morte, non è una costruzione astratta e non è nemmeno un nostro antenato preistorico, una specie di pitecantropo ormai superato dall’uomo storico-sociale, ma esiste tuttora in ciascuno di noi e con tutta probabilità esisterà anche in futuro. Cambiano, certo, in conseguenza dello sviluppo della società, i modi di sentire il dolore, il piacere e le altre reazioni fisio-psichiche elementari; non c’è probabilmente nell’uomo odierno più nulla di «puramente naturale», che non sia stato arricchito e riplasmato dall’ambiente sociale e culturale. Ma tuttavia quegli aspetti generali della «condizione umana» rimangono, e le caratteristiche specifiche introdottevi dalle varie forme di vita associata non sono state tali da sovvertirli completamente. Sostenere che, siccome il «biologico» ci si presenta sempre mediato dal «sociale», il «biologico» è nulla e il «sociale» è tutto, sarebbe, ancora una volta, un sofisma idealistico. Se lo accettiamo, come ci difenderemo da chi, a sua volta, sosterrà che, siccome ogni realtà (compresa quella economico-sociale) è conoscibile solo attraverso il linguaggio (o attraverso il pensiero pensante), il linguaggio (o il pensiero pensante) è l’unica realtà e tutto il resto è astrazione?
Abbiamo parlato dell’importanza che il livello biologico ha nella determinazione dei caratteri della condizione umana in generale. Ma bisogna aggiungere che, se il livello biologico ha un’importanza praticamente nulla riguardo alla determinazione di caratteri comuni a grossi gruppi umani (non esiste, per esempio, nessuna correlazione tra l’appartenenza a una razza e il possesso di certe doti intellettuali o morali), ha invece, di nuovo, un peso cospicuo nella determinazione dei caratteri individuali. L’umanità non è fatta di individui tutti uguali per costituzione fisio-psichica, differenziantisi solo per l’ambiente sociale in cui vengono a trovarsi6. Accanto alle differenze di formazione sociale-culturale (differenze che, a loro volta, dovranno pur tradursi in determinati «caratteri acquisiti» del cervello e del sistema nervoso) entrano in giuoco differenze «costituzionali» dovute a molteplici altri fattori biologici. Il grottesco semplicismo e le estrapolazioni razzistiche della scuola lombrosiana e di altre tendenze affini possono certo indurci ad accantonare i tentativi di interpretazione «biologica» di questo o quel personaggio storico, in attesa che lo studio dei rapporti tra fisiologia e psicologia e sviluppo intellettuale sia molto più progredito di ora. È evidentemente più scientifico rinunciare, per mancanza di dati attendibili, ad una spiegazione scientifica, che abbandonarsi alla fantascienza. Non dimentichiamo però che si tratta di un accantonamento non definitivo, poiché ogni negazione di principio dell’esistenza di quei rapporti significherebbe un ritorno al concetto di «anima» con tutte le sue assurdità. Né bisogna dimenticare che, al limite, la natura influisce sulla storia umana attraverso la morte dei vari attori di tale storia. Non ci si converte al culto degli «eroi», non si abbandona il marxismo dicendo che la morte di Lenin, dovuta a malattia, ha avuto un notevole (anche se non preminente) influsso su certe degenerazioni del Partito bolscevico e della Russia rivoluzionaria: e questo, in misura minore, è vero anche per ciascuno dei personaggi minori e minimi del dramma umano. La storia umana è continuamente intersecata da accidenti «naturali» (che, naturalmente, non sono soltanto le morti). Lo so: a questa osservazione si può rispondere che il protagonista della storia è lo Spirito assoluto (o la Specie umana, o le classi) e che gli individui empirici non hanno vera realtà. Ma è anche risaputo che questa concezione rende trascendente l’Io assoluto rispetto ai soggetti empirici, cioè restaura un dualismo platonico tra apparenza sensibile e vera realtà, proprio nell’atto in cui proclama con grande enfasi il monismo.
8. Questo condizionamento che – per esprimerci in termini labrioliani – il «terreno naturale» esercita sull’uomo anche dopo la formazione e lo sviluppo del «terreno artificiale», è da tener presente quando si affronta il tormentatissimo problema dei rapporti fra struttura e sovrastruttura e, più in generale, della collocazione da assegnare alle attività cosiddette «spirituali» o culturali.
È certamente necessario ammonire che la dipendenza della sovrastruttura dalla struttura non dev’essere concepita in modo semplicistico. È ancora più necessario, come ha recentemente osservato Cesare Luporini7, non accontentarsi di generiche formule di rifiuto del semplicismo e della meccanicità («azione reciproca tra struttura e sovrastruttura», «dipendenza della sovrastruttura dalla struttura ma solo in ultima istanza»), ma decidersi finalmente ad approfondire lo studio dei processi attraverso i quali la sovrastruttura giunge ad autonomizzarsi (sempre entro certi limiti) dalla struttura e ad esercitare su essa una contro-azione che è però sempre secondaria in confronto all’azione esercitata dalla struttura. Tuttavia mi sembra che il concetto di sovrastruttura, anche inteso non meccanicamente, non possa includere in sé la totalità delle attività culturali.
L’interesse per la matematica o per la fisica o per la filologia, certo, non sorge se non in un determinato ambiente sociale; l’adozione di determinate tecniche di ricerca non è pensabile se non in una determinata società: più ancora, l’ideologia stessa (e questo va detto in particolare contro molti storici odierni che si vantano immuni da ogni interesse «pratico-politico») è un rischioso ma insostituibile strumento di ricerca, almeno fino a quando non sia attuata una perfetta società senza classi. Ma i risultati di verità obiettiva a cui le scienze sono pervenute già nelle società pre-socialistiche (e talvolta anche per opera di scienziati politicamente e socialmente conservatori) non sono risolubili in termini di ideologia schiavistica o feudale o borghese. Altrimenti cadremmo davvero in uno storicismo deteriore, in una concezione relativistica della conoscenza e, in fin dei conti, nella negazione della realtà esterna o della sua conoscibilità8. E come non è sic et simpliciter sovrastruttura (pur essendo, ripetiamo, necessariamente connessa a elementi sovrastrutturali) la conoscenza scientifica, così non sono riducibili senza residuo a sovrastruttura gli aspetti strumentali, ideologicamente neutri e pertanto extra-classisti, che vi sono in tutte le istituzioni umane – nel linguaggio assai più che nelle istituzioni giuridico-politiche e culturali in senso stretto, come ha dimostrato Stalin nell’unico suo scritto che presenti un vero interesse teorico.
Ma io credo che la riduzione delle attività culturali a sovrastruttura sia da limitarsi anche in un altro senso. Non solo i rapporti sociali tra gli uomini, ma anche i rapporti tra gli uomini e la natura danno impulso alla riflessione scientifico-filosofica e all’espressione artistica. Filosofia, scienza, arte non traggono stimolo e alimento solo dal «terreno artificiale» della società, ma anche dal «terreno naturale». Troppo poco, nel discutere i problemi della sovrastruttura, si è tenuto conto di una osservazione di Antonio Labriola che a me sembra illuminante. Dopo aver detto che l’arte, la religione e la scienza sono determinate dalla struttura economica «in buona parte e per indiretto», Labriola precisa che con la seconda limitazione intende ricordare che «nella produzione artistica e religiosa la mediazione dalle condizioni ai prodotti è assai complicata» (e questa è l’avvertenza che tuttora sempre si fa, e a proposito della quale Luporini giustamente chiede che si esca dal generico): con la prima limitazione vuol sottolineare che «gli uomini, pur vivendo in società, non cessano per ciò solo di vivere anche nella natura, e di ricevere da questa occasioni e materia alla curiosità ed al fantasticare»9. E poco dopo ritorna a battere su questo concetto: «Gli uomini, vivendo socialmente, non cessano di vivere anche nella natura. A questa non sono certo legati come gli animali (…). Ma la natura è sempre il sottosuolo immediato del terreno artificiale, ed è l’ambito che tutti ci recinge. La tecnica ha messo fra noi animali sociali e la natura i modificatori, i deviatori, gli allontanatori degl’influssi naturali; ma non ha perciò distrutta la efficacia di essi, e noi anzi di continuo la sentiamo. E come noi nasciamo naturalmente maschi e femmine, moriamo quasi sempre nostro malgrado, e siamo dominati dall’istinto della generazione, così noi portiamo anche nel temperamento condizioni specifiche, che l’educazione nel lato senso della parola, ossia l’accomodazione sociale, può modificare, sì, entro certi limiti, ma non può mai distruggere. Queste condizioni di temperamento ripetute in più esemplari, e derivatesi in più esemplari attraverso i secoli, costituiscono ciò che si chiama carattere etnico. Per tutte codeste ragioni, la nostra dipendenza dalla natura, per quanto diminuita dai tempi della preistoria in qua, si continua nel nostro vivere sociale; come in questo si continua anche l’alimento che dallo spettacolo della natura stessa viene alla curiosità ed alla fantasia. Ora cotesti effetti della natura, coi sentimenti immediati o mediati che ne resultano, per quanto avvertiti, da che c’è storia, solo attraverso l’angolo visuale che ci è offerto dalle condizioni della società, non mancano mai di riflettersi nei prodotti dell’arte e della religione; la qual cosa complica le difficoltà della interpretazione realistica e piena dell’una e dell’altra»10.
Questo passo ci fa vedere con quanta serietà il Labriola (che pure può sotto un certo aspetto, come abbiamo prima accennato, esser considerato un troppo impaziente avversario del «materialismo volgare») tenesse conto di certe esigenze di quel positivismo contro cui lottava. C’è addirittura nel brano che abbiamo riportato una concessione eccessiva al positivismo (o forse, più probabilmente, un’eccessiva fedeltà a Humboldt e a Steinthal e alla filologia tedesca così impregnata di etnicismo), ed è quell’accenno al «carattere etnico»11. La fiducia nella validità scientifica di questa ambigua categoria contribuì probabilmente a provocare quegli sbandamenti colonialistici che rimangono l’aspetto più sconcertante del pensiero e dell’azione di Labriola. Ma una volta messa in chiaro l’inconsistenza della razza e della nazione come categorie biologico-culturali, resta verissima l’influenza della natura sulla cultura nel triplice senso di influsso della costituzione biologica sul carattere psico-intellettuale di ciascun individuo, di stimolo all’attività scientifico-filosofica e artistica e di oggetto delle medesime attività. E molto bene Labriola, mentre riconosce esplicitamente la mediazione esercitata dall’ambiente sociale, nega che tale mediazione annulli o renda trascurabili gli impulsi e i condizionamenti che provengono dalla natura.
Per fare un esempio banale: l’amore, la brevità e caducità delle cose umane, il contrasto fra la piccolezza e debolezza dell’uomo e l’infinità del cosmo, si esprimono nelle opere letterarie in modi molto diversi a seconda delle varie società storicamente determinate, e tuttavia non in modi talmente diversi che vada perduto ogni riferimento a quei dati costanti della condizione umana che sono l’istinto sessuale, l’indebolimento (con le relative ripercussioni psicologiche) prodotto dalla vecchiezza, la paura della morte propria e il dolore per la morte altrui. E d’altra parte, il modo di sentire l’amore o di deplorare la vecchiezza da parte di un poeta si differenzia dal modo di un altro poeta non solo per la diversa formazione sociale-culturale, ma anche per il diverso «temperamento nervoso», di cui fan parte anche fattori schiettamente biologici. Su questa base possono stabilirsi delle affinità pur nella diversità dell’ambiente sociale e culturale. Il tassismo del Leopardi si spiega, certo, con l’educazione letteraria del Leopardi stesso e magari con certe analogie tra l’ambiente della Controriforma e l’ambiente della Restaurazione, ma si spiega anche con affinità di cagionevole salute e di indole melanconica fra il Tasso e il Leopardi, che portarono l’uno e l’altro a scorgere e ad esprimere con particolare intensità certi aspetti dolorosi della «condizione umana»12.
Gli aspetti costanti (finora pochissimo modificati, e forse scarsamente modificabili in futuro) della condizione umana non sono, sia ben chiaro, aspetti metafisici o metastorici. L’«uomo in generale» come noi lo intendiamo – che è, poi, tutt’uno con l’uomo naturale – non è l’«uomo eterno»: tant’è vero che ha avuto un’origine e avrà una fine (o una trasformazione per evoluzione darwiniana). Pur non essendo affatto eterni, quegli aspetti sono però diuturni, cioè dotati, relativamente all’esistenza della specie umana, di molto maggiore stabilità che i caratteri storico-sociali. Pretendere di ridurli a caratteri storico-sociali significa davvero offrire un facile giuoco polemico a chi si farà forte della non-riuscita di tale riduzione per tornare a sostenere l’esistenza dell’«uomo eterno»: così come pretendere di assegnare alla religione una genesi esclusivamente economico-sociale – trascurando il fatto che la religione è anche una compensazione illusoria del timore della morte e, in generale, dell’oppressione esercitata sull’uomo dalla natura – significa fare il giuoco dei sostenitori del valore autonomo e privilegiato dell’«esperienza religiosa». Anche il problema dell’«eredità storica e culturale» e della «permanenza e trasmissione di valori» attraverso la successione di diverse forme di società (la cui importanza è giustamente messa in rilievo da Luporini nell’articolo che già abbiamo avuto occasione di citare) troverà, certo, in gran parte la sua soluzione in un modo più articolato di concepire il rapporto struttura-sovrastruttura e in uno studio più attento della funzione degli intellettuali come depositari della continuità della cultura; ma non bisognerà nemmeno dimenticare che tale continuità culturale – per cui, come già osservava Marx, sentiamo così vicina a noi la poesia omerica – è agevolata dal fatto che l’uomo come essere biologico è rimasto sostanzialmente invariato dagli inizi della civiltà ad oggi; e poco sono mutati certi sentimenti e certe rappresentazioni che più da vicino si riferiscono ai dati biologici dell’esistenza umana.
9. A questo punto sarà, credo, abbastanza chiaro in che cosa si possa, da un punto di vista materialistico, consentire e in che cosa dissentire da quel recentissimo orientamento che si può compendiare nella formula «marxismo più psicanalisi» o «marxismo più strutturalismo più psicanalisi». Si deve riconoscere a questo orientamento il merito di respingere la riduzione del marxismo a «storicismo» (con tutti gli equivoci idealistici e intuizionistici di cui questo termine era carico)13, di sottolineare la necessità di studiare scientificamente anche le discipline storiche e letterarie, e, infine, di voler connettere allo studio dell’uomo storico lo studio dell’uomo naturale (donde l’interesse per la psicologia, per l’antropologia e per quella formazione in qualche modo intermedia tra gli organismi naturali e le istituzioni sociali che è il linguaggio).
Senonché psicanalisi e strutturalismo, se di fronte ad una cultura puramente umanistica rappresentano un’istanza scientifica, sono, d’altra parte, profondamente permeati di ideologia antimaterialistica. Gli attacchi che la psicanalisi ha subito e subisce «da destra» non possono far dimenticare che questo indirizzo scientifico è sorto in polemica con la psicologia materialistica e ha mirato a rendere autonomi i fatti psichici dai fatti anatomico-fisiologici. Il fatto che linguisti di formazione crociana o vossleriana polemizzino contro lo strutturalismo in nome dell’identificazione del linguaggio con l’arte, non toglie che lo strutturalismo faccia del «sistema» qualcosa di chiuso e di perfettamente coerente in sé, senza alcun interesse per la sua genesi «dal basso», per i rapporti tra le attività umane e i loro condizionamenti sia economico-sociali, sia fisico-biologici. A questo concetto davvero cuvieriano di «sistema» è inerente l’astoricità (non soltanto l’antistoricismo): l’esasperazione del distacco tra sincronia e diacronia, e il disprezzo o l’estraneità alle ricerche diacroniche, sono caratteri essenziali dello strutturalismo, che non si superano con qualche contemperamento eclettico.
È più che mai necessaria, di fronte a questi due indirizzi scientifici, un’opera di sceveramento tra le loro acquisizioni reali e tutto ciò che essi contengono di ideologico, di inverificabile (mi riferisco in particolare alla psicanalisi), perfino di ciarlatanesco (mi riferisco, come caso-limite, alla colossale presunzione e alle ridicole civetterie di un Lévi-Strauss). È necessario tra il marxismo e questi indirizzi un confronto ideologico, una presa di posizione antagonistica e non meramente ricettiva: antagonistica non solo nel senso di una critica al loro scarso interesse per i fatti economico-sociali e per il legame di teoria e pratica, ma anche nel senso di una critica al loro antimaterialismo. In mancanza di ciò, l’accostamento allo strutturalismo e alla psicanalisi finirà col risolversi in una ennesima operazione di aggiornamento del marxismo, che ne risulterà culturalmente arricchito, ma sempre in posizione subalterna.
È anche errato, a mio parere, credere che l’interesse del marxista odierno per la linguistica o per la psicologia debba obbligatoriamente incanalarsi verso l’ultima incarnazione della linguistica e della psicologia. Se siamo convinti (e in linea di principio dovremmo esserlo tutti) che il divenire della cultura borghese non segue una linea di assoluto progresso ma di progresso-involuzione (progresso nel raffinamento metodologico e in determinate acquisizioni, involuzione nell’ideologia, il che porta anche ad una parziale falsificazione o forzatura interpretativa dei risultati propriamente scientifici), può darsi allora che Pavlov abbia da dirci più di Freud, almeno sotto certi aspetti, e Ascoli più di Roman Jacobson; e può darsi che anche il ruolo di scienze-guida che attualmente la cultura borghese assegna alla linguistica e alla psicologia vada discusso, e che una parte più importante vada attribuita alle scienze storiche della natura. Ma naturalmente tutte queste scelte dipendono dalla scelta pro o contro il materialismo.
(2/2. Fine).
Sebastiano Timpanaro
(Tratto da: Sebastiano Timpanaro, Considerazioni sul materialismo, in «Quaderni Piacentini», n. 28, settembre 1966, pp. 76-97).
Note
5 C. Luporini, Realtà e storicità: economia e dialettica nel marxismo, in «Critica marxista», IV, 1966, n. 1, p. 105.
6 Questo costituì, come è noto, uno del punti di dissenso di Diderot da Helvétius; e qui Diderot, forte dei suoi studi biologici, era più materialista del meccanicista Helvétius, anche se per altri lati la Réfutation diderotiana presenta dei pericoli di ricaduta nello spiritualismo (più precisamente, nell’antiriduzionismo, sotto l’impulso di una polemica, in sé giusta, contro un riduzionismo troppo sbrigativo).
7 Art. cit., pp. 104-106; Marxismo e scienze umane, in «Rinascita».
8 Bisogna tener presente che il concetto di sovrastruttura è nato, storicamente, dalla critica della religione e del diritto, cioè di costruzioni eminentemente sprovviste di validità oggettiva, le quali, viceversa, accampavano pretese universalistiche, vantavano la loro origine divina o «naturale». Rispetto a tali pretese, il concetto di sovrastruttura ha esercitato un’importantissima funzione demistificatrice. Ma, trasportato senz’altro alla conoscenza scientifica, esso rischia di farne qualcosa di altrettanto relativo e soggettivo che la religione e il diritto: rischia, cioè, di esercitare un’azione antimaterialistica e antropocentrica. La teoria stessa della conoscenza come rispecchiamento, che appare come il non plus ultra dell’oggettivismo, può assumere un carattere relativistico qualora si consideri come oggetto del rispecchiamento solo la realtà storico-sociale e non anche la realtà naturale: in questo caso le leggi di Keplero o il principio di Pascal diventano soltanto un’espressione degli ambienti sociali-culturali in cui i loro scopritori si formarono, e non anche formulazioni di rapporti oggettivi tra fenomeni. C’è un modo di fare storia della scienza come storia della cultura, che, se rappresenta un gran passo avanti rispetto all’idealismo storico-letterario, rimane però esso stesso troppo umanistico.
9 A. Labriola, Del materialismo storico: dilucidazione preliminare, X (In Saggi sul mat. stor., a cura di V. Gerratana e A. Guerra, Roma 1964, p. 145 sg.; La concezione materialistica della storia, a cura di E. Garin, Bari 1965, p. 133).
10 ibid. (ed. Gerratana-Guerra, p. 147 sg.; ed. Garin, p. 135 sg.). Alla luce di queste considerazioni va ripensato, e in parte corretto o almeno integrato, ciò che il Labriola scrive immediatamente prima, sul carattere sovrastrutturale della scienza. Egli osserva che sovrastrutturale è «la origine del bisogno scientifico», «il che poi lega in via genetica questo agli altri bisogni, nella continuità del processo sociale». Verissimo; ma bisogna aggiungere: 1) che la storia della scienza non è soltanto storia dei bisogni scientifici, ma anche delle acquisizioni di verità obiettiva (vedi sopra, nota 8); 2) che, come lo stesso Labriola chiarisce nel passo che abbiamo riportato nel testo, anche il bisogno scientifico non ha un’origine solamente economico-sociale, ma anche «naturale»; e lo stesso si può dire del bisogno artistico e di quello religioso.
11 È del tutto giusto, ovviamente, indicare nel razzismo e nel colonialismo l’aspetto più negativo della cultura positivistica, e rintracciare nel romanticismo l’origine di tali aberrazioni. Soltanto, oggi si tende troppo sommariamente a considerare inficiato di razzismo l’intero positivismo e, soprattutto, a identificare quasi il razzismo positivistico col «darwinismo sociale». In realtà il razzismo positivistico ebbe i suoi maggiori esponenti europei e americani in etnologi e linguisti antievoluzionisti, cuvieriani, i quali consideravano le varie razze umane come altrettante «specie» zoologiche distinte ab origine. Il darwinismo, distruggendo il concetto di fissità delle specie, e stabilendo perciò un’affinità genetica tra le varie razze o specie umane, arrecò un serio colpo al razzismo, e non per nulla fu accolto ostilmente, oltre che dagli spiritualisti, anche dai razzisti. Soltanto più tardi si ricostituì un razzismo su basi darwiniste o, meglio, pseudo-darwiniste. Ancora: non bisogna dimenticare che, se prima della diffusione del darwinismo la polemica antirazzista rimane spesso affidata soprattutto agli spiritualisti (in Italia, per esempio, al Lambruschini), non mancarono tuttavia coloro che sentirono l’esigenza di sconfiggere il razzismo sul terreno stesso della scienza: basti pensare al Cattaneo. Di tutto ciò vorrei occuparmi più ampiamente altrove.
12 L’errore dei positivisti che hanno affrontato simili temi (e che hanno attirato il discredito su simili ricerche) è consistito nel credere che certe condizioni patologiche fossero necessariamente un ostacolo – e non, in certi casi, un incentivo – alla conoscenza obiettiva della condizione umana. L’esperienza della propria malattia e debolezza può aiutare a capir meglio l’«aspetto passivo» del rapporto uomo-natura, così come l’esperienza della povertà e dello sfruttamento può aiutare a capire gli aspetti negativi di un sistema economico-sociale. Ciò si verifica con particolare evidenza nel Leopardi. Vorrei ancora accennare che la considerazione del rapporto uomo-natura può molto contribuire alla spiegazione di quei contrasti tra involuzione ideologica e progresso poetico che riscontriamo, per esempio, nell’ultimo Parini o in alcune poesie dell’ultimo Carducci (cfr. W. Binni, Poetica, critica e storia letteraria, Bari 1963, pp. 70-78). Un poeta in piena involuzione politica o ideologica può venir travolto, per così dire, in una totale decadenza delle sue facoltà conoscitive e quindi anche poetiche, ma può anche mantenere, o addirittura potenziare, la capacità di esprimere certi aspetti «naturali» della condizione umana che sono relativamente autonomi dalla situazione economico-sociale.
13 Vedi gli articoli di Cesare Luporini già citati alle note 5 e 7. La polemica antistoricistica (nel senso su accennato) di Luporini mi sembra fondamentalmente giusta. Vorrei tuttavia osservare che la professione di storicismo, da parte di marxisti italiani, non ha avuto solo il significato umanistico deteriore che Luporini condanna, ma ha avuto anche il significato di una polemica contro gli aspetti metafisici o «attualistici» del neo-idealismo italiano. Specialmente nel campo della storia letteraria la rivendicazione dello storicismo ha voluto dire rifiuto dell’estetica dell’intuizione pura, rifiuto della storia letteraria per saggi monografici, insomma ciò che si è sommariamente definito come «ritorno al De Sanctis». Vorrei anche notare che anche prima delle recenti prese di posizione di Luporini non sono mancate, nel marxismo italiano, denunce delle ambiguità insite nella nozione di «storicismo»: vedi specialmente A. La Penna ne «La riforma della scuola» VI, n. 2, febbraio 1959 (uno scritto che considero fondamentale e che vedrei volentieri ristampato con altri scritti ideologico-culturali dello stesso autore).
Dalla rivista «Quaderni materialisti»
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Tre lettere tra Sebastiano Timpanaro e Mario Cingoli
Queste lettere, che pubblico con alcune note esplicative, completano il discorso su Timpanaro già sviluppato nel precedente numero doppio 11-12 di «Quaderni materialisti». MC
Milano, 1.11.1995
Caro Timpanaro,
finalmente riesco a mantenere la promessa di inviarti una copia del mio libro1. Vi sono – credo – diversi spunti non adeguatamente sviluppati (anche perché, nel periodo in cui l’ho scritto, in famiglia avevamo a che fare con una situazione molto pesante per la malattia incurabile di un figlio amatissimo2); tuttavia, forse, qualche idea è utilizzabile anche oggi, specie quella di un collegamento tra un quadro generale di materialismo classico (non dialettico) e – a livello storico-umano – il programma «marxempiristico» di «cultura democratica» proposto da Giulio Preti nel capitolo iniziale di Praxis ed empirismo3; questo, anche se mi vado sempre più convincendo che Preti, in generale, è stato un neo-gentiliano; ma dal suo «momento di grazia» del 1957 qualcosa, credo, si può ancora trarre.
Ti allego la bozza del programma del convegno su Engels4. Non voglio pesare su di te insistendo ancora: ma se (sottolineo se) puoi riuscire a farmi avere una comunicazione anche breve, sarò lietissimo di leggerla all’apertura dei lavori.
Se potessi, durante una qualche visita a Firenze, conoscerti di persona, sarebbe per me una grande gioia. Intanto ti prego di gradire i più cordiali saluti,
Mario Cingoli
* * * * *
Firenze, 8.12.1995
Caro Cingoli,
scusami, ti prego, se ti scrivo con così vergognoso ritardo. Sono stato a Roma con mia moglie per una settimana, poi ho voluto leggere il tuo libro (e, ormai vecchio, leggo lentamente, anche quando si tratta di argomenti interessantissimi), poi ho avuto altri impegni urgenti … e così, ecco che rispondo soltanto oggi alla tua del 20 novembre!
Sono stato molto lieto di conoscere Giovanni Gazzo5: mi è sembrato uno studioso molto serio e un uomo dalle idee politiche chiare. Mi ha portato in dono il tuo libro; del dono ti sono gratissimo, e spero – nonostante la disfunzione postale – che tu abbia potuto recuperare quella copia che mi avevi inviato con la famigerata «postacelere»6. Il libro è molto bello, e mi sento d’accordo con te su molti punti essenziali. Non è davvero il caso di scrivere, a proposito di me, si parva licet (p. 13)! Io mi sono occupato di marxismo e di materialismo con intenzioni serie, ma, nonostante ogni sforzo, non sono riuscito a colmare tutte le mie lacune filosofiche e a superare un certo dilettantismo (come forse ti ho già detto, la mia «materia professionale» è la filologia classica). Ti ringrazio delle amichevoli citazioni, specialmente di quelle a pp. 12 (sulla Terra prima della comparsa dell’uomo; e molto giusto è ciò che, in quella stessa nota, riporti dai tuoi Studi sul primo Marx7) e 70-71 (contro Visalberghi/Dewey8). Sarei ancora un po’ perplesso su Havemann9: non credo che la meccanica quantistica possa rimettere in auge il «libero arbitrio». Ma su questo argomento (sul quale ritornai in un libro ormai anch’esso invecchiato, Antileopardiani e neomoderati nella Sinistra italiana10, p. 315 sgg., Appendice III) bisognerebbe fare un discorso lungo, che forse dovremo rimandare un poco.
Quanto a Preti, ho sempre trovato eccessivo l’entusiasmo che per lui ha il nostro Fabio Minazzi (del quale ho alta stima), ma se ci riferiamo, come tu proponi nella tua lettera, a quel solo «momento di grazia» nel quale effettivamente si avvicinò al marxismo, allora sì, possiamo essere d’accordo.
Insomma, trovo che il tuo è un gran bel libro, sul quale continuerò a riflettere. E tanto più mi commuove quello che mi scrivi, cioè che scrivesti quel libro in una situazione drammatica per la malattia incurabile di un tuo figlio. Anche se non ho figli, comprendo bene che cosa voglia dire una perdita come quella; e ti esprimo la mia affettuosa partecipazione al tuo dolore. Sono passati alcuni anni, ma capisco che ferite di quel genere non si rimarginano mai del tutto.
Sono molto contento della buona riuscita del congresso engelsiano. In questo momento in cui i partiti ex-comunisti «svendono il marxismo» e collaborano allegramente col capitalismo più disumano e feroce, la riflessione teorica (non ortodossa, certo, non dogmatica) su Marx e sul tanto disprezzato Engels serve anche a ridare respiro alla lotta politica, se ciò, come mi ostino a pensare, sarà possibile.
Nella speranza che i nostri contatti proseguano e che ci si possa rivedere a Firenze, ti saluto con viva amicizia
tuo Sebastiano Timpanaro
* * * * *
Firenze, 7.3.1996
Caro Cingoli,
ti ringrazio ancora per la telefonata di un paio di settimane fa e per il tuo desiderio di vedere ripubblicato quel mio vecchio libro Sul materialismo. Per ora non ho ricevuto telefonate né lettere da quell’editore che mi nominasti per telefono e di cui ora non ricordo il nome11. Sarebbe perfettamente comprensibile che non se la sentisse di ripubblicare un libro che – anche se riveduto e arricchito di quel Postscriptum anticollettiano del quale ti parlai e di una nuova prefazione o «postfazione» con qualche riflessione sul presente12 – rimarrebbe pur sempre un libro appartenente a un’epoca della Sinistra italiana ormai tramontata. C’è qualcuno che me lo richiede, e lo richiede all’editore Lischi di Pisa, e vorrebbe vederlo ripubblicato; ma potrebbero essere troppo pochi per indurre un editore – che ha pure il diritto di non perderci, anche se io rinuncerei a qualsiasi compenso o percentuale – a «disseppellire» quel libro del 1975. Io l’ho riletto, per curiosità, dopo tanto tempo, e mi ha fatto un’impressione meno cattiva di quanto prevedevo; ma io sono troppo vecchio, troppo legato al passato per poter giudicare. Ad ogni modo voglio assicurarti – anche se è superfluo dirlo – che, anche se quel progetto non andasse in porto, ti rimarrei ugualmente riconoscente per averci pensato, e resteremmo amici come prima, anzi amicissimi.
Spero che tu sia a buon punto con la raccolta del materiale degli Atti del congresso engelsiano da te promosso. La tua è stata davvero un’iniziativa tanto più opportuna quanto più «controcorrente». Quando gli Atti usciranno, ne farò una recensione per «Belfagor» (una rivista non specificamente marxista, un po’ eclettica, ma ancora disposta ad accogliere voci marxiste: in questi tempi davvero plumbei, non è poco!).
Le prossime elezioni rappresenteranno, tranne sorprese imprevedibili, un successo netto del «Polo progressista». Non è certo un male che Berlusconi e AN vengano sconfitti (in pratica, lo sono già). Ma devo dire che non mi aspetto niente di buono neppure dalla vittoria di uno schieramento multicolore, in cui si troveranno alleati, solo per conquistare seggi, capitalisti come Agnelli e De Benedetti, un bigotto autoritario come Scalfaro (questo il seggio più alto ce l’ha già, ma non sarà affatto super partes), spezzoni vari della DC, un Dini che porterà con sé alla vittoria quasi tutto il suo governo precedente e tuttora in carica, un D’Alema che del PCI ha conservato solo l’autoritarismo e la mentalità stalinista, un Bertinotti che, pur di riprendersi qualche seggio, sarà costretto a far confluire i voti di Rifondazione su personaggi innominabili. E, anche se nelle elezioni «correrà da solo», avremo poi al governo anche Bossi!
Spero di essere troppo pessimista. Un saluto affettuoso dal tuo
Sebastiano Timpanaro
P.S. Saluta da parte mia anche Giovanni Gazzo, che ebbi molto piacere di conoscere.
(Tratto da: Mario Cingoli, Sebastiano Timpanaro, Tre lettere tra Sebastiano Timpanaro e Mario Cingoli, in «Quaderni materialisti», n. 13/14, anno 2014-2015).
Note
1 Marxismo, empirismo, materialismo, 2ª edizione ampliata, Milano, Marcos y Marcos, 1990 (d’ora innanzi citata come M); il libro ha poi avuto altre edizioni, fino alla sesta, pubblicata nel 2011 da Mimesis (Milano-Udine).
2 Stefano, straordinario per intelligenza, coraggio e generosità, poi venuto a mancare a diciotto anni nel 1989.
3 Cfr. G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, pp. 11-31.
4 Il convegno su «Friedrich Engels cent’anni dopo. Ipotesi per un bilancio critico» si è svolto presso l’Università degli Studi di Milano dal 16 al 18 novembre 1995; i relativi Atti sono stati pubblicati dall’editore Teti di Milano nel 1998.
5 Laureando su Leopardi, era stato mandato da Timpanaro (che l’ha accolto con grande gentilezza) per avere spiegazioni e suggerimenti.
6 Si tratta di una copia precedentemente inviata per posta e mai pervenuta a destinazione.
7 In M, pp. 11-12, scrivevo: «Nei confronti degli empiristi, nonostante l’apparente banalità, mi sembra sempre ‘forte’ la vecchia domanda ‘Prima che gli uomini (o, più in generale, degli esseri viventi) apparissero sulla Terra, non c’era una realtà già in sé in qualche modo strutturata?’, domanda cui non ho mai trovato, da parte degli empiristi stessi, delle risposte veramente convincenti». Proseguivo poi in nota: «Di solito si risponde, come fa p. es. Giulio Preti in Materialismo storico e teoria dell’evoluzione (in Scritti filosofici, a cura e con presentazione di Mario Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1976, pp. 377-412) alle pp. 381-382, che ‘geologia, paleontologia, eccetera, […] [sono] costruzioni della mente umana’, che partono dai dati attuali e non ci portano fuori dall’esperienza. Ma a queste ‘costruzioni’ attribuiamo o no una validità, sia pure non assoluta ma sperimentale? Se sì – e finché sì – allora dobbiamo accettarne le conclusioni, pur essendo consapevoli che queste si basano sull’esperienza, e le conclusioni ci parlano inequivocabilmente di una realtà pre-umana. […] Sul ‘sofisma soggettivistico’ attraverso cui le scienze vengono ridotte a ‘nostre costruzioni’, e sul fatto che le scienze storiche della natura sono assai più refrattarie a questi giochi di quanto lo sia, p. es., la fisica, cfr. Sebastiano Timpanaro, Sul materialismo, Pisa, Nistri-Lischi, 1975, pp. 9 sgg. Sulla fisica, sia lecito riportare quanto dicevo nel mio Studi sul primo Marx, Milano, Unicopli, 1981, p. 147 in nota: ‘Anche oggi alcuni, partendo dal rilievo che atomi, elettroni etc. sono delle ipotesi, degli strumenti di cui la mente si serve per spiegare l’esperienza e che non vanno ‘materializzati’, saltano alla conclusione che l’esperienza è ‘costituita’ dalla nostra mente. Ma quel rilievo può benissimo essere accettato anche da un realista, come avvertimento critico a non confondere immediatamente la nostra variabile descrizione della realtà con la realtà stessa: e il fatto che egli ammetta che tale descrizione sia ‘nostra’ non toglie affatto che per lui essa sia una descrizione di qualcosa di oggettivo, indipendente dal nostro pensiero e primario rispetto ad esso’».
8 In M, pp. 70-71, parlavo della concezione di Dewey e di Visalberghi «secondo cui c’è perfetta compatibilità tra i due punti di vista, per l’uno dei quali l’attività umana è nella natura, mentre per l’altro la natura stessa è un prodotto dell’attività pratico-conoscitiva dell’uomo», e proseguivo in nota: «In ogni caso, anche volendo restare alla concezione deweyana di Visalberghi, va rilevata – come fa con la consueta chiarezza Sebastiano Timpanaro in Sul materialismo cit., p. 13 – la ben diversa fondamentalità dei due momenti, per cui ‘il circolo non è perfetto’, non si chiude».
9 In M, pp. 165-166, scrivevo: «[…] uno dei più interessanti [modelli di sviluppo], mi pare, è quello proposto da Havemann [in Dialettica senza dogma, Torino, Einaudi, 1965, pp. 116 sgg.], che, rifacendosi alla meccanica quantistica, vede ogni momento dello sviluppo come ‘fascio di possibilità’ (e qui, come in molti altri settori del pensiero moderno, appare centrale il richiamo alla categoria di ‘possibilità reale’), e quindi come ‘campo di scelta’ dell’azione umana: ogni momento, in altre parole, se non è arbitrario, ma condizionato dallo sviluppo precedente, appare però come realizzazione di una delle molte possibilità che c’erano e ‘apre’, a sua volta, su molte soluzioni possibili: condizione, questa, anche della nostra responsabilità e del significato del nostro agire».
10 Pisa, ETS, 1980.
11 Si tratta di Marzio Zanantoni, direttore della Unicopli di Milano, presso la quale nel 1997 fu effettivamente pubblicata la terza edizione di Sul materialismo.
12 Per questa nuova prefazione o «postfazione» cfr. «Venti anni dopo», pp. VII-XXIV della terza edizione citata nella nota precedente.
Inserito il 07/01/2025.
Dalla rivista «Marxismo oggi» – 1994
Le risposte di Sebastiano Timpanaro a Guido Oldrini
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Gli intellettuali e il marxismo
inchiesta a cura di Guido Oldrini
Con l’intento di contribuire al chiarimento della posizione ideologica che gli intellettuali occupano – o credono e dicono di occupare – nell’ambito dello stadio attuale delle lotte di classe, «Marxismo oggi» ha rivolto a esponenti della cultura italiana e straniera sei domande.
Sebastiano Timpanaro (filologo classico, storico della cultura e saggista)
1. Lei si definisce un intellettuale marxista? E se sì, in quale senso?
1. Sì, mi definisco un intellettuale marxista. Questa formula, veramente, può dar luogo a qualche equivoco. La parola “intellettuale” cela in sé un pericolo di aristocraticismo o di pretese pedagogiche; e il riferimento a un uomo, sia pur grandissimo come Marx, può far pensare a una specie di fedeltà dogmatica a un pensatore che non abbia avuto – e Marx ne ebbe in gran copia: “Non sono marxista!” – sviluppo di idee, oscillazioni, anche contraddizioni; e può indurre, come di fatto è avvenuto, a una svalutazione dei contributi teorici di Engels, Lenin, Trotskij, Rosa Luxemburg. Preferirei definirmi uno studioso e, finché mi è stato possibile, un militante di base aderente al materialismo storico e a una prospettiva autenticamente comunista (naturalmente anche questa definizione va precisata; cercherò di precisarla negli stretti limiti imposti da un questionario). Vi sono certamente nel marxismo (d’ora innanzi userò anch’io questo termine per brevità) alcune parti che appaiono a me, e a molti prima di me e ben più “ferrati” di me, cadute fin dall’inizio, o superate da eventi successivi che nemmeno il pensatore più geniale poteva prevedere: in particolar modo la dialettica, che a mio parere è un residuo di teologia hegeliana, intrinsecamente idealistica, non suscettibile di “rovesciamenti” in senso materialistico; così pure un’eccessiva fiducia nella possibilità di sfruttare all’infinito le risorse della natura (a questa fiducia l’ecologia ha segnato un limite drammatico, fermo restando che le ideologie “verdi” sono una mistificazione se non sono intimamente congiunte col “rosso”); ancora, una non piena chiarezza sul rapporto uomo-natura, sull’animalità dell’uomo che è stata grandemente modificata e riplasmata, ma non annullata dal sorgere della società. Sotto questo aspetto io credo che il materialismo francese del Settecento, e lo sviluppo originale che ne ha dato Giacomo Leopardi, ci dicano qualcosa di più del marxismo. Ma un’idea marxista fondamentale, non tramontata né destinata a tramontare, è la critica del nesso tra l’eguaglianza giuridica padrone-lavoratore e la diseguaglianza sostanziale che proprio di quella pseudo-uguaglianza ha bisogno (il lavoratore dev’essere “libero di vendersi” in regime capitalista, come non era lo schiavo né il servo feudale), e quindi la critica di ogni sistema liberal-democratico che non proceda verso l’instaurazione della proprietà collettiva dei mezzi di produzione e verso rapporti il più possibile eguali di status economico e di potere, cioè verso il comunismo. Credo necessario, quindi, dar valore ai numerosi spunti tendenzialmente “anarchici” che si trovano già in Marx (a proposito della Comune di Parigi), in Engels, in Stato e rivoluzione di Lenin, mentre non sono mai riuscito a consentire del tutto con la Critica del programma di Gotha.
Il passaggio al comunismo non può compiersi senza una fase rivoluzionaria (e forse più d’una), perché nessuna classe o casta ha mai rinunciato pacificamente alla sua posizione di privilegio, nemmeno quando la sua funzione storica era ormai esaurita. Che il comunismo sia irraggiungibile da parte dell’umanità, può darsi: seri dubbi sono, oggi più che mai, giustificati. Ma di ciò il capitalismo e il servitori non hanno troppo da rallegrarsi, perché l’impossibilità del comunismo significa una crescente “invivibilità” del pianeta dal punto di vista fisico (inquinamento, divario sempre maggiore tra zone di sviluppo e di sottosviluppo) e sociale (continuo stato di guerra e di disordine nella maggior parte del mondo, conflitti razziali e religiosi), e, a scadenza non troppo lunga, fine della specie umana (molto prima che essa finisca per catastrofi “cosmiche”): fine dalla quale non si salveranno i padroni del mondo e i santoni della politologia.
Vorrei anche notare che il capitalismo odierno, ora che ha sconfitto il “socialismo reale”, si rivela, paradossalmente, sempre più incapace di governare e governarsi. Ha rinunciato a quei palliativi (“stato assistenziale”, “capitalismo democratico” ecc.) di cui tanto si era vantato; è ritornato alle sue brutali origini ottocentesche: disoccupazione crescente, “stangate” contro i più deboli che nemmeno servono a riassestare il sistema, neocolonialismo ipocrita con la benedizione dell’Onu, fortissima riduzione della stessa insufficiente democrazia formale: basti pensare, in Italia (ma non solo in Italia), alla vergognosa legge elettorale, a una magistratura sempre più “di parte”, a partiti tutti di destra (con tutti i gravissimi difetti del Pci, quale caduta ha rappresentano il Pds! E le speranze che io nutrivo in Rifondazione comunista sono assai indebolite da quando, in questo Partito, il timore dell’isolamento ha troppo prevalso sull’esigenza di mantenersi radicalmente anticapitalista), al ristupidimento dei cervelli attuato dai mass-media (e su questo punto la disonestà di moltissimi intellettuali rifulge). Per ora, il popolo, dopo il fatale errore compiuto nel referendum del 18 aprile ’93, sopporta. Se un giorno non sopportasse più, la classe dominante sarebbe pronta a metter su, con un colpo di Stato, un regime totalmente autoritario, vantandosi di “salvare la democrazia”.
2. Lei considera il marxismo una teoria politica, una teoria economica, una concezione generale del mondo, uno strumento per l’indagine, o che altro?
2. Considero il marxismo come una teoria economico-sociale e politica (ben più che strettamente economica in senso tecnico) aperta a tutti gli sviluppi e le modifiche che i mutamenti della società umana impongono (a tali mutamenti ho accennato, troppo benevolmente, al punto 1), ma non tanto “aperta” da sfumare in un eclettismo compatibile, per esempio, con la religione, con filosofie idealistiche e irrazionalistiche, ecc. All’idealismo novecentesco hanno concesso troppo il primo Lukács, gli estremisti Pannekoek e Korsch, nell’illusione (non condivisa, e questo è un grandissimo merito, da Lenin) che il volontarismo idealista fosse una specie di “energetico rivoluzionario”. Vi ha concesso troppo, a mio avviso, anche Gramsci. Per me Gramsci rimane soprattutto un critico acutissimo del Risorgimento italiano e della questione meridionale (non è colpa sua se non poté leggere direttamente Pisacane e dette del suo pensiero politico un’interpretazione in parte distorta; del resto, Pisacane attende ancora uno studioso degno di lui). Ma nella teoria della conoscenza e nella concezione generale dell’uomo, rimase troppo ancorato al falso dilemma “o teocentrismo o antropocentrismo”, e optò per la seconda alternativa, considerando il materialismo come una dottrina pretesca o, tutt’al più, come un “buon senso” provvisoriamente utile per proletari incolti. Qui siamo del tutto fuori del marxismo; ancora una volta, del resto, bisogna dolorosamente pensare a quanti testi materialisti fondamentali Gramsci non poté leggere per la carcerazione, e a tutta l’ondata antimaterialista che influì anche sui migliori ingegni del secolo XX.
Non ignoro, ovviamente, che, se certi pasticci marxisti-cattolici, marxisti-crociani ecc. hanno causato gravi confusioni d’idee, vi sono stati d’altra parte e vi sono, specie nel Terzo mondo, cattolici, islamici, seguaci di altre religioni che hanno dato un contributo eroico alla lotta contro il capitalismo e l’imperialismo. Un religioso che ha sacrificato la vita per comunismo dev’essere certamente onorato mille volte più di un “marxista professorale” che nulla ha pagato di persona e, quasi sempre, ben poco ha combinato anche come professore. E tuttavia rimango convinto che soltanto su basi teoriche materialistiche e atee, su una morale di “fraternità laica”, si potrà (se si potrà) edificare una società comunista autentica. Molto più dunque, che “strumento per l’indagine” o, come si diceva parecchi decenni fa, “guida per l’azione”! Ma neppure “concezione generale (onnicomprensiva) del mondo”, come cercherò di chiarire al punto seguente.
3. Crede che abbia senso parlare di scienza marxista, storiografia marxista, etica marxista, estetica marxista e così via?
3. Nel pensiero e nell’azione non esistono compartimenti stagni. Perciò il marxismo ha dato e potrà ancora dare un contributo essenziale soprattutto all’etica (cfr. il troppo breve accenno al punto precedente), alla storiografia politico-sociale e culturale, a una linguistica generale e a una storia della linguistica che mettano in particolare rilievo gli aspetti sociali del linguaggio e delle teorie linguistiche, a un’estetica non meramente formalistica, a una biologia che, senza negare l’animalità dell’uomo (cfr. al punto 1), non ne ignori o sottovaluti la socialità. Tuttavia Marx, Engels, Lenin, Trotskij non hanno mai preteso di “marxistizzare” tutto lo scibile umano. Nelle discipline che ho menzionato vi sono aspetti “verità obiettiva”, non “ideologici”, che furono scoperti da uomini vissuti prima del marxismo, fideisti, perfino reazionari, o anche contemporanei al marxismo ma antimarxisti, e tuttavia rimangono validi anche per un marxista. Un marxista non condividerà certo la pur nobile religione di Pascal, la teologia di Newton, il deismo di Einstein, ma non commetterà il grosso errore di credere che la fisica e la matematica di quei genii siano da buttar via come teorie reazionarie, da sostituire con una fisica, una matematica, un’astronomia “marxista”. Nemmeno la linguistica è tutta riducibile a sociolinguistica, e tanto meno, specificamente, a “linguistica marxista”. Io, antistaliniano da sempre, credo che fra i tanti scritti di Stalin che pretendevano di essere “teorici” ed erano solo banali e spesso inesatte divulgazioni o, peggio, giustificazioni pseudo-teoriche di prese di posizione politiche contingenti, uno solo, scritto poco prima della morte e rozzo anch’esso ma fondamentalmente vero, si salvi: quello su Il marxismo e la linguistica (su di esso scrissi una trentina d’anni fa un articolo che quasi tutti ignorarono o giudicarono negativamente, che oggi non ristamperei tale e quale, e che tuttavia considero ancora sostanzialmente giusto). Anche nell’arte vi sono aspetti non solo stilistici, ma anche relativi al “terreno naturale” di cui parlava Labriola, non riconducibili totalmente alla società in cui l’artista operò, ma a sentimenti ed esperienze più durature, venute più di lontano e destinate forse a persistere finché durerà la specie umana. Un uomo che non s’interessi di politica è meno di un mezzo uomo; ma non è il tipo migliore di uomo neanche il “panpolitico" (tranne circostanze eccezionali che lo costringano, per un periodo più o meno lungo, a essere tale). L’ammirazione di Marx per Shakespeare, di Lenin per Beethoven (e il suo dolore per non poterne godere di più), l’interesse di Trotskij per quel tanto di psicoanalisi che poté conoscere e per le “avanguardie” letterarie, non furono “tradimenti del comunismo”; furono dimostrazioni di larga umanità, di mancanza di angustia fanatica.
4. Indipendentemente dalle Sue idee e dalla Sua posizione teorica, ha avuto il marxismo qualche influsso sul Suo lavoro?
4. La mia “materia professionale”, della quale non ho mai smesso di occuparmi, è la filologia classica: una filologia, tranne poche eccezioni, strettamente tecnica (interpretazione e critica testuale di singoli passi di vari autori, studi sul lessico e sulla grammatica latina). Su lavori di questo genere l’influsso del marxismo è pressoché nullo. Ma credo che il mio esser marxista (e, per un altro verso, “leopardiano”, come ho accennato al punto 1) abbia avuto un influsso determinante su altri miei lavori – “dilettanteschi”, come sono stati giudicati da molti: non rifiuto l’epiteto, ma si dovrà forse ammettere che il mio dilettantismo è stato basato su studi seri, ed errori di fatto squalificanti o giudizi ciarlataneschi non se ne sono trovati – sul materialismo e il marxismo, sulla storia politico-culturale dell’Ottocento, sul pensiero del Leopardi (e di un “minore” sul quale c’è ancora da lavorare, Pietro Giordani) e sulle sue radici settecentesche (mi riferisco in particolare al barone d’Holbach, e a Voltaire nei rari momenti in cui ebbe il coraggio del proprio pessimismo), sulle idee linguistico-etnografiche del Cattaneo e sui rapporti tra Cattaneo e Ascoli e tra Ascoli e i suoi epigoni (mi sono occupato anche dei rapporti tra i fratelli Schlegel e il Bopp, nonché di alcuni interessanti linguisti minori ottocenteschi, come Giacomo Lignana), di Carlo Bini e della sua “sfortuna” perdurante fino a pochi decenni fa, del socialismo di Edmondo De Amicis (cioè non del cosiddetto “socialismo democristiano”, sentimentaloide, che si è voluto vedere in Cuore, libro ancora borghese e per nulla socialista, e troppo fortunato, anche se non meritevole delle sciocchezze di Umberto Eco, ma della vera e propria conversione di De Amicis al socialismo marxista, con simpatie, forse più spinte, verso gli anarchici, quale risulta soprattutto da Primo maggio, lasciato inedito dall’autore e pubblicato solo nel 1980).
Su un punto vorrei insistere. Io non ho mai mirato a “conciliare” la linea di pensiero marxista e quella leopardiana. Le ho piuttosto ritenute complementari, il che è ben diverso. Ho cercato e trovato in Leopardi e in alcuni suoi precursori illuministi ciò che mi sembrava di non trovare, o di trovare in forma troppo incompleta, nel marxismo; e ho cercato e trovato la lucidità necessaria. Naturalmente, per complementarietà non si può intendere una giustapposizione del tutto “pacifica”; ma non credo nemmeno che una posizione come quella che ho troppo brevemente delineato possa essere tacciata di “dualismo” irrelato. La duplicità è insita nella condizione umana stessa, nel trovarsi l’uomo sul “terreno naturale” e sul “terreno artificiale” a un tempo. D’altra parte, un punto di contatto molto importante tra le due linee di pensiero è il rifiuto di considerare rimedi validi contro l’infelicità umana le consolazioni meramente “filosofiche”, le “negazioni ideali” del male. Il male (fisico e sociale) dev’essere eliminato di fatto; e se ciò non appare possibile, bisogna, senza piagnistei, prenderne atto per ora, e continuare a lottare.
Nei riguardi di certi ammodernamenti del marxismo consistenti in pasticci marxisti-strutturalisti e marxisti-freudiani sono stato sempre contrario. Lo strutturalismo linguistico ha segnato grandi progressi nella linguistica generale (e qui bisognerebbe distinguere le varie correnti, molto diverse tra loro, e i lati positivi e negativi di ciascuna e della dottrina di Chomsky), ma le sue basi filosofiche sono, con la parziale eccezione di Bloomfield, molto distanti dal materialismo storico. Il sinistrismo politico di Chomsky merita grande rispetto, ma i suoi fondamenti teorici sono un guazzabuglio di cartesianesimo e di humboldtismo: un linguista teorico la cui morte prematura mi ha arrecato grande dolore, Luigi Rosiello, ha mosso a Chomsky obiezioni decisive, sulle quali i chomskiani dovrebbero riflettere. Ma il peggio è venuto dallo strutturalismo extra-linguistico, da Lévi-Strauss in particolare, quando da valente “ricercatore sul campo” ha voluto passare a maître à penser. Di Freud ho sempre ammirato la grandezza; ma la sua grandezza, a mio avviso, non è quella di uno scienziato e ancor meno di un terapeuta delle nevrosi – come terapeuta, si accorse ben presto del proprio sostanziale fallimento –, ma di un grande rappresentante (interprete e “testimone” insieme) della cultura grande-borghese del Novecento, una cultura dolorosamente reazionaria.
5. La dissoluzione del fronte socialista mondiale ha modificato sotto qualche forma la Sua valutazione del significato del marxismo?
5. Per niente! Anzitutto, quello che si è dissolto è lo stalinismo, non il comunismo. Vero comunismo non c’è stato, con buona pace degli adoratori e delle adoratrici occidentali di Mao, neppure in Cina, da quando è incominciato il culto del cosiddetto “pensiero di Mao Zedong”, con la soppressione di ogni pubblicità di dibattito e di ogni formulazione dei dissensi interni in termini politici chiari, e con una politica estera che, in odio all’Urss, ha appoggiato in tutto il mondo i regimi politici più reazionari e ha ostacolato perfino la lunga ed eroica lotta dei vietnamiti contro gli Usa, mentre accoglieva con gioia un brigante come Nixon. È il periodo precedente, quello della guerra rivoluzionaria, che rimarrà il documento della grandezza anche politica di Mao. Ma poi…
In secondo luogo, anche il marxista più antistatalista di questo mondo non può esser lieto del modo con cui il fronte socialista mondiale si è dissolto, dando luogo alla disgregazione di un grande Stato multinazionale, l’Urss, che doveva sburocratizzarsi, ritornare alle sue origini leniniste, non rinnegare insieme con lo stalinismo il leninismo (mi esprimo, necessariamente, con eccessiva brevità: so bene di trovarmi in una posizione di minoranza nel ritenere che tra gli atti di autorità che Lenin dovette compiere perché la Rivoluzione non fosse strozzata sul nascere e la criminale tirannide staliniana vi fu frattura, non continuità), non sprofondare in una condizione di sudditanza all’Occidente, di asservimento a “nuovi tiranni” come Eltsin, di feroci conflitti razziali e religiosi: una condizione, per alcuni aspetti, addirittura “prezarista”. Né un marxista può rallegrarsi che al maoismo sia succeduto un regime duramente capitalista; che nei Paesi satelliti dell’Urss (i quali, certo, avevano fondatissimi motivi di malcontento per i ben noti fatti di Ungheria e di Cecoslovacchia e per l’asservimento da parte dell’Urss) si siano instaurati regimi di destra autoritaria simili a quelli che vi furono tra le due guerre mondiali, che la Jugoslavia titoista (che io, pur consapevole di alcuni aspetti negativi, ho caldamente ammirato, e non me ne pento) riprecipitasse in una situazione “vetero-balcanica”, focolaio di barbariche guerre tra staterelli.
Tutto ciò, certo, va spiegato e non soltanto deplorato. I popoli dell’Urss e degli stati satelliti dell’Urss, insofferenti di un regime burocratico rozzo e di un tenore di vita basso e nemmeno egualmente basso per tutti, si sono illusi che il capitalismo fosse il Paese di Bengodi. Se vogliamo risalire a una causa più remota e fondamentale, dobbiamo ravvisarla nella mancata o fallita rivoluzione in Occidente (in Germania soprattutto) all’indomani della Prima guerra mondiale, nel “cordone sanitario” stretto attorno alla Russia: fu questa la ragione della vittoria di Stalin. Nella Seconda guerra mondiale l’Urss contribuì più di tutti gli altri Stati alla vittoria sul nazifascismo; ma pagando un terribile tributo di sangue, mentre Francia, Inghilterra, Usa, superato il pericolo della vittoria aerea dei nazisti sull’Inghilterra, fecero una “guerra di lusso” (finché non si sentirono direttamente minacciati, del resto, quei Paesi non avevano visto di mal occhio il fascismo e il nazismo). Tutto ciò ha sempre più creato nell’Europa orientale un’“invidia dell’Occidente”. Ora quei popoli (compresi i tedeschi dell’Est) si vanno accorgendo, troppo tardi, che lo sfascio dell’Urss e delle cosiddette “democrazie popolari” ha addirittura peggiorato la loro qualità di vita: hanno imparato a conoscere la disoccupazione, i ritmi di lavoro stressanti, la mancanza di assistenza medica adeguata e di abitazioni, anche la fame. D’altra parte, il troppo zelo con cui il capitalismo occidentale, aiutato dalle Chiese (specialmente da un Papa polacco fanatico e teocratico), ha affrettato la disgregazione dell’Europa orientale non ha giovato neppure al capitalismo stesso, che non può impiantarsi su Paesi dilaniati dalla guerra civile e da una condizione generale di disordine. Quanto alla Jugoslavia, che aveva finalmente trovato l’unità nella lotta partigiana più vasta ed eroica che si sia combattuta in Europa, e aveva sfidato Stalin e i Partiti stalinisti di tutto il mondo senza per questo asservirsi all’Occidente, confesso che le cause dell’attuale disastro mi appaiono non del tutto comprensibili. Una, certo, è la diseguaglianza di sviluppo tra le varie Repubbliche confederate e tra le imprese autogestite; ma non mi sembra bastante a spiegare un effetto così catastrofico.
6. Di fronte al presente sbandamento dell’intellettualità marxista, quali riflessioni si sente di svolgere?
6. Riflessioni molto amare, anche pensando ai giovani intelligenti, che ci sono, ma, per la maggior parte, dovranno formarsi le loro idee con grande sforzo, isolati e non aiutati dagli intellettuali più anziani. Spero che la brevità di quest’ultima risposta mi faccia perdonare la lunghezza forse eccessiva delle precedenti.
Sebastiano Timpanaro
(Tratto da: Guido Oldrini (a cura di), Gli intellettuali e il marxismo, in «Marxismo oggi», n. 2-3, 1994, pp. 101-108).
Inserito il 12/08/2023.
Un’intervista ritrovata, dal mensile «l’Ernesto» – 1997
Intervista a Sebastiano Timpanaro a proposito della nuova edizione del suo libro Sul materialismo
a cura di Stefano G. Azzarà
Lo sguardo disincantato e amaro dell’intellettuale marxista Sebastiano Timpanaro jr. sulla situazione degli anni Novanta del secolo scorso non perde oggi la sua attualità. Anche il bilancio che egli compie dell’esperienza storica dei partiti comunisti, a Est come a Ovest, e delle rielaborazioni novecentesche del pensiero marxista non lascia spazio a indulgenze di nessun tipo: un critica lucida e argomentata in un dialogo con Stefano G. Azzarà (che oggi è docente dell’Università di Urbino e direttore della rivista «Materialismo storico») a margine di una nuova edizione (Milano, Edizioni Unicopli, 1997) della sua raccolta di saggi Sul materialismo.
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Intervista a Sebastiano Timpanaro a proposito della nuova edizione del suo libro “Sul materialismo”
di Stefano G. Azzarà
«Il capitalismo che abbiamo imparato a conoscere dal ’93 in poi, e che oggi viene esaltato come l’unico sistema sociale possibile, è molto diverso da quel tipo di organizzazione industriale, pure oppressiva, che si era in qualche modo “vaccinata” col keynesismo».
Non ha remore Sebastiano Timpanaro, che incontriamo nella sua casa di Firenze in occasione della nuova edizione del suo Sul materialismo, nel denunciare le certezze dell’apologetica neo-liberale:
Anche quello era in realtà un regime oppressivo, ed era assolutamente utopistico cercare di migliorarlo dall’interno, come dimostra il gesto simbolico di Federico Caffè. E però il capitalismo finanziario di oggi è molto più simile a quello spietato delle origini. Tornano drammaticamente attuali le osservazioni di Engels sulle condizioni della classe operaia in Inghilterra. Pensiamo al riemergere di forme economiche precapitalistiche, come l’usura, o all’impoverimento di tutta una fascia di ceto medio… In una situazione di disoccupazione tecnologica e di crisi non più ciclica, ma strutturale, non è difficile prevedere che – mancando una forza di aggregazione politica anticapitalistica – si vada incontro ad una fase di forte odio sociale e di ribellismo endemico, cui il capitalismo risponderà irrigidendosi in senso neo-autoritario, aiutandosi con forme di democrazia plebiscitaria, come i referendum, o con leggi elettorali truffaldine.
È sempre forte la tendenza a fare del rinnovamento del marxismo una semplice questione di “ibridazione”: con la psicoanalisi o lo strutturalismo prima, con il pensiero della differenza sessuale o l’ecologismo oggi…
Bisogna certamente prestare attenzione anche ad orientamenti culturali e politici diversi. Prendiamo ad esempio l’ecologismo: io sono convinto che la questione ecologica, disgiunta dalla lotta per il comunismo, sia fuorviante; e però ci accorgiamo in questo caso della necessità di operare alcune importanti correzioni al marxismo, che condivideva l’ottimismo borghese dimostratosi infondato circa l’inesauribilità delle risorse naturali. Guardiamo alla Critica del programma di Gotha. C’è qui una descrizione della “fase inferiore” del comunismo che ne fa qualcosa di poco appetibile, e rispetto alla quale certe obiezioni degli anarchici non erano del tutto errate. La descrizione della “fase superiore”, al contrario, è davvero troppo avveniristicamente euforica: sembra che, raggiunto il comunismo, non ci sia più il problema della limitatezza dei beni. Ma anche in una società comunista le disponibilità della natura non saranno illimitate. In questo senso dobbiamo accogliere le critiche che il movimento ecologista ha mosso al pensiero marxista. E però non si può accettare tutto indiscriminatamente. Credo che nel confronto tra il marxismo e l’ecologismo, così come con tutti gli altri orientamenti e forme di conoscenza, si debba sempre tener fermo il principio indicato da Marx ed Engels della distinzione tra scienza e ideologia.
Come affronteresti allora il problema dell’autonomia del marxismo?
Il marxismo non è una mera sociologia rivoluzionaria, ma una visione dinamica della realtà. In questo senso Lukács ha ragione nel fare autocritica rispetto alla prima fase del suo pensiero. E però è da respingere l’aut-aut astratto tra un pensiero rivolto alla totalità e la giusta attenzione verso gli specialismi tecnici. Il marxismo è certamente una visione del mondo forte, persino “aurorale” in un certo senso. Sotto questo aspetto, io non credo che, ad esempio, si possa al tempo stesso essere marxisti e cattolici. E però una certa misura di settorialismo è necessaria, questo lo ha ammesso anche Lenin: pensiamo alla necessità di imparare dalle scienze naturali. Anche in questo caso, il problema è distinguere sempre tra scienza e ideologia, tra gli elementi ideologicamente neutri presenti nei risultati scientifici e le estrapolazioni reazionarie. L’esigenza di una comprensione della totalità del reale non può spingersi sino alle estreme conseguenze, e del resto questo è ciò che hanno sempre pensato gli stessi Marx ed Engels. Non è un caso che Marx non abbia mai gettato le fondamenta di un’“estetica marxista”. Bisogna sempre saper distinguere tra l’esigenza della totalità e quegli estremismi che conducono al dogmatismo, proprio per esigenze di scientificità del marxismo stesso.
Perché rivolgevi tanta attenzione a forme pre-marxiane di materialismo?
Quella proposta rispondeva ad un’esigenza che io chiamo – grossomodo – “leopardiana”, e che del resto era stata sostenuta anche da Labriola. L’uomo sociale è diventato un essere ben diverso dall’uomo puramente biologico; e però nell’uomo sociale continua ancora ad esistere l’uomo biologico: infatti noi nasciamo e moriamo, senza che nessuno ce lo chieda. Allora, sebbene non ci sia nulla nell’uomo moderno che non sia stato in qualche modo riplasmato dalla società e dalla storia, credo sia sbagliato ridurre ogni cosa alla dimensione economico-sociale, cancellando i condizionamenti fisico-biologici. È in questo senso, credo, che ci sarebbe molto da recuperare dall’illuminismo inglese e soprattutto francese, che non fu in sostanza confutato né da Kant né da nessun altro.
Ma in questo modo, tagliando i ponti con Hegel, non si rischia di rinunciare anche a Marx, Engels e Lenin?
Sì, questa è una domanda seria, e capisco che qui effettivamente le cose non siano tanto semplici, anche perché su questo punto mi sono trovato in una strana coincidenza di idee con Lucio Colletti. Colletti credeva che l’eredità hegeliana più deteriore fosse una pecca del solo Engels. Quando poi si è accorto che la dialettica era ben presente anche in Marx, ne ha tratto le sue belle conclusioni ed è passato al capitalismo… Io ho sempre sostenuto, invece, che la dialettica c’è in Marx come in Engels, e che il marxismo si fosse legato in modo troppo stretto alla filosofia classica tedesca. La dialettica non va certamente respinta in assoluto, e però io sono convinto che vada ripensata in profondità, anche se su questo punto ammetto che sia possibile il massimo dissenso. Ho l’impressione che la dialettica agisca – sia sul piano degli eventi storici che di quelli naturali – solo in condizioni ottimali piuttosto rare. Una rivoluzione concepita in senso dialettico, ad esempio, implica che la classe oppressa sia cresciuta nel seno della classe opprimente, ma abbia già raggiunto un livello tale di maturazione da poter ereditare il suo patrimonio materiale e ideale. Ora, questo schema potrebbe applicarsi al passaggio dalla società feudale alla società borghese. Ma è enormemente più difficile applicarlo alle rivoluzioni proletarie, perché il sistema capitalistico condanna sempre il proletariato a uno stato di minorità di coscienza, di esperienze, di capacità direzionale. Occorre necessariamente, quindi, che il proletariato si doti di un partito-guida, con tutti i rischi che questo poi, a rivoluzione avvenuta, si rovesci in una burocrazia oppressiva. Qui c’è una difficoltà obiettiva. Qui lo schema dialettico finisce col non tornare. Inoltre, credo anche che la dialettica, interpretando sempre ogni momento negativo come transitorio, necessario ma sempre poi superato da un positivo che esso prepara, non tenga conto di quelle cose che io chiamo “perdite secche”. Esistono cioè delle pure distruzioni, nelle quali quello che è distrutto è distrutto, e da cui non nasce più nulla…
Riconosci però che il rifiuto della dialettica – mi riferisco alla linea culturale che da Della Volpe arriva a Colletti e anche all’operaismo degli anni ’60 e ’70 – è stata una via privilegiata della dissoluzione della cultura marxista in Italia?
Questo certamente è accaduto, e però, intendiamoci, i primi colpi al marxismo li diedero Croce e Gentile, che si professavano hegeliani, non furono dati da Colletti…
Il tuo libro è molto duro sull’“idealismo” di Gramsci…
Io credo che Gramsci sia stato anche un grande pensatore, oltre che un grande rivoluzionario. Pensiamo a tutti i suoi studi sulla questione meridionale, sul processo risorgimentale… Però credo anche che in lui ci sia una carenza di materialismo spaventosa. Questo è palese, ad esempio, quando parla del problema gnoseologico… Qui Gramsci arriva a porre un falso dilemma – teocentrismo o antropocentrismo – al quale il darwinismo, ad esempio, riesce a sfuggire. Su Leopardi poi, Gramsci, che pure da giovane aveva avuto in proposito idee geniali, è veramente deludente. Credo che la sua carenza di materialismo sia dovuta al fatto che ebbe la disgrazia di poter leggere troppo poco,
rinchiuso nel carcere fascista.
C’è mai stata in Italia una “egemonia del marxismo”?
“Egemonia” in senso stretto non so. Ad ogni modo, certo, ci fu un momento in cui gli intellettuali – non tutti, ma molti intellettuali di gran prestigio – furono comunisti. L’“egemonia” marxista viene meno, almeno in parte, per ragioni opportunistiche. “Intellettuali” significa in realtà professori universitari. Fino a un certo punto, molti intellettuali italiani si sono illusi che il comunismo, cui aderivano anche in buona fede, fosse la carta vincente. Quando hanno cominciato a capire, ben presto, che in realtà non lo era (pensiamo alla scelta sulla Nato…), si allontanarono. Non è da sottovalutare poi il fatto che il comunismo italiano, e qui mi ci metto anch’io, ha avuto quasi sempre soltanto intellettuali umanisti, e comunque pochissimi economisti.
Come imposteresti un bilancio storico dell’esperienza del socialismo reale?
Io sono convinto che dopo lo stalinismo – un’esperienza tragica che rispetto al leninismo ha rappresentato una frattura completa – il crollo del socialismo reale fosse diventato ormai inevitabile: pensiamo alla società brezneviana… Ma il modo in cui questo crollo è avvenuto ha condotto ad un disastro ancora maggiore. Gravi sono qui le responsabilità dell’Occidente, che non a caso si è subito lanciato nella corsa alla spartizione neo-coloniale di questi territori, come dimostra anche l’intervento italiano in Albania. Sta di fatto, comunque, che finché le condizioni economiche di quei paesi erano ancora accettabili, non si sono mai verificati fenomeni di fuga in massa verso l’Ovest, nemmeno nell’Albania del regime stalinista di Hoxha. Se adesso scappano, vuol dire innegabilmente che si sta ancora peggio che sotto quell’infame regime stalinista…
Le ragioni del fallimento dell’URSS sono tante, è difficile semplificare. Ci sono state le enormi difficoltà della costruzione del socialismo in un solo paese, dovute all’accerchiamento internazionale; ma anche cause endogene, legate alla arretratezza della struttura socio-economica. È difficile risolvere il problema della costruzione della democrazia in una società in gran parte ancora contadina. Ci sono stati poi gli errori dei dirigenti: prima il prolungamento della NEP ad oltranza; in seguito, all’opposto, la collettivizzazione forzata. Non parliamo poi della superfetazione degli apparati burocratici. Ma gli errori sono stati anche ideologici, pensiamo al repentino passaggio dalla teoria del socialfascismo all’abbraccio antifascista con le democrazie borghesi. Se però per “spinta propulsiva” della Rivoluzione d’Ottobre si intende l’insegnamento di Lenin, io credo ancora che quella spinta non si sia per nulla esaurita.
Intervista a cura di Stefano G. Azzarà
(Tratto da: Stefano G. Azzarà, Intervista a Sebastiano Timpanaro a proposito della nuova edizione del suo libro “Sul materialismo”, in «l’Ernesto», anno V, n. 5, luglio 1997).
Inserito il 12/11/2023.
Dal mensile «l’Ernesto» – 1997
di Stefano G. Azzarà
«L’esercizio della critica non deve impedire di salutare con favore il ritorno di questo libro, che ha il grande merito di riproporre questioni sostanziali che la cultura di sinistra ormai da tempo sembra aver rimosso. Il rinnovamento di una teoria marxista autonoma e la riflessione sui fondamenti di scientificità del metodo storico-materialistico: sono i due grandi problemi che Timpanaro ci riconsegna, ancora del tutto aperti. Eluderli significa rassegnarsi in anticipo a lasciare senza prospettive qualsiasi progetto di ricomposizione del soggetto antagonista».
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Considerazioni sul libro di Sebastiano Timpanaro Sul materialismo
di Stefano G. Azzarà
Grazie alle insistenze di Mario Cingoli e Marzio Zanantoni, è stato da poco ripubblicato [il presente articolo è del 1997, ndr] dalla Unicopli di Milano l’ormai irreperibile Sul materialismo di Sebastiano Timpanaro. Il libro riappare dopo oltre vent’anni (la prima edizione, di Nistri-Lischi, è del 1970), senza alcuna modifica sostanziale. La scelta di non intervenire sul testo aggiornandolo deve essere intesa come l’esplicita volontà dell’autore di mettere in evidenza la distanza epocale che separa il fervore del dibattito politico-culturale di quegli anni rispetto all’attuale deserto ideologico. E deve essere letta, inoltre, come l’ostinato proposito di ribadire l’attualità delle esigenze che motivavano quei saggi. Sebbene Sul materialismo presenti molti aspetti che ai nostri giorni risultano innegabilmente datati, ancora pienamente valide sono infatti le istanze cui esso cercava di dare risposta. Il continuo confronto ideologico con correnti culturali anche molto distanti – psicoanalisi, fenomenologia, strutturalismo – dimostrava certamente la grande vitalità del marxismo degli anni ’60 e ’70. In mancanza di una seria autoriflessione, però, aumentavano enormemente i rischi che il confronto divenisse – come è poi avvenuto – subordinazione e infine dissoluzione. Il primo obiettivo che Timpanaro si proponeva era dunque contribuire alla ricostruzione di una ricerca marxista autonoma, cercando al tempo stesso di soddisfare l’esigenza di una fondazione “scientifica” del comunismo. La lotta politica non può fare a meno del coinvolgimento emotivo, ma essa cade a mero idealismo volontaristico. Ciò che tiene insieme questi temi è, secondo Timpanaro, la questione del materialismo, la necessità cioè di una riscoperta del marxismo in quanto materialismo.
Il cuore del libro consiste in una denuncia di quella distorsione che Timpanaro considera il carattere fondamentale del cosiddetto “marxismo occidentale”. A partire dalla riflessione sulla Rivoluzione d’Ottobre e sulla crisi della Seconda Internazionale, la giusta esigenza di liberare il marxista dalle incrostazioni più grevemente meccanicistiche e deterministiche ha condotto molti autori a mettere fuori causa – per scelta più o meno consapevole – anche l’orientamento materialistico in quanto tale. Nella paura di cedere al gradualismo riformista, il marxismo ha così finito per rendersi succube delle radicali trasformazioni che in quegli anni investivano il pensiero borghese. A cavallo del ’900, in coincidenza con la gestazione delle spinte imperialistiche, i ceti intellettuali borghesi liquidavano il positivismo (considerato ormai troppo “progressivo”) e davano il via alla stagione neo-idealistica. La prima manifestazione di questa svolta è il riemergere di nuove forme del tradizionale storicismo umanistico. Di fronte alla sempre maggiore importanza dello sviluppo tecnico-scientifico, però, l’idealismo borghese sarà capace di aggiornarsi dando vita a forme ideologiche nuove, come l’empiriocriticismo o il pragmatismo. Queste correnti accolgono l’egemonia scientista, nascondendo però le potenzialità demistificatrici ed emancipatorie della scienza moderna attraverso una sua ideologizzazione. L’interpretazione idealistica di scoperte scientifiche decisive, come la meccanica quantistica, la teoria della relatività e il principio di indeterminazione, riducono perciò l’epistemologia di questi anni ad una forma di metodologismo scopertamente antimaterialistico, nel quale scompare lo stesso criterio della verità obiettiva.
Il “marxismo occidentale” non sarà in grado di rispondere a questa sfida proponendo una soluzione autonoma alla crisi dei fondamenti delle scienze. L’idealismo sarà anzi interpretato da molti autori come un principio di accelerazione del processo rivoluzionario, come la legittimazione della centralità delle “condizioni soggettive”. Ecco allora che il marxismo stesso verrà declinato in chiave antimaterialistica, sviluppandosi secondo il modello umanistico-storicista nello hegelo-marxismo e secondo quello empirio-pragmatista nelle varie forme di “filosofia della prassi”. Questi caratteri presiederanno poi, sostanzialmente immutati, a tutti i successivi tentativi di “aggiornamento” del marxismo, dall’umanismo tecnofobo della Scuola di Francoforte sino all’“idealismo oggettivo” e platonizzante del marx-strutturalismo di Althusser.
Solo Lenin, secondo Timpanaro, si accorse della natura reazionaria della svolta neo-idealistica. L’antileninismo sostanziale di gran parte del “marxismo occidentale”, mascherato da formale ossequio, sarebbe dunque palese nel carattere antimaterialistico di queste filosofie. Ma è anzitutto nell’opposizione a Engels che Timpanaro individua il segno distintivo della subordinazione ideologica. Proprio Engels diventa perciò il riferimento obbligato per una ricostruzione del marxismo come materialismo. Coerente continuatore del pensiero di Marx, Engels imposta in maniera corretta il rapporto tra il materialismo e le scienze della natura. L’evoluzionismo di Darwin, che Timpanaro tiene sempre distinto da interpretazioni reazionarie quali il social-darwinismo, consente di comprendere la peculiare “storicità” dei processi naturali. Il superamento dell’opposizione tra natura e storia spinge Engels a porsi il problema di una comprensione unitaria della realtà, attraverso la saldatura tra queste due diverse “storicità”. Il suo errore consisterebbe semmai, secondo Timpanaro, nel vano tentativo di recuperare in chiave materialistica la dialettica.
Il rigetto dell’istanza hegeliana, saldamente radicata nel pensiero di Marx ed Engels, è netto in Timpanaro. Questo motivo costituisce sicuramente la parte più problematica della sua proposta. Timpanaro non nega la centralità dei rapporti economico-sociali, il passaggio dell’uomo ad una “seconda natura” attraverso l’ingresso nella storia. Contesta però l’idea che il lavoro sia l’unica dimensione attraverso la quale il soggetto entra in rapporto con la natura. In questo senso, Timpanaro registra la sottovalutazione, in Marx ed Engels e poi in tutta la tradizione marxista, del condizionamento permamente che la natura esercita sull’individuo (piacere e dolore, malattia, nascita e morte…) e sul genere (origine ed estinzione dell’umanità). Rimuovere tale condizionamento conduce a considerare il problema della liberazione come una questione esclusivamente economico- sociale. In tal modo si finisce per eludere, secondo Timpanaro, l’urgenza della lotta contro quei residui naturali che impediscono il perseguimento della felicità, fondamento del bisogno di comunismo (e chiave, fra l’altro, di una possibile etica marxista). Da qui la sua proposta di un recupero delle tendenze materialistiche presenti nell’illuminismo francese ed inglese del Settecento, la cui carica demistificatrice ed edonistica troverà il suo culmine nel “pessimismo agonistico” di Leopardi.
Alcuni aspetti del libro di Timpanaro lasciano senz’altro perplessi. L’idea di una sostanziale neutralità del progresso scientifico (da distinguere dalla sua interpretazione reazionaria), ad esempio, non permette di sviluppare una comprensione critica e storico-materialistica della genesi dei paradigmi scientifici. Ma è la stessa configurazione del rapporto tra materialismo e idealismo – e dunque l’idea stessa di un materialismo storico – che appare inficiata da una sottovalutazione della funzione della dialettica. Saltare Hegel all’indietro, in direzione del materialismo settecentesco, obbliga di fatto a rinunciare a gran parte del pensiero non solo di Marx ed Engels, ma anche di Lenin, per il quale l’idealismo tedesco era una fonte integrante del marxismo. È in questa chiave che va interpretato il giudizio ingeneroso di Timpanaro su Gramsci, definito senz’altro come un idealista succube dell’egemonia crociano-gentiliana. L’esercizio della critica non deve però impedire di salutare con favore il ritorno di questo libro, che ha il grande merito di riproporre questioni sostanziali che la cultura di sinistra ormai da tempo sembra aver rimosso. Il rinnovamento di una teoria marxista autonoma e la riflessione sui fondamenti di scientificità del metodo storico-materialistico: sono i due grandi problemi che Timpanaro ci riconsegna, ancora del tutto aperti. Eluderli significa rassegnarsi in anticipo a lasciare senza prospettive qualsiasi progetto di ricomposizione del soggetto antagonista.
di Stefano G. Azzara
(Tratto da: Stefano G. Azzarà, Dopo 20 anni ritorna il libro di Sebastiano Timpanaro “Sul materialismo”, in «l’Ernesto», Anno V, n. 5, luglio 1997).
Inserito il 15/05/2024.
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Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
1
Il fatto nuovo degli studi leopardiani nel secondo dopoguerra consiste, come è noto, nell’attenzione che si è rivolta al pensiero e alla cultura del Leopardi. Il ripudio di una critica letteraria troppo rinchiusa in una considerazione puramente estetica dell’opera d’arte, troppo preoccupata soltanto di sceverare poesia da non poesia, è stato certamente un fenomeno generale di quest’ultimo ventennio; ma ha assunto un particolare valore nel caso del Leopardi, poeta pensatore avversato per il suo materialismo e pessimismo dai moderati toscani e da Benedetto Croce, e proprio in odio a tali sue idee ridotto a poeta «idillico»: poeta, cioè, solo nei fugaci momenti in cui dimenticherebbe la propria amara filosofia.
Il merito di aver distrutto questo cliché (che, nella forma brutale in cui era stato presentato da Croce in un famigerato saggio, aveva suscitato perfino tra i critici più crociani perplessità e resistenze) spetta a due saggi usciti nello stesso anno 1947; il Leopardi progressivo di Cesare Luporini e la Nuova poetica leopardiana di Walter Binni1.
Nel saggio del Luporini lo studio del pensiero leopardiano era per la prima volta condotto al di là dell’onesta ricostruzione erudita (Losacco, Zumbini, Tocco, Porena) e dell’adesione sentimentale, immediata e astorica (Graf, Amelotti, Tilgher)2. Non sono mancati al Luporini rimproveri di unilateralità e di forzatura ideologico-politica. In che senso si possa, anche a nostro parere, parlare di unilateralità, cercheremo di precisare in seguito. Ma intanto dobbiamo dire che, nella forma in cui viene espresso talvolta (di avere, cioè, presentato un Leopardi «precursore del marxismo»), quel rimprovero non è accettabile. I punti di riferimento adottati da Luporini per valutare il «progressismo» del Leopardi sono l’illuminismo e il romanticismo, il concetto di Natura hobbesiano e russoiano, la «delusione storica» suscitata dalla fine dell’esperienza rivoluzionaria e napoleonica. Le acquisizioni più importanti del saggio luporiniano sono la valutazione del Leopardi come «moralista», il chiarimento del valore essenziale che il concetto di «vitalità» ha nella prima fase del pensiero leopardiano, la netta distinzione tra il pessimismo materialistico del Leopardi e i pessimismi romantico-esistenzialistici di cui è ricco l’Ottocento europeo. Nessuna forzatura antistorica vi è in tutto ciò, a meno che non si voglia considerare antistorico il possesso stesso di un criterio valutativo, di un impegno critico-pratico da parte dello studioso. Bisogna, anzi, dire che il Luporini ha sottratto per primo lo studio del pensiero leopardiano alle analogie brillanti ma fallaci con tutti gli «spiriti tormentati» del passato, da sant’Agostino a Pascal ai romantici e ai decadenti del secolo scorso; e ha fatto, con ciò, opera di storico rigoroso.
Una forzatura nell’interpretazione del pensiero politico leopardiano c’era stata, più che da parte del marxista Luporini, da parte del democratico Salvatorelli, che aveva visto nell’ultimo Leopardi «il presentimento del socialismo, della Società delle Nazioni, dello “stato scientifico”»; e ancor prima, alla fine dell’Ottocento, da parte del Romano-Catania (lo studioso di Filippo Buonarroti) e del Carducci, con quel suo curioso «Diciamocelo in un orecchio: s’accostava al socialismo»3. Il Luporini, è vero, nella conclusione del suo saggio citava con assenso il giudizio del Salvatorelli – e forse avrebbe dovuto accompagnare l’assenso con una più esplicita riserva –; ma veniva a temperarne la crudezza in quanto ricostruiva tutto lo svolgimento del pensiero politico leopardiano e storicizzava, così, quella posizione di punta dell’ultimo Leopardi4.
Su un’altra cosa finora non osservata conviene, piuttosto, richiamare l’attenzione. Il saggio del Luporini rappresentava, all’interno della storiografia marxista, una posizione teoretico-storiografica particolare. A differenza dalla grande maggioranza dei marxisti italiani, che erano degli ex-idealisti, Luporini proveniva dall’esistenzialismo; e già da esistenzialista si era interessato al pensiero leopardiano e gli aveva dedicato un saggio5. Rispetto a quel saggio, il Leopardi progressivo è cosa del tutto nuova e inconfrontabile; abbiamo già accennato che uno dei suoi meriti principali consiste proprio nella separazione netta fra il pessimismo del Leopardi e il pessimismo di un Kierkegaard. Ma quella precedente esperienza non idealistica, non storicistica, aiutò certamente il Luporini a comprendere un pensatore non professionale, antisistematico, formatosi al di fuori della «via maestra» dello storicismo e della dialettica, quale è il Leopardi. Il saggio del Luporini, pur considerando l’assenza della dialettica come una condizione d’inferiorità del pensiero leopardiano (su ciò ritorneremo), tuttavia sottintendeva un marxismo che non si riducesse a uno storicismo più corposo e concreto, che non facesse di Marx soltanto il migliore scolaro del professor Hegel, ma che sapesse rifarsi, al di fuori del passaggio obbligato hegeliano, direttamente al materialismo e all’epicureismo settecentesco, alle esperienze democratico-rivoluzionarie francesi, all’empirismo inglese. In confronto al Luporini del Leopardi progressivo, il Luporini delle ultime discussioni su «Rinascita», che si schiera senz’altro coi marx-hegeliani e considera come nemico numero uno il materialismo volgare, mi sembra assai meno originale e meno rivoluzionario. E mi sembra che nelle recenti discussioni sul rapporto uomo-natura il Luporini abbia semplicemente trascurato la problematica leopardiana, piuttosto che cercare di metterla a un serio confronto col marxismo6. Ci scusi il lettore della digressione, che non si allontana, poi, dal nostro tema quanto può a prima vista sembrare.
Se l’ostilità al Leopardi pensatore, alle sue asprezze antispiritualistiche, aveva portato anche in sede propriamente estetica alla svalutazione degli ultimi Canti e dei Paralipomeni7, il libro del Binni reagiva a questo giudizio, proprio in nome di una considerazione più unitaria della personalità leopardiana; e mostrava come l’illuminismo, il materialismo, la polemica apertamente anticristiana dell’ultimo Leopardi non fossero stati elementi perturbatori di un’ispirazione esclusivamente idillica, ma anzi generatori di una nuova, non meno alta poesia. Anche il libro del Binni aveva le sue durezze e unilateralità – più tardi temperate, anche se non del tutto risolte, dal Binni stesso in successivi saggi8 –: un eccessivo stacco tra il Leopardi idillico e il Leopardi eroico, tra l’ispirazione eroica delle Canzoni giovanili (soprattutto del Bruto minore) e quella dei canti post-1830, e una troppo frettolosa aggregazione del Leopardi alla schiera dei romantici9. Ma le osservazioni sul nuovo impegno polemico e «missionario» del Leopardi dal 1830 in poi, sulla forza del lucido e spietato materialismo dei Paralipomeni, rimangono punti fermi per lo studio del pensiero leopardiano, anche a prescindere dal grande valore specificamente critico-letterario del saggio.
Dopo Luporini e Binni non sono certo scomparse d’un tratto le vecchie posizioni di sottovalutazione del pensiero leopardiano e di riduzione del Leopardi a poeta puro e frammentario. Proprio ora uno studioso del valore di Piero Treves, prendendo lo spunto da un riesame del Leopardi filologo ma estendendo il suo giudizio all’intera personalità leopardiana, ha ripresentato l’immagine crociana di un Leopardi «monaldesco», ostile al progresso, incapace di comprensione serena del mondo che lo circondava10. Ma nonostante queste resistenze l’impulso principale è ormai nell’altra direzione. I saggi di Martino Capucci sui Paralipomeni11, di Carlo Muscetta sulla canzone Nelle nozze della sorella Paolina e sull’Ultimo canto di Saffo12, l’introduzione del Muscetta stesso al Leopardi di De Sanctis, l’articolo di Luigi Blasucci sulle due canzoni patriottiche e alcune sue recensioni, specialmente quella agli scritti leopardiani di Giovanni Gentile13, hanno rappresentato sempre maggiori approfondimenti in questo senso. Perfino un critico tanto elegante ed eloquente quanto eclettico come Natalino Sapegno, oscillante fra il settarismo dei saggi su Alfieri, Giusti, Carducci e il moderatismo del Ritratto di Manzoni e della recente introduzione ai Promessi Sposi, non si è sottratto all’influsso dell’impostazione Luporini-Binni, anzi ha dato in quella direzione un contributo di prim’ordine col saggio su De Sanctis e Leopardi, anche se, in altri scritti leopardiani, è rimasto legato alla visione di un Leopardi genericamente «romantico», il cui dissidio col proprio secolo sarebbe solo frutto di malumori o di malintesi14.
Ancor più di recente, il problema del Leopardi ideologo e moralista è stato riaffrontato da due studiosi che hanno il dono di una forma espositiva particolarmente limpida ed efficace: Bruno Biral e Gianluigi Berardi15. L’influsso del Luporini sull’uno e sull’altro è evidente, e specialmente il Biral avrebbe dovuto riconoscerlo in modo più esplicito. Non si tratta, tuttavia, di pure e semplici volgarizzazioni del saggio di Luporini (a parte il fatto che il Berardi non si occupa soltanto del pensiero leopardiano, ma dei rapporti tra pensiero e stile; e sotto questo aspetto il suo articolo meriterebbe un esame che esula dal nostro tema). L’attenzione che il Biral dedica al Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’italiani, e il Berardi alla Comparazione delle sentenze di Bruto minore e di Teofrasto, apportano al quadro generale elementi nuovi non trascurabili. L’alfierismo giovanile del Leopardi, che culmina nel Bruto minore, riacquista l’importanza che gli compete come antecedente della fase conclusiva del pensiero e della poesia leopardiana16. Le Operette morali, che troppo sbrigativamente erano state considerate dal Luporini come un momento di cristallizzazione letteraria e di regresso ideologico rispetto ai pensieri dello Zibaldone, si reinseriscono di pieno diritto nel discorso sul Leopardi pensatore17.
C’è anche una certa diversità di prospettiva teoretica tra il Luporini e i due studiosi di cui parliamo. Il punto di vista marxista (e marxista di quel particolare tipo a cui accennavamo) del saggio di Luporini si stempera, nel Biral e nel Berardi, in un più generico progressismo laico-illuminista: col vantaggio di smussare certe durezze della ricostruzione luporiniana e di valutare con più equilibrio gli aspetti non politico-sociali del pessimismo leopardiano, ma d’altra parte con lo svantaggio di perdere un poco di quella penetrante forza di analisi che il Luporini attingeva proprio dalla sua posizione di punta e di rottura sul piano politico-culturale.
All’estremo opposto del Biral e del Berardi si colloca, tra le interpretazioni del «progressismo» leopardiano, quella di Gian Franco Venè, nel recente libro su Letteratura e capitalismo in Italia dal ’700 ad oggi18. Qui ci troviamo di fronte ad un marxismo puramente intenzionale, a una visione estremamente schematizzata, condotta su una scarsissima conoscenza di testi, che nel dramma del Leopardi vede tout court il dramma dell’alienazione dello scrittore nella società industriale. Ed è significativo che il Venè, mentre ignora del tutto il saggio del Luporini, aderisca invece pienamente a quel semplicistico giudizio del Salvatorelli sul Leopardi precursore del socialismo e della Società delle Nazioni19.
Il convegno recanatese su Leopardi e il Settecento, di cui ora sono usciti gli atti20, ha contribuito più allo studio della formazione letteraria e culturale del Leopardi che all’indagine specifica sui motivi ispiratori della sua filosofia: la relazione di Mario Sansone su Leopardi e la filosofia del Settecento contiene singole osservazioni felici, ma è troppo ortodossamente idealistica per accostarsi con vera comprensione all’illuminismo e al pessimismo leopardiano. Walter Binni, proprio all’inizio della sua relazione su Leopardi e la poesia del secondo Settecento, osservando con piena ragione che l’illuminismo «non fu “carcere” ma forza per il Leopardi», ha implicitamente denunciato l’errore di prospettiva che vizia un po’ tutto il discorso del Sansone. Più utile, in quel medesimo convegno, la relazione di Alberto Frattini su Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento; ma soprattutto hanno indirettamente giovato allo studio del pensiero leopardiano alcuni contrivuti singoli, riguardanti certi aspetti del rapporto tra il Leopardi e la cultura settecentesca.
(1/4. Segue)
Sebastiano Timpanaro
(Brano tratto da: Sebastiano Timpanaro, Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi Editori, Pisa, 1969 [2ª ed.], pp. 133-141).
Note
1 C. Luporini, Leopardi progressivo, in Filosofi vecchi e nuovi, Firenze, 1947, p. 183 sgg.; W. Binni, La nuova poetica leopardiana, Firenze, 1947, 2ª ed. 1962.
2 Naturalmente ciò non implica alcun disconoscimento dei contributi di codesti studiosi. In particolare il volumetto del Tilgher (La filosofia del Leopardi, Roma, 1940) contiene, accanto a forzature facilmente riconoscibili e isolabili, un’esposizione lucidissima di alcuni concetti fondamentali del pensiero leopardiano: distinzione fra primitività e barbarie, materialismo, critica dell’antropocentrismo. Tra gli studi su singole questioni, merita un particolare risalto quello di F. Neri, Il pensiero del Rousseau nelle prime chiose dello Zibaldone, «Giorn. stor. letter. ital.» LXX, 1917, p. 131 sgg. (poi in Letteratura e leggende, Torino, 1951, p. 257 sgg.).
3 G. Romano-Catania, L’etica sociale nelle opere di G. Leopardi, «Il pensiero italiano», maggio 1893, p. 74 sgg. Il Carducci (Degli spiriti e delle forme nella poesia di G. Leopardi, ora in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna, 1937, p. 94 e n. 1) ignora il Romano-Catania, e si richiama invece a un accenno, assai più generico, di G. Martinozzi, Per la continuità nella vita nazionale, Bologna, 1897, pp. 18-25. Contro il Romano-Catania polemizzò M. Losacco in uno scritto del 1896 (rist. in Indagini leopardiane, Lanciano, 1937, p. 69 sgg.): egli ebbe buon giuoco nel negare l’esplicito «socialismo» del Leopardi, ma non rese giustizia ad alcuni spunti felici del proprio avversario. Del Salvatorelli vedi Il pensiero politico italiano, 5ª ed., Torino, 1949, p. 210 (la 1ª ed. è del 1935). Pur nel suo schematismo, la formulazione del Salvatorelli ebbe allora il merito di contrapporsi all’infelice tesi crociana dell’affinità di idee tra Monaldo e Giacomo Leopardi.
4 Vedi l’appendice II del saggio luporiniano (Discussione col Salvatorelli, p. 277 sgg.).
5 Il pensiero di Leopardi, in Studi sul Leopardi di vari autori, Livorno, 1938, p. 41 sgg.
6 Cfr. specialmente L’uomo e la natura, in «Atti del XII congr. internaz. di filosofia (Venezia 12-18 settembre 1958)», vol. II, Firenze, 1960, p. 273 sgg. La discussione su «Rinascita» a cui accenniamo si svolse dal 23 giugno al 3 novembre 1962.
7 Ma non si dimentichi il giudizio di Giuseppe De Robertis sulla Ginestra, nel commento ai Canti, Firenze, 1925, p. 330, e in Studi, Firenze, 1944, p. 12.
8 Tre liriche del Leopardi, Lucca 1950; La poesia eroica di G. Leopardi, «Il Ponte», XVI, 1960, p. 1729 sgg.
9 Su quest’ultimo punto vedi l’introduzione al presente volume, p. 36 sg., e più oltre, p. 143 sg. Al rischio di una contrapposizione troppo recisa tra «idillico» ed «eroico» ha contribuito, penso, l’appellativo non leopardiano di «nuovi» o «grandi idilli» dato dal De Sanctis e dal Carducci ai canti pisano-recanatesi del 1828-30, e derivante, in sostanza, dal grosso fraintendimento in senso «manzoniano-realistico» che di tali canti compì il De Sanctis. Molto giustamente, perciò, nel nuovo commento di Fubini e Bigi ai Canti (Torino, 1964) si propone di chiamare «idilli» soltanto quelli che il Leopardi chiamò così, le brevi liriche in endecasillabi sciolti del 1819-21.
10 P. Treves, Lo studio dell’antichità classica nell’Ottocento, Milano-Napoli, 1962, p. 471 sgg. e altrove. Cfr. «Critica storica», II, 1963, p. 609 sg.
11 M. Capucci, I «Paralipomeni» e la poetica leopardiana, «Convivium», 1954, p. 581 sgg.; La poesia dei «Paralipomeni» leopardiani, id., p. 695 sgg.
12 In Ritratti e letture, Milano, 1961, pp. 215 sgg., 230 sgg.
13 L. Blasucci, Sulle prime due canzoni leopardiane, «Giorn. stor. letter. ital.», CXXXVIII, 1961, p. 39 sgg. (particolarmente importante, per il tema del nostro presente studio, la nota a p. 70); e le recensioni agli scritti leopardiani di Bacchelli (id., p. 478 sgg.), Gentile (id., CXXXIX, 1962, p. 560 sgg.), Bigongiari (id., CXL, 1963, p. 289 sgg.).
14 Alludiamo soprattutto alla Noterella leopardiana (in Ritratto di Manzoni e altri saggi, Bari, 1961, p. 154 sgg.: ivi, a p. 162 sgg., è anche ripubblicato De Sanctis e Leopardi) e al volumetto su Leopardi edito dalla RAI, Torino, 1961.
15 B. Biral, Il significato di «natura» nel pensiero di Leopardi, «Il Ponte», XV, 1959, p. 1264 sgg.; La «posizione storica» di G. Leopardi, Venezia, Stamperia di Venezia, 1962; G. Berardi, Ragione e stile in Leopardi, «Belfagor», XVIII, 1963, pp. 425 sgg., 512 sgg., 666 sgg.
16 G. Berardi, art. cit., pp. 512-515. Sull’alfierismo del Leopardi cfr. G.G. Ferrero, Alfierismo leopardiano, «Giorn. stor. letter. ital.», CIX, 1937, p. 211 sgg. Il Binni nella Nuova poetica leopardiana (cap. III) aveva segnato una contrapposizione troppo netta, e troppo esclusivamente basata su considerazioni stilistiche, tra le canzoni del 1821-22 («impostazione genericamente energica», «residuo alfieriano», «vigore… più letterario che poetico») e gli ultimi canti. Assai meglio ora il rapporto Alfieri -Leopardi è trattato dal Binni nel saggio su Leopardi e la poesia del secondo Settecento («Rassegna letter. ital.», LXVI, 1962, p. 405 sgg. = Leopardi e il Settecento [cit. più sotto], p. 91 sgg.), sebbene anche qui, forse, il nesso tra il titanismo alfieriano e quello leopardiano non abbia un risalto sufficiente.
17 Il giudizio di Luporini sulle Operette morali (espresso a pp. 221 n. 1, 237, 246) fu sin dall’inizio considerato come uno dei punti più discutibili del suo saggio. In realtà l’osservazione luporiniana che il Leopardi nelle Operette, «presentandosi al pubblico, si tiene come un passo indietro (qualche volta più di un passo indietro)» rispetto allo Zibaldone, «e maniera e stilizza non poco, letterariamente, la sua posizione», ha una parte di vero. Ma essa riguarda esclusivamente l’aspetto politico-sociale del pensiero leopardiano. Per ciò che concerne la critica di ogni spiritualismo e antropocentrismo e l’affermazione di un materialismo conseguente, le Operette sono, nella sostanza, altrettanto audaci ed esplicite quanto lo Zibaldone.
18 Milano 1963, p. 135 sgg.
19 Op. cit., p. 151 sg., cfr. p. 483.
20 Leopardi e il Settecento, Atti del I convegno internaz. di studi leopardiani, Firenze, 1964: gli scritti del Sansone e del Frattini sono rispettivamente a pp. 133 sgg., 253 sgg.; la frase del Binni che cito nel testo è a p. 78.
Inserito il 15/1/2023.
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Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
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A chi volesse ora proseguire e approfondire lo studio del pensiero leopardiano, si porrebbe innanzi tutto, credo, l’esigenza di indagare con più cura i rapporti tra il Leopardi e gli ambienti culturali con cui egli entrò in contatto e in polemica1. Abbiamo già sopra riconosciuto al Luporini il gran merito di avere sgombrato il terreno dai numerosi accostamenti antistorici fra il Leopardi e altri pensatori il cui pessimismo nasce da situazioni ben diverse e ha sbocchi ben diversi, e di aver fissato come punti di riferimento (per analogia o per contrasto) autori di cui il Leopardi ebbe effettiva conoscenza, o coi quali, almeno, esiste una seria possibilità di raffronto, dovuta a certe affinità di situazioni storico-culturali. Tuttavia si tratta pur sempre, nel saggio luporiniano, di grandi nomi della storia del pensiero (Hobbes, Rousseau, Voltaire, i grandi romantici…). Questi termini di riferimento sono necessari, ma non sufficienti. Il Leopardi dialogò idealmente, sì, con questi grandi autori, ma visse a contatto diretto (personale o epistolare) con ambienti italiani, che furono dapprima lo Stato pontificio (Recanati, cioè Monaldo col suo enciclopedismo illuministico-reazionario e le sue pose da ultra; il classicismo marchigiano-romagnolo, cioè Francesco Cassi e Giulio Perticari; Roma, cioè il poligrafo arruffone Francesco Cancellieri e lo zio Carlo Antici, reazionario ma non così grettamente municipalista come Monaldo: reazionario che sapeva il tedesco e voleva fare del nipote un campione della Restaurazione al livello europeo)2; poi Milano (cioè le scoperte del Mai che dettero impulso alla filologia leopardiana, e la battaglia tra classicisti e romantici, e l’amicizia col maggiore rappresentante del classicismo illuminista, Pietro Giordani, mentre il classicista reazionario Giuseppe Acerbi aveva subito osteggiato il Leopardi)3; poi ancora, nel ’22-23, l’«antiquaria» romana, veduta questa volta da vicino nella sua meschinità; poi l’ambiente bolognese, di tranquille amicizie letterarie, che contribuirono a creare nello spirito del Leopardi un periodo di relativa distensione e adattamento alla realtà della vita; fino alle ultime esperienze, aspramente polemiche, del cattolicesimo liberale fiorentino e napoletano.
Una narrazione dei contatti, degli influssi, degli scontri fra il Leopardi e i suoi contemporanei – un Leopardi e gli altri, se vogliamo dargli un titolo provvisorio4; ma tutto tenuto su un piano culturale, non di biografia aneddotica alla Moroncini o alla Ferretti – è ancora da scrivere, e permetterebbe di approfondire notevolmente la comprensione del pensiero leopardiano.
Il Luporini ha accennato molto bene ai motivi di fondo che dividevano il Leopardi dai «nuovi credenti», e all’antiromanticismo leopardiano5: molto meglio di pur insigni italianisti, i quali non vogliono decidersi a togliere al Leopardi la qualifica di «romantico» usata in un’accezione bonne à tout faire che la priva di ogni preciso valore caratterizzante. Ma la giusta qualificazione di Leopardi come antiromantico – e quindi contrario all’ideologia cattolica della Restaurazione e, più tardi, allo stesso cattolicesimo liberale degli anni trenta – va precisata e integrata con lo studio dei rapporti tra il Leopardi e l’ala illuministica del classicismo italiano. È vero, il Leopardi portò già nella polemica classico-romantica milanese, con la Lettera ai compilatori della «Biblioteca Italiana» e col Discorso di un Italiano intorno alla poesia romantica, una sua nota personale: una nostalgia dell’antichità in quanto più vicina di noi alla natura vergine e incorrotta (dell’antichità in quanto giovinezza del genere umano), che bruciava le scorie del classicismo scolastico e che era in verità assai più russoiana che classicistica nel senso tradizionale6. Ma, in primo luogo, questa posizione, pur così originalmente e intensamente vissuta dal Leopardi, si riconnetteva al gusto del purismo, che, anche se degenerato ben presto in mera pedanteria, esprimeva tuttavia un’esigenza di ritorno alla natura, di esaltazione della freschezza nativa (Erodoto e Domenico Cavalca!) contro la magniloquenza retorica da un lato e l’aridità razionalistica dall’altro: in questo senso era stato purista il Giordani, che della rapida degenerazione del purismo fu poi critico severo. In secondo luogo, la scelta antiromantica che il Leopardi compì nel ’16 lo portò ad accostarsi sempre più al Giordani e ad assorbirne non tanto il purismo (nel quale, del resto, il Leopardi giovanissimo si era spinto molto più in là del Giordani stesso), quanto le esigenze di riforma culturale, il laicismo, il sensismo, di cui il Giordani, formatosi a Parma dov’era stato così forte l’influsso del Condillac, rimase sempre assertore anche nel clima mutato della Restaurazione.
Anche il sensismo e il materialismo leopardiano, dunque, non vanno ricondotti solo alla lettura diretta dei grandi illuministi francesi del Settecento (e anche qui sarebbe necessaria una ricerca che determinasse con più esattezza quali, tra gli illuministi settecenteschi più decisamente materialistici, furono noti al Leopardi)7, ma anche ai contatti fra il Leopardi e il classicismo illuminista dell’Ottocento, in cui la tradizione sensistica permaneva ben salda.
Si deve in parte a questa formazione se la nostalgia dello stato di natura, la polemica contro l’eccesso di razionalismo che conduce all’infelicità, così forti nel Leopardi, non lo condussero a pseudo-soluzioni religiose, ma anzi a una condanna sempre più energica di tutte le correnti spiritualistiche contemporanee. Un punto fondamentale del pensiero leopardiano, su cui si sono già soffermati gli studiosi a cominciare dal Tilgher, è la recisa distinzione tra «stato di natura» e «barbarie», tra la sana primitività degli antichi, dominati da illusioni magnanime, e la corruzione del Medioevo: le superstizioni cristiane sono, per il Leopardi, contrarie alla natura non meno che alla ragione8. Per i romantici, invece, l’epoca ideale non era lo stato di natura, ma la «barbarie ritornata»… e battezzata, il Medioevo; e anche quelli tra loro che vagheggiavano un’epoca antichissima, la ponevano sotto il segno di una «Rivelazione originaria», le davano cioè un crisma religioso che ne faceva qualcosa di ben diverso dall’età dei bestioni vichiani e anche dallo stato di natura russoiano. Perfino i romantici lombardi, molto più progressisti dei loro confratelli d’oltralpe, insistevano, sì, sull’esigenza di creare una letteratura rispondente alle idee e ai sentimenti dell’età moderna, ma identificavano modernità con cristianesimo e facevano cominciare l’età moderna, appunto, dalla caduta dell’Impero romano e dalla morte del paganesimo, non già dal Rinascimento o dall’Illuminismo. Ora, proprio questo problema della periodizzazione della storia umana, che era stato oggetto di discussione fra il Romagnosi e i romantici del «Conciliatore», viene ripreso dal Leopardi nel Discorso sopra lo stato presente dei costumi degl’Italiani; e la soluzione che il Leopardi ne dà, in polemica con Chateaubriand, è nettamente antiromantica: «È un falsissimo modo di vedere quello di considerare la civiltà moderna come liberatrice dell’Europa dallo stato antico. Questo falso concetto guasta generalissimamente il giudizio e il vero modo di pensare sulla storia e le vicende del genere umano e delle nazioni, ed è un errore o una svista sostanzialissima che turba e falsifica tutta l’idea che un filosofo può concepire in grande sulla detta storia e sui progressi o andamenti dello spirito umano. Il risorgimento è stato dalla barbarie de’ tempi bassi non dallo stato antico; la civiltà, le scienze, le arti, i lumi, rinascendo, avanzando e propagandosi non ci hanno liberato dall’antico, ma anzi dalla totale e orribile corruzione dell’antico. In somma la civiltà non nacque nel quattrocento in Europa, ma rinacque»9. E in tutto l’appassionato brano che segue l’avversione illuministica per la barbarie e l’ignoranza medievale si unisce alla nostalgia per l’antichità, che rimane un termine di confronto irraggiungibile per la civiltà moderna: anche qui il sostrato del pensiero leopardiano non va cercato soltanto in Rousseau o nella «delusione storica» del fallimento della Rivoluzione, ma nel classicismo illuminista dell’Ottocento italiano, che mentre lottava contro il mito del Medioevo, non rinunciava a contrapporgli il mito dell’antichità classica, a esaltare Atene e Roma in funzione laica e libertaria10.
Un altro motivo che il Leopardi desunse dalla sua educazione classicistica – pur sviluppandolo, poi, in modo originalissimo – è il titanismo. Qui bisogna rifarsi, prima ancora e più ancora che al Giordani, all’Alfieri, che fu per il Leopardi giovinetto il principale modello non soltanto letterario, ma umano, il personaggio ideale a cui egli si studiò di agguagliarsi. Come l’atteggiamento antitirannico di derivazione alfieriana si sia andato svolgendo nel Leopardi fino a diventare lotta disperata contro l’intero ordine del mondo, è stato mostrato idealmente da Umberto Bosco11. Come si parla da tempo di un passaggio del pensiero leopardiano da un «pessimismo storico» a un «pessimismo cosmico», così si potrebbe parlare di un «titanismo storico», più vicino alla matrice alfieriana, e di un «titanismo cosmico», che trova la sua prima espressione compiuta nel Bruto minore, e poi, dopo la parentesi «rassegnata» degli anni ’24-’27, ha un nuovo slancio e un nuovo arricchimento nell’ultimo Leopardi. Il Bosco chiama «romantica» la seconda forma del titanismo leopardiano, in cui il nemico è «la stessa necessità naturale, invincibile per definizione»12. E, per intendersi, si chiami pure romantica; ma, in sede storico-culturale, non si deve dimenticare che lo spunto per questo sviluppo del titanismo non venne al Leopardi dai grandi romantici europei, bensì dalla stessa tradizione alfieriana. Già nell’Alfieri la lotta fra eroe e tiranno è portata su un piano che non è più semplicemente politico, e in particolar modo il Saul rappresenta uno sviluppo antiteistico del tema antitirannico. «Come un tiranno ci ha da essere, Dio è il tiranno, e tutto l’interesse [cioè la simpatia dell’autore] è per Saul» osservò giustamente il De Sanctis13.
A sua volta questo atteggiamento alfieriano di rivolta contro la divinità e il fato si nutriva di tutta una tradizione classica, che aveva avuto il suo massimo rappresentante in Lucano. Nella Farsaglia la lotta dei difensori della repubblica contro Cesare assume dimensioni cosmiche, diventa lotta dei buoni contro gli dèi protettori dell’empietà. L’antiteodicèa di Lucano – come tanti secoli prima quella di Teognide – nasce da una «delusione storica» che si ripercuote sulla visione generale della condizione umana. L’epigrafe finale del Misogallo alfieriano («Tenea ’l Ciel dai Ribaldi, Alfier dai Buoni») riecheggia consapevolmente il lucanèo Victrix causa deis placuit, sed victa Catoni; e ciò che ha di più dichiaratamente antiteistico deriva da altri passi dello stesso Lucano14. Nel primo Ottocento il Giordani e Francesco Cassi, cugino del Leopardi e traduttore della Farsaglia, tennero viva questa tradizione lucanèa, la quale agì, forse più per tramite loro che per lettura diretta, sul Leopardi15. «Dunque degli empi / siedi, Giove, a tutela?» è un tipico motivo lucanèo, e tutto immerso in quest’atmosfera è il Bruto minore.
(2/4. Segue)
Sebastiano Timpanaro
(Brano tratto da: Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi Editori, Pisa, 1969 [2ª ed.], pp. 141-150).
Note
1 Questa esigenza fu giustamente affermata da Giampiero Carocci in un’importante recensione al Leopardi progressivo («Belfagor» III, 1948, p. 261 sg.), anche se, poi, il Carocci sopravvalutava l’influenza del Foscolo sul pensiero leopardiano.
2 Mentre i vari precettori di casa Leopardi non esercitarono sulla formazione della personalità leopardiana nessun influsso importante, e mentre l’influsso di Monaldo sul figlio è stato spesso sopravvalutato, Carlo Antici deve essere più attentamente studiato a questo riguardo. Vedi, provvisoriamente, un mio accenno ne La filologia di G. Leopardi, Firenze, 1955, p. 146. La corrispondenza tra l’Antici e Monaldo è stata in parte pubblicata da A. Avòli (in Antubiografia di Monaldo Leopardi, Roma, 1883, pp. 278-81, 285 n. 1) e da F. Moroncini (Monaldo Leopardi e Carlo Antici, nel «Casanostra», 1932, p. 3 sgg.; Epistolario del Leopardi, vol. I, pp. 13 n., 37 n. 2, 206 n. 1 e altrove).
3 La «conversione letteraria» coincide, non casualmente, con uno spostamento della corrispondenza epistolare e degli interessi culturali del Leopardi da Roma a Milano. L’importanza di questo spostamento e il valore che i rapporti con la cultura milanese ebbero per il Leopardi furono intuiti acutamente dal De Sanctis (Studio sul Leopardi, cap. V), anche se la scarsa conoscenza e comprensione del classicismo illuminista, e soprattutto del Giordani, impedirono al De Sanctis di sviluppare questo punto.
4 Vedo ora che Leopardi e gli altri è il titolo di un paragrafo dedicato al Leopardi ne L’attività letteraria in Italia di G. Petronio, Palermo, 1964, p. 705.
5 Leopardi progressivo cit., pp. 188 sg., 263.
6 Cfr. M. Fubini, Romanticismo italiano2, Bari, 1960, p. 81 sg.; e, per la consonanza tra la nostalgia dell’antichità e il rimpianto per la fine della giovinezza, le penetranti osservazioni di G. De Robertis, Studi, Firenze, 1944, pp. 10 sg., 150 sgg.
7 I lavori del Losacco (Indagini leopardiane, Lanciano, 1937) sono ricchi di materiale, ma male organizzati e in buona parte anteriori alla pubblicazione dello Zibaldone. Il volumone del Serban su Leopardi et la France, nonostante i suoi indubbi meriti, è da usarsi con molta cautela, come dimostrò il Neri nell’art. cit. alla nota 2. Molte indicazioni utili si trovano nella comunicazione di A. Frattini Leopardi e gli ideologi francesi del Settecento. Do qui alcuni brevi cenni che non pretendono certo di sostituirsi a una ricerca sistematica. La lettura di Holbach risulta da un passo dello Zibaldone (p. 183, 23 luglio 1820) e da un elenco di progetti letterari posteriori al 1827 (PP, I, p. 705: «Frammenti alla Cousin, o al modo delle idee naturali opposte alle soprannaturali di Holbach»; cfr. l’indice delle letture compilato dal Leopardi stesso e pubblicato nel Porena, Scritti leopardiani, p. 427, num. 307, maggio 1825). Un altro testo materialistico importante, letto dal Leopardi nello stesso mese di maggio del 1825, è la Lettre de Thrasybule à Leucippe di Nicolas Fréret (indice cit., ibid., num. 306; cfr. p. 430, num. 411), che conteneva una vigorosa polemica antiteistica e antiprovvidenzialistica (questo testo era stato pubblicato postumo da Holbach nel 1765; l’attribuzione a Fréret, comunque, sembra fondata, cfr. da ultimo F. Diaz, Filosofia e politica nel Settecento francese, Torino, 1962, pp. 302 sgg., 303 n. 5). È anche documentabile la lettura e l’influsso delle Ruines di Volney (Zibaldone, p. 4127 sg.). Non risulta, invece, che il Leopardi abbia letto direttamente La Mettrie, e neppure Condillac e Diderot. Gli accenni a Helvétius contenuti in un Dialogo filosofico del 1812 (PP, II, pp. 1083, 1096) saranno attinti probabilmente a qualche libello polemico reazionario (le opere di Helvétius mancavano nella Biblioteca Leopardi); tuttavia l’idea di un’affinità tra intelletto umano e istinto animale, respinta con orrore dal Leopardi fanciullo in questo dialogo e già l’anno precedente in una Dissertazione sopra l’anima delle bestie (inedita, a Recanati), riemergerà con forza nei Paralipomeni. In generale bisogna tener presente, più di quanto non si sia fatto finora, che le prime notizie sul materialismo settecentesco giunsero al Leopardi indirettamente, attraverso opere di apologisti cattolici: vedi il nostro saggio Il Leopardi e i filosofi antichi. Il Binni (Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433 n. 184) osserva che «oltre alle letture giovanili (condizionate dai limiti della biblioteca paterna) è legittimo supporre nuove letture leopardiane della filosofia settecentesca più ardita, nell’epoca fiorentina e napoletana». Ma questa giusta osservazione riguarda, naturalmente, gli ultimi sviluppi del materialismo leopardiano, non la sua genesi e la sia sistemazione, già compiute tra il ’23 e il ’26.
8 A. Tilgher, op. cit., pp. 105 sg., 120-123. Cfr. Luporini, p. 208.
9 PP, II, p. 577 sg. È interessantissimo vedere come il Leopardi sa assorbire da Chateaubriand spunti di esaltazione della vita primitiva (la chiusa dell’Inno ai Patriarchi!) e respingerne invece il falso primitivismo consistente nella rivalutazione del Medioevo cattolico. Questo atteggiamento, complesso ma coerente, non è stato ben colto da Ferdinando Neri (Il Leopardi ed un «mauvais maître», in Letteratura e leggende cit., p. 276 sgg.), al quale i giudizi leopardiani su Chateaubriand sembrano mutevoli e contraddittorii. Simile – ma con un tono generale di maggiore simpatia – è l’atteggiamento del Leopardi verso Madame de Staël.
10 Cfr. P. Treves, L’idea di Roma e la cultura ital. del sec. XIX, Milano-Napoli, 1962, p. 36 sgg.; A. La Penna, Orazio e l’ideologia del principato, Torino, 1963, p. 163 sgg.
11 U. Bosco, Titanismo e pietà in G. Leopardi, Firenze, 1957, cap. I.
12 Op. cit., pp. 11-13. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 89.
13 Storia della letteratura italiana, cap. XX (ed. N. Gallo, Torino 19622, II, p. 918).
14 Per es. III, 448 sg. (servat multos fortuna nocentes et tantum miseris irasci numina possunt); VI, 443 sg., ecc. Cfr. I.E. Millard, Lucani sententia de deis et fato, Utrecht, 1891, p. 12 sgg.
15 Cfr. L. Paoletti, La fortuna di Lucano dal Medioevo al Romanticismo, «Atene e Roma», 1962, p. 155 sg.; P. Treves, Lo studio dell’antichità classica cit., p. 444 sgg. Fino a che punto il poemetto Catone in Affrica, scritto dal Leopardi a 12 anni e tuttavia in massima parte inedito (cfr. H.L. Scheel, Leopardi und die Antike, München, 1959, p. 19 sgg.) attesti una lettura diretta della Farsaglia in latino, è ancora da precisare. Riferimenti a Lucano mancano, pare, nel Pompeo in Egitto (1812). Un accenno alla descrizione lucanèa della selva di Marsiglia (Phars. III, 399 sgg.) è in un progetto di «poema di forma didascalica sulle selve e le foreste» (Poesie e prose, ed. Flora, I, p. 697), da cui poi nacquero, ma senza più l’allusione a Lucano, la canzone Alla primavera e l’Inno ai Patriarchi. Sulla scarsezza di espliciti riferimenti a Lucano nello Zibaldone e nelle opere del Leopardi dalla «conversione letteraria» in poi, cfr. La filologia di G. Leopardi, p. 158, n. 1 (dove, tuttavia, mi ero espresso in forma troppo recisa). Bisogna tener conto, in generale, del contrasto fra il gusto letterario del purismo (che era ostilissimo allo stile enfatico e alla violenza espressionistica di Lucano) e il repubblicanesimo di molti di quegli stessi puristi-classicisti, che li portava a simpatizzare per il poeta anticesariano, interpretato naturalmente non come difensore della vecchia oligarchia senatoriale, ma come banditore di libertarismo. Nel Giordani prevalse il secondo elemento, la simpatia «contenutistica» per Lucano; nel Leopardi rimasero più forti le prevenzioni stilistiche. Un contrasto analogo si produsse per Frontone, esaltato dal Leopardi giovane in quanto precursore del purismo, severamente giudicato dal Giordani per la mancanza di un serio contenuto etico-politico. – Alle testimonianze sul filo-lucanismo nella cultura italiana del primo Ottocento, raccolte dal Treves e dal Paoletti, vorrei aggiungere quella di Pietro Borsieri (Avventure letterarie di un giorno, in Discussioni e polemiche sul Romanticismo, ed. Bellorini, I, p. 143 sg.), un romantico antipurista che su questo punto veniva a concordare col suo avversario Giordani.
Inserito il 24/1/2023.
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Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
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Rimane tuttavia il fatto che, all’interno del classicismo illuminista italiano e della tradizione alfieriana – come nel più vasto ambito della cultura europea – il Leopardi occupa una posizione di punta. In lui giunge al massimo grado quella tensione tra «progressismo» e pessimismo che era implicita in gran parte del pensiero e della letteratura di cui egli si era nutrito. Già nei grandi illuministi francesi del Settecento, pur così fiduciosi nella possibilità di riformare la società e di rendere felice l’uomo, affiorano spunti di pessimismo non soltanto storico-sociale, ma anche «cosmico», relativo cioè al rapporto uomo-natura e a certi dati immodificabili della condizione umana. La polemica contro la religione tradizionale, intrapresa con la profonda convinzione di contribuire non solo a un acquisto di verità ma anche di felicità, finiva per coinvolgere qualsiasi concezione provvidenzialistica, anche l’idea di una provvidenza immanente alla storia, di un processo costante e necessario realizzato dall’umanità con le proprie forze. Gli argomenti usati per demolire la teodicèa si rivelavano efficaci anche contro la fiducia nella possibilità d’instaurare un regnum hominis. Il Poème sur le désastre de Lisbonne di Voltaire è l’esempio più celebre, ma tutt’altro che unico, di questo insorgere di motivi pessimistici all’interno dell’illuminismo; ed è noto che il Leopardi lo lesse e ne risentì l’influsso, specialmente per ciò che riguarda l’antinomia tra infelicità dei singoli e (presunta) felicità collettiva1. Ancor più evidente è, come abbiamo già accennato, il pessimismo implicito nel titanismo alfieriano. E anche nel Giordani la fede nella felicità dell’umanità futura, liberata da pregiudizi e da oppressioni, si alternò a una visione desolata dell’uomo ineluttabilmente infelice.
Tuttavia né gli illuministi del Settecento, né Alfieri, né Giordani portarono a fondo la presa di coscienza di questo contrasto. Il Poème sur le désastre de Lisbonne si conclude con un ripiegamento fideistico che, se può essere in parte dettato da cautela «diplomatica», corrisponde però sostanzialmente al deismo a cui Voltaire rimase fermo2. Nell’ultimo Alfieri, anche per effetto dell’involuzione politica di fronte all’esperienza rivoluzionaria, il titanismo cede spesso a vaghe nostalgie religiosizzanti. Il Giordani non concede nulla allo spiritualismo e alla trascendenza, ma in lui prevale la tendenza a dimenticare, nella lotta per il progresso sociale e culturale dell’umanità, il fondo pessimistico della propria Weltanschauung: anzi, egli indica esplicitamente al Leopardi l’impegno nella lotta come l’unico mezzo per superare, pragmaticamente se non in linea teorica, il pessimismo.
Nel Leopardi ciò non accade. Nel suo pensiero le esigenze progressiste non sopraffanno mai il pessimismo; anzi, nell’ultima fase progressismo e pessimismo si esaltano e si potenziano entrambi, e l’originale tentativo di conciliazione tra i due termini, che egli compie, non significa in nessun modo vanificazione o attenuazione di uno dei due.
Le caratteristiche specifiche della posizione leopardiana appaiono più chiare se ripercorriamo, sia pure in modo necessariamente sommario, l’evoluzione che il rapporto pessimismo-progressismo subisce nel suo pensiero. Nel periodo che va, a un dipresso, dall’inizio della «conversione letteraria» fino alla grande crisi pessimistica della primavera del ’19 – ma che per più aspetti si prolunga anche dopo quella crisi, fin verso il ’22 – il Leopardi sembra orientarsi verso una missione di poeta civile quale lo auspicava il Giordani: poeta patriottico, classicista, tendenzialmente repubblicano-russoiano: di un patriottismo, quindi, per un verso più libresco, più legato al passato, più provinciale, per un altro verso più avanzato e democratico del patriottismo riformatore-cristiano dei romantici lombardi.
Il cosiddetto «pessimismo storico» di questa prima fase non è, a rigore, ancora pessimismo, cioè non si è ancora assolutizzato a sistema. È piuttosto vivissima insofferenza dell’atmosfera stagnante dell’Italia e dell’Europa della Restaurazione, vagheggiamento di una società repubblicana, libera da superstizioni mortificanti e da ascetismo ma anche da eccessi di razionalismo e di raffinatezza, capace di vivere una vita intensa sotto l’impulso di energiche e magnanime illusioni. La propria infelicità individuale è considerata, almeno prevalentemente, dal Leopardi come un caso-limite dell’infelicità della società italiana del suo tempo, condannata all’inattività e alla noia (nella Canzone ad Angelo Mai il motivo della noia ha una forte intonazione politica), fisicamente decaduta per colpa di un’educazione ascetica che tende a comprimere ogni impulso vitale. Recanati – e, in Recanati, casa Leopardi – è il luogo in cui i mali comuni a tutta l’Europa della Restaurazione si soffrono in modo particolarmente intenso e paradigmatico. Ancora nella lettera dedicatoria della Canzone al Mai (1820, ristampata con poche varianti nel ’24) il Leopardi dà un’interpretazione politica del proprio atteggiamento pessimistico: «Ricordatevi – scrive al conte Leonardo Trissino – ch’ai disgraziati si conviene vestire a lutto, ed è forza che le nostre canzoni rassomiglino ai versi funebri. Diceva il Petrarca, ed io son un di quei che ’l pianger giova. Io non posso dir questo, perché il piangere non è inclinazione mia propria, ma necessità de’ tempi e volere della fortuna»3.
Ma già in questa fase – e specialmente dalla primavera del ’19 in poi – comincia a manifestarsi, in forma ancora sporadica, quello che con espressione poco felice è stato chiamato «il pessimismo cosmico», cioè la tesi della radicale e insanabile infelicità dell’uomo. Alla concezione di una Natura benefica, da cui gli uomini si sarebbero allontanati causando la propria infelicità, subentra talvolta la visione opposta, di una Natura matrigna che è essa la causa dell’infelicità umana. Questi accenni sono da ricercare non tanto nello Zibaldone, quanto in poesie o in abbozzi di poesie. «Natura / n’ha fatti a la sciaura / tutti quanti siam nati» leggiamo nella canzone Per una donna inferma di malattia lunga e mortale (scritta nella primavera del ’19 e poi non pubblicata); e poco sotto: «E chi diritto guata, / nostra famiglia [cioè il genere umano] a la natura è gioco»4. E in un abbozzo di idillio Alla Natura5:
«Sempre adorata mia solinga sponda
Deh perché agli occhi miei furi la vista
Dell’incantevole e magico effetto
Che Natura concede alle creature.
Alle creature sì, ma non a tutte…
Ahi a me matrigna, spietata madre!
Dimmi il perché di tal misura e peso.
Qual sfregio mai ti feci, il perché dimmi?
Da l’alveo materno me traesti
Forse a scherno e ludibrio de’ mortali?
Mortal pur io, ma non a lor secondo6,
Né merto pena tal. Benedicesti
Pure la terra di cui me plasmasti…
(…) Opra delle tue man son dunque io,
Né disdegnar me puoi, qual belva i nati».
C’è alla fine di questo abbozzo, dopo una punta «blasfema», un ripiegamento:
«Tu ridesti forse della mia sorte.
Ridi pur, n’hai ben d’onde: oh gran prodezza!
Ridi dell’opra tua! Perdona o Matre;
È il dolore che parla, non parlo io…
Son opra tua pur io: né mi fa credere
Che me tu lascierai fra tante pene».
Ma nell’Ultimo canto di Saffo, che è la compiuta realizzazione artistica di questo abbozzo informe, la nota «fiduciosa» finale è, ovviamente, sparita; il canto è tutto una protesta contro l’ingiustizia della disuguaglianza fisica, non sociale: la natura idillica del paesaggio ha per contrapposto non la civiltà corrotta, ma la bruttezza di Saffo, cioè una manifestazione abnorme della natura stessa, che è motivo di infelicità insanabile per chi ne è soggetto e vittima.
È dunque senz’altro auspicabile una ricerca approfondita sulla genesi del pessimismo cosmico, come quella che preannuncia il Berardi7. Essa permetterà di confutare sia quegli studiosi che hanno negato ogni distinzione tra le due fasi del pessimismo leopardiano, sia quelli che hanno asserito che il passaggio avviene in modo repentino e concettualmente immotivato, col Dialogo della Natura e di un Islandese. L’una e l’altra tesi, nella loro apparente opposizione, nascevano in realtà da un identico desiderio: negare coerenza e organicità di sviluppo al pensiero leopardiano, dimostrare che le idee del Leopardi hanno l’immediatezza passionale e fatalistica, la mancanza di valore autonomo che è caratteristica delle idee dei poeti puri.
Nel controbattere queste tesi, bisognerà, tuttavia, stare attenti a non presentare il passaggio dal primo al secondo pessimismo come frutto di uno sviluppo puramente concettuale. È giusto, sì, ricordare che ogni «puro vitalismo» ha in sé una «contraddizione intrinseca» che lo porta a convertirsi in pessimismo8. È giusto analizzare le ambivalenze insite fin dall’inizio nel concetto leopardiano di «natura», e osservare che il Leopardi doveva necessariamente, prima o poi, rendersi conto che quella stessa Natura che aveva dato all’uomo le beatificanti illusioni gli aveva però anche dato la ragione destinata a dissolverle (né era facile incolpare soltanto l’uomo, e non in ultima analisi la Natura stessa, dell’«abuso» della ragione e dell’allontanamento dallo stato primitivo)9. Si può anche aggiungere che nella prima fase del pensiero leopardiano la Natura era concepita come una madre pietosa che aveva velato all’uomo, mediante le illusioni, l’amara verità della sua condizione: dunque nemmeno lo stato originario dell’umanità era uno stato di felicità obiettiva, ma piuttosto di infelicità velata10: facile, dunque, da questa esaltazione della Natura matrigna, proprio in quanto essa non aveva dato agli esseri viventi la felicità obiettiva, non li aveva resi esenti da malattie, vecchiezza, morte. E infine, come cercherò di mostrare nel saggio Il Leopardi e i filosofi antichi, la scoperta del pessimismo antico, compiuta dal Leopardi nel 1823, contribuì a convincerlo che l’infelicità non era una conseguenza dell’eccessivo razionalismo dei tempi moderni, ma un dato costante dell’esistenza umana.
Tutto questo è giusto, ma non bisogna dimenticare che la nuova concezione della Natura malefica nasce nel Leopardi, primariamente, non sul filo logico di tali argomentazioni, ma per l’urgere di nuove esperienze pratiche, non sistemabili nel quadro del «pessimismo storico». Queste esperienze pratiche consistono nell’aggravarsi delle sue condizioni di salute (primavera del ’19) e, già prima, nell’accentuato senso di infelicità per la sua deformità fisica.
È questo un punto che può prestarsi con estrema facilità a grossolani equivoci, ma che proprio per ciò va affrontato, non eluso o negato. Il Leopardi ha sempre protestato con piena ragione contro quegli avversari che credevano di potersi esimere dalla condizione razionale del suo pessimismo presentandolo come il mero riflesso di una condizione patologica (pessimista perché gobbo!), privo quindi di ogni validità generale11. Che questa tesi, nata dal livore clericale di Niccolò Tommaseo, ripresa poi dai positivisti alla Sergi e infine riutilizzata da Benedetto Croce12, sia da respingere, non c’è dubbio. Ma il vero modo di respingerla non consiste nel negare, come pure si è fatto, ogni incidenza della malattia e della deformità fisica nella genesi della Weltanschauung leopardiana, di fare, quindi, del pessimismo leopardiano un fatto puramente «spirituale» o, seguendo un altro indirizzo, puramente politico-sociale. Bisogna invece riconoscere che la malattia dette al Leopardi una coscienza particolarmente precoce ed acuta del pesante condizionamento che la natura esercita sull’uomo, dell’infelicità dell’uomo come essere fisico. Come certe esperienze personali di rapporti di lavoro sviluppano nel proletario una consapevolezza particolarmente intensa della società capitalistica (quel «senso di classe» così difficile ad acquisire per l’uomo di sinistra di origine non proletaria), così la malattia contribuì potentemente a richiamare l’attenzione del Leopardi sul rapporto uomo-natura. Il torto dei cattolici alla Tommaseo, dei positivisti alla Sergi, degli idealisti alla Croce non sta nell’aver affermato l’esistenza di un rapporto tra «vita strozzata» e pessimismo, ma nel non aver riconosciuto che l’esperienza della deformità e della malattia non rimase affatto nel Leopardi un motivo di lamento individuale, un fatto privato e meramente biografico, e nemmeno un puro tema di poesia intimistica, ma divenne un formidabile strumento conoscitivo. Partendo da quell’esperienza soggettiva il Leopardi arrivò a una rappresentazione del rapporto uomo-natura che esclude ogni scappatoia religiosa (sia nel senso delle religioni tradizionali, sia in quello dei miti umanistici) e che, per il fatto di essere personalmente sofferta e artisticamente trasfigurata, non perde nulla della sua «scientificità».
Anche nei riguardi del «male fisico», beninteso, il Leopardi non trascurò mai di attribuire la sua parte di colpa alla società sua contemporanea, a quell’educazione tutta «spirituale» e malsana di cui egli e tutta la sua generazione avevano così gravemente sofferto. Nell’importanza che Greci e Romani avevano dato all’educazione fisica vide sempre uno dei punti di superiorità degli antichi sui moderni13. Ancora nel Tristano – cioè in pieno «pessimismo cosmico» – ribadirà con gran forza questo punto:
«…tra noi già da lunghissimo tempo l’educazione non si degna di pensare al corpo, cosa troppo bassa e abietta: pensa allo spirito: e appunto volendo coltivare lo spirito, rovina il corpo: senza avvedersi che rovinando questo, rovina a vicenda anche lo spirito».
E chiarirà che questo difetto dell’educazione moderna non è eliminabile con semplici riforme di istituzioni scolastiche – come pensavano i pedagogisti cattolico-liberali –, ma implica tutta una nuova etica, antiascetica e anticristiana, e quindi una riforma radicale della società:
«E dato che si potesse rimediare in ciò all’educazione, non si potrebbe mai senza mutare radicalmente lo stato moderno della società, trovare rimedio che valesse in ordine alle altre parti della vita privata e pubblica, che tutte, di proprietà loro, cospirarono anticamente a perfezionare o a conservare il corpo, e oggi cospirano a depravarlo»14.
Ma era pur evidente che la migliore società di questo mondo, mentre avrebbe potuto eliminare le ingiustizie di origine politico-sociale (e anche su questo punto rimasero nel pensiero del Leopardi forti riserve), avrebbe potuto soltanto esercitare un’azione palliativa nei riguardi dell’oppressione esercitata dalla natura sull’uomo. E quindi l’approfondimento di questo tema doveva prevalentemente orientare il pessimismo del Leopardi in senso «cosmico». Il che accade, come abbiamo visto, in modo ancora episodico nel ’19, e poi sistematicamente a partire dal ’23-’24.
Con piena ragione il Luporini considera come una scelta decisiva per l’ulteriore sviluppo del pensiero leopardiano l’avere, a questo punto, rifiutato il ricorso a Dio, il rifugio nel mistero e nella trascendenza, l’avere, anzi, imboccato la strada opposta, di un ateismo e materialismo sempre più conseguente15. È qui, in effetti, che si misura tutta la grandezza umana e intellettuale del Leopardi, in confronto ai tanti «spiriti inquieti» del suo e del nostro secolo, per i quali il pessimismo è stato solo l’anticamera della conversione religiosa. La constatazione della fragilità dell’uomo di fronte alla natura non porta il Leopardi a fabbricarsi un mitico «regno dello Spirito», un altro mondo (comunque inteso) in cui l’uomo prenderebbe la sua rivincita. Egli porta avanti, invece, un’analisi del rapporto uomo-natura in termini totalmente demistificati. Dal Dialogo di un folletto e di uno gnomo fino al Copernico e oltre, ogni antropocentrismo e teleologismo viene radicalmente criticato e deriso. L’uomo è «una menomissima parte dell’universo», e la natura segue un suo ritmo di produzione-distruzione del tutto indipendente da ogni fine o interesse del singolo uomo o dell’umanità nel suo complesso. La nozione di spirito, come qualcosa di essenzialmente diverso e contrapposto alla materia, si rivela illusoria16. Senziente e pensante è, nell’uomo, la materia stessa: il cervello, non l’anima17.
Al tempo stesso, il Leopardi continua a svolgere, raccordandola col pieno materialismo ora da lui raggiunto, quella «teoria del piacere» che era sorta nel suo pensiero alquanto prima, come estrema conseguenza nichilistica del suo iniziale vitalismo18. Più di uno studioso ha visto, a questo punto, una contraddizione fra «pessimismo cosmico» e materialismo. Il materialismo avrebbe dovuto produrre nel Leopardi, si dice, l’imperturbabilità di uno Spinoza o di un Holbach19: il pessimismo leopardiano costituirebbe un residuo di antropocentrismo, o addirittura sarebbe la spia di un’esigenza religiosa20, o rivelerebbe l’impossibilità di trovare nel poeta Leopardi una coerenza filosofica. In realtà il collegamento tra materialismo e pessimismo è dato proprio dalla teoria del piacere, da quell’edonismo che è un elemento essenziale del pensiero leopardiano. Non contrasta con un materialismo conseguente la constatazione che l’uomo ha una costituzione fisico-psichica tale da procurargli molto più sofferenza che godimento. L’infelicità umana di cui parla il Leopardi non è il mal du siècle romantico né una fumosa angoscia esistenziale: è (e il Leopardi se ne è reso conto man mano che diventava materialista) anzitutto un’infelicità fisica, basata su dati ben concreti: malattie, vecchiezza, fugacità del piacere. Ma anche su questo piano più elevato ha ragion d’essere il pessimismo, poiché i valori elaborati dalla civiltà umana sono estremamente caduchi, e la natura li annienta non meno di quanto annienti gli organismi biologici. Il Leopardi è critico spietato di tutti i miti dell’immortalità delle opere21. La morte stessa dell’individuo, che sul piano meramente edonistico-individuale si può considerare, ed è considerata dal Leopardi, come un non-male, un oggetto di timore infondato (di un timore, tuttavia, difficile a eliminarsi, e che dunque contribuisce all’infelicità della maggioranza degli uomini), ridiviene un male al livello dei rapporti affettivi tra le persone, per la lacerazione dell’«amante compagnia» che essa produce22.
Ciò che dall’esposizione di Luporini non risulta, mi sembra, con sufficiente evidenza, è che questo passaggio al materialismo conseguente non coincide con una spinta in senso più democratico, ma si accompagna per tutto un periodo (all’ingrosso dal ’23 al ’29) ad una forte diminuzione dell’interesse politico, a un disimpegno da quella missione di poeta civile a cui il Leopardi non aveva rinunciato fino a tutto il ’21. Sono gli anni in cui Leopardi si sente particolarmente vicino, dapprima, a Luciano (e per un breve periodo anche a Platone, non sul piano metafisico, ma ironico-lirico), e poi soprattutto alla filosofia ellenistica23. La conversione alla prosa ha precisamente questo significato, di rinuncia all’eroica disperazione e alle magnanime illusioni, di adozione di un atteggiamento rassegnato-ironico di fronte alla realtà24.
Il Luporini ha tutte le ragioni di polemizzare con chi, a cominciare dal De Sanctis, considera la morale epittetèa come l’unica coerente col pessimismo leopardiano, e l’altra, la morale eroica, come «tirata co’ denti, non dedotta bene, anzi in contraddizione con le premesse»25. Ha anche ragione di notare che nell’adesione alla morale epittetèa vi è nel Leopardi molto pudore ironico e una non mai sopita nostalgia della morale eroica. Il Leopardi, certo, non si acquetò mai in una morale tardo-antica dell’atarassia, che sarebbe stata un’evasione dal pessimismo lucido e razionale, in un certo senso analoga all’evasione «buddistica» di Schopenhauer. Per di più, Epittèto fu, per così dire, controbilanciato da Teofrasto, cioè da un moralista empirico e mondano, il quale insegnava, seguendo l’Etica Nicomachea, che non bastano virtù e saggezza a dare la felicità, ma che è indispensabile anche il concorso di circostanze esteriori favorevoli26. Ma quello che mi sembra vada riaffermato, è che la suggestione della morale epittetèa – o, più in generale, ellenistica – non fu sentita dal Leopardi sporadicamente per tutto l’arco della sua vita, nei momenti di stanchezza e di pausa della tensione eroica, ma improntò di sé sostanzialmente una fase della vita e del pensiero leopardiano, quella degli anni di Bologna e del primo soggiorno fiorentino (1825-’27); e che essa segnò il culmine di un periodo di fondamentale apoliticità.
Di tale apoliticità non è difficile indicare i motivi. Intanto, bisogna ricordare che al movimento di rivolta politico-culturale contro la Restaurazione, culminato nei moti del ’20-’21, era succeduto in tutta Italia, dopo la sconfitta di quei moti, un periodo di ripiegamento e di stasi. Tutta una generazione di intellettuali abbandonò allora la prospettiva rivoluzionaria e passò ad una prospettiva «riformistica». Lo spostamento dell’epicentro della cultura progressista da Milano a Firenze, dal «Conciliatore» all’«Antologia», coincide appunto con questa svolta. La nuova ondata rivoluzionaria del ’31 troverà quasi tutti questi intellettuali su posizioni di sfiducia e di estraneità alle «sette»: perfino il Giordani, che aveva esultato per i moti del ’20 e che ideologicamente e umanamente non si amalgamò mai con l’ambiente del Viesseux e del Capponi, si mantenne freddo e sfiduciato dinanzi ai moti emiliani e romagnoli del ’31 – mentre poi di nuovo parteciperà agli entusiasmi del ’48 –. L’abbandono della prospettiva risorgimentale da parte del Leopardi, se era già implicito nel nuovo corso impresso al suo pensiero dalla crisi personale del ’19, ricevette certo un forte impulso dalla crisi politica del ’21. Accanto alla più vasta «delusione storica» per la sconfitta della rivoluzione francese, a cui si riferisce costantemente il Luporini (e che forse andrebbe essa stessa meglio circostanziata e distinta nei suoi vari motivi), non bisogna trascurare questa nuova delusione prodotta dal fallimento dei moti di Napoli e di Torino, la quale si farà ancora sentire chiaramente nei Paralipomeni, sommata all’esperienza dell’ulteriore fallimento del ’31. Il cupo pessimismo etico-politico del Bruto minore (dicembre del ’21) è anche il riflesso di quella delusione. È ben naturale che, in un’atmosfera ormai priva di tensione rivoluzionaria, a quell’estrema protesta titanica seguisse una fase più rassegnata e diseroicizzata.
Le Operette morali, progettate dal Leopardi ancora nel luglio del ’21 come una prosecuzione, su altro piano, del suo impegno di educazione politica e civile («le armi del ridicolo» usate «a scuotere la mia povera patria, e secolo»27), segnarono di fatto, tre anni dopo, il temporaneo abbandono di quell’impegno. Al Leopardi «questo ridicolissimo e freddissimo tempo» appariva ormai refrattario non solo alla lirica politica appassionata, ma anche alla satira politica.
Ma oltre a ciò bisogna tener conto del fatto che il passaggio del Leopardi a un materialismo coerente, che avviene appunto dal ’23 in poi, costituì, almeno in un primo tempo, un incentivo al disimpegno politico. Mentre il pessimismo «storico», democratico-russoiano degli anni precedenti era, per così dire, spontaneamente progressista sul piano politico-sociale, molto meno facile e immediato era il compito di coordinare il nuovo pessimismo materialistico con un atteggiamento politico-sociale progressista. La persuasione dell’infelicità radicale di tutti gli esseri viventi, a cui il Leopardi era giunto, poteva far apparire come trascurabili gli sforzi per conquistare migliori istituzioni. A questa conclusione il Leopardi effettivamente giunse, per esempio in quella lettera al Viesseux del 4 marzo 1826 su cui giustamente hanno richiamato l’attenzione il Bigi e il Biral:
«gli uomini sono a’ miei occhi quello che sono in natura, cioè una menomissima parte dell’universo, e i miei rapporti con loro e i loro rapporti scambievoli non m’interessano punto, e non interessandomi, non gli osservo se non superficialissimamente. Però siate certo che nella filosofia sociale io sono per ogni parte un vero ignorante. Bensì sono assuefatto ad osservar di continuo me stesso, cioè l’uomo in sé, e similmente i suoi rapporti con la natura…»28.
Il Leopardi progressivo di Luporini soffre un po’ di un’indeterminatezza del concetto di progressismo, che non è un fatto isolato nella storiografia marxista. La lotta per la liberazione dell’uomo dai pregiudizi religiosi e metafisici e per la conquista di una visione del mondo integralmente laica è logicamente – ed è stata anche storicamente, ed è tuttora – connessa con la lotta contro ogni oppressione politico-sociale. Tuttavia connessione non significa identità immediata, ed è facile citare molti casi di sfasatura, o addirittura di temporaneo contrasto tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico», tra democraticità e razionalismo laico. Questo punto è stato messo bene a fuoco da Antonio La Penna in un recente articolo su Lucrezio29.
«Il problema [del progressismo di Lucrezio] è tutt’uno con quello dell’atteggiamento da prendere verso il razionalismo e il materialismo del passato, anche quando essi siano stati politicamente agnostici o addirittura reazionari. Orbene razionalismo e materialismo reazionario, quando hanno portato ad una conoscenza più esatta della natura e della storia, quando hanno segnato un progresso scientifico, hanno pur sempre accresciuto le condizioni per una liberazione totale dell’uomo, per una liberazione, cioè, sia dall’errore sia dalla soggezione sociale e politica: appunto perché la liberazione totale, a cui aspira il marxismo, è fondata sulla conoscenza scientifica della realtà naturale e storica. Credo di non errare affermando che Machiavelli fu meno democratico di Savonarola: eppure Machiavelli conta per il marxista molto più di Savonarola come base della sua visione storica e politica. Illuminismo e marxismo sono, a gradi diversi, due sintesi della chiarezza razionale e della spinta liberatrice che prima trovava espressione in utopie e in miti religiosi».
Nell’illuminismo stesso i due momenti della sintesi di cui parla il La Penna sono presenti, nei vari pensatori, in molto varia misura; e proprio l’illuminismo fornisce, per la distinzione tra progressismo scientifico e progressismo politico-sociale, esempi anche più pertinenti di quelli di Machiavelli e Savonarola. Basti pensare a Rousseau democratico avanzatissimo, eppure molto meno laico e razionalista di La Mettrie, Holbach, Helvétius, materialisti conseguenti ma molto moderatamente progressisti in politica.
La confusione tra i due piani può condurre a forzature opposte: a presentare come democratico ogni laico e materialista, oppure a liquidare senz’altro come reazionario in senso globale il materialista antidemocratico. Il primo caso si è verificato con Epicuro e Lucrezio; il secondo, col positivismo del secondo Ottocento, che tuttora non trova nella storiografia democratica e marxista un’equa valutazione.
Nel caso del Leopardi, non si tratta minimamente di limitare il suo progressismo al piano razionalista-laico. Progressista il Leopardi fu anche sul piano politico-sociale: questa conquista del saggio di Luporini non si cancella. Ma la distinzione tra i due piani serve, per il Leopardi, a raggiungere una visione più articolata del suo pensiero, a riconoscere che in diversi periodi della sua vita ora l’uno ora l’altro progressismo furono predominanti, a rendersi conto, infine, che tra l’uno e l’altro vi furono delle collisioni e che l’ultimo Leopardi è caratterizzato appunto dallo sforzo di armonizzare questi due aspetti del proprio pensiero. Nel saggio luporiniano, invece, il materialismo è preso in esame – e valutato positivamente – quasi soltanto in funzione del progressismo politico-sociale (pp. 251-254): il momento materialistico viene ad assumere importanza non in sé, ma come raccordo tra il primo e l’ultimo Leopardi, come ancoraggio contro il rischio di esser travolto dai flutti dell’irrazionalismo prima di aver elaborato la nuova morale laica e combattiva. Di qui quella sottovalutazione delle Operette morali a cui già abbiamo accennato; di qui, anche, il fatto che, fra gli ispiratori del pensiero leopardiano, sono sempre presenti a Luporini i «filosofi politici» Hobbes, Rousseau e Voltaire, ma non è nemmeno una volta ricordato il «materialista volgare» Holbach, a cui pure, come abbiamo accennato30, il Leopardi deve alcuni spunti importanti.
(3/4. Segue)
Sebastiano Timpanaro
(Brano tratto da: Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi Editori, Pisa, 1969 [2ª ed.], pp. 150-167).
Note
1 Zibaldone, 4175. Per gli spunti pessimistici che il Leopardi poté trarre da Bayle, Fontenelle, Voltaire, Holbach, vedi M. Losacco, Indagini leopardiane cit., pp. 121 sg., 123 sgg., 135 sgg.; Binni, Leopardi e la poesia del secondo Settecento cit., p. 433 nn. 186-88; A. Frattini in Leopardi e il Settecento cit. Anche l’idea dell’inno ad Arimane abbozzato dal Leopardi nei suoi ultimi anni (PP, I, p. 434) deriverà probabilmente dal Poème sur le désastre de Lisbonne («Est-ce le noir Typhon, le barbare Arimane, / dont la loi tyrannique à souffrir nous condamne?»), come suppose già l’Antognoni, piuttosto che dal Manfredo di Byron come vorrebbe l’Allodoli.
2 Cfr. Luporini, op. cit., p. 269.
3 PP, I, p. 183.
4 Ibid., pp. 298-99.
5 Ibid., p. 375 sg. Cfr. C. Muscetta, Ritratti e letture, Milano, 1961, p. 244 sg. [Ma sull’autenticità di questo abbozzo, pubblicato da fonte sospetta, ho adesso forti dubbi. Ritornerò tra breve sull’argomento].
6 In margine a questo verso, secondo il primo editore, l’autografo recherebbe un «son». Ma anche altri versi zoppicano.
7 Ragione e stile in Leopardi cit., p. 527, n. 57.
8 Luporini, p. 246. Il Luporini ricorda Nietzsche, e si potrebbe ricordare il cirenaico Egesia, al quale il Leopardi pensò come a protagonista di un’operetta morale (PP, I, p. 700; Egesia è rammentato anche nel Dialogo di Plotino e di Porfirio).
9 Vedi i lavori del Biral, Il significato di «natura» nel pensiero di Leopardi cit. e La «posizione storica» di G. Leopardi cit., e già M. Porena, Il pessimismo di G. Leopardi, 1923, rist. in Scritti leopardiani, Bologna, 1959, p. 151 sg.
10 Cfr. A.L. De Castris in «Convivium», 1959, p. 437, n. 1.
11 Vedi in particolare il Dialogo di Tristano e di un amico e la lettera al de Simone del 14 maggio 1832 (il passo in francese).
12 Una caratteristica saliente del saggio di Croce sul Leopardi (in Poesia e non poesia) è la spregiudicatezza con cui egli utilizza, pur di combattere il pessimismo leopardiano, argomenti positivistici offertigli dalla scuola lombrosiana. Con analoga spregiudicatezza Croce si servì di argomenti empiriocriticisti e pragmatisti per negare il valore conoscitivo delle scienze fisiche, usò strumentalmente il marxismo per combattere (da destra!) le ideologie democratico-umanitarie, e via dicendo. Le esigenze politico-culturali (talvolta politico-culturali in senso deteriore) sopraffacevano in lui di gran lunga le esigenze scientifiche.
13 Cfr. per es. Zibaldone, 115, 207, 223, 1631 sg., 4289, e la canzone A un vincitore nel pallone.
14 Sull’utilità della ginnastica aveva insistito per es. Gino Capponi nelle sue Considerazioni pedagogiche sugli Istituti Hofwyl («Antologia» del Viesseux, gennaio-marzo 1822; ora in A. Gambaro, La critica pedagogica di G. Capponi, Bari, 1956, p. 231), ma nel quadro di un’educazione cristiana, che asseriva pur sempre il primato dello spirito sul corpo.
15 Luporini, op. cit., p. 246 sgg. Oltre che da una pseudo-soluzione religiosa, il materialismo ha salvato il Leopardi anche da quella tendenza al «misantropismo» che si era espressa attorno al ’20 negli abbozzi di operette Galantuomo e Mondo e Senofonte e Machiavello, e che costituiva un rischio insito nell’isolamento stesso del Leopardi. Il memorabile pensiero del 2 gennaio 1829 (Zibaldone, p. 4428: «La mia filosofia, non solo non è conducente alla misantropia, come può parere a chi la guarda superficialmente, e come molti l’accusano; ma di sua natura esclude la misantropia… La mia filosofia fa rea d’ogni cosa la natura, e discolpando gli uomini totalmente, rivolge l’odio, o se non altro il lamento, a principio più alto, all’origine vera de’ mali de’ viventi»), la cui importanza è ben messa in rilievo dal Luporini, non rappresenta solo una polemica verso gli avversari, ma un chiarimento con se stesso, lo scongiuramento di una possibile deviazione del pessimismo. Nello stesso senso è significativo, e si potrebbe dire simbolico, il mutamento del nome del personaggio autobiografico leopardiano da «Misenore» in «Eleandro».
16 Cfr. soprattutto Zibaldone, 4111 (11 luglio 1824) e 4206-8 (26 settembre 1826).
17 Zibaldone, 4251-53 (9 marzo 1827), 4288 sg. (18 settembre 1827). Ma vedi già il pensiero del 9 settembre 1821 (p. 1657) che comincia: «Tutto è materiale nella nostra mente e facoltà». Una chiara esposizione del materialismo leopardiano è data dal Tilgher, La filosofia del Leopardi cit., p. 88 sgg.
18 Sull’anteriorità della «teoria del piacere» rispetto al materialismo hanno giustamente insistito il Tilgher (op. cit., p. 88) e il Luporini (pp. 245 sg., 251 sgg.), anche se l’analisi luporiniana della «crisi del vitalismo» leopardiano rischia di essere, in certi passaggi, troppo sottile e tecnicistica.
19 Vedi per es. F. Tocco, Il carattere della filosofia leopardiana, nel vol. miscellaneo Dai tempi antichi ai tempi moderni: da Dante al Leopardi, Milano, s.d. (1904), p. 571 sg.; G. Gentile, Manzoni e Leopardi, Milano, 1928, p. 102 sgg.; B. Biral, nel «Ponte», XV, 1959, p. 1272 sgg.; e molti altri.
20 È questa l’interpretazione del pessimismo leopardiano instaurata dal de Sinner e dal Gioberti, ripresa più recentemente da Giulio Augusto Levi e da altri studiosi cattolici.
21 È superfluo ricordare quanto spesso ricorra nel Leopardi il tema dell’inanità e caducità della gloria. In ogni caso, qualsiasi mito dell’immortalità delle opere trova, per il Leopardi, la sua confutazione nella sicura previsione di una catastrofe cosmica che annienterà il nostro mondo: vedi la chiusa del Cantico del gallo silvestre e il Frammento apocrifo di Stratone da Lampsaco; e la Ginestra, specialmente vv. 41-51.
22 Così si risolve, mi pare, l’apparente contraddizione tra le diverse affermazioni del Leopardi riguardo alla morte (cfr. M. Porena, Scritti leopardiani cit., p. 159 sg.). Di tale ambivalenza della morte le due più compiute rappresentazioni leopardiane, lirico-affettive e ragionative insieme, sono le due poesie «sepolcrali» (Sopra un basso rilievo… e Sopra il ritratto di una bella donna…).
23 Vedi il saggio Il Leopardi e i filosofi antichi, in particolare su Platone, su Epitteto e altri filosofi ellenistici.
24 Su questo periodo, dopo il De Sanctis (Giacomo Leopardi, cap. XXI sgg.), è ritornato con finezza di analisi e novità di risultati E. Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli», in «Befagor», XVIII, 1963, p. 129 sgg.
25 Luporini, p. 259 sgg. (cfr. De Sanctis, Giacomo Leopardi, cap. XXV).
26 Vedi il saggio Il Leopardi e i filosofi antichi.
27 Zibaldone, p. 1393 sg.
28 Cfr. Biral, La «posizione storica» cit., p. 17 sg.; Bigi, Dalle «Operette morali» ai «Grandi idilli» cit., p. 135 sg.
29 Ne «L’Unità» del 3 novembre 1963.
30 Vedi la nota 1.
Inserito il 4/2/2023.
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Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi
4
Il nuovo vigore che il motivo della fraternità umana assume a partire dal Dialogo di Plotino e di Porfirio (1827)1, la nuova grande fioritura lirica dei canti pisano-recanatesi del ’28-’29, segnano l’abbandono definitivo della morale dell’atarassia, ma non ancora un deciso ritorno all’interesse politico. Fu il contatto polemico con l’ambiente cattolico-liberale, specialmente nel secondo soggiorno fiorentino e poi nel napoletano, a porre dinanzi al Leopardi il problema di ristabilire, su basi necessariamente diverse che nel ’18-’21, un nesso tra il proprio pessimismo e un atteggiamento politico progressista.
Il cattolicesimo liberale rappresentava qualcosa di particolarmente avverso a tutto il pensiero del Leopardi. Era il mito del progresso, privato della carica di lucido razionalismo che aveva avuto nel Settecento francese e riconciliato coi vecchi miti cattolici. Era l’esaltazione delle conquiste tecnico-scientifiche (il vapore, la diffusione rapida delle notizie: si pensi alla satira della Palinodia) accompagnata però dalla rinuncia ad una visione veramente scientifica, cioè laica, della realtà. Era il cattolicesimo ottimista – mentre il Leopardi, finché aveva creduto di poter conciliare in qualche modo il proprio pessimismo col cristianesimo, aveva puntato proprio sulla rappresentazione pessimistica che il cristianesimo fa di questo mondo2 –.
A un tale ambiente gli scritti del Leopardi, e in particolar modo le Operette morali, erano apparsi come l’espressione di un ateismo che negava insieme la religione e il progresso; che si opponeva, quindi, totalmente «allo spirito del secolo»3. Né questi nuovi detrattori erano puri e semplici reazionari che il Leopardi poteva trascurare. Stavolta le critiche venivano da un’opinione pubblica, a suo modo, illuminata e progressista; e l’accusa di irreligione era (ben diversamente dalle critiche che il Leopardi aveva ricevuto in occasione delle prime canzoni patriottiche) congiunta strettamente a quella di scarso patriottismo e di sfiducia nell’umanità. Che, del resto, una parte di quelle accuse trovasse risonanza anche fuori dall’ambiente liberale-cattolico, anche tra l’opinione pubblica risorgimentale in senso largo, lo dimostra il saggio di Pietro Giordani sulle Operette morali, destinato all’«Antologia» del Viesseux ma poi non pubblicato: il Giordani […] dichiarava di condividere il pessimismo leopardiano e lo difendeva dalle critiche dei moderati toscani, ma esprimeva anch’egli il desiderio di un maggiore impegno politico da parte del Leopardi4.
Il bisogno di rispondere a queste accuse di apoliticità e di egocentrismo («il proprio petto / esplorar che ti val? Materia al canto / non cercar dentro te», sono le parole che il Leopardi mette in bocca a uno dei suoi oppositori nella Palinodia) costituì certamente la spinta decisiva per la ripresa polemica e combattiva, per il nuovo titanismo dell’ultimo Leopardi. Questo movente in qualche misura «esterno» dell’ultima fase del pensiero leopardiano non toglie nulla (diversamente da come è parso a qualche critico) alla sua profonda sincerità e coerenza: dimostra piuttosto la capacità del Leopardi di reagire al nuovo clima politico-culturale, allargando il respiro umano e sociale del proprio pessimismo, fondando una morale integralmente laica e smitizzata.
Al compromesso ideologico attuato dai cattolici liberali il Leopardi contrappone, in quest’ultima fase, una grande ripresa di temi illuministici e materialistici. Non c’è libertà politica, egli afferma, senza libertà dal dogma e dal mito («Libertà vai sognando, e servo a un tempo / vuoi di nuovo il pensiero»). È proprio questa esigenza di smascheramento degli «errori barbari» del cattolicismo che fa superare al Leopardi ogni residuo di dubbio sull’opportunità o meno di rivelare agli uomini il male della condizione umana in tutta la sua crudezza: alla convinzione del «valore sociale del vero» (per usare una felice espressione del Berardi5) il Leopardi giunge perché l’esperienza gli ha dimostrato che nell’epoca attuale il vuoto dell’ignoranza non è riempito dalle gagliarde e magnanime illusioni dei primitivi, ma da un ibrido connubio delle deprimenti superstizioni medievali con un progressismo superficiale e falso, incapace di dare la felicità all’uomo: meglio, allora, quella «fiera compiacenza» che è prodotta da una lucida disperazione, e che costituisce, in un mondo in cui l’azione eroica è ormai preclusa, l’ultima e paradossale forma di «virtù» classicheggiante. I Paralipomeni, con la negazione di ogni differenza qualitativa insuperabile tra uomo e animali, con la rivendicazione del Settecento empirista e antimetafisico contro l’Ottocento cristianeggiante, sono la punta estrema del progressismo ideologico leopardiano.
Sul piano politico, assistiamo (accanto a un rinvigorimento dell’avversione ad ogni posizione reazionaria e assolutista, testimoniato dai Paralipomeni e dall’epistolario) a due successivi momenti della polemica contro i moderati cattolici. Dapprima, nei primi canti dei Paralipomeni, un recupero dei motivi patriottici di stampo classicheggiante, con punte di xenofobia settaria e di esaltazione retorica della romanità (fino alla protesta perché in Italia non si mettono ai bambini i nomi di antichi romani, ma di eroi barbari come Annibale o Arminio!)6. È questo, indubbiamente, il momento più debole della polemica leopardiana, quello che ha più il carattere di mera ritorsione e che più fa risaltare i limiti provinciali del patriottismo classicista in confronto all’apertura europea del riformismo cattolico-liberale: limiti che più tardi inficieranno il repubblicanesimo del Carducci e lo predisporranno alla finale involuzione reazionaria7. Tuttavia non bisogna dimenticare che, sia pure in forma inadeguata, questa posizione leopardiana esprime pur sempre l’esigenza di un ritorno a quelle prospettive di soluzione rivoluzionaria del problema nazionale che l’intellettualità italiana aveva fatte proprie nel ’20-’21 e aveva abbandonate dopo il fallimento di quell’esperienza.
Un secondo momento è rappresentato dal ben noto passo della Ginestra in cui il Leopardi fa appello alla solidarietà di tutti gli uomini nella lotta contro la natura.
Nessun dubbio sulla grande potenzialità democratica di questo appello. Soltanto, bisogna parlare appunto di potenzialità, per sottolineare, accanto all’estrema apertura e spregiudicatezza del discorso leopardiano, anche la sua indeterminatezza. Non vi è traccia in esso di preclusioni di classe, di cautele da «liberale», anzi vi è l’esplicita esigenza di far partecipe della nuova morale laica tutto il popolo8; ma non c’è nemmeno alcun accenno a una lotta contro l’oppressione politico-sociale, come condizione preliminare per raggiungere la «confederazione» dell’intera umanità. Il Leopardi pensa che i contrasti tra gruppi umani siano secondari, e perciò da mettersi a tacere, di fronte all’esigenza di far blocco contro il nemico numero uno, l’empia Natura9. Quando il Pascoli trovava preannunciato nella Ginestra il proprio solidarismo10, trascurava certamente l’ispirazione illuministica e l’afflato eroico che sono essenziali alla posizione leopardiana, e che mancano all’ideologia pascoliana; rimane però il fatto che anche il Leopardi propugna un solidarismo, cioè un appello alla cessazione della lotta «fratricida», per dirigere tutti i colpi non contro un avversario umano, ma contro la Natura. Rifacendoci ancora una volta alla distinzione tra progressismo politico-sociale e progressismo «scientifico», possiamo dire che il Leopardi assorbe il primo nel secondo. Soltanto, in quest’ultima fase del suo pensiero, egli toglie al proprio materialismo pessimistico quel carattere alquanto solitario e umbratile che aveva assunto negli anni di Bologna, così come, riprendendo il titanismo del Bruto minore, ne elimina quella coloritura aristocratica che il titanismo aveva sempre avuto fin allora. Non c’è più alcuna contrapposizione di principio tra l’eroe e il volgo, anzi il pessimismo agonistico è destinato a divenire un atteggiamento comune a tutta l’umanità, una filosofia popolare. In questo senso si può dire che il progressismo politico non si dissolve semplicemente nel progressismo scientifico, ma gli infonde la propria esigenza democratica.
Inoltre, non bisogna dimenticare che la lotta contro la natura a cui il Leopardi chiama l’umanità è e rimarrà sempre una lotta disperata, per ciò che riguarda gli obiettivi di fondo. Certo il Leopardi non nega la possibilità di raggiungere successi parziali di notevole rilievo (di qui la sua rivendicazione della «civiltà, che sola in meglio / guida i pubblici fati»11). Ma che la vittoria definitiva spetti alla natura, tutta la Ginestra lo riafferma, come lo riafferma il Tramonto della luna, che appartiene allo stesso periodo finale della vita e del pensiero leopardiano12. Qui è la differenza tra il materialismo leopardiano e il credo scientista del secondo Ottocento (quantunque si debba aggiungere che all’ottimismo scientista il secondo Ottocento alternò un senso cosmico desolato che, quando non finì in un agnosticismo vagamente religiosizzante, si richiamò a buon diritto a Lucrezio e a Leopardi)13.
L’illuminismo che il Leopardi, nella Ginestra e nel canto IV dei Paralipomeni, rivendica contro lo spiritualismo cattolico dell’Ottocento, è un illuminismo interpretato pur sempre come filosofia dolorosa, che non dà all’uomo, insieme con la verità, la felicità. Il riflusso spiritualistico della Restaurazione non è spiegato dal Leopardi con motivi in primo luogo politici (antigiacobinismo), ma come un arretramento dinanzi alle conseguenze pessimistiche dell’analisi del rapporto uomo-natura intrapresa dal materialismo settecentesco:
In quell’età, d’un’aspra guerra in onta,
altra filosofia regnar fu vista,
a cui dinanzi valorosa e pronta
l’età nostra arretrossi appena avvista
di ciò che più le spiace e che più monta,
esser quella in sostanza amara e trista.14
Non si possono isolare i due primi bellissimi versi di quest’ottava dai seguenti, senza dare dell’illuminismo leopardiano un’immagine alterata. E nella Ginestra di nuovo il Leopardi dirà, rivolto al proprio secolo:
Così ti spiacque il vero
dell’aspra sorte e del depresso loco
che natura ci diè. Per questo il tergo
vigliaccamente rivolgesti al lume
che il fe’ palese.
Tale interpretazione leopardiana dell’illuminismo settecentesco non è, lo abbiamo già visto, così arbitraria come spesso è sostenuto; ma, senza dubbio, costituisce una forte accentuazione di un motivo che nei grandi illuministi francesi era rimasto in secondo piano.
Per quel che riguarda le prospettive della lotta tra uomo e natura, la Ginestra non annulla, anzi conferma, proiettandoli su un più vasto sfondo cosmico, questi versi della Palinodia (154-197):
Quale un fanciullo, con assidua cura,
di fagiolini e di fuscelli, in forma
o di tempio o di torre o di palazzo,
un edificio innalza; e come prima
fornito il mira, ad atterrarlo è volto,
perché gli stessi a lui fuscelli e fogli
per novo lavorio son di mestieri;
così natura ogni opra sua, quantunque
d’alto artificio a contemplar, non prima
vede perfetta, ch’a disfarla imprende,
le parti sciolte dispensando altrove.
E indarno a preservar se stesso ed altro
dal gioco reo, la cui ragion gli è chiusa
eternamente, il mortal seme accorre
mille virtudi oprando in mille guise
con dotta man: che, d’ogni sforzo in onta,
la natura crudel, fanciullo invitto,
il suo capriccio adempie, e senza posa
distruggendo e formando si trastulla.
Indi varia, infinita una famiglia
di mali immedicabili e di pene
preme il fragil mortale, a perir fatto
irreparabilmente: indi una forza
ostil, distruggitrice e dentro il fere
e di fuor da ogni lato, assidua, intenta
dal dì che nacque; e l’affatica e stanca,
essa indefatigata; insin ch’ei giace
alfin dall’empia madre oppresso e spento.
Queste, o spirto gentil, miserie estreme
dello stato mortal; vecchiezza e morte,
ch’han principio d’allor che il labbro infante
preme il tenero sen che vita instilla;
emendar, mi cred’io, non può la lieta
nonadecima età più che potesse
la decima o la nona, e non potranno
più di questa giammai l’età future.
Però, se nominar lice talvolta
con proprio nome il ver, non altro in somma
fuor che infelice, in qualsivoglia tempo
e non pur ne’ civili ordini e modi,
ma della vita in tutte l’altre parti,
per essenza insanabile, e per legge
universal, che terra e cielo abbraccia,
ogni nato sarà.
In questi versi l’infelicità è affermata, con spietata chiarezza, come essenziale non a un determinato uomo storico, ma all’«uomo in generale». Le interpretazioni «progressive» dell’ultimo Leopardi devono fare i conti con questo e con molti altri passi in cui il Leopardi ribadisce la stessa tesi. Si tratta, in sostanza, di vedere se il pessimismo cosmico leopardiano sia da considerare soltanto come un’estrapolazione del suo pessimismo storico-sociale. Per Lukács il pessimismo reazionario di Schopenhauer è un’«apologetica indiretta» della società borghese15; si può considerare il pessimismo cosmico leopardiano come una «requisitoria indiretta» contro la medesima società? Né il Luporini, né il Biral né il Berardi traggono questa esplicita conclusione; eppure tutti e tre tendono a far apparire la tesi dell’infelicità perpetua e insanabile dell’uomo come un aspetto in certo senso non essenziale del pensiero leopardiano: l’«onda più lunga» su cui secondo il Luporini si troverebbe il Leopardi rispetto ai liberali e ai democratici del Risorgimento, il regnum hominis di cui, secondo il Biral, la Ginestra sarebbe il preannuncio, l’illuminismo della fase finale del pensiero leopardiano su cui insiste il Berardi, costituirebbero un superamento, o almeno un inizio di superamento del pessimismo; e il pessimismo sarebbe tutto relativo al determinato ambiente storico in cui si trovò inserito il Leopardi16. È, in fondo, l’interpretazione «risorgimentale» del Leopardi (Poerio, De Sanctis) che, allargata a interpretazione sociale o illuministica, conserva tuttavia la convinzione della non definitività del pessimismo leopardiano. Affermazioni come quella della Palinodia che abbiamo ora citato rappresenterebbero dunque piuttosto un irrigidimento «metafisico» che la sostanza viva e positiva del pensiero del Leopardi.
I motivi per cui questa tesi non ci sembra accettabile risultano abbastanza chiaramente, crediamo, da quanto siamo venuti osservando sul materialismo-pessimismo leopardiano. La polemica storicistica contro l’«uomo in generale» è giusta e necessaria nei riguardi delle arbitrarie generalizzazioni di caratteristiche economico-sociali, culturali, psicologiche che sono in realtà peculiari di una data epoca. Non è certo propria dell’umanità in generale la divisione in sfruttati e sfruttatori, né la proprietà privata, né la fede in una divinità, per non parlare di istituzioni e di abiti mentali e affettivi ancor più ristretti nel tempo e nello spazio. Ma per ciò che riguarda l’uomo come essere naturale, biologico, il discorso è ben diverso17. Ora il pessimismo del Leopardi, nella sua seconda e più matura fase, trae origine appunto dalla constatazione di certi dati fondamentali della vita fisica dell’uomo («vecchiezza e morte») che sono in contrasto con quell’aspirazione alla felicità che è, anch’essa, una tendenza «naturale» dell’uomo. Il Leopardi non ignora affatto che anche la natura ha le sue storicità (l’autore degli ultimi due audacissimi canti dei Paralipomeni non sarebbe certo rimasto sconcertato dinanzi al darwinismo), ma sa che è una storicità di ritmo incomparabilmente più lento, di carattere meccanico e inconsapevole, a cui non si può attribuire alcun teleologismo o provvidenzialismo18. Egli non ignora nemmeno la possibilità di forzare la natura stessa (basti ricordare quel pensiero, giustamente ammirato dal Luporini, sulla «futura civilizzazione dei bruti e massime di qualche specie, come delle scimmie, da operarsi dagli uomini a lungo andare», in modo da poter associare anche questi animali «alla grande alleanza degli esseri intelligenti contro alla natura, e contro alle cose non intelligenti»)19; ma ritiene che tale intervento dell’uomo sulla natura non potrà mai giungere a modificare quei dati fondamentali a cui accennavamo sopra, dai quali inevitabilmente scaturisce l’infelicità.
In questo senso schiettamente materialistico si può, a mio parere, parlare di un valore permanente del pessimismo leopardiano, senza nulla concedere a interpretazioni metafisiche ed esistenzialistiche del pensiero del Leopardi e senza affatto rinunciare a indagare le esperienze concrete – individuali e storico-sociali – da cui quel pessimismo nacque.
A più riprese, nel suo saggio, il Luporini osserva che ciò che impedì al Leopardi di sviluppare fino in fondo il nucleo progressista del suo pensiero fu (oltre alla mancanza di contatto con un movimento popolare rivoluzionario) la mancanza della dialettica, il nuovo «strumento mentale» che si andava elaborando in quegli anni nella filosofia tedesca20. Il Leopardi, anzi, arriverebbe alle soglie del concetto dialettico in quel gruppo di pensieri dello Zibaldone in cui nota che «le contraddizioni palpabili che sono in natura» (aspirazione naturale dei viventi alla felicità e impossibilità naturale di conseguirla: perpetuazione della vita della specie che si attua solo attraverso la distruzione degli individui) sembrerebbero infirmare la validità del principio stesso che «non può una cosa insieme essere e non essere», su cui si basa la nostra ragione21. Ora, è indubbio che qui il Leopardi constata una difficoltà logica che gli appare, giustamente, insolubile col vecchio strumento della logica aristotelica. Ma supporre che l’acquisizione di un nuovo strumento teoretico (la logica dialettica) avrebbe indicato al Leopardi, o possa indicare a un leopardiano del secolo ventesimo, la via per superare il pessimismo, significa disconoscere il carattere tutto pratico, sensistico-edonistico, del pessimismo leopardiano. Per un pensatore così profondamente antiteoricista, antimetafisico come Leopardi, l’infelicità non si supera «dialettizzandola» sul piano logico, ma soltanto (ove ciò fosse possibile) eliminandola di fatto. Dopo aver messo in risalto l’incomprensibilità – dal punto di vista della logica formale – della contraddizione tra vitalità e infelicità, il Leopardi soggiunge, quasi a mettere in guardia contro ogni attenuazione del secondo termine: «Intanto l’infelicità necessaria de’ viventi è certa»22.
Né c’è bisogno, a guardar bene, di far la storia con un «se» («se Leopardi avesse conosciuto la logica dialettica…»). La tesi provvidenzialistica secondo la quale Dio o la natura consegue, pur attraverso l’infelicità dei singoli individui, la felicità generale dell’umanità, o la variante della stessa tesi, secondo cui la civiltà moderna assicurerebbe, se non la felicità degli individui, la felicità delle masse, erano, a loro modo, tentativi di superamento «dialettico» del pessimismo. Non si vuole certo, con ciò, equipararli alla logica hegeliana sul piano teoretico: si vuol soltanto dire che esercitarono una funzione analoga in rapporto al problema dell’infelicità umana. Il pessimismo sarebbe effetto di una considerazione frammentaria e statica della realtà, di un’incapacità di vedere il singolo fenomeno nella sua relazione col tutto. Ebbene, il Leopardi, seguendo Voltaire e andando molto oltre Voltaire, non si è mai stancato di respingere e di deridere tale soluzione «dialettica», proprio perché essa è una soluzione illusoria, una «negazione ideale» che maschera la reale incapacità di liberare l’uomo dall’oppressione che su di esso esercita la natura23.
Sotto questo aspetto, la polemica leopardiana contro gli apologeti della divinità o della natura presenta una reale analogia con la polemica marxista contro la pretesa degli hegeliani (e di tutta una millenaria tradizione filosofica) di sopprimere l’alienazione umana «nel pensiero» e non, prima di tutto, «nella realtà»: di giustificare il mondo e non di cambiarlo. Soltanto, per il pensiero marxista la realtà che è causa dell’infelicità umana è essenzialmente una realtà economico-sociale; per il Leopardi, è essenzialmente una realtà fisico-biologica. Per il marxista, la forza condizionatrice della natura sull’uomo si è esercitata soprattutto ai primordi dell’umanità, in una specie di prologo o di antefatto preistorico: da quando l’uomo ha cominciato a lavorare e a produrre, la natura avrebbe cominciato a ridursi (e sempre più si ridurrebbe in futuro) a mero oggetto di attività umana; l’«uomo storico» metterebbe sempre più in ombra, e alla fine assorbirebbe e supererebbe del tutto l’«uomo naturale». Per il Leopardi, la natura conserva anche di fronte all’uomo civilizzato tutta la sua formidabile forza logoratrice e distruttrice: perciò la lotta dell’uomo contro la natura si configura nel pensiero leopardiano come una lotta disperata, e la distruzione di tutti i miti non dà luogo a una visione ottimistica della realtà, ma ad un pessimismo lucido e combattivo.
(4/4. Fine)
Sebastiano Timpanaro
(Brano tratto da: Sebastiano Timpanaro, Alcune osservazioni sul pensiero del Leopardi, in Id., Classicismo e illuminismo nell’Ottocento italiano, Nistri-Lischi Editori, Pisa, 1969 [2ª ed.], pp. 167-182).
Note
1 Cfr. l’articolo cit. del Bigi, p. 146 sgg.
2 Il progressivo distacco del Leopardi dal cristianesimo è analizzato con minuta documentazione dal Porena, Scritti leopardiani cit., pp. 161-169. Sul perdurare fin verso il ’22 di motivi cristiano-pessimistici nel Leopardi si soffermò il Carducci (Degli spiriti e delle forme, ecc., in Opere, ed. nazionale, XX, pp. 72-80), con un certo compiacimento a cui non dovettero essere estranee le vaghe nostalgie religiose dei suoi ultimi anni (quel saggio è del 1898, l’anno dopo della Chiesa di Polenta). Nello stesso tempo, l’antimanzoniano Carducci pensava agli Inni cristiani progettati dal Leopardi nel ’19 come a una fusione di religiosità popolare, deismo rivestito di forme classiche e patriottismo, da contrapporre agli Inni sacri del Manzoni «tutti evangelo e cristianesimo illuminato» (ivi, p. 75), e deplorava che il Leopardi non avesse portato a termine quel disegno.
3 Manca tuttora uno studio soddisfacente sulle reazioni suscitate dagli scritti del Leopardi nei suoi contemporanei, non solo dal punto di vista critico-letterario, ma anche da quello ideologico. I lavori di Bianca Stirpe (G. L. nella critica italiana dei suoi tempi, «Riv. di cultura», Roma, IV, 1923, pp. 189 sgg., 254 sgg., 302 sgg., 399 sgg.) e di M. Marti (La fortuna di L. nella critica predesanctisiana, «Antico e Nuovo», genn.-febbr. 1946, p. 13 sgg.; genn.-marzo 1947, p. 31 sgg.) possono provvisoriamente servire come raccolte di materiali tutt’altro che complete; cfr. anche il proemio del Moroncini all’edizione delle Operette, Bologna, 1929, I, pp. XVIII-XXVI, e le relazioni dei giudizi per il premio della Crusca pubbl. da G. Ferretti, «Giorn. stor. lett. ital.», LXXI, 1918, p. 49 sgg. Nulla di nuovo reca Maria Grazia Biovi, I recensori di Leopardi, «Paragone» Letteratura, XII, 1961, fasc. 134, p. 12 sgg. Un profilo molto felice – ma, conforme al suo assunto, incentrato più sulle valutazioni della poesia che del pensiero leopardiano – è nel cap. I della storia della critica leopardiana di E. Bigi (I classici italiani nella storia della critica, a cura di W. Binni, II, Firenze, 1961², p. 353 sgg.). Sulle diverse linee interpretative del pensiero leopardiano nell’Ottocento, meglio di tutti, nella sua brevità, L. Blasucci, «Giorn. stor. letter. ital. », CXXXIX, 1962, p. 562 sg.
4 In questo clima di distacco e d’incomprensione tra il Leopardi e i liberali del suo tempo vanno inquadrati due episodi che ferirono particolarmente il suo animo e suscitarono la sua aspra reazione: la diceria, alla quale credette per un momento anche il Giordani, che egli fosse andato a Roma nell’autunno del ’31 per entrare nella carriera ecclesiastica (cfr. Epistolario, ed. Moroncini, VI, pp. 102 e n. 2, 107, 108), e l’attribuzione a lui dei Dialoghetti reazionari di Monaldo (cfr. lettera al Viesseux del 12 maggio 1832 e lettere seguenti).
5 Ragione e stile in Leopardi cit., p. 437 sgg.
6 Paralipomeni, I, st. 22-31; III, st. 31. Cfr. Binni, La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 139 sg. Per quel che riguarda l’invettiva contro certi linguisti tedeschi – non attribuibile tutta a mero nazionalismo – cfr. La filologia di G. Leopardi, Firenze, 1955, p. 225 sgg.
7 Per l’uso nazionalistico di questi passi dei Paralipomeni da parte del Carducci vedi l’articolo su Giacomo Leopardi deputato (in Opere, ed. nazionale, vol. XX, Bologna, 1937, p. 193 sg.) e la chiusa del discorso Allo scoprimento del busto di G. Leopardi (ibid., p. 204). Per l’entusiasmo giovanile degli «Amici pedanti» per i Paralipomeni vedi la prefazione di Giuseppe Chiarini all’edizioncina delle Poesie di G. Leopardi, Firenze, Sansoni, 1885, p. VI sg.
8 Ginestra, v. 145 sg.: «Così fatti pensieri / quando fien, come fur, palesi al volgo / …».
9 Ginestra, v. 119 sgg.: «… né gli odii e l’ire / fraterne, ancor più gravi / d’ogni altro danno, accresce / alle miserie sue, l’uomo incolpando / del suo dolor, ma dà la colpa a quella / che veramente è rea, che de’ mortali / madre è di parto e di voler matrigna»; v. 135 sgg.: «ed alle offese / dell’uom armar la destra, e laccio porre / al vicino ed inciampo, / stolto crede così qual fora in campo / cinto d’oste contraria, in sul più vivo / incalzar degli assalti, / gl’inimici obbliando, acerbe gare / imprender con gli amici, / e sparger fuga e fulminar col brando / infra i propri guerrieri». In quel rifiuto della misantropia a cui abbiamo accennato sopra è implicito, per il Leopardi, non solo il rifiuto degli odii privati e delle guerre tra popoli, ma anche dei contrasti di politica interna. Vedi il pensiero dello Zibaldone, pp. 4070-72 (17 aprile 1824) in cui si dichiara che gli uomini addossano ingiustamente ai propri governanti la colpa della loro infelicità, la quale deriva da cause naturali ed è quindi destinata a rimanere identica sotto qualsiasi governo. Una formulazione così recisa è senza dubbio legata a quella fase transitoria di apoliticità che il Leopardi, come abbiamo detto, attraversò dal ’24 al ’27; tuttavia tra questo pensiero, quello cit. alla nota 15 della Parte Terza e la Ginestra vi è un’innegabile concatenazione.
10 G. Pascoli, Pensieri e discorsi, Bologna, 1907, p. 117: «E io so che, per grande poeta che tu sia, il tuo tempo non è ancora venuto. Tu non sei il vate delle ardenti rivoluzioni nazionali; tu non sei il profeta delle cupe secessioni sociali. Riconquistati i confini della patria, ricostituiti i diritti delle classi, verrà il tuo evo. Perché in vero tu contempli il genere umano da così sublime vetta di pensiero e dolore, che non puoi scoprire, da così lungi e da così alto, tra gli uomini, differenza di condizioni, di parti, di popolo, di razza. È un formicolìo di piccoli esseri uguali: e se n’alza un murmure confuso di pianto»; p. 126: «Ora egli dice: … E io vi dico che dovete avanzare, dovete gettare le illusioni, dovete acquistare la coscienza della vostra piccolezza, della vostra solitudine, della vostra miseria, del vostro essere fortuito ed effimero. Perché da cotesta coscienza verrà in voi lo appaciamento degli odi e delle ire fraterne…». E vedi anche il successivo paragrafo 13 del medesimo saggio, che dimostra come i vv. 158-201 della Ginestra siano tra le «fonti» del motivo, tipicamente pascoliano, dello sgomento dell’uomo dinanzi all’immensità dell’universo.
11 Ginestra, v. 76 sg.
12 Uno dei pochi punti deboli del libro del Binni è, a mio parere, la svalutazione del Tramonto della luna (La nuova poetica cit., 2ª ed., p. 185 sg.), la quale mi sembra che nasca, assai più che da una lettura «disinteressata», dal preconcetto secondo cui ogni ripresa di motivi «idillici» nell’ultimo Leopardi costituirebbe un passo indietro. Ma alternanza di «idillico» e di «eroico», sia pure in varia misura, vi è in tutta la poesia leopardiana (basti pensare alla chiusa aspra e sarcastica de La quiete dopo la tempesta); e quella «dolcezza d’un mesto coro», che il De Robertis riconosceva soltanto all’ultima strofe, è il tono predominante di tutta la poesia, che davvero richiama alla mente, per la perfetta compenetrazione di lirica e gnomica, alcuni dei più bei cori di Euripide; d’altra parte la polemica antiteistica della terza strofe, che disturba chi nel Leopardi cerca solo i toni idillici, avrebbe dovuto trovare proprio nel Binni un difensore e un interprete adeguato. Ad ogni modo, anche a prescindere dalla valutazione del Tramonto della luna come opera d’arte, non si può ignorarlo come testimonianza del pessimismo leopardiano, perdurante fino all’ultimo.
13 Il libro di Spartaco Borra, Spiriti e forme affini in Lucrezio e Leopardi (Bologna, 1911, 2ª ed. 1934), è, con un certo ritardo, un frutto di questo clima culturale-psicologico, di cui per es. Arturo Graf fu un cospicuo rappresentante, e a cui va ricondotta anche la formazione giovanile di Concetto Marchesi.
14 Paralipomeni IV, st. 16.
15 G. Lukács, La distruzione della ragione, trad. ital., Torino, 1959, p. 205 sgg.
16 Luporini, p. 274 (cfr. anche p. 269: «Pessimismo e razionalismo si congiungono così perfettamente in Leopardi in questa costruttiva spinta verso il futuro, e ciò mostra quanto relative siano queste accentuazioni assiologiche che si chiamano appunto pessimismo e ottimismo: come esse cioè siano accentuazioni assiologiche che non vanno mai giudicate in se stesse, ma relativamente alle concrete situazioni storiche in rapporto alle quali si sono prodotte»). Biral, La «posizione storica» cit., p. 34: «Nella Ginestra riuscì a fissare un nuovo principio, e lasciò intuire che quel bene che potrà esservi nella vita non sarà mai un dono elargito dalla natura o dalla sorte, ma conquista faticosa della buona volontà degli uomini solidali in uno sforzo […] per fare della società un regnum hominis» (anche nelle pagine precedenti il Biral sostiene che il pessimismo leopardiano rappresenta la crisi di una vecchia civiltà «fondata sull’idea dei doveri verso Dio, verso il sovrano, verso le gerarchie costituite» e l’esigenza «di una moderna civiltà fondata sul vero e sulla scienza»: un accenno in questo senso già in Gramsci, Lettere dal carcere, nuova ediz., Torino, 1965, p. 670). Più sfumata la posizione del Berardi; ma anch’egli tende a risolvere (p. 431 sgg.) il pessimismo leopardiano in illuminismo.
17 Mi sia lecito rimandare, per adesso, a un breve accenno in «Belfagor», XVIII, 1963, p. 10, n. 30.
18 «Così, dell’uomo ignara e dell’etadi / ch’ei chiama antiche […], / sta natura ognor verde, anzi procede / per sì lungo cammino / che sembra star» (Ginestra, vv. 289-294). Una critica del teleologismo che anticipa il concetto darwiniano di «selezione naturale» è nello Zibaldone (p. 4510), come notò G.A. Levi, Storia del pensiero di G.L., Torino, 1911, p. 138.
19 Zibaldone, 4279 sg. (13 aprile 1827); cfr. Luporini, p. 273 sg.
20 Luporini, pp. 235, 241, 247-251, 253.
21 Zibaldone, 4099 sg. (3 giugno 1824), 4127-32 (5-6 aprile 1825), e già p. 4087 (11 maggio 1824).
22 Zibaldone, p. 4100.
23 Zibaldone, 4175 (col richiamo di Voltaire); Palinodia, v. 197 sgg.: «ma novo e quasi / divin consiglio ritrovàr gli eccelsi / spirti del secol mio: che, non potendo / felice in terra far persona alcuna, / l’uomo obbliando, a ricercar si diero / una comun felicitade; e quella / trovata agevolmente, essi di molti / tristi e miseri tutti, un popol fanno / lieto e felice». Si noti ancora che le catastrofi naturali che, come il Leopardi più volte sottolinea, hanno annientato estesi gruppi umani e annientarono alla fine l’umanità stessa, costituiscono tipici casi di «negazione adialettica», non di negazione-conservazione.
Inserito il 19/2/2023.