Campionati Mondiali di calcio di Germania, 1974.
Amburgo, 22 giugno 1974: Germania Est – Germania Ovest 1 : 0.
Fonte della foto: https://pbs.twimg.com/media/FV1rBPNXwAA07C-.jpg
Il momento del gol di Jürgen Sparwasser.
Fonte della foto: https://calcio.fanpage.it/sparwasser-e-il-gol-che-fa-cadere-il-muro-di-berlino/
Mondiali di calcio 1974
DDR 1 : 0 BRD
dal sito Storie di calcio
Il Mondiale del 1974 è ricordato anche per il derby fra tedeschi. Vinsero a sorpresa quelli dell’Est, come due anni prima ai Giochi di Monaco. Ecco i retroscena e gli sviluppi di quella sfida unica e irripetibile.
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Amburgo, 22 giugno 1974. Sorpresa nel derby del Muro
Un derby del genere ai Mondiali era una novità assoluta, ma il sorteggio di Francoforte, il 5 gennaio del 1974, fu inequivocabile. Cinque mesi dopo la Germania Ovest, che ospitava la manifestazione iridata, avrebbe affrontato la Germania Est, che per qualificarsi aveva eliminato Romania, Finlandia e Albania, trionfando per 4-1 nella partita decisiva a Tirana. Eppure tedeschi occidentali e orientali, così vicini, ma così distanti per il muro che era sorto alla fine della seconda guerra mondiale, si erano già incontrati sul campo.
Due anni prima, alle Olimpiadi, in una Monaco sconvolta per la strage di atleti e dirigenti della delegazione israeliana, era stata la DDR a vincere per 3-2 i “cugini”, che li avevano raggiunti due volte (dopo Pommerenke segnò Hitzfeld, a Streich rispose Hoeness) prima che Vogel infliggesse il colpo decisivo, utile per portare la sua squadra alla conquista del bronzo, a pari merito con l’URSS di Oleg Blochin.
Se gli occidentali partono con un vantaggio per il Mondiale, essendo i padroni di casa, gli orientali non sono da sottovalutare, soprattutto dopo che il Magdeburgo ha vinto la Coppa delle Coppe battendo per 2-0 il Milan di Trapattoni, un allenatore alle prime armi, nella finale di Rotterdam.
Il torneo iridato si apre con una vittoria sia per la Germania Ovest (1-0 sul Cile) che per la Germania Est (2-0 sull’Australia), ma la seconda partita mette in difficoltà entrambe le squadre tedesche. Quella orientale pareggia 1-1 con i sudamericani (il giovane Hoffmann, il secondo calciatore più giovane del Mondiale, dopo lo slavo Vladimir Petrović, segna il gol del vantaggio e spera anche in un regalo a due ruote: il presidente della DDR, Honecker, ha promesso ai giocatori una Trabant, se arriveranno tra le prime tre squadre, e l’attaccante del Magdeburgo, che non ha la patente, ha chiesto uno scooter per andare più facilmente a scuola).
Mentre gli occidentali, che hanno battuto facilmente i “Canguri” (3-0), devono fare i conti con le bizze di Beckenbauer e con il “caso” Netzer, sempre più isolato dai compagni di squadra perché gioca nel Real Madrid, e che minaccia di tornarsene a casa se non verrà schierato nella prossima partita. Il capitano “Kaiser Franz” si mette nei guai sputando verso la tribuna al termine del match con gli australiani. Il gesto è una risposta agli insulti ricevuti dagli spalti del Volksparkstadion di Amburgo, dove lo hanno chiamato più volte “maiale bavarese”. Dopo aver chiesto scusa, Beckenbauer dichiara che la sua squadra non farà sconti agli avversari nel derby del “Muro”, mentre l’allenatore della Germania Est, Buschner, pensa di schierare una formazione molto difensiva. «È chiaro che non ci sarà permesso di giocare in modo aggressivo», dice in anticipo.
Un osservatore interessato è Luis Alamos, il tecnico del Cile. «Contro l’Australia» assicura «faremo tutti i gol che vogliamo, poi vedremo la vittoria di Müller e compagni, il risultato è scontato». Ma evidentemente non è scritto come andrà a finire la partita che si gioca il pomeriggio del 22 giugno a Berlino: 0-0 e addio qualificazione per Reynoso e soci, che in caso di passaggio del turno avrebbero guadagnato 7.500 dollari a testa, un vero tesoro, se confrontato con i 12 dollari di diaria che ricevevano dalla Federazione di Santiago.
Dopo aver già ottenuto il passaggio al turno successivo, le due Germanie si affrontano ad Amburgo. Gli occidentali – con la tradizionale divisa bianca e nera – attaccano, come previsto, e gli orientali – in maglia blu e pantaloncini bianchi – si difendono, lasciando in avanti solo Hoffmann e Sparwasser. Ai padroni di casa viene negato un rigore (Lauck atterra Overath ma l’arbitro, l’uruguaiano Barreto Ruiz, non fischia), c’è un palo di Müller, ma il primo tempo finisce sullo 0-0.
Nella ripresa gli orientali controllano senza troppi problemi e il ct occidentale, Schön, manda in campo Netzer, che però sembra fuori dal gioco. A dodici minuti dalla fine, Lauck lancia l’ennesimo contropiede: Sparwasser arriva sulla palla, supera Schwarzenbeck ed entra nella storia battendo Maier sul suo palo. Esultano i quasi duemila tifosi arrivati da Berlino Est. La reazione degli svantaggiati è veemente e rabbiosa, gli ultimi dieci minuti sono al cardiopalma, ma il portiere “ospite” Croy è bravo e così vince la Germania Est.
«Un successo meritato sia dal punto di vista tattico che da quello agonistico», commenta Buschner. «Abbiamo giocato all’attacco e ci siamo scoperti? Beh, ci ho riflettuto anch’io, ma mi sono detto: se noi li aspettiamo e loro fanno lo stesso, cosa succede?»: Schön sembra quasi commovente, mentre si assume le responsabilità della sconfitta, ma non è certo un novellino in materia di strategia, tutt’altro.
La Germania Est, che ha vinto il girone, si ritrova nel Gruppo A con il Brasile campione uscente, l’Argentina e soprattutto con l’Olanda, che è la squadra più forte del torneo, lo dicono tutti. Alla Germania Ovest, invece, nel gruppo B, spettano Polonia, Svezia e Jugoslavia, non esattamente la crema del calcio mondiale. Alla luce di un epilogo che vede i bianchi trionfare, rimontando gli ormai quasi appassiti Tulipani nella finalissima dell’Olympiastadion di Monaco, forse il derby del Muro l’ha vinto proprio Schön più di tutti…
(Tratto da: https://storiedicalcio.altervista.org/blog/al-di-qua-del-muro.html).
Gli inni nazionali delle due Germanie (durata 1'55").
Gli highlights della partita (durata 11'54").
Amburgo, 22 giugno 1974: Germania Ovest e Germania Est entrano in campo.
Fonte della foto: https://thesefootballtimes.co/2018/09/21/the-most-politically-charged-match-in-history-when-east-germany-met-west-in-1974/
Dal sito «Storie di calcio»
di Francesco Piccolo
Ai Mondiali di calcio del 1974 c’è un incontro storico tra le due Germanie: quella dell’Est e quella dell’Ovest. Nel ricordo di un allora bambino di dieci anni le origini e le motivazioni di uno «schieramento» non soltanto calcistico…
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“Io, diventato comunista per un gol…”
di Francesco Piccolo
Il 22 giugno 1974, al settantottesimo minuto di una partita di calcio, sono diventato comunista. Non me ne sono reso conto subito, ma molti anni dopo, perché avevo solo dieci anni. Ho avuto un sussulto, una specie di esultanza interiore non prevista, un singhiozzo, la reazione del ginocchio al martelletto che misura i riflessi; una cosa controllata e allo stesso tempo incontrollata. Poco comprensibile, come la reazione di mio padre, che si è voltato di scatto a guardarmi, quasi per dirmi: ma che fai? – però non lo ha detto.
E tutti e due siamo tornati composti e attenti alla partita, attenti ma non troppo, col distacco che avremmo dovuto avere per una partita dei Mondiali che non ci riguardava e che in fondo aveva poca importanza anche per le due squadre che giocavano: erano entrambe già qualificate per il turno successivo e in palio c’era solo il primo posto nel girone. Già quattro anni prima, a sei anni, guardavo le partite dei Mondiali di calcio, e mio padre era venuto a svegliarmi una notte per dirmi: devi venire a vedere, è una partita bellissima. L’aveva fatto, credo, perché mentre Italia e Germania continuavano a segnare gol, si era sentito solo e aveva dubitato che stesse accadendo per davvero. Aveva bisogno di un testimone.
Così, assonnato e incredulo, avevo visto ancora qualche gol – due? uno? Come faccio a ricordare quanti, ora, se li ho tutti davanti agli occhi, come un’ossessione? Poi ero stato sveglio fino all’alba a guardare la sfilata. Della finale con il Brasile ricordo solo una mongolfiera sul campo e mio zio che bestemmiava e si faceva rosso sul collo, mentre mio padre sussurrava timido: siamo stanchi, siamo stanchi. Lo capivo. Ero stanco io, solo per essere stato sveglio tutta la notte, figuriamoci loro che avevano pure giocato tutto quel tempo. Però è da questo che bisogna partire, dalla Germania.
Ora era il 1974. Avevo dieci anni e una conoscenza dei giocatori e delle squadre di calcio precoce e precisa. Erano i miei primi Mondiali totalmente consapevoli. Pomeridiani e serali, e si svolgevano in Germania, appunto. Avevo comprato anche l’album delle figurine Munchen ’74; e avevo imparato i nomi dei calciatori ancora prima dell’inizio. Era tutto pronto, l’Italia tra le favorite, ero stato anche allo stadio durante il girone di qualificazione, a Napoli, la mia prima partita dell’Italia dal vivo, contro la Turchia, zero a zero, una partita bruttissima. L’unico ricordo che mi è rimasto, Riva e Anastasi lì davanti a me, con un paio di difensori intorno, che guardano la palla lontana e stanno fermi, tutti e due con le mani sui fianchi, per un sacco di tempo.
Ero pronto. Andava tutto bene, tranne una cosa. Inquietante. Ne parlava anche la «Gazzetta dello Sport». Diceva: un momento storico. Parlava di un’altra Germania, la Germania Est, e tutte e due le Germanie erano state sorteggiate nello stesso girone. Si sarebbero incontrate. Un momento storico. Anche nell’album c’era quest’altra Germania. Era strano, perché in una c’erano Beckenbauer, Gerd Müller, Sepp Maier e altri che tutti già conoscevamo; nell’altra, solo giocatori sconosciuti, che giocavano quasi tutti nella Dinamo Dresda. Sì, anche noi avevamo il blocco-Juve, ma lì era diverso: sembrava che la Dinamo Dresda cambiasse maglia e cambiasse nome, ogni tanto, ma che giocassero sempre gli stessi.
Io mi ero dato questa spiegazione: che la Germania Est fosse una specie di formazione delle riserve, la squadra B. In fondo, era sempre Germania, ma aveva meno attenzione, non si diceva mai che era la squadra di casa, non era per niente favorita al contrario dell’altra… Insomma, se me lo avessero chiesto, avrei risposto che forse era venuta a mancare qualche altra squadra e avevano messo in piedi un’altra formazione per la regolarità della competizione. Solo per questo motivo c’era un’altra Germania con calciatori che nessuno conosceva e di cui nessuno parlava.
Intorno, c’erano nomi indimenticati o dimenticati come Francisco Marinho, Francillon, Heredia, Rivelino, Ronnie Hellström, Hristo Bonev, Bremner e il centravanti haitiano Sanon che batté Zoff dopo 19 ore e 3 minuti di imbattibilità. C’erano le partite con l’Olanda più forte di tutti i tempi, di Cruyff, Rep, Neeskens e Van Hanegem; il 9 a 0 della Jugoslavia contro lo Zaire; la Germania che giocava anche in maglia verde; c’era soprattutto la disfatta dell’Italia con la Polonia di Deyna e Szarmach e il gestaccio di Chinaglia all’indirizzo di Valcareggi. Dopo l’eliminazione dell’Italia, avevo paura che il Mondiale non lo guardassimo più. E invece, fin dalla partita successiva, mio padre accese il televisore e io fui sollevato.
Poi venne la sera del 22 giugno. Ad Amburgo, c’era la partita storica. L’incontro tra le due Germanie. Erano tutt’e due qualificate, ma non aveva importanza. C’era di più, molto di più. A quel punto, avevo capito che la storia della squadra delle riserve non funzionava. La questione era più complicata. Scoprii che quella che io avevo sempre chiamato la Germania era solo una parte della Germania; quella dell’Ovest, più precisamente. Mio padre non nominava volentieri l’altra Germania e se lo faceva sembrava avere un tono di disprezzo. Più esattamente, chiamava «Germania» la Germania Ovest, e «Germania Est» la Germania Est, e la nominava soltanto perché era ai Mondiali. Anche gli altri facevano così, e quindi facevo così anch’io.
Era come se non provassimo molta simpatia per quella squadra. Chiedevo spiegazioni e mio padre mi diceva che di Germania non ce n’era una, ma due, appunto. Diceva che per dividerle, per esempio, avevano messo un muro che attraversava tutta la città di Berlino. E quelli che stavano al di là del muro non potevano venire più da questa parte. Allora io pensavo che Berlino stava al confine tra le due Germanie – andavo a vedere sull’atlante e scoprivo che non era così, che stava solo da una parte, e c’erano due divisioni, una tra le due Germanie e una dentro Berlino perché nessuno voleva lasciare la città all’altro. Quando mio padre diceva di qua, parlava della Germania Ovest (ma diceva solo Germania). Quando diceva di là, parlava della Germania Est. Quella come noi è la Germania Ovest – la Germania, insomma. È più bella, più forte e se vuoi andarci ci possiamo andare. L’altra è più brutta e più debole e non ci fanno neanche entrare per vederla.
Quindi, quando le squadre entrarono in campo, doveva essere tutto chiaro. Da una parte c’erano quelli come noi, dall’altra c’erano quelli diversi da noi. Per mio padre non c’era dubbio per chi fare il tifo: per la Germania. Per quella delle due che era rimasta, semplicemente, la Germania. Non avevo nulla da dire. Almeno, così mi sembrava. C’era il fatto, però, che in campo adesso c’erano due squadre, una di fronte all’altra: in una giocavano i forti, nell’altra i deboli; in una i ricchi, nell’altra i poveri; in una c’erano tutti calciatori famosi, nell’altra tutti sconosciuti; una squadra era padrona di casa, l’altra no, anche se si giocava in Germania – ma non era la loro parte di Germania.
E c’era ancora un’altra cosa: che l’allenatore e quelli che stavano in panchina, nella Germania dell’Est, avevano una tuta azzurra semplice semplice, come avrei potuto averla io, con una scritta enorme DDR, che sembrava cucita dalle mamme dei giocatori, proprio come la mia mamma cuciva il numero sulla maglia. C’era il fatto, insomma, che a me toccava fare il tifo per i più belli, per i più ricchi, per i più forti, per quelli con le maglie e le tute migliori. E questa cosa, in fondo, mi metteva a disagio. Se nessuno mi avesse condizionato, se nessuno mi avesse detto che una Germania era come noi e un’altra era diversa da noi, se ci fossero state due squadre anonime in mezzo al campo, io avrei tifato di sicuro per la più debole, la più povera, quella con calciatori sconosciuti e tute comprate al mercatino dell’usato. Sarebbe stato naturale.
E invece adesso mi dicevano che era naturale il contrario. Lo accettavo a fatica, anzi era come se lo accettassi, ma non mi sentissi in pace – come se a quel punto non è che non mi piaceva una Germania o l’altra, ma non mi piacevo io. Prima del fischio d’inizio, poi, Beckenbauer e Bransch si erano scambiati i gagliardetti e al telecronista era sembrato un gesto simbolico che avvicinava le due Germanie e ciò significava anche che quella dell’Est allora non era più così lontana. Infine, quando cominciò la partita, tutti i presupposti si rivelarono esatti: si capì subito che c’era una differenza tra le due squadre evidente e schiacciante, così da recuperare anche solo simbolicamente – come i gagliardetti – la mia idea di squadra A contro squadra B, titolari contro riserve, prima squadra contro squadra primavera (quella dei giovani).
E allora io, pian piano, nonostante una sola fosse la Germania e l’altra fosse solo l’Altra Germania, nonostante mio padre mi avesse raccontato le cose in un modo che la scelta non potesse essere che una, pian piano cominciavo a sentire crescere una incontrollabile simpatia per quelli più sconosciuti, più deboli, più fragili, più lontani, più poveri e con le tute più tristi. Respingevo il sentimento che cominciavo a provare, ma intanto che lo respingevo sentivo crescere dentro di me una naturale simpatia per quelli che subiscono di fronte a quelli che aggrediscono, per la difesa strenua della Germania Est contro l’attacco forsennato della Germania Ovest, per il portiere Croy che continuava a volare sui cross avversari anticipando Gerd Muller, Cullmann, Breitner e gli altri.
In silenzio, di sicuro senza saperlo con nitidezza, forse essendo addirittura convinto del contrario, provavo un sottile piacere per i minuti che passavano, per lo zero a zero che mi sembrava un risultato pacificatore, che avrebbe in ogni caso lasciato il primo posto nel girone alla Germania, ma avrebbe dato la soddisfazione all’Altra Germania di non capitolare. I più poveri e i più deboli avrebbero fatto una bella figura e la Germania vera non avrebbe perso. Mi sembrava un giusto compromesso tra ciò che dovevo sentire e ciò che cominciavo a sentire…
Francesco Piccolo
(Tratto da: Francesco Piccolo, La prima volta che sono stato comunista, in AA.VV., La matematica del gol, a cura di Marta Trucco, Fandango Libri, 2007).
Dal settimanale «Alias»
di Eugenio Lorenzano
World Cup 1974: Germania Ovest campione con la macchia della sconfitta subita dai fratelli dell'est che gli rovinò la festa.
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1974: e la grande Germania andò ko
di Eugenio Lorenzano
Indimenticabile quel mondiale del 1974 che si giocò in Germania Ovest con la vittoria un po’ scontata dei padroni di casa. Quella vittoria finale fu però guastata dall’indelebile macchia della sconfitta nel match più atteso e pubblicizzato di quei campionati contro i fratell(astr)i della Germania Est. La sfida che si tenne ad Amburgo davanti ad uno stadio stracolmo non solo dei tifosi «Wessie» (nomignolo per gli occidentali) ma anche di giornalisti di ogni parte del mondo e completata per la prima volta dalla presenza di tremila «Oessie» appositamente autorizzati dalle autorità della Ddr. Più di 140 televisioni trasmisero in diretta quell’evento dai toni decisamente più socio-politici che sportivi. Era la prima volta che in una competizione ufficiale le due Germanie calcistiche si sfidavano e birichino fu quel sorteggio che le pose di fronte nel girone eliminatorio, dove i giochi erano già quasi fatti.
Sarebbe bastato un noioso pareggio ed entrambe le squadre si sarebbero comodamente qualificate alla fase successiva. Anzi chi sarebbe arrivato secondo avrebbe evitato l’ostico girone successivo con le fortissime Brasile ed Olanda. La sfida quindi assumeva esclusivamente toni politici. Gli orientali erano arcinoti per la loro valentìa negli sport singoli, quelli a sforzo mnemonico come nuoto, ciclismo, atletica leggera, mentre gli occidentali erano considerati decisamente migliori nelle competizioni a squadre quale appunto il calcio. Ad onor del vero la DDR aveva ottenuto, negli anni precedenti la sfida, anche notevoli successi in campo calcistico come la Coppa delle Coppe vinta dal Magdeburgo contro il Milan nel 1972 e varie vittorie in competizioni internazionali giovanili.
Le dichiarazioni dei due C.T. alla vigilia furono abbastanza caute, anche se contornate da stilettate a sfondo socio-politico; Helmut Schoene, allenatore della Brd, dichiarò di rispettare gli avversari, ma rimarcava la mancanza di fantasia nell’organizzazione del gioco della Ddr, mentre l’introverso C.T. degli Oessie Georg Buschner confidava nella motivazione maggiore ed ideologica dei suoi atleti caricati dal giocare nella Germania Ovest. Insomma professionisti strapagati occidentali contro i dilettanti di stato orientali.
Nel mio piccolo paese della costa Sorrentina Meta l’attesa per l’incontro era frenetica se non addirittura elettrica. Soprattutto nel circolo sportivo sottocasa si crearono ovviamente due tifoserie estemporanee contrapposte, cementate questa volta non da fede calcistica bensì da fede politica. Attorno al bidello tuttofare del circolo Gemino, notoriamente democristiano, si raggruppavano i simpatizzanti della Brd filo-occidentali: Mimì il falegname, i barbieri Ugo e Gigino, Michele il tabaccaio, Tatore o’ cammello, ex operaio emigrato a Dortmund, e su tutti il sacerdote juventino Don Antonino da tutti chiamato Pinocchietto per il suo naso decisamente adunco.
Era un’alleanza trasversale, infatti nelle partite del campionato italiano erano tifosi di squadre diverse quali le rivali Napoli e Juventus. Mentre il gruppo dei tifosi filo-orientali era capitanato dall’inossidabile Antonino Somma meglio conosciuto come Duliniello il compagno, supportato dall’allegro Angelone, da Mario il cantante e da altri artigiani tutti iscritti se non attivisti del Pci. Nel sedersi davanti al televisore posto in alto, quasi fosse un totem o un altare sacro, quasi come da accordo tacito i comunisti filo-orientali si accomodarono sulle sedie a sinistra, mentre i filo-occidentali riempirono gli scranni e le sedie sul lato destro.
L’unico «neutro» alla vicenda era un simpaticissimo sordomuto, Michelone, affettuosamente chiamato da tutti Miò, forse incapace di comprendere fino in fondo l’ineluttabilità di quella partita. Non a caso Miò scelse la sedia centrale. Io all’epoca dodicenne, infarinato da formazione religiosa e chiesastica, vedevo di malocchio gli atleti della Ddr, che mi davano un po’ fastidio per le incette di vittorie realizzate in ogni evento sportivo di spessore come olimpiadi e campionati mondiali; restavo però in cuor mio un po’ neutro per la presenza di molti tifosi juventini tra le file dei pro-occidentali, primo tra tutti il famigerato Don Pinocchietto che mi era palesemente antipatico. Rimasi colpito che sulle note dell’inno tedesco ovest Gemino, Pinocchietto ed i loro adepti si alzarono in piedi, ed addirittura sulle note dell’inno degli Oessie dagli occhi del virile Duliniello il compagno uscirono sincere lacrime di commozione.
La Brd scese in campo con Maier, Vochts, Breitner, Beckenbauer, Schwarzenbeck, Bonhof, Gabrowski, Overath, Muller, Hoeness, Holzenbein, mentre la Ddr schierava Croy, Kurbiuweit, Bransch, Weise, Ducke, Kreishe, Streich, Sparwasser, Vogel, Kishe, Hoffmann. Dopo il fischio d’inizio si capì benissimo che i tedeschi dell’ovest ci tenevano e come alla vittoria, tanto che gli Oessie in divisa blu furono salvati da un palo e da un gol mangiato da Muller a porta vuota. Incredibili i commenti di ambo le tifoserie trasversalmente disposte davanti al sacro totem della tv; impareggiabili e divertiti i giudizi e gli appellativi che venivano dati ai calciatori.
Ricordo perfettamente quando Pinocchietto apostrofò con un dispregiativo «Chillati là», ovvero «Quegli altri», i tedeschi orientali. Fu proprio quello il momento dove decisi di cambiare la propensione delle mie simpatie, fu in quel momento che decisi di simpatizzare per i più poveri: i tedesco orientali. Nella mia mente, seppure la Ddr rappresentava un paese dove veniva fomentato l’ateismo di stato ed una certa limitazione dell’espressione religiosa, mi divenne simpatica pensando alle vergognose nefandezze dell’inquisizione perpetrata nei secoli dalla chiesa cattolica romana di cui Pinocchietto era fiero rappresentante. Il secondo tempo vide ribaltarsi completamente la situazione; la Germania ovest dominava territorialmente ma risultava inconcludente sotto porta, mentre la Ddr trascinata da un velocissimo Jurgen Sparwasser effettuava dei micidiali contropiedi al fulmicotone tanto da sfiorare due volte la marcatura.
Quando tutto faceva presupporre che la partita sarebbe terminata con un comodo ed asettico 0-0, al 76’ accadde l’ineluttabile. Su di un ennesimo contropiede iniziato da Hoffmann, Sparwasser compie il capolavoro della sua vita: con una serie di finte in velocità fa fuori Vochts, Scwarzenbeck e Beckenbauer ed inganna il portiere Maier con un tiro da lontano che raggiunge il sette.
Allo stadio i compitissimi tifosi della Ddr vanno in brodo di giuggiole e cominciano a sventolare i propri vessilli, tutto il resto dello stadio rimane ammutolito, conscio dell’ineluttabilità di quella rete. È vana la reazione degli occidentali. La Germania est espugna la roccaforte Amburgo e si concede il lusso di tre giri di campo con il mano il vessillo tedesco adornato dal compasso.
È forse l’umiliazione politica più grave che abbia mai subito la Germania ovest nella sua storia. All’interno del circolo sociale i tifosi comunisti esultano, tirano fuori la voglia di rivincita politica, ma stranamente manca Duliniello il compagno, il vero capintesta di quell’estemporaneo gruppo di tifosi. Dov’è Duliniello? Dove è andato? Tutti se lo chiedevano. Duliniello riappare dopo qualche minuto con una bandiera dell’Unione Sovietica che conservava nella vicinissima casa, non avendone ovviamente una della Ddr. La bandiera che contemplava nel suo vertice in alto a sinistra i simboli del comunismo: la falce ed il martello.
Come un invasato Duliniello sale su di una panchina all’esterno del Circolo è inizia a mò di sfottò ad obbligare i filo-occidentali a passare sotto l’enorme bandierone. Insomma, una forca caudina inattesa per i mesti Gemino, Pinocchietto, Mimì, Tatore e soci. Il giovane comunista Angelone dirompe in un copioso pianto di gioia, Mario il cantante canta alcune note dell’Internazionale; i democristiani sono basiti ed esterrefatti da tante manifestazioni di giubilo. Non contento, Duliniello cambia il canale del televisore per godersi il suo Tg2, decisamente più a sinistra del Tg1, che mostra le immagini dei caroselli festanti a Berlino est, Lipsia, Dresda, Rostock, Weimar.
Forse rimarranno gli unici caroselli ammessi dalle grigie autorità tedesco orientali nella storia del loro paese. Sono passati 40 anni da quegli eventi, senza retorica sembrerebbe ieri. Purtroppo molti degli spettatori protagonisti di quell’evento nel circolo sono morti. Ne è passata di acqua sotto i ponti, e quanta sotto quelli della Ddr. L’eroe mitico Jurgen Sparwasser, che fu insignito del titolo sportivo-culturale di massimo prestigio della Ddr, scappò in Germania ovest pochi mesi prima della caduta del muro chiedendo asilo.
Sembra quasi di rivedere il film Good bye Lenin, dove artificiosamente si tentava di mostrare ad una convinta compagna attivista della Ddr caduta in coma che nulla era cambiato anche dopo la caduta del muro. Appunto … Bravo Spawasser ma Good bye Ddr.
Eugenio Lorenzano
(Tratto da «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», 28 maggio 2014).
Ansu Fati e il sindaco comunista di Marinaleda Juan Manuel Sanchez Gordillo.
Fonte della foto: https://forocoches.com/foro/showthread.php?t=9212467
Dal programma di Rai Radio1 «Numeri Primi»
di Francesco Graziani
Esproprio, milioni, Barcellona, Che fare?… È arrivato dall’Africa, è cresciuto in un paese dove il mutuo per la casa ha rate da 15 euro al mese e dove il lavoro ti viene assegnato dall’Assemblea cittadina. A Marinaleda, in Spagna, tutti dividono quello che hanno. E ora che farai dopo che hai firmato il tuo primo contratto milionario con il Barcellona? Questa è la storia di Ansu Fati.
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Ansu Fati e il sindaco di Utopia
di Francesco Graziani
Come titolo Vladimir Il’ič Ulj’anov aveva scelto una piccola domanda: Che fare? Erano i primissimi anni del Novecento e quello che la storia avrebbe conosciuto come Lenin aveva appena raccolto in questo volume la sua teoria su organizzazione e strategia della rivoluzione socialista. Che fare? voleva essere allora il manuale del perfetto proletario impegnato nella conquista del potere. Nella testa di Lenin il progetto era ben chiaro anche se era solo il 1902 e la rivoluzione appariva ancora lontanissima, forse addirittura una utopia. Ma questo Che fare? era pensato come strumento per fare di quella utopia una realtà, anche se la costruzione di questa casa sarebbe stata lenta, addirittura mattone su mattone. Lenin la pensava così.
A dirla tutta però il termine “utopia” arrivava da più lontano: l’aveva coniato Tommaso Moro, Lord cancelliere della Corona d’Inghilterra che sarebbe finito sul patibolo perché di fronte alla Riforma protestante si era schierato dalla parte del papa di Roma. Era stato Tommaso Moro a parlare di un’isola chiamata Utopia, letteralmente “luogo che non esiste”; sì, perché da grande politico e da buon cristiano, che un giorno addirittura sarebbe diventato anche santo, Tommaso Moro era certo che nemmeno la politica e nemmeno la religione avrebbero potuto edificare la perfezione su questa terra, ma allo stesso modo il desiderio di quella perfezione e di quella giustizia avrebbe continuato ad abitare la testa e il cuore dell’uomo.
Ora, al di là di Lenin e di Tommaso Moro, possiamo dire che la domanda “che fare?” interroga ciascuno di noi quando ci mettiamo in viaggio per raggiungere un luogo più giusto di quello che abitiamo, e il signor Bori Fati, nato in Guinea Bissau, alla sua personale domanda su cosa fare di fronte alla guerra civile aveva risposto mettendosi in viaggio. E così dall’Africa era arrivato in Portogallo. È l’anno 2001.
L’idea di Bori Fati è molto semplice: raggranellare qualche cosa con quello che sa fare meglio e che meglio viene pagato in Europa; poi, facendo il calciatore non gli interessa di diventare ricco, si tratta solo di rimediare l’indispensabile. Un’utopia senza troppe pretese, ma anche una utopia che per Bori Fati sarebbe rimasta un luogo impossibile da raggiungere. Per questo, quando Bori Fati sente parlare di Marinaleda si mette in viaggio; anche solo a piedi sono pochi giorni di cammino, e la prima parola che avrebbe letto all’ingresso del paese sarebbe stata proprio questa: Utopia; anzi: Terra Utopia.
Bori Fati forse è proprio arrivato. Ha scelto Marinaleda perché qui l’utopia del motto “la terra a chi lavora” è diventata un fatto: qui c’è lavoro per tutti perché i campi sono stati espropriati e adesso appartengono alla Municipalità. Qui a Marinaleda c’è una casa per tutti a prezzi che non ci credi, e non una casa in affitto, ma una casa tua, tutta tua, bianca con rifiniture gialle, tre stanze e un patio di 100 metri: a Marinaleda te la costruisci da solo la casa; la terra però mica la paghi, visto che è quella tolta ai latifondisti; il Comune poi ti mette a disposizione un geometra per il progetto e un muratore per tutto quello che ha bisogno di una mano del mestiere. A Marinaleda poi tutto è tranquillo e la polizia municipale non esiste. Davvero Terra Utopia.
Marinaleda si trova nel sud della Spagna, dalle parti di Siviglia, meno di 3.000 abitanti. Quando Francisco Franco è morto e con lui se n’è andata anche la sua dittatura, è stato eletto sindaco Juan Manuel Sanchez Gordillo. Bori Fati comincia qui racimolando qualche cosa per vivere fin quando – in un posto piccolo accade subito – non incontra il sindaco: «Ho cominciato a lavorare in municipio, ero autista di Juan Manuel Sanchez Gordillo. Appena ha potuto mi ha aiutato a portare in Spagna tutta la mia famiglia, è stato lui a farsi garante».
La versione del sindaco è un filo differente perché, se costruisci la tua utopia con i mattoni dell’uguaglianza sociale, dire che hai l’autista per girare in un paese di tremila anime suona male: «Bori era ed è un brav’uomo, però non era il mio autista; semplicemente facevamo le stesse cose, dove andavo io veniva pure lui e quello che mangiavo io mangiava anche lui. Poi, è vero, ho pagato i biglietti a tutta la sua famiglia per farla arrivare in Spagna, ma senza chiedere nulla in cambio. La solidarietà non si scrive col denaro».
Sì, Marinaleda è il posto dove la solidarietà non si scrive con il denaro, e così arriva anche il piccolo Ansu, che era ancora nella pancia di mamma quando papà Bori era partito alla ricerca della sua utopia. Il presente della famiglia Fati è in una delle case bianche con rifiniture gialle che a Marinaleda si costruiscono tutte uguali una accanto all’altra. Del resto qui le cose cambiano poco visto che da quel 1979, in cui per la prima volta la Spagna ha eletto liberamente le sue Municipalità, sono passati quasi vent’anni e in questi vent’anni le elezioni le ha sempre vinte il candidato del Colectivo de Unidad de los Trabajadores Juan Manuel Sanchez Gordillo, che intanto è diventato un signore con i capelli ed un barbone sale e pepe. Del suo lavoro gli anni più difficili, o come lui direbbe, quello formidabili, sono stati i primi, visto che Immediatamente dopo le prime elezioni ha guidato una occupazione delle terre che sarebbe durata 12 lunghi anni; poi, nel 1991, i 1.200 ettari della tenuta “El Humoso”, di proprietà del duca de l’Infantado, erano stati espropriati dalla Giunta regionale dell’Andalusia. Qualcuno dice che la terra sia stata pagata a prezzi di mercato, altri che sia stata scippata. Adesso però il latifondo è affidato a cooperative per la coltivazione dei campi che rispondono alle decisioni delle assemblee pubbliche: ci si riunisce un paio di volte a settimana e si vota per alzata di mano su tasse, case e, soprattutto, sulla distribuzione del lavoro. È il cuore di questa rivoluzione senza rivoluzione, finanziata però dalle casse della Giunta regionale dell’Andalusia.
Anche qui ci si chiede: “che fare?”. E la risposta è che tutti devono avere qualcosa da fare. Poi vattelappesca se davvero il lavoro è redistribuito in parti uguali e se anche la ricchezza raggiunge tutti gli angoli di questa Terra Utopia; dati ufficiali non ce ne sono e questo produce qualche sospetto, però le case per tutti sono lì, sotto il sole e sotto gli occhi, e, visto che costano un pezzo di pane, qui arriva gente anche da molto lontano, come lontana è la Guinea Bissau, paese di Bori Fati, che a portare qualche mattone – potete scommetterci – ci ha messo anche il piccolo Ansu Fati.
Del resto a Marinaleda le case si costruiscono in famiglia: si chiama “programma di autocostruzione”. A parte la terra, il geometra e il muratore che, lo sapete, sono tutti offerti, ci sono i materiali: per calce e tutto il resto nei primissimi anni 2000 a Bori Fati servono circa 20.000 euro, e allora ecco di nuovo la Giunta dell’Andalusia che anticipa tutto. Sì, la stessa Giunta che ha espropriato la terra su cui si costruisce. A questo punto olio di gomiti e chi vuole la casa la costruisce nel fine settimana o dopo l’orario di lavoro. Terminato l’edificio, si comincia a restituire il prestito. Allora facciamo i conti: costo terreno zero, costo progettazione zero, costo realizzazione zero, mentre per i famosi materiali la Giunta dell’Andalusia accetta di rivedere i suoi 20.000 euro – sentite qua – in rate da 15 (ripeto: quindici) euro al mese, 15,50 se ci mettiamo anche la commissione bancaria. Per chiudere i conti servono 111 anni; solo allora sarà prodotto il documento che attesta che la casa è tua, così non te la puoi vendere e non cadi nella tentazione della speculazione. Utopia.
Ora capite perché sulla facciata del Municipio di Marinaleda c’è un graffito grande così di Ernesto Che Guevara, mentre qua e là si possono leggere a caratteri grandi così frasi tipo “Marinaleda lotta per la pace” oppure “Spegni la tv e accendi la tua mente”: i muri bianchi rifiniti in giallo servono anche a questo, è evidente. Dal 1979 anche i nomi delle strade sono tutti cambiati: Plaza Francisco Franco ora è Salvador Allende e ci arrivi passando per Calle Federico García Lorca. È in questi vicoli che il piccolo Ansu Fati, secondo di una nidiata di figli che intanto è arrivata a quota 5, si fa notare mentre gioca a pallone con gli amici. Il sindaco di Utopia Juan Manuel Sanchez Gordillo, l’uomo che prima ha dato un lavoro al padre Bori Fati, che poi ha pagato di tasca sua il biglietto per fare arrivare in Spagna tutta la sua famiglia, del piccolo Ansu dirà: «Quando aveva sei-sette anni si capiva perfettamente che sarebbe potuto diventare un grande calciatore, nessuno riusciva a togliergli il pallone, tutti pensavamo che presto sarebbero arrivate grandi squadre». Forse dovremmo dire «le più grandi squadre» perché, è vero che Ansu Fati entra subito nelle giovanili del Siviglia, ma poi bussano Real Madrid e Barcellona: il Real offre più denaro, il Barça più futuro. La scelta tocca a papà Bori, che non serve dire quali e quanti pensieri vede passare per la sua mente mentre deve fare una scelta per certi versi così facile e per altri così complicata. Sì, perché Bori Fati – lo sapete – davvero ha conosciuto il peso della povertà e poi la gioia della solidarietà. Bori Fati ha sperimentato che vivere di lavoro redistribuito e di un mutuo da 15 euro al mese è possibile e soprattutto bellissimo. La sua scelta però non è accecata dal primo gruzzoletto che gli viene fatto ciondolare davanti agli occhi e il piccolo Ansu Fati prende la strada per la Catalogna. Così, il ragazzo cresciuto nel paese dove tutto si decide nell’Assemblea dei cittadini, dove ognuno ha il diritto di dire la propria sulla redistribuzione del lavoro, il paese dove se non hai una casa te la costruisci, il paese dove la rata del mutuo è di 15 euro al mese, entra in uno dei club di calcio più ricchi del mondo.
A Marinaleda però non tutti si riconoscono nel modello di Utopia, qualcuno ti parla di “piccola dittatura”, qualcun altro si lamenta perché sulla redistribuzione del lavoro anche qui c’è qualcuno che è più uguale degli altri; poi è vero che in Assemblea tutti hanno diritto di parola, ma se vai contro il sindaco passi per un incompetente, e i giovani, soprattutto quelli nati dopo l’occupazione e l’esproprio delle terre, quelli che hanno trovato tutto fatto, rischiano di sentirsi estranei. E anche a Marinaleda, provincia di Siviglia e capitale di Utopia, si annida quel germe che il sindaco chiama “consumismo”. Però, attenzione, anche quando Ansu Fati viene tesserato per il Barcellona Juan Manuel Sanchez Gordillo continua a vincere le sue elezioni amministrative grazie alla maggioranza assoluta di chi invece lo considera un padre oppure un maestro.
Il 25 agosto 2019 Ansu Fati fa il suo esordio tra i professionisti giocando contro il Betis Siviglia: ha 16 anni e 298 giorni. A dicembre segna anche il suo primo gol in Champions League nella vittoria del Barcellona a Milano sull’Inter, diventando il più giovane marcatore nella storia del torneo per club più prestigioso del mondo. Il suo presidente allora lo convoca di corsa in sede ed è subito rinnovo di contratto che, riguardando un minorenne, ha sì delle limitazioni ma fino a un certo punto: l’intesa Infatti prevede che a 18 anni scatti una clausola rescissoria da 400 milioni di euro, il prezzo che il Barcellona avrà il diritto di chiedere a chi volesse portarselo via.
Insomma soldi, tanti soldi, tantissimi soldi, soprattutto perché riguardano un ragazzo cresciuto in una casa da 15 euro al mese e che per anni ha mangiato grazie al lavoro che il sindaco di Marinaleda aveva offerto a suo papà, un sindaco che a sue spese lo aveva fatto venire in Spagna dalla Guinea Bissau, lo stesso sindaco che, una volta finito il franchismo, aveva espropriato le terre della nobiltà per farne in parte cooperative agricole e in parte suolo edificabile, lo stesso sindaco che adesso ha 67 anni ed è ininterrottamente a capo del paese da 40, lo stesso sindaco che il giorno dell’esordio di Ansu Fati è in altre faccende affaccendato: «Beh, vederlo giocare con la maglia del Barcellona potete immaginare che emozione abbia proprio provocato. Ho ripensato a quando lui e la sua famiglia sono arrivati a Marinaleda senza nulla. Io posso dargli solo un consiglio: sei giovane, fai molta attenzione con i milioni, e quello che porti a casa dividilo con gli altri».
Già, l’utopia pretende questo, che la ricchezza sia redistribuita. Non è stato così sin dal 1979 a Marinaleda? E non è stato grazie a questo che la famiglia di Ansu Fati ha trovato lavoro, casa e dignità? E allora è naturale che tu sia chiamato a dividere il tantissimo che la vita improvvisamente ti consegna dopo il poco e il niente che ti aveva riservato prima. È naturale aspettarsi una gratitudine meccanica e clamorosa da parte di chi ha trovato la vita a Marinaleda, però… Però resta una domanda: ma questa gratitudine clamorosa e meccanica avrebbe senso a Marinaleda? Questo non è il posto dove restituisci il debito della casa pagando 15 euro al mese? Allora Marinaleda è il luogo che ti insegna che il debito di riconoscenza c’è, ma le sue forme fortunatamente non sempre sono quelle imposte dall’economia. Anzi, è vero proprio il contrario, perché il debito non c’è, il debito è cancellato, compreso il debito di Ansu Fati. E poi il problema non è se tu metti o no i tuoi milioni in comune, ma come usi quei milioni. In fondo, per la vita di Marinaleda è stata decisiva la Giunta regionale dell’Andalusia che ha usato le casse pubbliche prima per espropriare le terre e poi per finanziare la costruzione di case da ripagare al ritmo di 15 euro al mese. Perché la prima lezione di Marinaleda Utopia è proprio che la gratitudine non si misura in banca. Del resto, cosa aveva detto il sindaco raccontando di avere pagato di tasca propria il biglietto aereo per fare arrivare dall’Africa la famiglia del suo tuttofare Bori Fati? Aveva detto così: «La solidarietà non si scrive con il denaro». E su questo tutti possono essere d’accordo.
E allora, buona libertà di scelta, Ansu Fati!
Francesco Graziani
(Trascrizione della trasmissione «Numeri Primi» di Rai Radio1, condotta da Francesco Graziani, del 10 settembre 2020, disponibile in podcast al link: https://www.raiplaysound.it/audio/2020/09/NUMERI-PRIMI-6b88807a-650f-412f-b0ae-2eee6606c317.html).
Inserito il 27/06/2024.
La “partita del secolo”
Il 25 novembre 1953, per la prima volta nella storia del calcio, l’Inghilterra viene battuta in casa. A compiere l’impresa è la squadra nazionale ungherese condotta dal grande capitano Puskás, con un risultato di 6 a 3 che sciocca gli inglesi. Un duro colpo, cui ne seguì un altro. Infatti, l’anno successivo i magiari concessero la rivincita ricevendo l’Inghilterra a Budapest: il 23 maggio 1954 l’Ungheria sancì la propria superiorità imponendosi sugli avversari con un umiliante 7-1.
Nel primo dei due articoli che presentiamo, tratto da «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», Paolo Bruschi ricostruisce la fase d’oro della Nazionale magiara.
Il secondo articolo risale invece a due giorni dopo la “battaglia” di Wembley: il cronista sportivo de «l’Unità», organo del PCI, nel suo commento esalta le qualità degli sportivi dilettanti ungheresi che hanno dato una lezione di sport e di vita ai professionisti del football inglese.
25 novembre 1953: il capitano dell’Inghilterra Billy Wright (a sinistra) e Alf Ramsey osservano ansiosi il portiere Gil Merrick mentre fronteggia un attacco ungherese durante la partita in cui l’Inghilterra fu battuta per 6 a 3.
Autore della foto: Dennis Oulds/Hulton Archive/Getty Images.
Fonte della foto: https://ilmanifesto.it/cdn-cgi/image/width=1200,format=auto,quality=85/https://static.ilmanifesto.it/2023/11/25pg10af01-2.jpg
Dal settimanale «Alias»
di Paolo Bruschi
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La partita del secolo
In Il secolo breve lo storico Eric Hobsbawm scrive che il football è stato il dono che la Gran Bretagna ha fatto alla cultura popolare mondiale. Se le cannoniere e i commerci di ogni tipo consentirono di fondare ed espandere l’impero britannico, la diffusione del calcio ai quattro angoli del globo assecondò e fortificò il processo. Il declino iniziò dopo la Seconda guerra mondiale, nel clima della Guerra fredda e dell’impetuosa de-colonizzazione. Nell’autunno 1956, si registrò il definitivo tramonto del potere imperiale: Londra cedette al diktat congiunto di Washington e Mosca e si ritirò dal Canale di Suez, che aveva occupato insieme a francesi e israeliani dopo la nazionalizzazione disposta dal presidente egiziano Nasser.
Tre anni prima, il primato dell’isola era stato simbolicamente demolito a Wembley, quando la nazionale ungherese aveva inflitto un umiliante 6-3 ai tronfi maestri del calcio. Fu la prima sconfitta interna della nazionale dei Tre Leoni, o come scrisse l’autorevole «The Times», la prima violazione del «saldo suolo inglese da parte di un invasore straniero».
Non si trattò di un fulmine a ciel sereno, per quanto gli inglesi attendessero con la consueta superbia il ben presto battezzato «match del secolo», euforici per la recente conquista dell’Everest da parte di Edmund Hillary e la concomitante incoronazione di Elisabetta II. Dall’altra parte infatti si ergeva la fenomenale Aranycsapat, la «squadra d’oro» del tecnico Gusztáv Sebes, in serie positiva da trentatré partite e orgoglio di un popolo che si trovava in una situazione ben diversa. L’Ungheria aveva sofferto l’occupazione della Wehrmacht, collaborando assai con i nazisti, e poi quella dell’Armata Rossa, che si era conclusa con la completa stalinizzazione del paese sotto la guida di Mátyás Rákosi.
Persino il più oppressivo dei regimi anela a una sorta di legittimazione popolare e, come accaduto in Unione Sovietica e nelle altre Repubbliche popolari, il governo di Rákosi allungò i propri tentacoli sullo sport e in particolare sul calcio. I leader comunisti ricercarono l’associazione con la formidabile generazione di Puskás, Hidegkuti e Kocsis, al fine di beneficiare dell’adorazione che il pubblico riservava ai calciatori.
Il calcio si prestava allo scopo per una serie di motivi: in quegli anni cupi, mancavano altre forme di svago e intrattenimento; andare allo stadio era uno dei pochi modi per assaporare brandelli di libera espressione del pensiero e delle emozioni; il calcio era una delle poche vie di ascensione sociale, dato che ai campioni era concesso un più alto tenore di vita, benché dovessero sempre comportarsi come impeccabili modelli di fedeltà politica e fossero perciò soggetti all’occhiuta sorveglianza della polizia segreta.
Questa sorta di convergenza di intenti fra l’alto e il basso fece del calcio un’ideale strumento di propaganda. Dopo l’oro alle Olimpiadi di Helsinki del 1952, gli uomini di Sebes conobbero un periodo di ineguagliato fulgore, che il partito non tardò ad attribuire all’efficienza delle azioni di governo e alla generale supremazia del socialismo sul liberalismo capitalista. Il resoconto giornalistico delle ripetute vittorie ottemperava anche allo scopo di avvicinare all’ideologia dominante quella parte di opinione pubblica apolitica, neutrale o addirittura ostile. Per la stampa di regime passava inoltre l’incessante accostamento fra i fuoriclasse degli stadi e i «maestri del lavoro», ossia gli operai che il governo esaltava per i loro straordinari contributi (sovente del tutto inventati) al conseguimento dei traguardi di produzione fissati dai pianificatori economici. Dopo la vittoria di Londra, i minatori di Balinka si offrirono di raddoppiare le quantità di carbone estratto e il noto stakanovista József Igaz lanciò i turni di lavoro «6-3», durante i quali prometteva di eccedere i già irrealistici obiettivi produttivi, incoraggiando tutti i lavoratori a fare altrettanto per mostrarsi degni della nazionale di calcio.
Ovviamente il governo sfruttò i successi calcistici anche per accrescere la propria reputazione internazionale. Prima della prestigiosa amichevole in Inghilterra, Aranycsapat fu di scena a Roma per l’inaugurazione dell’Olimpico e l’ambasciata ungherese colse l’occasione per organizzare un lauto ricevimento, al quale parteciparono oltre 200 invitati, incluso il presidente del Coni Giulio Onesti. Gli Azzurri subirono «un rovescio catastrofico» per una rete di Hidegkuti e una doppietta di Puskás, il quale rivolse poi un appello al popolo ungherese per invitarlo a «votare bene» alle imminenti elezioni generali. Dopo la gara, Sebes e i giocatori visitarono il segretario della CGIL Giuseppe Di Vittorio e, come dimostrato da un fotografia comparsa sulla prima pagina de l’Unità il 20 maggio 1953, incontrarono i dirigenti del PCI Pietro Secchia e Giancarlo Pajetta, i quali «brindarono ai successi della nazionale magiara nei campi della pace, del progresso e del socialismo».
Infine, alle ore 16.45 del 25 novembre 1953, Inghilterra e Ungheria scesero sul regale prato di Wembley. I padroni di casa sghignazzarono per gli insoliti scarponcini indossati dagli avversari e per gli inequivocabili segni di adipe sotto la maglietta di Ferenc Puskás, salvo incassare la prima rete di Hidegkuti dopo meno di un minuto. Alla mezz’ora, gli ospiti si issarono sul 4-1, per arrivare a sei quando non erano ancora scoccati i due terzi di gara. Fino al novantesimo, fecero mera accademia.
Come riportato dal cronista del «Guardian», i magiari si erano dimostrati inarrivabili per velocità, controllo di palla e acume tattico. La posizione arretrata del centravanti Hidegkuti, primo falso nueve della storia del gioco, mandò in confusione l’intera retroguardia britannica, mentre la fitta rete di passaggi brevi, l’inedita interscambiabilità dei ruoli e i continui movimenti negli spazi vuoti costituirono un rompicapo irrisolvibile per il sorpassato tecnico inglese Walter Winterbottom.
Paolo Bruschi
(Tratto da: Paolo Bruschi, La partita del secolo, in «Alias», inserto settimanale de «il manifesto», anno XXVI, n. 47, 25 novembre 2023).
Inserito il 17/01/2024.
Da «l’Unità» del 27 novembre 1953
di Martin
«Allo stadio di Wembley erano a confronto due scuole, due sistemi: ha trionfato il dilettantismo, l’entusiasmo e la poesia dello sport».
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Mai vista una squadra più bella!
LONDRA, 26. Lo Stadio di Wembley sembra veramente una fortezza. I muri di cinta sono di cemento non tinteggiato, grigi, chiazzati dall’umidità: alte torri quadrate o cilindriche si alzano ai quattro lati della costruzione. Per giungere ai posti più elevati, si devono salire scalette a chiocciola, percorrere corridoi stretti e bassi, scarsamente illuminati.
Lo stadio di Wembley è stato, per anni e anni, il più ampio del mondo: qui, durante i novant’anni del dominio calcistico inglese, sono passate decine di squadre nazionali, senza mai riuscire a sconfiggere lo squadrone dei «bianchi». L’Inghilterra si era permessa il lusso di non presentarsi ai campionati del mondo e di essere considerata ugualmente la migliore del globo: nessuna «nazionale» che si è fregiata del titolo di campione del mondo, è mai passata vittoriosamente sul terreno di Wembley.
Ebbene, la «nazionale» di calcio ungherese ha espugnato la fortezza di Wembley, l’orgoglioso castello del calcio inglese, ed oggi – permettetemi di usare questa frase logora e retorica – sui torrioni grigi dello stadio sventola la bandiera della Federazione calcio magiara, al posto dell’ammainata insegna della Football Association.
Quella di ieri non è stata una delle solite partite che lasciano il tempo che trovano. Erano di fronte i migliori giocatori delle due scuole calcistiche, nessun fattore contingente ha influito sul risultato ed il punteggio parla chiaro; gli ungheresi valgono il doppio degli inglesi.
Gli sportivi britannici hanno accolto la sconfitta con rassegnazione e con malinconia: essi hanno visto perdere i «bianchi» con lo stesso animo di una bella donna che, all’improvviso, si scopre le prime rughe attorno agli occhi e capisce che la vecchiaia è vicina.
Gli inglesi sanno che la loro organizzazione calcistica è costruita in modo tale che non potranno mai più averе una squadra capace di battere atleti di altra stoffa, di altra statura, di altra scuola come gli ungheresi, cioè, come i dilettanti ungheresi.
In Inghilterra esiste il professionismo, un professionismo indubbiamente più serio del nostro, ciarlatanesco e ridicolo, ma pur sempre professionismo.
I giocatori professionisti inglesi sono legati tra di loro da una specie di massoneria, e i vecchi difendono le loro posizioni con le unghie e i denti, e appoggiandosi vicendevolmente. Il giovane che entra in squadra viene boicottato, isolato, perché i vecchi devono giuocare e percepire lo stipendio. Non è un caso che la squadra inglese che è scesa Wembley fosse composta da quasi tutti sopra i trent’anni. Inoltre, dove non c’è nobile, profonda, semplice entusiastica passione, non ci sono inventiva ed immaginazione. Il giuoco degli inglesi è forte, lineare, ma monotono, in un certo senso stantio. Ben altra vivace freschezza, ben altro brio, ben altra poesia è nel giuoco ungherese. E poi, chi non sa che il calcio è uno sport fatto per i giovani, per chi ha i muscoli elastici, scattanti?
Mortensen, Matthews, Ramsey, Wright, ecc. sono vecchi e non corrono. Si fanno facilmente battere nell’anticipo. Sono logorati da mille e mille partite. Matthews era commovente: questo quarantenne che si batte ancora come un leone, sfruttando tutte le astuzie di decine di anni di mestiere, quasi strappava le lacrime. Ma le leggi dello sport non tengono conto dei fattori sentimentali.
Facevano quasi pena quei tifosi che, appena Lorant si avvicinava a Matthews, si mettevano ad urlare ed imprecare come se l’ungherese stesse commettendo un delitto di lesa maestà.
E non si accorgevano che il vecchio commetteva innumerevoli scorrettezze: spingeva con le mani, si appoggiava all’avversario, lo sgambettava, lo tratteneva per la maglia.
Gli inglesi hanno perso perché sono stati battuti, prima di tutto in velocità. Pareva che i «rossi» di Sebes fossero trenta e non undici: erano in tutti i posti, intercettavano tutte le palle, erano primi sui lanci alti, si piazzavano con rapidità sorprendente, marcavano e si smarcavano con più prontezza degli avversari.
Gli inglesi hanno un gran mestiere nelle gambe: stoppano altrettanto bene degli ungheresi, colpiscono bene la palla, ma eseguono essenzialmente gli esercizi che insegna il manuale, magari alla perfezione, ma niente altro. Se si trovano in una situazione nuova, in una posizione imprevista – ciò che accade innumerevoli volte durante una partita – si trovano a disagio, anche perché sono vecchi e hanno perso l’agilità e la prontezza di riflessi che sono pertinenti alla bella età.
Lentezza e schematicità, insomma, ecco i due grandi difetti dei bianchi. Inoltre, i pochi giovani della squadra erаno decisamente mediocri, perché in clima professionistico è difficile per un giovane imparare a divenire qualcuno.
Di contro, ecco gli ungheresi: sono dilettanti, che lavorano durante il giorno e si allenano nelle ore libere. I loro istruttori sono dei vecchi atleti, ex nazionali, che lo Stato Socialista ha mandato alle Università sportive, negli istituti di ricerche scientifiche. Sono tecnici che con la sapienza, col loro onesto entusiasmo, col loro poetico amore per lo sport, hanno saputo scoprire, allenare, portare in nazionale innumerevoli giocatori, che crescono e vivono sportivamente con lo stesso nobile animo dei loro maestri.
Ecco Sebes, l’idealista, come lo chiama il nostro direttore tecnico Czeizler. Sebes è un ex operaio che ha conosciuto l’esilio e la prigione, un ex nazionale che ha giocato innumerevoli partite con la maglia rosso-granata d’Ungheria; adesso Sebes è il vice ministro dello sport ungherese e il Commissario Tecnico della Nazionale. Tios è anche egli un grande campione. Questi sono gli uomini che educano i calciatori magiari.
Nel 1936 gli inglesi, a Wembley, sotterrarono gli ungheresi con il punteggio di sei reti a due; ieri, Puskas e compagni hanno vinto per sei a tre. Tutti hanno detto che una squadra come questa non c’è stata mai.
È difficile descrivere come giocano gli ungheresi, perché è come voler descrivere la danza di una grande ballerina classica. Nella cronaca abbiamo elencato i venti e più passaggi consecutivi, perfetti, gli stop pennellati, i colpi di testa con la nuca, i lanci volanti da una parte all’altra del campo, i prodigi da giocoliere di Hidegkuti, Puskas, Bozsik, Csibor, Kocsis, la forza e la prontezza di Lantos, Lorant, Zakarias, la velocità nell’attaccare e la rapidità degli avanti nel ritornare a dar man forte ai difensori.
Tutto questo i lettori sportivi l’hanno letto, ma è impossibile esprimere con parole la bellezza dello spettacolo nel suo insieme. Veramente, una squadra come questa non c’è stata mai: ogni azione aveva dentro un’idea nuova, e le manovre, le triangolazioni si sviluppavano con un ritmo pieno d’armonia. Sembrava che i calciatori si muovessero al ritmo di una misteriosa musica che solo loro intendevano. Solo una vera nobile passione sportiva può esaltare le qualità chiuse in un atleta. Solo chi ama veramente lo sport sa allenarsi e prepararsi con tanta serietà.
Ritorneremo ripetutamente su questa partita, sulla «partita del secolo». Ora vi dirò brevemente che cosa hanno scritto i giornali londinesi dopo l’incontro. «Dopo novanta anni, una sinfonia ungherese» è il titolo col quale il Daily Express annuncia ai suoi lettori la grande sconfitta di Wembley. Ed il giornale pubblica questa commovente dichiarazione di Ernest Blyth, un vecchio campione di 72 anni: «Non so se potrò mai vedere un’altra partita, ma oggi, almeno so che cosa è la perfezione».
Ecco il Times: «I centomila spettatori hanno assistito al “crepuscolo degli dei”. L’Inghilterra è stata battuta su tutti i punti, in ogni settore, nel giuoco rasoterra e in quello a volo, nella tattica. A Wembley, gli inglesi si sono sentiti stranieri in un mondo straniero, un mondo di spiriti rossi volanti, che tali sembravano gli ungheresi quando si muovevano con un ritmo infernale, con superba abilità e potente tocco finale».
«Una sconfitta e una lezione per l’Inghilterra », scrive il Daily Mail, il quale afferma che gli ungheresi «hanno mostrato la via che il nostro calcio dovrà seguire in futuro».
E il Manchester Guardian, che dedica all’avvenimento un editoriale – come, del resto, fanno altri giornali – ammette che la vittoria ungherese si deve, in gran parte, alla superiore organizzazione sportiva della Democrazia Popolare.
Il grande, vecchio campione Charles Buchan, che è oggi il commentatore sportivo del News Chronicle, scrive: «La squadra inglese era praticamente la migliore che noi potessimo mettere insieme, ma si trovava di fronte un avversario infinitamente superiore. Gli inglesi hanno giuocato tanto bene quanto è stato loro permesso».
E Finney, che per una indisposizione fu escluso all’ultimo momento dalla squadra «bianca», dichiara: «Abbiamo avuto una lezione che non dovremo permettere vada perduta». Dello stesso parere è il presidente della Football Association: «I nostri ragazzi cercheranno di assimilare lo stesso stile di giuoco che gli ungheresi ci hanno tanto meravigliosamente mostrato oggi».
Lo scettro del calcio, come riconferma questa frase, è passato ufficialmente da Londra a Budapest.
Martin
(Tratto da: Martin, Mai vista una squadra più bella!, in «l’Unità», Anno XXX (nuova serie), n. 327, 27 novembre 1953).
Inserito il 17/01/2024.
Una delegazione della Nazionale di calcio sovietica, con alla testa il leggendario portiere Lev Jašin, viene ricevuta al Comune di Prato il 12 febbraio 1979.
Fonte della foto: https://www.facebook.com/photo/?fbid=135904726060673&set=pcb.135904772727335
di Emanuele Russo
Il forte legame dei comunisti toscani con l’Unione Sovietica nel secondo dopoguerra investì anche ambiti inattesi, tra i quali lo sport. Le delegazioni e le squadre sovietiche ricevevano ovunque manifestazioni di affetto; le amministrazioni locali rosse e le case del popolo si impegnavano per creare attorno ad esse un’atmosfera di calorosa accoglienza.
Il dott. Emanuele Russo, ricercatore dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia e docente dell’Istituto Tecnico e Professionale “Paolo Dagomari” di Prato, ha ricostruito i contesti in cui si svolsero alcuni soggiorni e incontri di squadre di calcio sovietiche di club e nazionali in Toscana in decenni diversi e li ha presentati al convegno “Il mito sovietico nel PCI in Toscana”, tenutosi a Pistoia il 26 ottobre 2023 (vedi la sezione Vento dell’Est). Riportiamo qui sotto la trascrizione della sua relazione al convegno.
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Calcio sovietico in Toscana
di Emanuele Russo
Buonasera a tutti.
Ho cercato le fonti negli archivi per trovare tracce del mito sovietico in Toscana nelle sue varie manifestazioni. Ho trovato forme un po’ più classiche, vie un po’ più battute, e poi mi sono imbattuto in qualcosa di molto originale. All’Archivio Lazzerini di Prato, dove ho fatto prevalentemente lavoro di ricerca, nei documenti del Fondo Giovannini (del sindaco di Prato dal 1948 al 1965) ho trovato tracce di viaggi in URSS di cittadini pratesi, fiorentini, pistoiesi con la loro raccolta di cimeli ma anche di memorialistica, ho trovato episodi ed eventi culturali di vario ambito (teatrale, letterario, cinematografico), ho trovato tracce di manifestazioni pubbliche che venivano svolte nelle varie città, magari a sostegno di certe decisioni di politica estera dei sovietici, e poi ho trovato viaggi di delegazioni sovietiche nel territorio toscano. Si trattava di viaggi di vario tipo, un mondo molto variegato veniva in Toscana: c’è traccia di una delegazione di donne, una delegazione prettamente femminile, che fa un tour a Firenze, poi viene data loro la possibilità di tenere un comizio in Piazza della Signoria al termine del quale scambiano parole con la popolazione. C’è un viaggio che viene fatto dai dirigenti del Partito Comunista Sovietico a Prato, di cui molti pratesi ancora si ricordano, per osservare il settore del tessile che caratterizza il tessuto economico di questa città.
Proprio su questo filone si colloca il ritrovamento di una foto che ha aperto una pista inizialmente insperata: è una foto che si trova negli annuari del Comune di Prato del 1979 e che ritrae l’allora sindaco Landini in compagnia di Lev Jašin. Per chi non lo sapesse, Lev Jašin è stato forse uno dei simboli sovietici più importanti: a parte gli uomini politici, dopo il cosmonauta Jurij Gagarin forse Lev Jašin era l’uomo più popolare in Russia e all’estero. Si era presentato a Prato in occasione di una partita che l’URSS aveva giocato proprio in città nel 1979. Mi sono ritrovato a cena con degli amici raccontando il ritrovamento di questa partita, per me inaspettata, e il padre di uno di questi miei amici mi fa presente: «Guarda che io l’URSS l’ho vista giocare anche a Brozzi». Ora, per chi non lo sapesse, Brozzi è una piccolissima frazione periferica di Firenze, un quartiere piccolo, oggi di edilizia popolare, che è accanto al quartiere delle Piagge, e il campo del Firenze Ovest era allora letteralmente un campo di patate. Restai un po’ sbalordito per questa cosa, e in seguito ho voluto verificare: sono andato alla Polisportiva Firenze Ovest e un gruppo di tifosi un pochino più anziani si ricordava perfettamente che era vero, la rappresentativa sovietica aveva giocato a Brozzi.
Quindi c’erano già due tracce importanti; ho cercato di ricostruire un po’ se effettivamente ci fosse una presenza un pochino più continua dell’URSS e delle delegazioni sportive sovietiche in Toscana e in Italia, ed effettivamente era proprio così. Succedeva che le squadre sovietiche durante il periodo invernale sospendevano le attività sportive per via del freddo, cosa che adesso la FIFA non permette più, e quindi oggi continuano a giocare: all’epoca invece si fermavano i campionati, si fermavano le competizioni, e queste squadre dovevano svernare da qualche parte. Dove? Ci sono due spiegazioni sul perché l’Italia era uno dei Paesi più quotati per questi ritiri. Un motivo è calcistico, e anche filosofico, volendo: in quegli anni in Italia si stava sviluppando un sistema di gioco, figlio del sistema olandese del “Calcio Totale”, che coincideva molto con la filosofia sovietica. Perché? Perché nel “Calcio Totale” c’è l’assenza di individualità, è un sistema di gioco in cui i ruoli non sono ben definiti e gli attaccanti e i difensori si alternano in base al momento di gioco. Non mi viene in mente niente che sia più sovietico che l’alternarsi di tutti questi ruoli, di questa assenza di individualità a favore del collettivo.
Quindi c’è questa spiegazione più calcistico-filosofica e poi, a mio avviso, c’è una spiegazione più politica. Non erano molti i Paesi con amministrazioni pronte ad accogliere di buon grado e con tutti gli onori del caso una delegazione sovietica: di certo non sarebbero potuti andare in Spagna, di certo non sarebbero potuti andare in Inghilterra, le trasferte in Sudamerica – altro modello calcistico – non erano così logisticamente fattibili come quelle in Italia, e quindi Coverciano, e di conseguenza la Toscana. Coverciano perché c’è il Centro Tecnico Federale dove sia la squadra dell’Unione Sovietica sia i club spesso soggiornavano.
Fondamentalmente, uno studio comparativo della documentazione dell’organizzazione di queste partite ci potrebbe dire tanto. È un termometro importante, secondo me, per capire il prestigio dell’URSS in Italia, il tipo di relazioni diplomatiche e politiche tra i due Paesi, e anche la percezione dell’importanza culturale del fenomeno. Una volta che vi avrò elencato le tre partite in questione, l’idea che ho in testa risulterà ben chiara.
La prima partita di cui ho trovato traccia è una partita che è stata disputata a Firenze nel settembre del 1955 tra la Fiorentina e la Dinamo di Mosca. La Dinamo di Mosca è una squadra fortemente connotata politicamente, è la squadra che rappresenta la Čeka, la polizia politica, e in presidenza ha avuto anche Berija, quindi una squadra su cui il partito punta molto fortemente. È una squadra che è stata mandata in tournée in Inghilterra dopo la Seconda guerra mondiale ed è la squadra che in quel periodo sta dominando il campionato sovietico. In quella squadra gioca proprio Lev Jašin. Per capire l’importanza di Lev Jašin sono importanti due riconoscimenti che questo portiere ottiene: uno è il Pallone d’oro nel 1963, il massimo riconoscimento individuale per un calciatore, ottenuto da un giocatore che è al di là della “cortina di ferro”, e poi anche un riconoscimento importante che è l’ordine di Lenin nel 1967. Quindi c’è una grande aspettativa sulla prestazione di questo portiere eccezionale e a Firenze in quell’occasione c’è veramente il pubblico delle grandi occasioni: c’è una mobilitazione da parte delle case del popolo che fanno sì che la Dinamo Mosca non dico giochi in casa, ma comunque giochi in un clima molto amichevole, e al Franchi ci sono 60.000 spettatori. Quando la Dinamo di Mosca arriva a Firenze viene accolta da una massa di persone festanti che accolgono i giocatori con mazzi di garofani (abbiamo qualcosa, anche nella pubblicazione ci sono diverse immagini che arrivano da un reportage de «Il Nuovo Corriere»: sono diverse pagine che raccontano benissimo l’episodio); appunto, vengono accolti con tutti gli onori del caso, mazzi di garofani, Grand Tour, visita a Palazzo Vecchio, alloggiano al Grand Hotel, giocano in un clima di festa, e poi è un evento significativo anche dal punto di vista sportivo, perché quella Fiorentina è la Fiorentina del 1955, è la Fiorentina che alla fine dell’anno vincerà il suo primo scudetto, e anche in quella occasione riesce a fermare la Dinamo di Mosca con il punteggio di 1–0.
La seconda partita è quella della foto. La foto è del febbraio del 1979 quando l’URSS – quindi la nazionale e non più un club – viene ospitata dal Prato per disputare una partita amichevole. È curioso il fatto che «La Nazione» ci racconta che questa partita è stata fortemente voluta dalla dirigenza del Prato per attirare l’attenzione dell’amministrazione cittadina e dei pratesi; quindi la squadra sovietica viene utilizzata per cercare di attirare le attenzioni pubbliche sul problema della società calcistica, quindi si ha già una rilevanza politica diversa. E comunque questo mito sovietico c’è e viene anche utilizzato. Tra l’altro, in occasione di quella partita la nazionale dell’URSS fa anche un allenamento a Cavriglia, a Castelnuovo dei Sabbioni, dove nel ’78 era stato inaugurato un parco intitolato a un partigiano sovietico, Bujanov. Quindi anche qui viene ogranizzata una trasferta, viene organizzato un ritiro, però la politica c’entra eccome.
L’ultima partita, forse la più particolare, è proprio quella col Firenze Ovest. Siamo nel febbraio del 1988, l’URSS è a Coverciano e non solo, questa volta è anche in Garfagnana (quindi il ritiro non è più soltanto a Coverciano, e anche questo secondo me è significativo); disputa varie amichevoli in preparazione degli Europei che la vedranno arrivare addirittura in finale quindi è una squadra fortissima, in cui c’è Blochin che un Pallone d’oro, c’è Lobanovskij che è colui che ha perfezionato il calcio totale in URSS vincendo più di 30 titoli in carriera, quindi è una nazionale mostruosa. Questa nazionale a fine febbraio deve disputare un’amichevole con l’Italia di Gianluca Vialli a Bari, quindi per l’occasione è in Italia e cerca di disputare una serie di amichevoli, ma la FIGC mette un veto sugli incontri con squadre professionistiche. Di fatto, una nazionale come quella dell’URSS, che era stata già osteggiata diverse volte nel corso dei decenni, si trova a dover disputare amichevoli con squadre dilettantistiche. C’è un’amichevole non di cartello ma comunque un minimo competitiva con il Pontassieve, e poi i dirigenti sovietici si ritrovano a fare un appello e a cercare disperatamente un campo dove giocare.
Ho avuto la fortuna di intervistare l’allora presidente del Firenze Ovest e mi ha raccontato che loro provarono a dare la propria candidatura dicendo: «Noi abbiamo il campo disponibile, se siete interessati potete venire», dando per scontato che i dirigenti della squadra sovietica non avrebbero accettato. Invece, con massimo piacere e massima sorpresa, i dirigenti sovietici accettarono di disputare una partita in un campo in terra battuta, quindi un campo veramente pericoloso a livello atletico.
Si gioca dunque questa partita nel campo del Firenze Ovest. C’è la folla delle grandi occasioni, chiaramente in un numero molto limitato rispetto ai 60.000 del Franchi, però le persone sono molto contente di vedere una nazionale maggiore giocare sotto casa. Tutto ciò però per la stampa non passa inosservato, e «La Nazione» titola:
Clamorosa gaffe della FIGC,
l’URSS costretta a giocare a Brozzi
(Secondo me c’è da analizzare meglio il perché ci si ritrova dal giocare al Franchi con 60.000 spettatori a giocare a Brozzi).
La partita viene disputata, l’URSS ovviamente vince a mani basse, e le testimonianze si concentrano sull’atteggiamento di Lobanovskij, che si comporta da vero generale: durante la partita non permette ai giocatori di guardare nessuno, si entra in campo senza scambiare cenni di saluto, si fa la partita e si torna negli spogliatoi. Poi inizia la parte più conviviale, però è veramente un atteggiamento rigido, da generale.
Dopo la partita c’è una celebrazione: i dirigenti del Firenze Ovest portano a cena fuori la squadra nazionale sovietica, c’è un taglio della torta con metà bandiera della Polisportiva Firenze Ovest e metà bandiera dell’URSS. Tutti si sbellicavano dal ridere nel raccontarmi che quella sera si spaventarono particolarmente perché, mentre erano fuori a fumare, sentirono un gran frastuono, un gran fruscìo tra i cespugli: sicché, spaventati, andarono a controllare e videro che erano diversi giocatori dell’URSS che si nascondevano da Lobanovskij per poter bere Coca-Cola e vino. Ecco, secondo me anche questo è un episodio molto simpatico ma anche significativo.
Vi ringrazio per l’attenzione.
Emanuele Russo
(Trascrizione della relazione presentata dal dott. Emanuele Russo al convegno “Il mito sovietico nel PCI in Toscana” tenutosi a Pistoia il 26 ottobre 2023, a cura dell’Istituto Storico della Resistenza di Pistoia).
Inserito il 25/11/2023.
Sergej Mosjagin e Valerij Lobanovskij.
Fonte della foto: https://www.altaisport.ru/post/21999
Lev Jašin.
Fonte della foto: social media V Kontakte.
Firenze, febbraio 1988: amichevole Firenze Ovest – Unione Sovietica.
Fonte della foto: Andrea Borelli (a cura di), Il mito sovietico nel PCI in Toscana, Pistoia, I.S.R.PT. Editore, 2023.
Firenze, febbraio 1988: amichevole Firenze Ovest – Unione Sovietica.
Fonte della foto: Andrea Borelli (a cura di), Il mito sovietico nel PCI in Toscana, Pistoia, I.S.R.PT. Editore, 2023.
Bari, Stadio della Vittoria, 20 febbraio 1988. La Nazionale sovietica di calcio posa prima dell’incontro amichevole Italia-Unione Sovietica, vinto dagli Azzurri per 4-1.
Fonte della foto: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Nazionale_di_calcio_dell%27URSS,_1988.jpg
Bari, Stadio della Vittoria, 20 febbraio 1988. La Nazionale italiana di calcio posa prima dell’incontro amichevole Italia-Unione Sovietica, vinto dagli Azzurri per 4-1.
Fonte della foto: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Nazionale_di_calcio_dell%27Italia,_1988.jpg
Dal quotidiano «il manifesto»
Il portiere! Prototipo dell’eroe bolscevico… L’arte del calcio sovietico di Carles Viñas (il Saggiatore), a dispetto del titolo, ricostruisce «dall’inizio» il rapporto tra sport e società russa
di Francesco Baucia
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Pallone e politica dall’impero zarista all’Urss di Jašin
L’uomo sovietico, secondo Trockij, doveva sopravanzare l’Homo sapiens, non solo emendandone l’individualismo, ma guarendo la sua pigrizia, anche con l’attività fisica. Se però è vero che, tra tutti gli sport, il calcio ci riconnette con «la preistoria dei nostri movimenti» – poiché esclude dal gioco le mani e le braccia, gli arti più «teoretici», secondo Vladimir Dimitrijevic – allora sembra quanto di più distante dalla tensione al futuro propria del comunismo. Eppure, la storia testimonia che un abbraccio tra la disciplina «sistematizzata» da Thomas Arnold, all’università di Rugby, nella prima metà dell’Ottocento e la dottrina politica elaborata da Marx ed Engels nello stesso giro d’anni, c’è stato, eccome.
Negli albi è certificato da due eventi simbolici: la vittoria dell’Urss ai campionati europei del 1960, in piena Guerra fredda, e il Pallone d’oro assegnato al suo portiere Lev Jašin (trionfi a cui aveva fatto da ouverture la medaglia d’oro olimpica a Melbourne 1956). È noto che, a oggi, Jašin è l’unico portiere premiato con il riconoscimento di «France Football», e forse non è un caso che venisse da oltre cortina: nell’Occidente dell’egoismo capitalista è l’attaccante o l’inventore di gioco a mettersi in luce, mentre nel mondo sovietico l’eroe è il portiere: baluardo del socialismo, «ultima difesa» contro gli inganni delle società borghesi.
Eppure, le cose non sono così semplici. Lo dimostra L’arte del calcio sovietico (il Saggiatore, traduzione di Simone Cattaneo, pp. 186, € 16,00), libro dal titolo italiano un po’ fuorviante, che ammicca ai lettori di Osvaldo Soriano ed Eduardo Galeano, o a quelli di Dimitrijevic (fondatore delle edizioni L’Âge d’Homme e cultore dello sport; sua la raccolta di divagazioni e memorie apparse nel 2000 da Adelphi con il titolo La vita è un pallone rotondo). Il volume di Carles Viñas – storico dell’Università di Barcellona attento ai rapporti tra sport e società – è invece tutt’altro che una fantasmagoria letteraria sul calcio nella Russia comunista, come si potrebbe essere indotti a pensare. Si tratta, al contrario, di una documentata ricostruzione dei suoi esordi tra la fine dell’epoca zarista e il consolidarsi del regime sovietico negli anni venti. Per arrivare a Jašin e alla finale di Parigi del 1960 c’è un balzo di tre decenni che il libro abbozza soltanto, nell’epilogo. È però proprio nelle ultime pagine che Viñas disegna il profilo del portiere come prototipo dell’eroe sovietico: una figura che, retrospettivamente, ci aiuta a capire le origini dello sport alla fine del secolo precedente. Soprattutto se si pensa a quanto, sull’allure del portiere, scriveva un grande russo che di bolscevismo non voleva neanche sentir parlare: Vladimir Nabokov. Per lui, l’estremo difensore è l’«aquila solitaria, l’uomo del mistero» che si distingue nel vestiario dai compagni e che in seduzione «gareggia con il matador e con l’asso dell’aeronautica». Nabokov, di famiglia liberale, agiata e anglofila, difendeva la porta a Cambridge, durante gli studi al Trinity College, dopo aver passato notti insonni a comporre versi (così scrive nell’autobiografia). Il suo ambiente di provenienza rappresenta l’esempio perfetto di quello strato sociale della popolazione russa in cui, in un primo momento, attecchì il gioco del calcio. Con la concessione all’ingresso di capitali stranieri, il regime zarista, alla fine dell’Ottocento, sperava di modernizzare l’economia: portatori di innovazione, non soltanto nel campo dell’industria, furono soprattutto colonie di inglesi (provenienti in gran parte dal Lancashire e tifosi del leggendario Balckburn Rovers), che diffusero lo sport. Da pratica circoscritta ai club elitari delle città (San Pietroburgo in particolare), a moda che suscitava le diffidenze del clero ortodosso, il calcio fu introdotto nelle fabbriche dove gli inglesi lavoravano come dirigenti per un preciso progetto: guarire i lavoratori dall’alcol e distrarli dall’attivismo politico e dalla sedizione. Tale progetto naufragò, perché l’alcol continuò a essere consumato anche a bordo campo e l’aggregazione sportiva favorì la solidarietà di classe tra gli operai, ma quel che è certo è che il calcio mise le radici nel popolo.
Già in questa fase emergeva la domanda a cui il potere, sia zarista che sovietico, cercò poi sempre con inquietudine di trovare una risposta: il calcio è uno strumento adattabile a strategie politiche e militari (un mascherato allenamento alla battaglia, o alla lotta di classe) o una forza di dissoluzione? A differenza di molti bolscevichi, per esempio, Lenin aveva praticato diversi sport e li apprezzava, anche quelli competitivi come il calcio (ma il suo favorito erano gli scacchi): ne intuiva il potere emancipatorio, auspicando la partecipazione delle donne in vista di un orizzonte di eguaglianza tra i sessi. Negli anni venti, tra la classe dirigente sovietica, si accese un dibattito tra due concezioni dello sport – l’igienista e la proletkultista – che aveva al centro proprio l’idea di competitività e di rifondazione della cultura proletaria: l’intransigenza proletkultista verso gli sport borghesi ne uscì sconfitta (anche se non mancarono persecuzioni di esponenti dell’uno e dell’altro schieramento), e i vertici della politica sovietica si attestarono su una posizione di arcigno realismo. La fizkultura (l’educazione fisica promossa dallo Stato, con il calcio come punta di diamante) era preparazione permanente alla guerra e all’efficienza industriale, e la nazionale sovietica il primo strumento per spezzare l’isolamento diplomatico del Paese dopo la Guerra civile. Poco importava che, davanti a una facciata di specchiato dilettantismo (poiché il professionismo sportivo era proibito), le squadre intavolassero un mercato nero di giocatori non troppo diverso da quello delle odiate nazioni capitaliste. E che, sugli spalti, i tifosi si accendessero contro il Cska (la squadra dell’esercito) e soprattutto contro la Dinamo Mosca – la «spazzatura» (musor) nel gergo dei piccoli criminali: la squadra della polizia e del ministero dell’Interno voluta dall’inquisitore Dzeržinskij, e prediletta dalla nomenklatura.
In Intransigenze, Nabokov racconta che l’ultima volta in cui giocò in porta era ormai un esule in Germania. Si risvegliò in infermeria, dopo aver ricevuto un colpo alla testa durante un’azione, con il pallone ancora stretto saldamente al corpo. Quell’abbraccio – ripensando alla ricostruzione storica di Viñas e, all’estremo opposto, all’esperienza corrente di uno sport ultracapitalista, dominato dalla finanza – ci appare come il simbolo della resistenza del calcio a ogni uso politico, o piuttosto come il segno della sua velenosa complicità con qualsiasi sistema di potere?
Francesco Baucia
(Tratto da: Francesco Baucia, Pallone e politica dall’impero zarista all’Urss di Jašin, in «Alias domenica», inserto culturale domenicale de «il manifesto», 10 settembre 2023; disponibile anche su: https://ilmanifesto.it/carles-vinas-pallone-e-politica-dallimpero-zarista-allurss-di-jasin).
Inserito il 26/09/2023.
Olimpiadi di Città del Messico, 1968. Sul podio dei 200 m piani: 1. Tommie Smith; 2. Peter Norman; 3. John Carlos.
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/3e/John_Carlos%2C_Tommie_Smith%2C_Peter_Norman_1968cr.jpg
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Un’immagine-simbolo del 1968, l’anno in cui i continenti europeo e americano conobbero le più grandi contestazioni giovanili e progressiste del Novecento.
La gara dei 200 m piani non fu certo una passeggiata, ma quel che successe sul podio, in diretta tv mondiale, fu inaudito, tanto da comportare conseguenze “tombali”, dal punto di vista sportivo, per i tre atleti.
Nella finale dei 200 m Tommie Smith precedette il compagno di squadra John Carlos, superato a sorpresa anche dall’australiano Peter Norman. Già in semifinale i due americani avevano battuto il record mondiale, ma in finale il tempo di Smith scese, per la prima volta nella storia, sotto i 20 secondi (19''83); gli ultimi dieci metri li corse con le braccia alzate in segno di vittoria, altrimenti la prestazione sarebbe stata ancora migliore.
Nel giorno della premiazione i tre vincitori delle medaglie olimpiche si presentarono sul podio con in bella evidenza sulla tuta la spilla rotonda bianca che simboleggiava il movimento Olimpic Project for Human Rights (OPHR, Progetto olimpico per i diritti umani), un’organizzazione che lottava perché agli atleti afroamericani fosse concesso il diritto alle borse di studio per attività sportive che venivano assegnate ai colleghi bianchi.
All’attacco dell’inno nazionale, i due americani abbassarono la testa e alzarono il pugno guantato di nero: la patria della libertà e dei diritti umani negava ancora agli afroamericani diritti elementari.
Il gesto di Smith e Carlos provocò la loro immediata espulsione dal villaggio olimpico e l’esclusione dalla rappresentativa olimpica statunitense. Ai due non fu più permesso di praticare l’atletica, e Smith “si riciclò” come giocatore di football americano.
In patria i due furono minacciati di morte, e la moglie di Carlos si suicidò perché non resse il peso del clima di odio che circondò la sua famiglia.
Dal punto di vista sportivo non andò meglio al loro compagno di podio, Peter Norman. Questi, per aver solidarizzato con l’OPHR, fu condannato dai mass-media australiani e boicottato dai vertici sportivi del suo paese: pur qualificatosi per i 100 e i 200 m per le Olimpiadi di Monaco di Baviera del 1972, la Federazione Olimpica australiana non lo incluse nella squadra olimpica e rinunciò addirittura a presentare velocisti per quell’edizione dei Giochi olimpici.
Quando nel 2006 Peter morì per un infarto, a sorreggere il feretro per l’ultimo viaggio furono i suoi compagni Tommie Smith e John Carlos.
L.C.
Inserito l’08/06/2023.
Dal sito storiedicalcio.altervista.org
Lo sport come riscatto dal disagio sociale
Anche lui, come altri due leggendari allenatori britannici, Matt Busby e Jock Stein, era nato in un villaggio minerario, Glenbuck, ai confini fra le regioni dell’Ayrshire e del Lanarkshire. Fu sempre fedele alle sue umili origini e molto vicino ai ragazzi della Kop, la mitica gradinata dei tifosi del Liverpool, per lo più composta da membri della working class che ogni giorno conoscevano la fatica del lavoro nelle fabbriche o nei cantieri navali della città inglese. «Sono un uomo del popolo» amava ricordare, «solo il popolo mi interessa».
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Bill Shankly: l’immortale eroe di Anfield Road
II Liverpool era un club in fase di forte picchiata nel 1959 quando i dirigenti della Merseyside decisero di affidare le loro speranze di ripresa a uno scozzese che rispondeva al nome di William Shankly. Erano passati tredici anni dall’ultimo trionfo nella massima serie (il quinto in assoluto) e i Reds navigavano nella mediocrità della Division Two (la nostra Serie B) da cinque stagioni, deludendo il loro appassionato pubblico. Shankly, un po’ come aveva fatto Herbert Chapman con l’Arsenal, cambiò totalmente il corso della storia del Liverpool, rendendo il club di Anfield una delle squadre più forti e titolate d’Europa. Rivoluzionò completamente la squadra cedendo ventiquattro giocatori in meno di un anno, gettando le basi dello squadrone leggendario che avrebbe fatto incetta di titoli. È diventato una leggenda, Bill Shankly. Un uomo dal senso dell’umorismo straripante, dalle grandi capacità tattiche e tecniche, un grande comunicatore e un motivatore di uomini.
Passione di famiglia
Anche lui, come altri due leggendari allenatori britannici, Matt Busby e Jock Stein, era nato in un villaggio minerario, Glenbuck, ai confini fra le regioni dell’Ayrshire e del Lanarkshire. Fu sempre fedele alle sue umili origini e molto vicino ai ragazzi della Kop, la mitica gradinata dei tifosi del Liverpool, per lo più composta da membri della working-class che ogni giorno conoscevano la fatica del lavoro nelle fabbriche o nei cantieri navali della città inglese. «Sono un uomo del popolo» amava ricordare, «solo il popolo mi interessa».
Il calcio era nel sangue della famiglia Shankly non meno del pulviscolo provocato dalle miniere di carbone che tutti i giorni gli abitanti del piccolo villaggio scozzese dovevano respirare. Bill aveva infatti quattro fratelli (e cinque sorelle) tutti giocatori di calcio e due zii con precedenti esperienze di pallone. Cominciò dunque fin da bambino a giocare a calcio. La sua prima squadra fu il Glenbuck Cherrypickers, mentre a livello professionistico il primo club a dargli fiducia fu il Carlisle United, nel 1932. L’annata successiva venne ingaggiato per 500 sterline dal Preston North End, con il quale divenne titolare nel ruolo di mediano destro e vinse la F.A. Cup del 1938, nello stesso anno in cui ottenne la prima chiamata nella Nazionale scozzese.
Nel dopoguerra rientrò per qualche stagione al Preston North End, prima che nel 1949 il Carlisle gli offrisse il ruolo di allenatore della squadra. Cominciò lì la sua carriera di manager che si sarebbe evoluta velocemente attraverso formative tappe intermedie (Grimsby, Wortkington e Huddersfield), prima della chiamata che cambiò la sua vita e la storia del Liverpool.
Con l’Everton in testa
A metà dell’ottobre 1959 il presidente dei Reds Tom Williams e il dirigente Harry Latham viaggiarono al di là dei monti Pennini fino a Cardiff, per vedere all’opera l’Huddersfield di Shankly contro i gallesi padroni di casa, in un match di Division Two. Al termine dell’incontro avvicinarono il tecnico scozzese e gli chiesero se gli sarebbe piaciuto allenare il Liverpool. Shankly non se lo fece ripetere due volte e dopo le dimissioni di Phil Taylor, l’allora tecnico dei Reds, l’1 dicembre del 1959 avvenne l’annuncio ufficiale della firma per 2.500 sterline l’anno. Il suo incarico era risollevare le sorti del Liverpool, che ormai viveva nell’ombra dell’Everton.
Bill era un uomo che amava sdrammatizzare le situazioni, aveva uno spiccato senso dell’umorismo pur essendo molto professionale sul lavoro. Un giorno, appena arrivato a Liverpool, andò dal barbiere che gli chiese: «Anything off the top?» (“Devo toglierle qualcosa dalla testa?”, cioè quale taglio di capelli desiderasse). «Ay, Everton», fu la risposta del tecnico. Dopo il primo incontro di campionato che vide il Liverpool soccombere 4-0 di fronte al Cardiff City, Shankly si convinse che erano necessari dei correttivi alla rosa e stilò una lista di 24 giocatori che non rientravano nei suoi piani. In meno di un anno tutti avrebbero lasciato Anfield.
Il paradiso riconquistato
Nel corso del suo primo anno Shankly lanciò diversi giovani molto interessanti tra cui Roger Hunt, un attaccante di 19 anni destinato a fare la storia del Liverpool. Segnò ben 21 reti nella sua stagione d’esordio. Piano piano il grande progetto di “Shanks” cominciò a prendere forma: «Il Liverpool era fatto su misura per me e io ero fatto su misura per il Liverpool. Anfield è il mio monumento», avrebbe ricordato. Era un maniaco della preparazione fisica («Quando morirò, voglio essere l’uomo più in forma di tutto il cimitero») e sottoponeva i suoi ragazzi ad allenamenti massacranti, che però davano ampi frutti sul campo. Dopo Roger Hunt, lanciò in prima squadra un altro giovane promettente, Ian Callaghan ma c’era ancora molto lavoro da fare, la ricostruzione era appena iniziata e necessitava almeno di un paio d’anni. Il tecnico riempì la squadra di giovani ignorati dai grandi club e cominciò a lavorare su di loro. Sfiorata la promozione nel 1961, il Liverpool finalmente salì fra i grandi un anno dopo, grazie all’inserimento nell’organico di Ian St John e Ron Yeats.
Liverpool capitale
L’uomo decisivo per la risalita fu comunque Roger Hunt che timbrò il cartellino del gol per ben 41 volte. In tre anni Shankly era riuscito a riportare i Reds in Division One. Dopo un’annata di ambientamento nella massima serie condusse il Liverpool al titolo, il primo dal 1947. I Reds giocavano un calcio divertente e veloce, un mix di passaggi corti e scorribande sulle fasce tipiche del gioco britannico, e riconquistarono il pubblico, che tornò a affollare Anfield. A metà degli anni ’60 Liverpool era sulla cresta dell’onda: i Beatles erano un fenomeno musicale di portata mondiale e i Reds si accingevano a imporre la loro legge in Inghilterra e in Europa. La prima esperienza in Coppa Campioni fu esaltante: il Liverpool si fermò solo in semifinale contro la Grande Inter di Herrera. La conquista della stagione fu la FA Cup, la prima nella storia dei Reds, nella finale di Wembley contro il Leeds (2-1).
Sognando l’Europa
Questo successo determinò la definitiva consacrazione di Bill Shankly, ormai il padrone di un club il cui sogno proibito divenne allora la conquista dell’Europa. Nella stagione 1965-66 l’obiettivo fu quasi centrato, ma la finale di Coppa delle Coppe a Glasgow vide il Liverpool sconfitto dal Borussia Dortmund. In campionato gli uomini di Shankly centrarono invece un nuovo titolo e Roger Hunt si dimostrò ancora bomber implacabile con 30 reti che gli valsero il titolo di capocannoniere e gli spianarono la strada della Nazionale per il vittorioso Mondiale del ’66 (in squadra c’erano altri due Reds, Gerry Byrne e Ian Callaghan).
Molti giocatori di quel Liverpool stavano però cominciando la parabola discendente della carriera. Shankly ricorse così al mercato nella stagione 1966-67 che non portò alcun successo ai Reds, cominciando una sorta di seconda ricostruzione. Ancora una volta il manager individuò i giocatori giusti. Su tutti arrivarono Emlyn Hughes ( 19 anni) e il grande portiere Ray Clemence. La politica di rinnovamento andò avanti per altri anni, durante i quali il Liverpool rimase all’asciutto. Ma Shankly sapeva quello che stava facendo, la squadra andava rinnovata per tornare ai vertici e rimanerci.
King Kevin Keegan
Fu necessario attendere la stagione ’72-73 per vedere nuovamente i Reds vincitori del campionato. Un anno prima era arrivato ad Anfield Kevin Keegan, ingaggiato dallo Scunthorpe United per 35.000 sterline e destinato a essere il miglior giocatore inglese della decade. Nel 1972-73 il Liverpool si aggiudicò l’ottavo titolo della sua storia e Keegan fu il protagonista assoluto della stagione. Oltre al campionato, però, quella stagione coronò finalmente il sogno di Shankly, regalandogli il trionfo europeo. I Reds si aggiudicarono la Coppa Uefa sconfiggendo in finale il Borussia Mönchengladbach e facendo di Shankly il primo manager a condurre una squadra inglese al successo in campionato e in Europa nella stessa stagione.
L’ultima cavalcata
“Shanks” era quasi giunto al capolinea della carriera: nel 1974 i Reds conquistarono nuovamente la FA Cup battendo in finale il Newcastle per 3-0 (doppietta di Keegan e acuto di Heighway) al termine di un incontro a senso unico. «Il Liverpool è la miglior squadra d’Inghilterra e probabilmente del mondo» disse Shankly ai giornalisti. Quando rientrò negli spogliatoi, i giocatori stavano festeggiando a champagne. Lui si sedette silenzioso in un angolo e meditò la decisione che avrebbe sconvolto il calcio inglese.
Il 12 luglio 1974 durante una conferenza stampa, Shankly prima annunciò l’acquisto di Ray Kennedy dall’Arsenal, poi lasciò la parola al presidente John Smith che lesse un comunicato: «E con grande rammarico che devo informarvi che mister Shankly ci ha avvertito che intende ritirarsi dalla carica di allenatore». I giornalisti presenti pensarono all’ennesimo scherzo di “Shanks”, ma era tutto vero. Era ormai una leggenda vivente, l’uomo che aveva creato quella sensazionale squadra dal nulla: «Certe persone pensano che il calcio sia questione di vita o di morte» disse una volta; «si sbagliano: è molto più di questo». Dopo il ritiro il Liverpool non gli offri una carica dirigenziale nonostante avesse ancora molto da dare. Lui se ne rammaricò ma non scatenò polemiche, rimase fuori dai giochi e non smise mai di tifare per i Reds, cosi come i tifosi mai lo dimenticarono. Nel settembre del 1981 si ammalò e il 29 dello stesso mese morì, gettando nello sconforto un’intera città che lo credeva immortale e che lo adorava quasi come una divinità.
Inserito il 12/2/2023.
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Storie di calcio d’Oltrecortina
Sembra incredibile, alla luce del rutilante circo mediatico-mercantile che è diventato il calcio ai giorni nostri. Eppure c’è stato un tempo, neanche troppo lontano (si parla necessariamente del secondo Dopoguerra in avanti), in cui un calcio marziale, disadorno, sottomesso alla ragion di Stato, teneva testa a quello opulento dell’Europa occidentale e a quello naif ma altrettanto virtuoso del Sudamerica.
È il football dell’Est Europa, dei Paesi finiti nell’area d’influenza dell’Unione Sovietica dopo la Seconda Guerra Mondiale, impregnato di oscure e inquietanti storie che odorano di KGB e film di spionaggio. Dinamo, Cska, Torpedo, Lokomotiv: nomi tetri e militareschi, espressione di apparati burocratici o rami dell’esercito, che battezzano le squadre di Mosca come quelle di Sofia o Berlino Est. Stipendi da impiegati del catasto, qualche giorno di licenza premio come ringraziamento per i servigi prestati, facce seriose per non dire funeree.
A monte, una curiosa anomalia che riguarda proprio la nazione guida, l’Urss. Certamente non la prima ad affacciarsi sul proscenio calcistico mondiale. L’Ungheria in particolare, ma anche la Cecoslovacchia, ereditano infatti la sapienza calcistica maturata prima della guerra, quando il cosiddetto calcio “danubiano” ( che ebbe la massima espressione nel “Wunderteam” austriaco anni ’30), dettava legge nel Vecchio Continente.
La stessa Jugoslavia porta a casa una medaglia d’argento nella prima manifestazione post-bellica, le Olimpiadi di Londra 1948. La ben nota “via jugoslava al comunismo”, applicata da Tito in parziale indipendenza da Mosca, si riverbera anche nelle faccende calcistiche, facendo quasi subito dei nostri vicini adriatici un’eccezione nel panorama orientale.
A partire dalla seconda metà degli anni ’50, infatti, non è per nulla inusuale vedere calciatori slavi calcare i palcoscenici occidentali per gentile concessione di Belgrado. I fratelli Cajkovski, protagonisti dell’impresa del ’48, finiranno in Germania (Ovest, s’intende), come di lì a qualche anno il portiere Beara e il fortissimo Zebec. Il fuoriclasse Vukas approderà con scarsa fortuna al Bologna, mentre Vujadin Boskov (sì, quello del “rigore è…quando arbitro fischia!”) sbarcherà a Genova in compagnia di Veselinovic, prendendo confidenza con l’ambiente sampdoriano prima di tornarvi trionfalmente da allenatore un quarto di secolo dopo.
Se la Cecoslovacchia raggiunge il suo apice con la finale Mondiale del 1962, è però l’Ungheria l’indiscutibile faro del calcio comunista. Sul finire degli anni ’40 sboccia infatti una generazione di fuoriclasse irripetibili: Ferenc Puskas su tutti, e a ruota Bozsik, Kocsis, Hidegkuti, Grosics e Czibor. E’ l’Aranycsapat (la squadra d’oro): il gradino più alto del podio alle Olimpiadi del 1952, una epica vittoria contro i “maestri” inglesi (prima squadra continentale ad espugnare Londra), e il Mondiale del 1954, stradominato e poi perso sciaguratamente contro una modestissima (e probabilmente dopata) Germania Ovest.
All’appello, in quella magnifica squadra, mancano però due grandi solisti, rimasti ai margini di quell’orchestra indimenticabile. Il primo è Ferenc “Bamba” Deak. Di professione macellaio, è un centravanti di potenza inaudita, alquanto anomalo nel contesto elegante e flemmatico del football magiaro. Mostruoso il suo score in Campionato nella seconda metà degli anni ’40: 66 goal nel ’46, 48 nel ’47, 41 nel ’48, 59 nel ’49. Si rivelerà fuori dal coro non solo per ragioni tecniche. Inviso forse al grande Puskas e, cosa assai peggiore, al Regime per colpa di qualche esternazione di troppo, perde presto il posto in Nazionale, per poi eclissarsi lentamente fino a sparire mestamente di scena.
Il secondo è Laszlo Kubala. Enfant prodige al pari di Puskas, ma decisamente più inquieto del rivale, ha doppio passaporto per via dei genitori, originari di Bratislava, in Cecoslovacchia (nella cui Nazionale giocherà 6 partite). Così nel 1946 fugge allo Slovan Bratislava, dove si innamora della figlia dell’allenatore, che presto gli darà un figlio. Torna in Ungheria senza la famiglia, ma stavolta gli tolgono il passaporto e lo inseriscono nella famigerata “Legione Rossa”. Allora Kubala decide per un’altra fuga: quella definitiva, quella verso l’Occidente. Cerca contratti nei grandi club italiani, mantenendosi in forma con qualche partitella nella Pro Patria di Busto Arsizio, ma la Federazione Ungherese dice niet. Così fonda col suocero Ferdinand Daucik, l’Hungaria, un’Armata Brancaleone che raccoglie tutti i calciatori ungheresi in fuga per l’Europa.
Primo e unico esempio di squadra non stanziale nella storia, l’Hungaria è un ordine di cavalieri senza titoli, senza signori cui giurare fedeltà, che vaga di paese in paese in cerca di gloria e di qualche tozzo di pane. I nostri eroi approdano infine nell’accogliente penisola iberica, dove dei profughi in fuga dal comunismo sono manna dal cielo, trofei da esibire nella vetrina della propaganda del regime fascistoide del Generalissimo Franco.
Non è il caso di sottilizzare, quando non sei altro che una patata bollente da palleggiare da un’ambasciata all’altra. Ma le strade più battute non fanno per Laszlo che, sempre col suocero in panchina, preferisce il Barcellona, portabandiera della Catalogna che resiste fieramente al Franchismo. I sanguinosi fatti del 1956 pongono fine all’epopea dell’Aranycsapat. In tournèe per l’Europa al momento della rivolta, Puskas, Kocsis e Czibor fuggiranno in Spagna: il primo al Real Madrid, gli altri due al Barcellona, dove ritroveranno Kubala.
E la “grande madre Russia”? Assente ingiustificata. Almeno fino al 1956, quando vince a mani basse le Olimpiadi di Melbourne.
È una squadra che annovera un fuoriclasse stratosferico, il leggendario portiere Yaschin, tanti buoni giocatori (Netto, Simonian, Valentin Ivanov), e un cucciolo di campione, Eduard Streltsov, cui verrà impedito di mantener fede alle promesse.
Diciannove anni, Streltsov è un geniaccio irriverente, ha il carattere da star occidentale, numeri da brasiliano (ancora oggi i russi chiamano “streltsov” il colpo di tacco) e una squadra, la Torpedo Mosca, non proprio nelle grazie della nomenclatura: certo meno influente del CSKA, il club dell’esercito, o della Dinamo, emanazione dei servizi segreti. La favola del ribelle Streltsov si trasforma in incubo due anni dopo, alla vigilia dei Mondiali di Svezia.
L’indomani di una festa organizzata nell’entourage sovietico, viene infatti accusato di violenza carnale: indotto a confessare in cambio della falsa promessa di un’immediata riabilitazione, finirà in un gulag. Assai diversa, peraltro, la versione dei bene informati: pare che Stretsov, leggermente brillo, avesse respinto le avances della figlia, non particolarmente avvenente, di una funzionaria del Politburo, con un poco elegante “non andrò mai con quella scimmia!”. Verità o leggenda, tornerà al calcio parecchi anni dopo, giusto in tempo per concludere una carriera comunque bruciata, per poi morire a 53 anni, per un tumore alla gola, retaggio, chissà, degli anni di prigionia.
Gli anni ’70 settanta segnano il tramonto del calcio ungherese, che avrà in Florian Albert, Pallone d’Oro 1967, l’ultimo campione di un certo livello, per poi declinare in modo inarrestabile fino alla desolante mediocrità di oggigiorno. Salgono invece alla ribalta nuove nazioni: la Polonia di Deyna e Lato (un oro olimpico e due semifinali mondiali nel giro di dieci anni), la Bulgaria di Bonev, la Romania di Georgescu.
E la Germania Est, straripante nell’atletica leggera e in tutti gli sport che hanno nelle Olimpiadi la propria espressione più alta, quanto mediocre nel gioco più in voga nell’Europa capitalista. Non è esatto dire che il football non fosse gradito ai burocrati di Berlino Est. Prova ne sia il fatto che il presidente della Dinamo Berlino fosse niente popò di meno che il capo della STASI, Erich Mielke. Uno a cui piaceva vincere facile: lo squadrone berlinese, agevolato senza pudore dagli arbitri e destinazione obbligata (nell’accezione più spinta del termine) per tutti i migliori giocatori, porterà a casa qualcosa come dieci scudetti consecutivi fra il 1978 e il 1988!
Ci sarebbe quasi da ridere, se non fosse che chi non gradiva la destinazione faceva una brutta fine. Come Lutz Eigendorf, giovane promessa della Dinamo che nel 1979 fuggì all’Ovest, destinazione Kaiserslautern. Mielke fa mettere sotto sorveglianza la famiglia rimasta nella DDR: la moglie finirà per sposare una delle spie che la controllavano (quando si dice oltre al danno la beffa…) e lui morirà in un incidente stradale nel 1983. Solo anni dopo, una volta svelati i dossier più spinosi, si avrà certezza di ciò che tutti avevano intuito: Eigendorf fu avvelenato prima di mettersi alla guida.
Il calcio DDR raggranella comunque quattro medaglie olimpiche, di cui una d’oro (Montreal 1976), ma ha il suo unico vero giorno di gloria il 22 giugno 1974, quando ad Amburgo sconfigge i cugini occidentali nel girone eliminatorio del Campionato del Mondo. Merito del goal di tale Jurgen Sparwasser, carneade destinato ad imperitura memoria per un’impresa quanto mai estemporanea, visto che la Germania Ovest vincerà ugualmente quel Mondiale casalingo, e del calcio giocato nella parte di Germania di là dal Muro si ricorderà poco altro.
Intanto i Ministeri dello Sport d’Oltrecortina cominciano ad allentare le briglie. Prende piede l’abitudine, già in voga come detto nella meno intransigente Jugoslavia, di concedere ai campioni più “âgés” di espatriare sul finire di carriera: giusto per monetizzare qualcosa, ma non prima di aver immolato il meglio della carriera per la Patria.
Così il grande polacco Deyna dopo un paio di stagioni in Inghilterra, attraverserà l’Oceano a trentaquattro anni per dare gli ultimi calci negli States. Il ceko Nehoda allo scoccare dei trenta prenderà la via della Germania Ovest, mentre l’idolo ucraino Blokhin dovrà attendere i trentacinque per lasciare Kiev e raggranellare qualche buon ingaggio in Austria e a Cipro. Ci vorranno invece i buoni uffici dell’Avvocato Agnelli per accelerare l’espatrio del ventiseienne polacco Boniek nel 1982 e del ventisettenne sovietico Zavarov nel 1988: zelo ben ripagato nel primo caso, assai meno nel secondo.
Già, perché il leit-motiv, calcisticamente parlando, degli ultimi anni della CCCP è la cronica incapacità dei giocatori sovietici ad adattarsi al calcio, e ancor più allo stile di vita, occidentale. Ammaliati dai benefici del consumismo come bambini che entrano per la prima volta in una pasticceria, dissiperanno il loro talento con una facilità irrisoria, dando una botta non indifferente allo stereotipo sin lì in voga che voleva i figli del Comunismo austeri e impermeabili ai piaceri materiali.
Detto dello stralunato Zavarov juventino, vanno ricordati Igor Belanov, Pallone d’Oro 1986, che militerà nel Borussia Moechengladbach con risultati disastrosi, e il biondissimo Mychajlyčenko, che apporterà un contributo minimo allo scudetto sampdoriano del 1991. Peggio di tutti è andata però a Rinat Dasaev, ieratico guardiano della porta dello Spartak Mosca, definito da molti “il nuovo Yaschin”. Il suo trasferimento al Siviglia farà la fortuna di qualche burocrate moscovita: lui viceversa finirà sull’orlo dell’alcolismo e per due volte nel fosso che delimita il Palazzo dell’Università, concludendo ingloriosamente una grande carriera.
A proposito di Siviglia: è sempre il capoluogo andaluso a decretare il trionfo e la fine di un altro grande portiere, il rumeno Helmut Ducadam. Semisconosciuto estremo difensore della Steaua Bucarest, il mondo si accorge di lui il 7 maggio 1986, quando para quattro rigori su quattro nella finale di Coppa dei Campioni contro il favoritissimo Barcellona. Un eroe nazionale, la cui gloria, certo indigesta a molti, dura lo spazio di un mattino. Tempo un mese e poco più, infatti, e su di lui cala l’oblio, repentino e assordante. Le laconiche fonti ufficiali liquidano la faccenda parlando di una violenta trombosi a un braccio che pone inevitabilmente fine alla carriera del grande campione.
Strano, per uno che qualche settimana prima dimenava quei possenti arti come enormi tentacoli. E infatti c’è dell’altro. Qualcuno, pare, ha omaggiato Ducadam di un regalo troppo ingombrante. Si vocifera di una Mercedes, dono addirittura di Re Juan Carlos di Spagna, tifosissimo del Real Madrid e grato al portierone per aver inferto una ferita mortale ai rivali del Barcellona. Qualunque fosse il regalo, e chiunque ne fosse l’autore, il figlio di Ceausescu arroga a sè il diritto d’impadronirsene. Ducadam rifiuta e i bravi del piccolo dittatore gli fracassano le mani a sprangate.
È un sistema, quello del calcio dell’Est, che sta implodendo, parallelamente al sistema politico sovrastante. L’ultimo vagito è l’Unione Sovietica futurista e fantascientifica di Valeri Lobanovsky, colonnello dell’Armata Russa con velleità da apprendista stregone. Il suo laboratorio è la Dinamo Kiev, di fatto trapiantata pari pari in Nazionale. La sua è una versione in salsa calcistica del collettivismo bolscevico, con giocatori trasformati in pedine perfettamente interscambiabili e sincronizzate. Ma il cosiddetto “calcio del Duemila”, stringi stringi, raccoglie poco: una Coppa delle Coppe con la Dinamo Kiev nel 1986, e una finale agli Europei nel 1988.
L’ultima esibizione internazionale dell’Urss, a Italia ’90, è un pianto. Lobanovsky si trova a radunare giocatori sparsi per l’Europa, spaesati e appesantiti, e capisce che il suo calcio, fatto di allenamenti maniacali e schemi da riprovare ossessivamente fino allo sfinimento, non è più riproducibile. Meglio faranno la Jugoslavia (anche lei all’ultima recita prima dello smembramento degli anni successivi), la Romania e la Cecoslovacchia.
Forse più inclini storicamente al nomadismo, slavi, ceki e rumeni si caleranno con prontezza in un calcio profondamente diverso e faranno tesoro dell’aggiornamento professionale loro elargito, tanto che le rispettive nazionali risentiranno solo in parte del brusco cambio di rotta. Al contrario dell’ex-Urss, appunto, che darà cenni di vita solo nel 2006 (quarti di finale mondiali per l’Ucraina di Shevchenko) e nel 2008 (semifinali europee per la Russia).
Quanto ai club, le Dinamo, le CSKA, le Lokomotiv, riemergeranno sul palcoscenico europeo nel Terzo Millennio, foraggiate non più da qualche plumbeo Ministero, bensì da magnati e faccendieri dalle discutibili fortune. Ma questa è proprio un’altra storia.
(Tratto da: https://storiedicalcio.altervista.org/blog/storie-di-calcio-oltrecortina.html).
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