A ▪ B ▪ C ▪ D ▪ E ▪ F ▪ G ▪ I ▪ L ▪ M ▪ N ▪ O ▪ P ▪ Q ▪ R ▪ S ▪ T ▪ U ▪ V
A Accumulazione ▪ Accumulazione primitiva o originaria ▪ Alienazione ▪ Anarchia della produzione ▪ Anarchismo ▪ Antropologia ▪ Aristocrazia operaia ▪ Arricchimento della teoria ▪ Attendismo o attesismo ▪ Avventurismo B Baratto ▪ Blanquismo ▪ Blocco storico ▪ Bolscevismo ▪ Borghesia ▪ Burocratismo C Caduta tendenziale del saggio del profitto ▪ Capitale ▪ Capitale commerciale ▪ Capitale costante e capitale variabile ▪ Capitale finanziario ▪ Capitale fisso e circolante ▪ Capitalismo ▪ Capitalismo di Stato ▪ Capitalismo monopolistico ▪ Cartello o Trust ▪ Categorie economiche ▪ Centralismo democratico ▪ Centralizzazione del capitale ▪ Ceto ▪ Circolazione ▪ Città e campagna ▪ Classe ▪ Coesistenza pacifica ▪ Collettivismo ▪ Colonialismo ▪ Composizione organica del capitale ▪ Compromesso storico ▪ Comunismo ▪ Concentrazione del capitale ▪ Concorrenza ▪ Concreto e astratto ▪ Contraddizione ▪ Controrivoluzione ▪ Cooperativismo ▪ Cooperazione ▪ Corporativismo ▪ Coscienza di classe ▪ Cosmopolitismo ▪ Costituzione ▪ Crisi economica ▪ Cultura D Democratismo o democraticismo ▪ Democrazia ▪ Democrazia borghese ▪ Democrazia popolare ▪ Democrazia progressiva ▪ Democrazia socialista ▪ Denaro ▪ Determinismo economico ▪ Deviazionismo ▪ Dialettica ▪ Dialettica della natura ▪ Diritto ▪ Dittatura del proletariato ▪ Divisione del lavoro ▪ Dogmatismo E Economia ▪ Economia politica ▪ Economicismo ▪ Egemonia ▪ Eguaglianza ▪ Egualitarismo ▪ Emancipazione ▪ Emancipazione femminile ▪ Empiriocriticismo ▪ Entrismo ▪ Estraneazione ▪ Estremismo ▪ Etica ▪ Evoluzionismo F Falsa coscienza ▪ Famiglia ▪ Fascismo ▪ Feticismo delle merci ▪ Feudalesimo ▪ Filosofia ▪ Filosofia della prassi ▪ Fisiocrazia ▪ Formazione economico-sociale ▪ Forza-lavoro ▪ Forze produttive ▪ Frazione ▪ Frazionismo ▪ Fronte ▪ Fronte nazionale ▪ Fronte popolare ▪ Fronte unico ▪ Fronte unito ▪ Frontismo G Gauchismo ▪ Genere e specie ▪ Giacobinismo ▪ Guerra ▪ Guerriglia I Idealismo ▪ Ideologia ▪ Illuminismo ▪ Imperialismo ▪ Industria ▪ Industria domestica ▪ Infantilismo ▪ Intellettuale ▪ Intellettuale collettivo ▪ Intellettuali organici e tradizionali ▪ Interesse ▪ Internazionale ▪ Internazionalismo proletario L Laburismo ▪ Lavoro ▪ Lavoro salariato ▪ Lavoro socialmente necessario ▪ Legalitarismo ▪ Leninismo ▪ Liberalismo ▪ Liberismo economico ▪ Libertà e necessità ▪ Lingua e linguaggio ▪ Luddismo M Macchinari, macchine ▪ Manifattura ▪ Maoismo ▪ Marginalismo ▪ Marxismo ▪ Massa ▪ Massimalismo ▪ Materialismo ▪ Materialismo dialettico ▪ Materialismo storico ▪ Meccanicismo ▪ Mercantilismo ▪ Mercato ▪ Merce (e Feticismo delle merci) ▪ Mercificazione ▪ Mezzi di produzione ▪ Modo di produzione ▪ Moneta ▪ Monismo ▪ Monopolio ▪ Movimento contadino ▪ Movimento operaio N Nazionalismo ▪ Nazionalità, nazione ▪ Neocapitalismo ▪ Neocolonialismo ▪ Nep ▪ Nichilismo O Oggettivazione ▪ Oggettivismo, Soggettivismo ▪ Operaismo ▪ Opportunismo P Pacifismo ▪ Parlamentarismo ▪ Partito ▪ Pauperismo ▪ Personalità ▪ Pianificazione ▪ Piccola borghesia ▪ Pluralismo ▪ Plusvalore ▪ Politica ▪ Populismo ▪ Positivismo ▪ Prassi o Pratica ▪ Prefigurazione ▪ Prezzo ▪ Produttivismo ▪ Profitto ▪ Proletariato ▪ Proletarizzazione ▪ Proprietà privata ▪ Protezionismo Q Quadri ▪ Questione femminile ▪ Questione meridionale ▪ Questione nazionale R Rapporti di produzione ▪ Realismo socialista ▪ Reddito nazionale ▪ Reificazione ▪ Religione ▪ Rendita o rendita fondiaria ▪ Restaurazione ▪ Revisionismo ▪ Riflusso ▪ Riforme ▪ Riformismo ▪ Riproduzione ▪ Rivoluzione ▪ Rivoluzione industriale ▪ Rotazione del capitale S Saggio del profitto ▪ Salario ▪ Scambio ▪ Schiavismo ▪ Scienza ▪ Sciopero ▪ Serrata ▪ Servizi ▪ Settarismo ▪ Sfruttamento ▪ Sindacalismo ▪ Sindacato ▪ Sinistra ▪ Sinistra hegeliana ▪ Sistema ▪ Socialdemocrazia ▪ Socialismo ▪ Socialismo in un solo paese ▪ Società ▪ Società per azioni ▪ Sociologia ▪ Sociologismo ▪ Soggettivismo ▪ Sottoproletariato ▪ Soviet ▪ Sovrapproduzione ▪ Sovrastruttura ▪ Spartachismo ▪ Spontaneismo ▪ Stachanovismo ▪ Stalinismo ▪ Stato ▪ Storia ▪ Storicismo ▪ Strategia e Tattica ▪ Struttura e Sovrastruttura ▪ Subalternità ▪ Subimperialismo ▪ Surplus T Tattica ▪ Tatticismo ▪ Tecnica ▪ Teoria ▪ Teoria critica ▪ Terrorismo ▪ Terzo mondo ▪ Tesaurizzazione ▪ Totalità ▪ Tradeunionismo ▪ Trasformismo ▪ Trotskismo ▪ Trust U Umanesimo ▪ Utopia V Valore ▪ Valorizzazione ▪ Violenza ▪ Volontarismo
(Voci tratte da: AA.VV., Dizionario dei termini marxisti (a cura di Ernesto Mascitelli), Milano, Vangelista Editore, 1977).
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Accumulazione
L’accumulazione può essere considerata come il processo che determina la produzione e la riproduzione sempre più allargata del capitale (vedi) e, in generale, dei rapporti sociali di produzione e del modo di produzione a esso corrispondente. Questo processo presuppone l’accumulazione originaria (vedi), cioè può verificarsi solo a condizione che esista, da un lato, una classe di capitalisti, ossia di proprietari di mezzi di produzione e in generale delle «condizioni di lavoro» se, dall’altro, una classe di lavoratori salariati (vedi Proletariato). Secondo Marx: «Adoperare plusvalore come capitale ossia ritrasformare plusvalore in capitale significa accumulazione del capitale». Infatti l’accumulazione del capitale è il risultato che il capitalista ottiene anticipando parte del plusvalore di cui è proprietario per disporre di nuova forza-lavoro e nuovi mezzi di produzione, determinando così al tempo stesso un aumento del proprio capitale e un ulteriore sviluppo delle forze produttive.
«Questo risultato diventa inevitabile appena la forza-lavoro è liberamente venduta come merce dall’operaio stesso. Ma è anche a partire da quel momento soltanto che la produzione delle merci si generalizza, diventando forma tipica della produzione; e solo a partire da quel momento ogni prodotto viene prodotto per la vendita fin da principio, e tutta la ricchezza prodotta passa per la circolazione. Solo dove il lavoro salariato costituisce il suo fondamento, la produzione delle merci si impone con la forza alla società nel suo insieme; ed è anche solo a questo punto che essa dispiega tutte le sue potenze arcane» (Il Capitale, libro I, p. 643).
Contrariamente a quanto hanno sostenuto le concezioni borghesi dell’economia politica, l’accumulazione non è risparmio o semplice tesaurizzazione (vedi), ma è una parte integrante ed essenziale dello stesso processo capitalistico di produzione. Essa avviene non in base a presunte «capacità imprenditoriali», ma seguendo leggi oggettive che sono caratteristiche dell’intero modo di produzione fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione separata dalla forza-lavoro vivente e contrapposta ad essa e, in ultima analisi, seguendo le leggi che il capitale impone alla società per accrescersi continuamente. Analizzando le funzioni del capitalista «in quanto è capitale personificato» e dopo aver definito il suo «istinto assoluto per l’arricchimento» come «effetto del meccanismo sociale all’interno del quale egli non è altro che una ruota dell’ingranaggio», Marx mostra come lo sviluppo della produzione capitalistica renda necessario un aumento continuo del capitale investito in una impresa industriale e la concorrenza (vedi) costringa il capitalista
«…ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progresiva… L’accumulazione è la conquista del mondo della ricchezza sociale. Esaa estende, oltre la massa del materiale umano sfruttato, anche il dominio diretto e indiretto del capitalista» (ivi, pp. 648-49).
Inoltre l’accumulazione è, in quanto «capitalizzazione di plusvalore», essenzialmente appropriazione capitalistica, cioè impossessamento da parte di «privati» di ciò che, secondo l’analisi marxista, è per sua natura sociale: il lavoro, gli strumenti per realizzarlo, i mezzi di sussistenza dei lavoratori. L’accumulazione capitalistica, come processo, tende a diventare aumento illimitato della grandezza del capitale; ma questo «aumento illimitato» è impedito non solo dalle sue contraddizioni (vedi Crisi economica) e debolezze particolari, quali ad esempio la sovrapproduzione relativa di capitale e la sovrappopolazione relativa, o in generale la tendenza alla caduta del saggio di profitto (vedi), ma da ciò che esso stesso crea e che gli si contrappone: i bisogni sociali e il lavoro salariato e, con esso, la classe che è in grado, secondo il marxismo, di organizzare la produzione per la soddisfazione dei bisogni sociali stessi e non sulla base delle leggi dell’accumulazione.
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Accumulazione primitiva o originaria
È il processo storico che ha determinato le condizioni fondamentali della produzione capitalistica. Secondo Marx:
«Il rapporto capitalistico ha come presupposto la separazione tra i lavoratori e la proprietà delle condizioni di realizzazione del lavoro… Dunque la cosiddetta accumulazione originaria non è altro che il processo storico di separazione del produttore dai mezzi di produzione. Esso appare “originario” perché costituisce la preistoria del capitale e del modo di produzione ad esso corrispondente» (Il Capitale, libro 1, pp. 778-779).
Questo processo, molto complesso, in cui intervengono numerosi fattori, dalla formazione del mercato mondiale del commercio, che ha inizio su vasta scala dalla fine del XV secolo, allo sviluppo del sistema del debito pubblico e del credito internazionale, ha come fondamento «l’espropriazione dei produttori rurali, dei contadini e la loro espulsione dalle terre» e, in generale, «…l’accumulazione originaria del capitale significa soltanto l’espropriazione dei produttori immediati, cioè la dissoluzione della proprietà privata fondata sul lavoro personale». Infatti il modo di produzione caratterizzato dall’esistenza di lavoratori che hanno la proprietà privata delle loro condizioni di lavoro, come ad esempio erano la maggior parte dei contadini e degli artigiani in Inghilterra alla fine del XV secolo, si contraddistingue necessariamente per l’estrema suddivisione della proprietà del suolo e degli altri mezzi di produzione ed
«…esclude, oltre alla concentrazione dei mezzi di produzione, anche la cooperazione, la divisione del lavoro all’interno degli stessi processi produzione, la dominazione e la disciplina della natura da parte della società, il libero sviluppo delle forze produttive sociali. Esso è compatibile solo con dei limiti ristretti, spontanei e naturali della società» (ivi, p. 824).
Una vera e propria «rivoluzione» nel modo di coltivare la terra, che esigeva la concentrazione di grandi proprietà coltivate estensivamente, accanto alla formazione dell’industria manifatturiera (vedi Manifattura) e in generale lo sviluppo tecnico e un’ulteriore divisione del lavoro, costituirono il fondamento economico dell’accumulazione originaria. Tuttavia la formazione di classe di fittavoli capitalisti e di capitalisti industriali assunse una funzione importantissima in questo processo.
«La borghesia, al suo sorgere, ha bisogno del potere dello Stato, e ne fa uso per “regolare” il salario, cioè per costringerlo entro limiti convenienti a chi vuol fare del plusvalore, per prolungare la giornata lavorativa e per mantenere l’operaio stesso ad un grado normale di dipendenza. È questo un momento essenziale della cosiddetta accumulazione orignaria» (ivi, pp. 800-801).
Inoltre
«Non era possibile che gli uomini scacciati dalla terra per lo scinglimento dei seguiti feudali e per l’espropriazione violenta e a scatti, divenuti eslege, fossero assorbiti dalla manifartura al suo nascere con la stessa rapidità con la quale quel proletariato veniva messo al mondo» (ivi, p. 797).
In conseguenza di ciò il periodo dell’accumulazione originaria è contraddistinto, secondo Marx, da una vera e propria «legislazione sanguinaria contro gli espropriati dalla fine del XV secolo in poi», dalla violenza e dalla coercizione esercitate attraverso l’apparato statale o individualmente dai singoli capitalisti.
«Così la popolazione rurale espropriata con la forza, cacciata dalla sua terra, e resa vagabonda, veniva spinta con leggi fra il grottesco e il terroristico a sottomettersi, a forza di frusta, di marchio a fuoco e di torture, a quella disciplina che era necessaria al sistema del lavoro salariato» (ivi, p. 800).
La coercizione immediata e violenta, «extraeconomica», che nel modo di produzione capitalistico sviluppato continua a essere utilizzata dalla borghesia, ma solo come «eccezione», fu invece uno dei principali strumenti che questa classe adottò nel periodo dell’accumulazione originaria, quando la dipendenza del lavoro dal capitale non era ancora assolutamente e rigidamente determinata dalle condizioni stesse della produzione, garantita e perpetuata da esse (vedi Capitalismo).
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Alienazione
Nel senso più generale indica la cessione, volontaria o meno, di un bene; così nel linguaggio giuridico si parla di alienazione di un patrimonio o di una parte di esso per significare che il proprietario lo ha in qualche modo ceduto; in campo medico si parla, per analogia, di alienazione delle facoltà mentali volendo indicare la perdita di queste.
Al fenomeno, che era sempre stato riguardato come un fatto negativo, Rousseau diede per la prima volta una carica positiva: nel Contratto Sociale, descrivendo il passaggio degli uomini da un primitivo stato naturale a quello associativo necessario per fronteggiare gli ostacoli che il singolo non era in grado di superare, parlò del tacito contratto stipulato in quella fase dello sviluppo dell’umanità e delle sue clausole che, in fondo, «si riducono tutte ad una sola, cioè l’alienazione totale di ciascuno degli associati con tutti i suoi diritti a vantaggio della comunità». In questo modo il singolo aliena effettivamente la propria libertà individuale ma per ottenere i maggiori benefici derivanti dalla sua appartenenza alla collettività.
Con Hegel, che aveva attentamente studiato gli ulteriori sviluppi del concetto di alienazione presso gli illuministi e con particolare riguardo per Diderot, il termine assunse nuovi significati che investivano piani diversi: da quelli tradizionalmente appartenenti alla filosofia a quelli dei rapporti tra gli uomini nella società; qui la parola alienazione designa il processo di separazione degli uomini dal prodotto della loro attività.
La sinistra hegeliana approfondì questo argomento allargando la ricerca a nuovi settori della realtà. Feuerbach, per esempio, analizzò il problema dell’alienazione nel campo delle religioni sostenendo che l’idea di divinità era il risultato di un processo in cui gli uomini avevano idealmente isolato le loro migliori qualità per trasformarle in attributi divini, oggetto di adorazione e di devozione; così gli uomini avevano separato se stessi dal prodotto della loro attività creativa facendo di questo l’entità lontana, grandiosa e onnipotente che ogni religione conserva tuttora al suo centro.
Moses Hess, a sua volta, studiò il fenomeno dell’alienazione a livello sociale ed economico: nella società capitalistica i lavoratori alienano se stessi attraverso la vendita della propria forza-lavoro (vedi) che si muta, come la divinità descritta da Feuerbach, in qualcosa d’altro, di diverso e di estraneo provvisto di una sua potenza che domina coloro che l’hanno creata.
Sulla base di questi studi considerati criticamente Marx elaborò il proprio concetto di alienazione che comprendeva le forme diverse del fenomeno nella sfera del lavoro, nell’ambito delle relazioni tra gli uomini e nell’immagine di se stessi che gli uomini costruiscono; in ogni caso il termine di alienazione mantiene il suo significato generale di separazione dall’uomo di ciò che materialmente e spiritualmente gli appartiene a vantaggio di qualcosa che si trova fuori dall’uomo stesso (vedi Estraneazione).
Nella sfera del lavoro, l’alienazione si manifesta in primo luogo all’interno della natura stessa di questa attività che in luogo di essere lo strumento per soddisfare le necessità dell’uomo è un mezzo diretto a realizzare altri scopi e cioè il guadagno immediato; conseguentemente il prodotto del lavoro diventa un oggetto estraneo al lavoratore, non gli appartiene e contribuisce a costituire un mondo di oggetti regolati da leggi proprie e sfuggito al controllo di chi ha contribuito a costruirlo. In altri termini, si è di fronte a un’espropriazione generalizzata dell’umanità a beneficio dell’oggetto merce al cui possesso è diretto ogni sforzo, in modo tale che la stessa vita interiore dell’individuo viene immiserita fino a uno stadio pressoché animalesco; solo qui, «nelle sue funzioni bestiali, nel mangiare, nel bere e nel generare, tutt’al più nell’avere una casa, nella sua cura corporale, ecc.» il lavoratore può sentirsi libero.
L’alienazione del lavoro è la forma più importante di alienazione sulla quale si fondano o alla quale si riconnettono tutte le altre forme. Nel lavoro alienato intelligenza e capacità di decisione vengono eliminati, il lavoratore compie meccanicamente le azioni necessarie alla produzione di oggetti che non gli appartengono e le cui caratteristiche e destinazione sono state decise altrove senza la sua partecipazione e per finalità a lui estranee. Lo scopo dell’esistenza umana appare rovesciato: il lavoro non è più il mezzo attraverso il quale gli uomini realizzano se stessi migliorando le condizioni materiali e spirituali della loro esistenza, ma un puro mezzo per sopravvivere; paradossalmente «il lavoratore vive soltanto per guadagnarsi da vivere».
La teoria marxiana dell’alienazione, a differenza delle precedenti riflessioni sull’argomento, colloca il fenomeno all’interno dei rapporti di produzione dell’attuale società che impediscono tra l’altro lo sviluppo armonico e globale dell’uomo, e spingono invece a forme di sviluppo umano irregolare e parziale alle quali soggiacciono, anche se in modi e misure diverse, gli stessi uomini che appartengono alle classi al potere. La fine dell’alienazione si potrà avere soltanto quando i presenti rapporti di produzione saranno superati.
Ampiamente ripresi dopo il ritrovamento dei Manoscritti economico-filosofici del 1844, avvenuto negli anni Trenta, i temi marxiani dell’alienazione sono stati oggetto di un gran numero di studi e di interpretazioni diverse, spesso collegate, appunto perché riguardanti la genesi della condizione attuale dell’esistenza umana, con le correnti dell’esistenzialismo contemporaneo.
Approfondimenti e arricchimenti della teoria dell’alienazione sono stati compiuti da vari studiosi e in particolare da quelli che nel loro insieme appartengono a quell’indirizzo di pensiero noto come hegelo-marxismo o marxismo occidentale (vedi). La teoria dell’alienazione è anche stata il luogo di incontro per confrontare le teorie di Freud con quelle marxiane e marxiste.
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Anarchia della produzione
In regime capitalistico la produzione è determinata dalla volontà unilaterale del capitalista, il quale decide la qualità e la quantità della sua produzione. Tale decisione deriva unicamente dalla necessità di acquisire il maggior profitto (vedi) possibile che verrà accumulato e reinvestito, per crearne del nuovo e in quantità sempre maggiore.
In base a questi calcoli il capitalista decide se aumentare, diminuire o mantenere costante la propria produzione. Essa è dunque unicamente determinata dalle leggi di mercato (vedi), non programmata in base alle aspettative sociali come invece vorrebbe la trasformazione socialista della produzione. Il regime produttivo è perciò «anarchico», e in esso, come afferma Engels, «il prodotto domina il produttore».
L’anarchia della produzione si ripropone su vasta scala anche con la concentrazione del capitale (vedi), poiché nell’ambito del capitalismo monopolistico (vedi) il fine della produzione è pur sempre il massimo profitto non più individuale, ma da ripartire tra le diverse figure del capitalismo monopolistico stesso.
Una forma caratteristica di anarchia della produzione è rappresentata dalla fabbricazione di prodotti industriali la cui vendita può essere sollecitata solo artificiosamente con mezzi pubblicitari, come nell’industria dell’abbigliamento dove talvolta il reale fabbisogno dei prodotti è del tutto secondario rispetto alle esigenze del profitto.
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Anarchismo
È la dottrina che teorizza la lotta per abolire ogni ordine e autorità politica e sostituirvi la libertà dell’individuo; in particolare si contrappone all’idea di Stato (vedi).
Tra i più noti teorici dell’anarchismo, il francese Proudhon, il tedesco Stirner, il russo Bakunin.
Per gli anarchici il rifiuto dell’autorità è completo e si riferisce a qualsiasi organizzazione statale; lo Stato è considerato una forma di tirannide, per cui viene giustificato il ricorso a una strategia di violenza che abbia per fine il suo abbattimento; chiunque detenga il potere è oppressore, e l’oppresso che si sostituisce all’oppressore diventa egli stesso tiranno.
Marx polemizzerà con Bakunin accusandolo di ignorare le cause delle trasformazioni sociali e della rivoluzione proletaria, cioè le condizioni economiche della rivoluzione. Scriveva Engels a Cuno nel 1872:
«Mentre la la grande massa degli operai socialdemocratici sono, insieme con noi, dell’opinione che il potere statale non è altro che l’organizzazione che le classi dominanti – proprietari fondiari e capitalisti – si sono data per difendere i loro privilegi sociali, Bakunin afferma che lo stato ha creato il capitale, che il capitalista ha il suo capitale solo per grazia dello stato. Poiché dunque lo stato è il male principale, si deve prima di tutto sopprimere lo stato, e allora il capitale se ne andrà al diavolo da solo. Noi invece diciamo il contrario: distruggete il capitale, l’appropriazione di tutti i mezzi di produzione da parte di pochi, e lo stato cadrà da sé» (Marx-Engels, Contro l’anarchismo, pp. 60-61).
Da questa concezione dello Stato deriva la predicazione di Bakunin contro la partecipazione alle elezioni da parte della classe operaia, che avrà un esito nefasto soprattutto in Spagna durante l’insurrezione del 1873.
Attualmente esistono correnti anarchiche collegate sul piano internazionale, ma il loro peso politico è di scarso rilievo.
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Antropologia
Letteralmente indica la scienza dell’uomo in generale e in tal senso viene utilizzata sia per indicare l’insieme delle conoscenze relative all’uomo svolte all’interno della riflessione filosofica, sia per quelle derivanti dall’applicazione di concetti e metodi delle scienze naturali (anatomia, fisiologia, biologia evoluzionistica, ecc.); si distingue così un’antropologia «filosofica» da un’antropologia «scientifica» nel senso stretto del termine. A questa distinzione, sorta nella seconda metà del secolo XIX, ha fatto seguito in tempi più recenti un altro modo di intendere lo studio dell’uomo; quello proprio dell’antropologia culturale che spinge la sua indagine allo studio delle cause sociali che influenzano le idee e le emozioni dalle quali gli uomini traggono le regole del proprio comportamento (vedi Cultura).
L’espressione «antropologia marxista» si pone principalmente sulla scia del primo modo di intendere l’antropologia, ma non è estranea alla sfera dell’antropologia culturale in quanto ricerca sulla società e sui rapporti tra questa e le sue idee, le sue istituzioni, i suoi valori, ecc. Il modo d’intendere l’uomo nell’antropologia marxista non è infatti quello naturalistico che si limita a considerare gli aspetti fisici né, d’altra parte, quello astratto della filosofia precedente; l’uomo è considerato nella su totalità (vedi) che non esclude quindi le basi materiali della sua condizione e mette in risalto il fatto che le forme di coscienza, le idee, le relazioni con gli altri, sono strettamente legate alle caratteristiche di una determinata società.
Quando Marx dice che l’uomo è l’insieme dei suoi rapporti sociali vuole, tra l’altro, affermare l’impossibilità di una comprensione del problema dell’uomo al di fuori delle concrete condizioni storico-sociali nelle quali si trova a vivere ed operare; i concetti stessi usati da Marx per descrivere la realtà storica nella quale viviamo, è stato fatto osservare, rinviano ad una sfera antropologica: così per esempio sfruttamento, alienazione, reificazione, falsa coscienza (vedi) sono termini che descrivono modi di essere dell’uomo.
Nelle opere di Marx non si trova un’esposizione completa e a sé stante del problema antropologico che va quindi ricostruito attraverso i vari testi. Il generale interesse per l’uomo che muove le opere di Marx, specialmente nel periodo giovanile, è alla base di interpretazioni che vedono nel pensiero marxiano una nuova filosofia dell’uomo (vedi Umanesimo); d’altra parte, la frammentarietà dei riferimenti e l’assenza di una loro esposizione organica ha indotto altri a ritenere che un’antropologia marxista sia ancora tutta da costruire. Ciò ha fornito l’occasione per versioni esistenzialistiche del marxismo, come nel caso di Sartre, e, specialmente in relazione alla costituzione della coscienza – della psiche – dell’uomo, per introdurre concetti e metodi delle dottrine psicoanalitiche, come nel caso degli studiosi della Scuola di Francoforte.
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Aristocrazia operaia
Definizione negativa di quella parte della classe operaia che, avendo raggiunto un certo benessere economico, si allea con la borghesia (vedi) venendo così meno ai suoi compiti di classe. Ad essa si riferisce Engels in una lettera a Marx del 1852 quando parla degli «operai perfettamente imborghesiti per la momentanea prosperity».
Lenin condusse una violenta battaglia contro il dilagare di questo fenomeno che aveva assunto a partire dalla seconda metà del1’800 proporzioni drammatiche sul piano ideologico, perché induceva confusione nelle masse minandone l’unità, e sul piano politico per le dirette connessioni con l’opportunismo (vedi) e il revisionismo (vedi). Infatti, scriveva Lenin, «i capi di questa aristocrazia operaia passavano continuamente dalla parte della borghesia, erano mantenuti da questa direttamente o indirettamente», e la stessa aristocrazia operaia veniva da lui bollata come «corporativistica, gretta, egoista, sordida, interessata, piccolo-borghese, di mentalità imperialistica, asservita e corrotta dall’imperialismo».
La lotta contro l’aristocrazia operaia fu quindi una lotta per la conquista delle masse e per l’unità della classe operaia; costituì uno dei temi del III Congresso Comunista (1921) e si tradusse al IV Congresso dell’Internazionale Comunista (1922) nella parola d’ordine del «fronte unico» della classe operaia.
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Arricchimento della teoria
Si intende con questa espressione il processo di allargamento coerente del marxismo (vedi), attuato successivamente alle elaborazioni originarie. Quali arricchimenti della teoria sono stati presentati, nell’ambito del marxismo, differenti e talora opposti contributi non solo teorici, ma, dati i rapporti intercorrenti tra teoria e prassi (vedi), anche tattici e strategici. Taluni arricchimenti della teoria, tuttavia, vengono riconosciuti come effettive negazioni dei presupposti del marxismo: tali furono, ad esempio, il revisionismo (vedi) e il riformismo (vedi).
Recentemente si è aperto un ampio dibattito su alcuni apporti di varia natura, considerati come arricchimenti della teoria. Tale è, per esempio, sul piano più propriamente teorico, il subimperialismo, che indica, secondo taluni, il modo di essere di quei Paesi a capitalismo (vedi) dipendente, i quali, nei limiti delle possibilità di iniziativa a loro consentiti dall’imperialismo dominante (vedi Imperialismo), giocano un ruolo relativamente indipendente in politica estera, talvolta marginalmente contraddittorio rispetto a quello dell’imperialismo dominante. La situazione attuale [1976, ndr] del Brasile costituisce un esempio di subimperialismo.
Una esemplificazione, invece, di ipotesi strategica considerata quale arricchimento della teoria, è il compromesso storico, proposto dal Partito Comunista Italiano e ribadito nell’ambito del XIV Congresso (marzo 1975), come «…l’unica adeguata prospettiva per arrivare alla trasformazione democratica del paese, e per garantirla…» (Il rapporto di Berlinguer al XIV Congresso del PCI, in «l’Unità», 19 marzo 1975, p. 10).
Tale proposta, basata su «un vastissimo schieramento popolare», è stata presentata come
«…un più avanzato terreno di lotta ed è al tempo stesso una sfida che il Partito comunista rivolge a tutte le altre forze democratiche, soprattutto a quelle che si ostinano a mantenere la vita politica del paese entro vecchie formule, più o meno rinverdite o magari presentate in veste nuova, ma che hanno in comune l’insuperabile debolezza di essere state tutte piuttosto a lungo e ricorrentemente sperimentate e di essere tutte fallite».
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Attendismo o attesismo
Nel linguaggio politico designa l’atteggiamento di chi, in una determinata situazione storica e politica, dimostra la non volontà o l’incapacità di assumere posizioni nette e precise. È da notare come con tale termine si suole indicare non tanto la prudenza che nasce da un’esigenza critica di orientamento, quanto piuttosto l’immobilismo di chi, attendendo l’evolversi delle cose, teme di compromettersi. In tale senso nella tradizione comunista il termine è stato unito a quelli di opportunismo (vedi) e di revisionismo (vedi), in quanto proprio di tali tendenze è la caratteristica di non volgersi risolutamente verso gli interessi della classe operaia, attraverso l’azione concreta e quotidiana, bensì di indulgere a un atteggiamento passivo e anzi ostile a soluzioni innovatrici, favorendo oggettivamente gli interessi avversi.
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Avventurismo
La tendenza a dare il via a iniziative politiche senza aver prima considerato con la necessaria attenzione le condizioni concrete della situazione storica in cui esse sono o dovrebbero essere prese.
L’avventurismo è di solito la conseguenza di atteggiamenti basati su astratte formulazioni che portano a ipotesi sbagliate o comunque lontane dalla realtà: perciò indica sempre la presenza di un grave rischio di fallimento; sotto questo aspetto è connesso tanto all’infantilismo e all’estremismo (vedi) quanto alle incertezze sulla linea politica da seguire in momenti di grande tensione.
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Baratto
La forma più elementare di scambio, consistente nel cedere una certa quantità di prodotti in cambio di altri.
Il modo più primitivo di condurre un baratto consisteva nello scambio diretto tra i due interessati ad avere i prodotti di cui disponeva l’altro; quando apparve evidente il maggior vantaggio che un contraente poteva ottenere attraverso lo scambio di prodotti intermedi, diversi da quelli desiderati, le modalità del baratto divennero via via più complesse. Tuttavia trovarono ben presto un limite nel fatto che lo scambio di un prodotto dotato di un valore d’uso (vedi) con un altro creava grossi problemi di frazionamento del prodotto stesso: se due buoi vivi potevano essere scambiati con nove pecore vive, un bue vivo non poteva essere certo scambiato con quattro pecore e mezzo altrettanto vive. Inoltre, salvo che per pochi prodotti artigianali (vasellame, ceste, filati, pellame conciato, ecc.), sorgevano problemi di conservazione particolarmente gravi nell’economia di tipo agricolo che gravitava intorno al baratto.
La necessità di allargare gli scambi portò con sé la necessità di trovare un materiale che fosse frazionabile, duraturo e accettato dai più in pagamento di prodotti di ogni genere: compare così la moneta (vedi).
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Blanquismo
Corrente del movimento socialista francese dell’800 il cui maggiore esponente fu Louis Auguste Blanqui, rivoluzionario e teorico del comunismo francese, che partecipò all’insurrezione del 12 maggio 1839 e diresse con Armand Barbès l’Associazione segreta repubblicana socialista.
I blanquisti contrapponevano all’attività del partito rivoluzionario azioni di tipo cospirativo, non tenendo conto delle condizioni concrete necessarie per la vittoria di un’insurrezione e trascurando i legami con le masse. Di essi Lenin scrisse che attendevano «la liberazione dell’umanità dalla schiavitù salariata, non dalla lotta di classe del proletariato, ma da congiure di una piccola minoranza di intellettuali».
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Blocco storico
Questo concetto, analizzato e sviluppato soprattutto da Gramsci, si riferisce al problema del rapporto che, secondo la concezione materialistica della storia (vedi Materialismo storico), intercorre tra struttura economica e sovrastrutture ideologiche, politiche, giuridiche. Gramsci osservò che, nel corso dello sviluppo storico, si realizza, in determinate condizioni, una «unità sostanziale», una corrispondenza, sia pure non immediata e meccanica, tra struttura e sovrastrutture e che, più in generale, «La struttura e le superstrutture formano un blocco storico, cioè l’insieme complesso e discorde delle soprastrutture sono il riflesso dell’insieme dei rapporti sociali di produzione». L’analisi storica non può, secondo Gramsci, prescindere dal concetto di «blocco storico», cioè dal riconoscimento dell’esistenza di un rapporto complesso, di azione reciproca, tra il «contenuto economico-sociale» di un periodo storico e la sua «forma etico-politica». L’origine stessa delle diverse realtà storiche va ricercata nella formazione di un gruppo sociale egemone (vedi Egemonia) che «cementa» attorno a sé l’intera società, per mezzo dell’ideologia, dell’organizzazione del consenso, dell’apparato statale, realizzando così un «blocco storico». Il concetto di blocco storico si riferisce, dunque, sia all’esistenza di questo stretto rapporto tra struttura e sovrastrutture all’interno di una determinata società, sia alla possibilità che la classe potenzialmente egemone ha di determinare le condizioni per la creazione di una nuova organizzazione sociale alternativa a quella esistente. Da questo punto di vista, secondo Gramsci, il partito comunista deve sviluppare la funzione egemonica della classe operaia realizzando attorno ad essa e al suo programma un nuovo blocco storico. In questo senso il concetto di blocco storico, come del resto quello di egemonia, si collega, nell’opera di Gramsci, a una complessiva rivalutazione dell’importanza della teoria e, in generale, della politica, soprattutto in funzione critica nei confronti delle tendenze economiciste (vedi Economicismo):
«Una iniziativa politica appropriata è sempre necessaria per liberare la spinta economica dalle pastoie della politica tradizionale, per mutare cioè la direzione politica di certe forze che è necessario assorbire per realizzare un nuovo, omogeneo, senza contraddizioni interne blocco storico economico-politico…» (Quaderni del Carcere, p. 1612).
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Bolscevismo
Dal russo «bol’ševizm» = movimento di maggioranza.
Corrente del pensiero politico e partito politico nato nel 1903 all’interno del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (POSDR). Il principale esponente del bolscevismo fu Lenin che ne espose i principi fondamentali nel Che fare? e che guidò dal 1903 la frazione bolscevica del POSDR.
Il bolscevismo si sviluppò attraverso l’esperienza del proletariato russo nel corso di 15 anni di lotta contro l’oppressione zarista fino al momento della conquista del potere avvenuta nel 1917.
Questa concezione del partito politico rivoluzionario ha assunto nella storia del movimento operaio un ruolo importantissimo, in quanto fu la prima realizzazione pratica della teoria marxista. I principi del bolscevismo sono stati e ancora oggi sono un costante punto di riferimento critico per i partiti comunisti di tutto il mondo. Infatti Lenin, nel formulare questi principi, affrontò i problemi essenziali che si presentano alla classe operaia e ai suoi alleati nella costruzione di un movimento politico in grado di condurre alla rivoluzione. Si pose anzitutto al movimento bolscevico il problema della definizione generale delle condizioni in cui si possa realizzare una disciplina e un’organizzazione che siano in grado di mantenere unita la classe operaia.
Secondo la concezione bolscevica questa disciplina è il risultato in primo luogo della «coscienza d’avanguardia proletaria e della sua dedizione alla rivoluzione», in secondo luogo della capacità di questa avanguardia di unirsi «con la più grande massa dei lavoratori, dei proletari anzitutto, ma anche con la massa lavoratrice non proletaria», in terzo luogo dell’esistenza di una strategia e di una tattica politica giusta, «a condizione che le grandi masse si convincano per propria esperienza di questa giustezza». Altrimenti «la disciplina di un partito rivoluzionario, realmente capace di essere il partito della classe d’avanguardia che deve rovesciare la borghesia e trasformare tutta la società, non può essere garantita».
Una delle caratteristiche essenziali del bolscevismo è l’importanza che esso assegna alla teoria rivoluzionaria: Lenin infatti affermò più volte che «senza teoria rivoluzionaria non può esservi movimento rivoluzionario». Il bolscevismo si oppose dunque a quelle concezioni che o negavano il ruolo e la necessità della teoria (vedi Spontaneismo, Economicismo, Determinismo) o si affidavano nella loro analisi politica a teorie diverse dal marxismo (vedi). In particolare Lenin polemizzò con le concezioni prevalenti all’interno della Seconda Internazionale e, in Russia, con il menscevismo, frazione minoritaria del Partito Socialdemocratico Russo, e con i Socialisti Rivoluzionari.
La storia del bolscevismo fino al ’17 fu caratterizzata da un susseguirsi di fasi ora pacifiche, ora di scontro violento. Infatti in quegli anni la Russia da paese semifeudale, attraverso una rivoluzione fallita (1905) e un lungo periodo di repressione, fu trasformata, grazie soprattutto all’opera di organizzazione e di direzione politica realizzata dal bolscevismo, nel primo Stato socialista.
Furono proprio la novità dell’impostazione del rapporto tra lotta legale e organizzazione clandestina, la duttilità tattica accanto alla fermezza dei principi che permisero al bolscevismo di resistere nel periodo della repressione e di svilupparsi rapidamente nei momenti di ripresa del processo rivoluzionario.
Il bolscevismo, che si costituì in Partito Comunista dell’Unione Sovietica dopo la rivoluzione, rimane tuttora uno dei più importanti contributi sia sul piano organizzativo che sotto il profilo politico e teorico che l’esperienza della rivoluzione russa ha apportato allo sviluppo del movimento comunista internazionale. Infatti, al loro sorgere, tutti i partiti comunisti che fecero parte della Terza Internazionale adottarono il bolscevismo come principio fondamentale della loro attività politica e organizzativa.
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Borghesia
Il nome deriva da borghigiani, gli abitanti della città medievale (in tedesco: Burg).
Storicamente è la classe che ha sostituito la nobiltà feudale (vedi Feudalesimo) nell’esercizio del dominio sull’intera società; dal punto di vista dell’economia è perciò la classe che detiene attualmente la proprietà dei mezzi di produzione.
La borghesia, sottolinea Marx,
«ha avuto nella storia una funzione sommamente rivoluzionaria … Essa per prima ha mostrato che cosa possa l’attività umana. Essa ha creato ben altre meraviglie che le piramidi d’Egitto, gli acquedotti romani e le cattedrali gotiche; essa ha fatto ben altre spedizioni che le migrazioni dei popoli e le Crociate» (Manifesto, p. 29).
Per compiere quest’opera la borghesia ha praticato in modo aperto lo sfruttamento distruggendo i miti che lo circondavano, ha trasformato «la dignità personale in un valore di scambio» e costretto gli uomini ad aprire gli occhi sui loro rapporti. In soli cento anni di dominio, e cioè dalla metà del secolo XVIII alla metà del secolo XIX, la borghesia ha portato a un livello tale le forze produttive (vedi) da superare tutto quello che le generazioni passate nel loro insieme avevano fatto. Ma, come «lo stregone che non può dominare le potenze sotterranee da lui evocate», la borghesia ha cresciuto con sé la classe antagonista che ne distruggerà il potere; il modo stesso in cui la borghesia può esistere, una continua lotta e una serie infinita di cambiamenti, l’ha obbligata più volte a chiedere l’aiuto del proletariato (vedi) e così a spingerlo nelle vicende politiche: «essa stessa, dunque, dà al proletariato gli elementi della propria educazione, gli dà cioè le armi contro se stessa».
Il riconoscimento della funzione storica della borghesia è uno dei numerosi punti in cui il realismo del pensiero di Marx si manifesta in modo particolarmente chiaro, differenziandosi dalle generiche dichiarazioni contro lo sfruttamento, il potere e l’arbitrio. Inutile sottolineare che la capacità di vedere il ruolo progressivo svolto a suo tempo dalla borghesia è una delle condizioni per comprenderne l’inevitabile decadenza. Naturalmente la borghesia non ha avuto la stessa fisionomia dovunque: il discorso di Marx si riferisce dunque al suo insieme per prendere in esame, quando necessario, la realtà di questa o quella singola borghesia nazionale in un dato momento storico con le forme concrete dei suoi partiti politici, delle sue fazioni con interessi contrastanti e in genere delle sue molteplici contraddizioni. Un esempio straordinariamente articolato del modo marxiano di analisi si trova nel 18 Brumaio di Luigi Bonaparte.
È da notare infine che, nell’uso generale, il termine di borghesia non è perfettamente sinonimo di «classe dei capitalisti», pur essendo evidente che il modo di produzione capitalistico è quello in cui domina la borghesia. Esiste un margine di differenza che rinvia nel caso di «classe dei capitalisti» prevalentemente alla sfera dei fenomeni economici e di quelli ad essi collegati in modo più diretto, e nel caso di borghesia all’insieme dei fenomeni legati all’economia in modo più mediato: le abitudini e le forme di comportamento, il sapere, le ideologie, ecc.; questa differenza si nota bene in espressioni del tipo «cultura borghese», «morale borghese», ecc.
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Burocratismo
Deriva dalla parola burocrazia, con la quale si indica un sistema di funzionari ordinati gerarchicamente per lo svolgimento di determinate mansioni nei diversi settori della vita pubblica; il che implica l’esercizio di un certo potere che è tanto più forte quanto più le decisioni vengono prese impersonalmente per gradi successivi, come avviene negli Stati moderni.
La delega di mansioni a funzionari è sempre esistita laddove esisteva un potere centralizzato, come nel caso dei grandi imperi dell’antichità, dove tuttavia il rapporto burocratico si fondava sulla fedeltà a una o più persone, come il sovrano o i suoi luogotenenti, davanti ai quali il funzionario era responsabile della corretta applicazione delle leggi e ai quali doveva rendere conto dei propri atti e delle proprie decisioni.
Negli Stati moderni invece, e soprattutto nelle democrazie borghesi, la burocrazia è andata sempre più assumendo il carattere di una corporazione a sé stante, al di sopra della società, vale a dire al di sopra degli antagonismi di classe, delle lotte tra ceti, gruppi, ecc. Essa si presenta dunque come la depositaria dell’«essenza» dello Stato e tende perciò a sostituire i rapporti reali tra gli individui e le classi con rapporti formali rispondenti a una logica interna, appunto burocratica. Perciò
«lo spirito generale della burocrazia è il segreto, il mistero, custodito entro di essa dalla gerarchia, e all’esterno in quanto essa è corporazione chiusa. Il palesarsi dello spirito dello Stato, e l’opinione pubblica, appaiono quindi alla burocrazia come un tradimento del suo mistero. L’autorità è perciò il principio della sua scienza e l’idolatria dell’autorità è il suo sentimento. Ma all’interno della burocrazia lo spiritualismo diventa un crasso materialismo, il materialismo dell’ubbidienza passiva, della fede nell’autorità, del meccanismo di un’attività formale fissa, di principi, di idee, di tradizioni fisse. In quanto al burocrate preso singolarmente, lo scopo dello Stato diventa il suo scopo privato, una caccia ai posti più alti, un far carriera» (Marx, Dalla critica della filosofia hegeliana del diritto, in Opere III, pp. 53-54).
Poiché burocrazia e Stato si identificano nella società capitalistica, la burocrazia è dunque lo strumento mediante il quale la borghesia esercita indirettamente il suo dominio di classe; in un primo tempo essa aveva svolto un ruolo subordinato rispetto alla borghesia, ma a partire dalla seconda metà dell’Ottocento fino a oggi si è assistito a un processo di completa autonomizzazione dell’apparato burocratico-statale, così che la logica del burocratismo, aspetto degenerativo della burocrazia, si è imposta in misura determinante a tutti i livelli.
La lotta alla burocrazia, che è lotta per la democrazia reale contro la democrazia fittizia burocratica, non può che fondarsi sul controllo popolare e sulla partecipazione. In una prospettiva rivoluzionaria Lenin ravvisava nei Soviet, assemblee dei delegati di fabbrica, forme cioè spontanee di autogoverno popolare, l’ossatura di quella «nuova macchina» statale che avrebbe dovuto sostituire la vecchia e inutilizzabile macchina burocratica zarista.
Tuttavia nell’applicazione concreta anche nell’URSS sono riapparse forme di burocratismo in contrasto con quanto avevano scritto i teorici intorno al problema, sia a motivo delle difficoltà reali insite nella questione e delle vicende storiche, sia a causa di una sottovalutazione del problema e della mancanza di un efficace controllo popolare.
Il burocratismo riferito a partiti politici indica per analogia la tendenza a privilegiare l’aspetto burocratico su quello ideale e politico, a riprodurre all’interno del partito gli stessi difetti riscontrabili nello Stato: privilegio delle norme o delle consuetudini amministrative sui contenuti pratici, indifferenza per il loro significato politico, maturazione lenta delle decisioni e tendenza al rinvio di quelle importanti. Tutto questo non deve essere confuso con il risultato dell’inettitudine di funzionari o di impiegati, che è semmai una conseguenza del burocratismo, ma deve essere considerato come il complesso fenomeno derivante da un sistema che tende a riprodursi mantenendo invariate le proprie strutture e che alimenta in continuità una propria visione specifica del modo di gestire certi compiti.
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Capitale
Il capitale è una determinata quantità di denaro che è in grado di diventare, ed effettivamente diventa, alla fine di un «ciclo» del processo di produzione e circolazione, più denaro di quanto non fosse all’inizio di questo ciclo.
Analogamente i mezzi di produzione sono capitale solo se il loro uso accresce il valore complessivo che il proprietario di questi mezzi possiede. Infatti il capitale è valore (vedi) che possiede la particolare caratteristica di aumentare la propria grandezza, cioè di essere in grado di aggiungere a se stesso un plusvalore (vedi), di valorizzarsi nel corso del processo di produzione e circolazione delle merci (vedi). Questo «particolare tipo di valore può svilupparsi in tutte le sue forme» fino a diventare, attraverso la classe che ne detiene il possesso, una «potenza sociale» che domina e caratterizza l’intero modo di produzione e la società nel suo complesso solo quando si sia verificato, nelle sue linee generali, il processo storico di separazione dei lavoratori dalla proprietà privata delle loro condizioni di lavoro e di sussistenza.
L’analisi marxista del capitale mette in rilievo che i mezzi di produzione (vedi), anche lo stesso denaro (vedi), così come le merci, diventano questo «particolare tipo» di valore solo a un certo grado di sviluppo della società, cioè solo da quando la proprietà di grandi quantità di denaro, di merci, di mezzi di produzione e in generale delle «condizioni di lavoro», è diventata prerogativa esclusiva di una «parte della società» e un’altra parte della società è risultata completamente priva della possibilità di produrre e di ottenere i mezzi necessari alla sussistenza se non applicando la propria forza-lavoro (vedi) a mezzi di produzione che, appunto, non sono in suo possesso. Marx, nell’affrontare il problema di quali siano le effettive fonti di reddito, afferma:
«Ma il capitale non è una cosa, bensì un determinato rapporto di produzione sociale, appartenente ad una determinata formazione storica della società. Rapporto che si presenta in una cosa e dà a questa cosa un carattere sociale specifico. Il capitale non è la somma dei mezzi di produzione materiali e prodotti. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione trasformati in capitale, che non sono di per sé capitale, come oro e argento non sono di per sé denaro. Il capitale è costituito dai mezzi di produzione monopolizzati da una parte determinata della società, dai prodotti e dalle condizioni di attività della forza-lavoro, resi autonomi nei confronti della forza-lavoro vivente, che vengono mediante questa contrapposizione personificati nel capitale» (Il Capitale, libro III, pagine 927-28).
L’origine effettiva del suo continuo accrescersi, che è il modo stesso di esistere del capitale, è, proprio per la sua natura di «autovalorizzazione», mistificata, nascosta, dall’insieme dei rapporti di produzione, di riproduzione e circolazione del capitale, e dalle molteplici «forme» che il capitale assume, sia nei diversi ambiti della produzione e circolazione, che nelle diverse fasi storiche del suo sviluppo, al punto tale da apparire agli studiosi dell’economia politica che, sia pure in diversa misura, in qualche modo si mettono dal punto di vista capitalistico, come una «qualità innata» del capitale stesso, indipendente dal modo di produzione. Gli studi condotti da Marx ne Il Capitale capovolgono questo punto di vista e riconducono, attraverso un’analisi dettagliata delle diverse forme assunte storicamente dal capitale, e delle diverse «sfere» in cui esso opera, il problema dell’analisi del capitale all’«unità del processo di produzione e di circolazione che rende in un periodo determinato un plusvalore determinato». E, esaminando il processo di trasformazione del denaro in capitale, Marx osserva che:
«Per estrarre valore dal consumo d’una merce, il nostro possessore di denaro dovrebbe essere tanto fortunato da scoprire, all’interno della sfera della circolazione, cioè sul mercato, una merce il cui valore d’uso stesso possedesse la peculiare qualità d’esser fonte di valore, tale dunque che il suo consumo reale fosse, esso stesso, oggettivazione di lavoro, e quindi creazione di valore. E il possessore di denaro trova sul mercato tale merce specifica: è la capacità di lavoro, ossia la forza-lavoro» (ivi, libro I, pp. 199-200).
Si può infatti affermare, prescindendo dalla complessità della trattazione di Marx, che il capitale, in generale, trae origine e sviluppo dallo sfruttamento inteso soprattutto come appropriazione di pluslavoro (vedi Plusvalore) non retribuito; ciò appare immediatamente e, in un certo senso, in modo evidente dal punto di vista marxista, nel capitale industriale, come applicazione del lavoro salariato ai mezzi di produzione di proprietà del capitalista, nel capitale commerciale (vedi) attraverso il complesso processo di circolazione delle merci che fa apparire questa «forma» del capitale come indipendente dal pluslavoro, mentre, secondo l’analisi di Marx, anche in esso si verifica, sia pure attraverso particolari mediazioni, «…quel determinato rapporto sociale in cui il lavoro passato si contrappone in modo autonomo e preponderante al lavoro vivo».
Analogamente, lo stesso capitale monetariom cioè il denaro produttivo di interesse che è, anche storicamente, la forma con cui ogni capitale individuale compare sulla scena, inizia il suo «processo in quanto capitale»; nell’economia politica borghese si presenta come totalmente separato dal processo produttivo, ma nell’analisi marxiana viene interpretato come la forma più mistificata e al tempo stesso più significativa, se considerata correttamente, del rapporto capitalistico. Mettendo in rilievo le differenze tra il denaro, così come esso si presentava nelle epoche precedenti al capitalismo, e il capitale vero e proprio, Marx afferma:
«Ma per il capitale la cosa è differente. Le sue condizioni storiche d’esistenza non sono affatto date di per se stesse con la circolazione delle merci e del denaro. Esso nasce soltanto dove il possessore di mezzi di produzione e di sussistenza trova sul mercato il libero lavoratore come venditore della sua forza-lavoro e questa sola condizione storica comprende tutta una storia universale. Quindi il capitale annuncia fin da principio un’epoca del processo sociale di produzione» (ivi, libro I,pp. 202-203).
Secondo il marxismo, tuttavia, quest’epoca sviluppa le capacità produttive dell’umanità in una misura che sarebbe stata irrealizzabile senza la forza di concentrazione e organizzazione del lavoro che è caratteristica del processo di sviluppo del capitale, ponendo così le basi materiali per il suo stesso superamento (vedi Dialettica), che consiste, essenzialmente, nel superamento delle condizioni che mantengono i mezzi di produzione e le merci nella forma di capitale.
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Capitale commerciale
È la forma più antica di capitale ed è esistita molto prima del modo di produzione capitalistico; cominciò ad assumere proporzioni sempre maggiori quando si svilupparono gli scambi con terre lontane sostenuti principalmente dal traffico marittimo e carovaniero. L’antico Egitto, la Grecia e Roma furono le sedi più importanti di queste attività che permisero di accumulare ingenti ricchezze; nel medioevo i centri nevralgici del commercio furono spostati verso altre aree; gli interessi gravitarono intorno ad altri prodotti, ma il processo di accumulazione (vedi) continuò in modo abbastanza simile a quello dell’antichità.
Una delle conseguenze del capitalismo commerciale fu quella di indirizzare la produzione verso il valore di scambio (vedi) e di accrescerne quindi il volume; di più, dato il carattere internazionale del commercio, diede al denaro (vedi) la funzione di moneta (vedi) valida in tutto il mondo. Denaro e commercio indebolirono gradualmente la struttura della vecchia società creando situazioni e problemi che questa non era in grado di risolvere.
Da notare che il capitalismo commerciale antico e medioevale controllava la produzione: si limitava a comperare il prodotto dove era reperibile a prezzo conveniente e a rivenderlo dove era richiesto e pagato a un prezzo più alto (vedi Circolazione del denaro); il presupposto di questa operazione era l’esistenza di popolazioni meno progredite, senza informazioni sul prezzo pagato in altre sedi per il loro prodotto. La contraddizione del capitalismo commerciale (o mercantile) antico era nel fatto che man mano che crescevano i rapporti con quelle popolazioni più arretrate queste ricevevano un impulso al progresso e la loro ignoranza dei prezzi diminuiva; nel corso della sua stessa attività il capitale mercantile creava dunque le condizioni della sua fine.
Il capitale commerciale moderno ha tratti molto diversi da quelli del vecchio capitale mercantile: in primo luogo perché opera in un periodo dominato dal modo di produzione capitalistico all’interno del quale svolge una funzione specializzata, attuando tutte le operazioni di distribuzione delle merci che per vari motivi non convengono alle industrie produttrici.
Il capitale commerciale moderno ottiene in questo modo un’aliquota del plusvalore complessivo prodotto nell’industria: questa a sua volta trova il proprio interesse nella maggior rapidità che le operazioni in cui è specializzato il capitale commerciale imprimono alla vendita delle merci.
Al pari del vecchio capitale mercantile il capitale commerciale moderno non produce nuovo valore: la ricchezza globale della società non viene accresciuta; nel primo caso si trattava del trasferimento di una parte delle ricchezze esistenti da chi le possedeva in origine ad altri; nel secondo caso di una partecipazione alla ripartizione del plusvalore complessivo.
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Capitale costante e capitale variabile
Il capitale costante è, dal punto di vista del valore, il valore (vedi) dei mezzi di produzione e, dal punto di vista materiale, l’insieme dei mezzi di produzione, cioè mezzi di lavoro, materie prime, materie ausiliarie, ecc. Il capitale variabile è, dal punto di vista del valore, il valore della forza-lavoro, cioè la somma complessiva dei salari, e, dal punto di vista materiale, la quantità di lavoro necessaria per l’uso dei mezzi di produzione. Marx stabilì, attraverso lo studio delle leggi generali dell’accumulazione capitalistica, il rapporto in cui il capitale costante e il capitale variabile si trovano nel processo di sviluppo del modo di produzione capitalistico, analizzando il progressivo accrescersi di questo rapporto, all’interno della composizione organica del capitale.
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Capitale finanziario
È la forma di capitale, o di capitalismo, che si sviluppa e opera attraverso la concentrazione e la centralizzazione (vedi) di grandi quantità di denaro il cui impiego e la cui destinazione godono di una relativa indipendenza dal capitale industriale; il termine non deve essere confuso né con capitale commerciale (vedi) né con capitale monetario: quest’ultimo, infatti, indica semplicemente un capitale, nel senso di somma di denaro, che produce interesse.
Marx, dopo avere esposto il superamento del capitalismo mercantile ad opera del capitalismo industriale, accennava già al potere sempre maggiore che avrebbero avuto nel futuro i centri direttivi delle operazioni finanziarie (credito, investimenti, ecc.). A sua volta Engels sottolineava, nel 1891, che la produzione da parte di singoli imprenditori stava diventando sempre più un fatto eccezionale, che in suo luogo si diffondevano le società per azioni (vedi), forme cioè di «produzione associata e condotta per conto di più persone», che nei trust non esisteva più una produzione privata nel senso stretto del termine. Ciò non toglieva, ovviamente, la perpetuazione del dominio di classe attraverso i monopoli (vedi), la produzione per il profitto, lo sfruttamento dei lavoratori. Dopo studi parziali compiuti dall’economista inglese J.A. Hobson e da Rosa Luxemburg, è nella più nota opera di Rudolf Hilferding che il capitale finanziario viene definito con notevole precisione; la sua nascita è legata al processo di concentrazione che le banche avviano per non essere subordinate ai trust sempre più potenti; il suo sviluppo conduce al «capitale unificato»:
«I settori del capitale industriale, commerciale e bancario, un tempo divisi, vengono posti sotto la direzione comune dell’alta finanza, nella quale i signori delle industrie e delle banche sono uniti da intimi legami personali. Questa stessa unificazione ha come base il superamento della libera concorrenza dei singoli capitalisti per effetto del sorgere di grandi unioni monopolistiche; con ciò cambia anche la natura del rapporto della classe dei capitalisti con il potere statale» (Il capitale finanziario, p. 393).
Lenin, che nel corso dei suoi studi sull’imperialismo (vedi), considerò attentamente l’opera di Hilferding pubblicata nel 1910, indicò nel capitale finanziario uno dei caratteri distintivi dello stadio monopolistico del capitalismo. Tipiche manifestazioni del capitale finanziario sono le holding, cioè le compagnie finanziarie che possiedono le azioni di un gran numero di banche e di imprese industriali e commerciali e ne controllano quindi le attività influendo pesantemente su ogni decisione di politica economica.
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Capitale fisso e circolante
Le forme assunte dal valore che si presenta sotto forma di capitale sono molteplici. Tra le forme «reali» assunte dal capitale durante la sua «rotazione» (vedi), quella che ha avuto maggior importanza, dal punto di vista della contabilità del capitalista, è la distinzione tra capitale fisso e capitale circolante.
Il capitale fisso è costituito da: edifici, impianti, macchine e tutti quegli elementi che partecipano a più cicli produttivi, cedendo a ognuno di essi solo una parte del loro valore.
Viene invece considerato capitale circolante l’insieme di ciò che l’economia politica borghese chiama «fattori di produzione» che vengono consumati interamente in ogni ciclo produttivo; esso cioè trasmette interamente e una sola volta il suo valore alla produzione. Il capitale circolante è costituito essenzialmente da materie prime e da salari.
L’importanza che tale distinzione ha assunto per gli economisti borghesi è dovuta al fatto che il capitalista è vincolato ai diversi periodi di rotazione del capitale, deve quindi studiare continuamente come ripartire il suo capitale tra i diversi fattori di produzione per avere il massimo profitto. Tale visuale del capitalista, tesa a ottenere il massimo profitto, occulta l’importanza ben più grande della distinzione tra capitale costante e capitale variabile.
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Capitalismo
È il periodo storico in cui si sviluppa il modo di produzione (vedi) capitalistico. Il concetto di capitalismo è in generale riferito a tutta la società e, più di altri, ha avuto una grande diffusione nella cultura non marxista e ha assunto un grande numero di significati e di sfumature che spesso modificano o addirittura contraddicono il significato del concetto e dell’analisi marxista del capitalismo; ad esempio si trova spesso nella cultura borghese come sinonimo di «società industriale», «società dei consumi», ecc.
Il marxismo interpreta il capitalismo dal punto di vista dell’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico, poiché, secondo la concezione materialistica della storia (vedi Materialismo storico), ogni società può essere conosciuta per quello che è solo analizzando il fondamento reale su cui si sviluppa. Separare il concetto di capitalismo dall’analisi del modo di produzione capitalistico, o addirittura definire il capitalismo indipendentemente da questa analisi, porta a non comprendere il significato del termine dal punto di vista marxista.
L’analisi del modo di produzione capitalistico e, più in generale del capitalismo, non è riassumibile nello spazio di una definizione, poiché, nel pensiero marxista, essa riguarda tutti gli aspetti essenziali e i processi fondamentali di sviluppo di un periodo storico che ha avuto origine sistematicamente e nella sua forma classica in Inghilterra nel XVII secolo e che perdura tuttora in molti paesi del mondo (vedi Rivoluzione industriale). Il capitalismo, tuttavia, si distingue dai periodi storici in cui sono prevalenti altri modi di produzione, per esempio il feudalesimo o le società primitive, per almeno due caratteristiche specifiche. Secondo Marx, in primo luogo:
«Esso (il modo di produzione capitalistico) produce i suoi prodotti come merci. Il produrre merci non lo distingue dagli altri modi di produzione, lo distingue invece il fatto che il carattere prevalente e determinante del suo prodotto è quello di essere merce. Ciò implica, in primo luogo, che l’operaio stesso si presenta unicamente nella veste di venditore di merci, quindi di libero lavoratore salariato, così che il lavoro in generale si presenta come lavoro salariato… il rapporto tra capitale e lavoro salariato determina tutto il carattere del modo di produzione. I principali agenti di questo modo di produzione stesso, il capitalista e il lavoratore salariato, sono in quanto tali, semplicemente incarnazione, personificazione del capitale e del lavoro salariato, sono caratteri sociali determinati, che il processo di produzione sociale imprime agli individui, sono prodotti di questi determinati rapporti sociali di produzione.
Il secondo tratto caratteristico, che contraddistingue specificamente il modo di produzione capitalistico è la produzione di plusvalore (vedi) come scopo diretto e motivo determinante della produzione. Il capitale produce capitale e fa ciò solamente nella misura in cui produce plusvalore» (Il Capitale, libro III, pp. 997-9).
Il capitalismo è, dunque, il risultato di un processo storico (vedi Accumulazione originaria) che ha determinato il costituirsi da un lato di una classe di proprietari di mezzi di produzione e dall’altro di una classe di «venditori di forza-lavoro».
Lo sviluppo ulteriore del processo di accumulazione, il generalizzarsi e l’estendersi di questo «modo di produrre», della «libera» concorrenza (vedi) tra i possessori di merci e la conseguente concentrazione delle ricchezze in poche mani, hanno modificato tutti i rapporti sociali, influenzando e in un certo senso determinando anche l’attività degli uomini che sono inseriti in questi rapporti di produzione.
Il capitalismo è l’uniformarsi di tutta la società alla produzione di plusvalore, cioè è il prevalere delle esigenze di sviluppo e riproduzione del capitale sul carattere sociale della produzione e sui bisogni sociali dei produttori. Da questo punto di vista il capitalismo può anche essere definito come la manifestazione, all’interno di tutta la società, della contraddizione (vedi) tra il carattere sociale della produzione e la proprietà privata dei mezzi di produzione. Questa contraddizione investe tutti gli aspetti della vita umana nel regime capitalistico, determinando anche i rapporti di distribuzione (vedi) e, in generale, produce quei fenomeni di disgregazione dei rapporti sociali che sono caratteristici della «società industriale moderna» (vedi Alienazione e Reificazione).
Anche se con caratteristiche diverse in ogni paese, il capitalismo fin dai primi anni dell’Ottocento ha prodotto una divisione e specializzazione del lavoro (vedi) molto più rigida e determinata che nelle epoche precedenti, o nei paesi in cui non si era ancora pienamente sviluppato il modo di produzione capitalistico, che ha necessariamente condotto alla formazione di «ruoli» specifici e settoriali in cui ogni individuo si trova inserito, in massima parte indipendentemente dalla sua volontà, per tutto il corso della sua vita.
Inoltre, in generale, nelle società capitalistiche si è ben presto manifestata la tendenza allo sviluppo delle attività produttive che permettono la realizzazione di maggiori profitti, per esempio l’industria pesante o la costruzione di materiale bellico, a scapito dell’utilizzazione della forza-lavoro in altri settori vitali della produzione, come per esempio l’agricoltura. Ciò è stato ed è tuttora uno dei principali motivi del verificarsi di gravi crisi che provocano, ogni volta, la distruzione di enormi forze produttive.
Il capitalismo, infine, nelle sue diverse fasi (vedi Concorrenza e Capitalismo monopolistico) può essere considerato come l’epoca storica in cui il grande sviluppo delle capacità umane di trasformare la natura – basti pensare alla scienza (vedi) che, nella sua applicazione ai processi produttivi, diventa essa stessa una grande forza produttiva – determina le condizioni materiali per la realizzazione della società senza classi (vedi Comunismo).
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Capitalismo di Stato
Secondo la concezione marxista, è l’intervento diretto dello Stato nell’organizzazione della produzione e della distribuzione dei prodotti. È il progressivo sostituirsi al singolo capitalista dello Stato come imprenditore diretto. Il grande sviluppo della produzione industriale e delle tecniche di controllo centralizzato della produzione e della distribuzione che l’intervento dello Stato permette di realizzare è una delle caratteristiche tipiche del capitalismo di Stato.
Lenin afferma che esso è: «…la preparazione materiale più completa del socialismo, la sua anticamera, quel gradino della scala storica che nessun gradino intermedio separa dal gradino chiamato socialismo». In questo senso egli riteneva che, nel maggio del 1918, nelle condizioni di grave arretratezza economica in cui versava la Russia sovietica nel suo primo anno di vita, il capitalismo di Stato fosse un passaggio necessario per la vittoria definitiva del socialismo.
«Per chiarire ancor meglio la questione, citiamo anzitutto un esempio estremamente concreto di capitalismo di Stato. Tutti sanno qual è questo esempio: la Germania. Qui abbiamo l’“ultima parola” della grande tecnica capitalistica moderna e dell’organizzazione sistematica al servizio dell’imperialismo dei borghesi e degli junker. Cancellate le parole sottolineate, mettete al posto dello Stato militare, dello Stato degli junker, borghese e imperialista, un altro Stato, ma uno Stato di tipo sociale diverso, di diverso contenuto di classe, lo Stato sovietico, cioè proletario, e ottenete tutta la somma delle condizioni che dà il socialismo» (Lenin, Sull’infantilismo di sinistra, Opere scelte, vol. unico, p. 456).
Lo scoppio della guerra civile ritardò la realizzazione di questo progetto che venne tuttavia ripreso e sviluppato negli anni della NEP (vedi).
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Capitalismo monopolistico
È la fase di sviluppo del capitalismo (vedi) in cui alla «libera concorrenza» (vedi Concorrenza) dei singoli capitalisti subentra la lotta di grandi monopoli per la conquista dei mercati e l’accaparramento delle materie prime.
L’analisi marxista del capitalismo monopolistico definisce questa fase come il risultato del rapidissimo processo di concentrazione della produzione in imprese sempre più ampie, che si è verificato, per limitarsi alle più grandi nazioni europee, a cominciare dagli ultimi 30 anni del [XIX] secolo, fino a diventare, dall’inizio del Novecento, l’elemento caratteristico di tutto il modo di produzione (vedi). Questo processo, accanto a quello ad esso collegato del progressivo dominio del capitale finanziario (vedi) nei confronti delle altre forme storicamente assunte dal capitale, ha determinato la formazione dell’imperialismo moderno (vedi).
Il capitalismo monopolistico si è sviluppato anche in seguito alle «crisi di sovrapproduzione» determinate dallo sviluppo irrazionale della produzione ed è stato interpretato come una risposta, un superamento definitivo di queste crisi. Effettivamente, secondo Lenin,
«…le crisi di ogni specie, e principalmente quelle di natura economica – sebbene non queste sole – rafforzano grandemente la tendenza alla concentrazione e al monopolio», tuttavia «Che i cartelli eliminino le crisi è una leggenda degli economisti borghesi, desiderosi di giustificare ad ogni costo il capitalismo. Al contrario, il monopolio, sorto in alcuni rami d’industria, accresce e intensifica il caos, che è proprio dell’intera produzione capitalistica nella sua totalità. Si accresce ancor più la sproporzione tra lo sviluppo dell’agricoltura e quello dell’industria, che è una caratteristica generale del capitalismo» (Lenin, Imperialismo fase suprema del capitalismo, Opere scelte, vol. unico, pp. 185-186).
Nel capitalismo monopolistico la concorrenza tra i grandi monopoli, che permane come caratteristica generale, assume da un lato un carattere sempre più internazionale e dall’altro investe in misura determinante e sempre più direttamente, attraverso la nuova funzione che le banche e gli organismi finanziari di Stato vengono ad assumere, l’intera società.
Il capitalismo monopolistico di Stato è infatti la partecipazione diretta dello Stato alla formazione e alla direzione dei monopoli che toglie definitivamente, secondo l’interpretazione marxista, anche quella parvenza di neutralità e di indifferenza dello Stato nei confronti della gestione dell’economia, che fu teorizzata dagli economisti «liberisti» nella prima fase del capitalismo.
Il capitalismo monopolistico, che è secondo Lenin «la natura economica dell’imperialismo», ha determinato l’estensione, a livello mondiale, delle contraddizioni del capitalismo, la dipendenza dal dominio del capitale finanziario di tutte le istituzioni economiche e politiche della moderna società borghese, e un generale acuirsi degli antagonismi di classe. Queste caratteristiche fanno del capitalismo monopolistico «il capitalismo morente», che crea le condizioni storiche generali per il suo superamento.
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Cartello o Trust
È l’accordo tra gli industriali di intere categorie di produzione tendente a regolare la produzione stessa, i prezzi e i profitti. I cartelli iniziarono a costituirsi negli ultimi trent’anni del XIX secolo, in seguito al persistente squilibrio tra quantità di merci prodotte e capacità di assorbimento del mercato. Infatti il generalizzarsi e l’estendersi dei fenomeni di sovrapproduzione (vedi) e il fallimento della «libertà di concorrenza» (vedi Concorrenza) come strumento di «autoregolamentazione della domanda e dell’offerta» si imposero, secondo Engels, «alla coscienza degli stessi capitalisti».
«Tanto è vero che in ogni paese i grandi industriali di un determinato settore si raggruppano in un cartello per regolare la produzione. Un comitato fissa la quantità che ogni stabilimento deve produrre e ripartisce in ultima istanza le ordinazioni ricevute. In alcuni casi si sono avuti anche dei cartelli internazionali, ad esempio fra i produttori di ferro inglesi e tedeschi. Ma anche questa forma di socializzazione della produzione non fu sufficiente. Il contrasto di interessi delle singole compagnie la spezzava troppo presto e ristabiliva la concorrenza.
Si arrivò così, in singoli settori in cui il grado di produzione lo permetteva, a concentrare tutta quanta la produzione di un settore in una grande società per azioni a direzione unica» (Il Capitale, libro III, p. 520).
Infatti il cartello, dal punto di vista storico, costituisce uno dei momenti fondamentali che condussero alla formazione dei monopoli (vedi).
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Categorie economiche
Il termine categoria indica solitamente un concetto generale utilizzato come riferimento per altri concetti e per i giudizi che si danno all’interno di una qualsiasi teoria (vedi) e scienza; così il concetto di movimento è una categoria delle scienze fisiche, il concetto di organismo una categoria delle scienze biologiche, il concetto di merce è una categoria dell’economia.
La definizione data da Marx nel primo capitolo del libro I del Capitale riguarda precisamente le categorie dell’economia borghese; partendo dal fatto ovvio che ogni considerazione, scientifica e non, degli eventi della vita può avere luogo soltanto dopo che questi si sono verificati, Marx osserva che la scienza economica borghese procede a studiare i fatti di cui si occupa come se non fossero il risultato di uno svolgimento: essa si limita a coglierli così come si presentano ora, interrogandosi sul loro significato e sul loro contenuto, ma non sulla loro storia.
Così i fatti che danno ai prodotti del lavoro il carattere di merce (vedi) e sono alla base della circolazione delle merci (vedi) vengono immaginati come se fossero sempre esistiti e immutabili; essi si traducono dunque, all’interno delle teorie economiche borghesi, in concetti generali, o categorie, ovvero in «forme dell’intelletto che rappresentano una verità oggettiva in quanto riflettono rapporti sociali reali di questo modo di produzione sociale, storicamente determinato, della produzione di merci».
Per considerare in modo scientifico la realtà, in altri termini, occorre che il pensiero rifletta in se stesso mediante un processo di astrazione i fenomeni e i rapporti tra fenomeni che si verificano nella realtà, si costruisca cioè dei concetti e delle categorie che, debitamente organizzati secondo un criterio adatto, portano a elaborare una teoria scientifica su quei fenomeni. Se i fenomeni sono di natura economica si avrà una teoria economica; se essi vengono guardati senza tener conto della loro transitorietà, senza pensare che non sono sempre esistiti ma sono propri di un’epoca della storia, si avranno le categorie dell’economia borghese, somiglianti alle categorie assolute dell’idealismo (vedi) e incapaci di dissolvere «le nebbie» che avvolgono i fenomeni di cui si occupano.
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Centralismo democratico
Nella concezione leninista del partito (vedi Bolscevismo) è l’insieme dei principi politici che definiscono i rapporti rispettivamente tra partito e masse, e tra gli organismi centrali e quelli periferici del partito, in relazione allo sviluppo della lotta di classe. Il centralismo democratico ha tratto origine dalla critica complessiva dei rapporti esistenti tra dirigenti e diretti all’interno della società capitalistica e quindi dalla necessità di realizzare una democrazia di tipo nuovo tra i lavoratori, e si propone come uno strumento per mantenere e sviluppare l’unità del partito e il suo collegamento con la classe operaia.
In questo senso, anche se la formulazione organica dei principi del centralismo democratico è dovuta a Lenin, l’affermazione della necessità di nuove forme di organizzazione dei lavoratori è largamente presente anche nella storia precedente il marxismo. Limitandoci al problema del centralismo democratico così come esso fu affrontato dai partiti comunisti occorre anzitutto analizzare il rapporto tra democrazia e centralismo.
Il punto di partenza è che, contrariamente a quanto potrebbe sembrare, non può esservi un vero centralismo senza un grande sviluppo della discussione, della critica, dell’intervento diretto delle masse nella definizione dei compiti del partito, e, in generale, della democrazia. Al tempo stesso la democrazia acquista il suo vero significato, dal punto di vista marxista, solo se essa non è ristretta a una semplice «libertà di critica» astratta, ma se è un reale confronto costruttivo, inserito in un programma di attività e trasformazione rivoluzionaria. In altri termini, senza una centralizzazione, un impegno attivo degli organismi dirigenti nell’indirizzare la discussione verso la risoluzione dei problemi concreti della lotta di classe la «democrazia» si ridurrebbe a uno sterile rito formale.
Questa funzione degli organismi dirigenti deriva dal fatto che la formazione dei quadri (vedi) e la loro promozione avviene in seguito alla loro capacità di sapersi legare alle esigenze delle masse e alla loro fermezza nel condurre la lotta di classe. Il centralismo non è dunque semplice accentramento, dovuto a motivi esclusivamente pratici di difesa dell’organizzazione, ma è la condizione stessa affinché si verifichi all’interno del partito la democrazia socialista (vedi). Infatti il centralismo democratico realizza all’interno del partito il principio generale della priorità delle esigenze di classe su quelle individuali, non nel senso che queste ultime debbano essere sacrificate, ma nella consapevolezza che non possono essere soddisfatte individualisticamente ma solo in seguito al progresso delle condizioni storiche di tutta la classe.
La formazione di correnti, e a maggior ragione il frazionismo (vedi), vengono negati per principio – e di conseguenza nelle scelte organizzative – appunto perché sono una manifestazione delle tendenze a premettere gli interessi di singoli individui o di piccoli gruppi ai più vasti interessi di tutto il partito, in quanto rappresentante della classe. Analogamente, qualora si verifichino delle divergenze, la minoranza deve accogliere e applicare risolutamente le decisioni della maggioranza, fermo restando il principio che le decisioni prese possono essere rimesse in discussione, a condizione che ciò non pregiudichi l’attività del partito. Da questo punto di vista possono essere comprese anche quelle formulazioni dei principi del centralismo democratico che, se considerate indipendentemente dalla valutazione dell’importanza storica che l’unità politica e organizzativa del partito della classe operaia ha sempre avuto, potrebbero apparire, da un punto di vista borghese, «antidemocratiche».
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Centralizzazione del capitale
È il processo attraverso il quale le singole imprese perdono la loro indipendenza operativa e sono ricondotte sotto un controllo centralizzato; le modalità variano a seconda della forma assunta dal centro direttivo e dal tipo di imprese che sono portate a dipendervi.
Il processo, noto anche con il nome di accentramento, non va confuso con quello di concentrazione del capitale (vedi) col quale ha tuttavia un fondamentale punto in comune: ambedue, infatti, sono favoriti dal sistema bancario e creditizio, conducono alla formazione di capitali di dimensioni sempre maggiori e costituiscono praticamente una tappa obbligata dello sviluppo del capitalismo monopolistico.
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Ceto
La parola si usa per indicare uno strato della popolazione che per una o più caratteristiche non può essere assegnato a una classe o che, all’interno di questa, si differenzia in modo particolare.
L’espressione ceti medi, largamente usata, si trova in varie opere di Marx e di Engels; così nel Manifesto è sottolineato che
«I ceti medi, il piccolo industriale, il piccolo negoziante, l’artigiano, il contadino, tutti costoro combattono la borghesia per salvare dalla rovina l’esistenza loro di ceti medi. Non sono dunque rivoluzionari, ma conservatori. Ancora più, essi sono reazionari, essi tentano di far girare all’indietro la ruota della storia» (Manifesto, p. 38).
Quando questi strati sono rivoluzionari il fatto non dipende da un punto di vista conseguente alla loro specifica posizione all’interno della società, ma dall’abbandono di questo in favore del punto di vista del proletariato.
Mutato il momento storico al quale potevano far riferimento Marx ed Engels, i ceti medi hanno mutato in una certa misura la loro fisionomia, ma conservato il tradizionale nucleo degli interessi storicamente e socialmente diversi da quelli della classe operaia. Attualmente è invalso l’uso di etichettare come ceti medi anche quegli strati di popolazione che dispongono di una forza-lavoro di alto livello qualitativo e soddisfano le esigenze tecnologiche e amministrative di ogni genere poste dall’attuale società; è questo il caso, per esempio, dei tecnici addetti alle industrie vere e proprie e alle attività collaterali nel campo del terziario (settore che comprende il commercio, la distribuzione, l’informazione, ecc.).
È ovvio che questi strati intermedi non sono registrabili sotto la voce ceto medio nel senso usato da Marx, ma pongono invece altri problemi (vedi Divisione del lavoro); la loro esistenza è utilizzata all’interno delle ideologie del neocapitalismo (vedi) per sostenere la tesi della progressiva riduzione della forza-lavoro operaia e conseguentemente il declino del ruolo storico della classe.
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Circolazione
a) Circolazione delle merci
Indica l’insieme dei movimenti di vendita e di acquisto di merci compiuti con l’uso del denaro. Nella sua forma più semplice consiste nella vendita di una merce da parte del suo produttore a un qualsiasi acquirente per una certa somma di denaro, con la quale vengono acquistate altre merci.
L’esempio classico è quello del contadino che porta al mercato i prodotti in eccedenza del suo lavoro, li vende a chi ne è interessato e con il denaro ricavatone compera abiti, attrezzi o altro. Questo processo di scambio della merce, tipico di una società nella fase della piccola produzione mercantile, è indicato da Marx nel 2° capitolo del libro I del Capitale con la formula
M-D-M
ossia merce–denaro–merce.
Se il contadino che vive in una società del tipo sopra indicato non ha speso tutto il denaro ricavato dalla vendita dei suoi prodotti nell’acquisto di altre merci, la differenza potrà servirgli o come risparmio (vedi Tesaurizzazione) o per nuovi acquisti in altra occasione.
L’intero ciclo si compie fra tre persone: il primo venditore di merce, l’acquirente in possesso del denaro (vedi), il secondo venditore di merce. Intermediario tra le due merci è il denaro che ha qui il ruolo di «mezzo di circolazione»; il movimento può essere riassunto nella proposizione: vendere per acquistare, e alla sua base si trova la necessità di utilizzare valori d’uso (vedi) che il singolo non può produrre. La circolazione delle merci nell’economia dominata dal capitale (vedi) non sussiste più nella semplice forma qui descritta se non entro limiti ristrettissimi e diventa anch’essa una parte del più generale processo del modo di produzione capitalistico.
b) Circolazione del denaro
In una società più avanzata rispetto alla precedente compare invece una nuova figura: quella del commerciante propriamente detto. Si differenzia dall’acquirente del ciclo M-D-M, che era a sua volta un piccolo produttore di merci in possesso del denaro ricavato dalla vendita dei propri prodotti, per il fatto che egli non solo possiede del denaro in quantità eccedenti alla soddisfazione dei propri fabbisogni, ma perché non compera per acquistare bensì per vendere, s’intende con profitto (vedi), cioè per aggiungere un plusvalore (vedi) alla somma spesa. La formula di Marx per indicare questo ciclo è
D-M-D'
ovvero denaro–merce–denaro.
Occorre qui osservare in primo luogo che D' è diverso da D: la quantità di denaro espressa da D' è maggiore della quantità espressa da D; la differenza tra D' e D costituisce il profitto conseguito dal commerciante.
In secondo luogo, mentre nella circolazione delle merci alla fine era il denaro a cambiare di mano due volte, qui è la merce che cambia di mano: il denaro ritorna, decresciuto, al punto di partenza; nel primo caso lo scopo finale era quello di consumare un valore d’uso, nel secondo quello di aumentare un capitale (vedi). Attraverso questa via si compie, fin dall’antichità, l’accumulazione (vedi) del capitale commerciale (vedi).
L’analisi marxiana della circolazione del denaro pone il problema essenziale dell’origine del plusvalore:
«La soluzione di questa questione costituisce il merito più grande dell’opera di Marx. Essa diffonde chiara luce solare su quel campo dell’economia, in cui i socialisti del passato, non meno degli economisti borghesi, brancolavano nella più fonda oscurità. Da essa prende inizio, in essa ha il suo centro il socialismo scientifico» (Engels, Antidühring, pp. 222-223).
c) Circolazione del capitale
Mentre la circolazione del denaro è un processo che si è svolto anche precedentemente al capitalismo moderno, tipica di questa fase è la circolazione del capitale, che può essere sintetizzata dalla stessa formula. Per il capitalista il valore originariamente anticipato per l’acquisto delle merci non solo si conserva, ma nella circolazione del capitale aumenta anche la propria grandezza di valore, ossia si valorizza, aggiungendo plusvalore (vedi). È appunto questa variazione che trasforma il denaro, nella circolazione, in capitale. La sfera della circolazione del capitale non esaurisce il problema della formazione del capitale, nella quale intervengono altri fattori che rinviano alle condizioni in cui viene prodotto il plusvalore.
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Città e campagna
Il complesso rapporto tra città e campagna e i modi della loro separazione operata dal capitalismo, attraverso la contraddizione fra industria e agricoltura, furono analizzati da Marx ed Engels con particolare impegno. «A fondamento di ogni divisione del lavoro sviluppata e mediata attraverso scambio di merci, è la separazione tra città e campagna». Dunque «l’intera storia economica della società si riassume nel movimento di questo antagonismo…».
Studiando il processo dell’accumulazione originaria (vedi), Marx analizzò i meccanismi attraverso cui il capitalismo (vedi) opera la frattura tra città e campagna e indicò la base economica di questo processo nello sfruttamento della campagna da parte della città, nell’espropriazione dei produttori rurali e dei contadini, e nella loro espulsione dalle terre. Con la separazione del produttore dai suoi mezzi di produzione (vedi), attraverso la duplice condizione di esistenza da una parte di proprietari di denaro e di mezzi di produzione e dall’altra di operai liberi, venditori della propria forza-lavoro (vedi), la mano d’opera sovrabbondante espulsa dalle campagne va a costituire l’esercito di riserva dei lavoratori salariati a disposizione dell’industria capitalistica. Al tempo stesso il flusso verso le città e la tendenza della popolazione rurale a diventare proletariato (vedi) urbano, presuppone nelle stesse campagne, attraverso la distruzione della piccola proprietà e la diffusione della grande proprietà fondiaria, la sovrabbondanza della forza-lavoro e la tendenza al pauperismo (vedi). Così Marx schematizza il processo:
«Il furto dei beni ecclesiastici, l’alienazione fraudolenta dei beni dello Stato, il furto della proprietà comune, la trasformazione usurpatoria, compiuta con un terrorismo senza scrupoli, della proprietà feudale e della proprietà dei clan in proprietà privata moderna: ecco altrettanti metodi idillici dell’accumulazione originaria. Questi metodi conquistarono il campo dell’agricoltura capitalistica, incorporarono la terra al capitale e crearono all’industria delle città la necessaria fornitura di proletariato eslege» (Il Capitale, libro I, p. 796).
In sintesi il processo di separazione tra città e campagna nel modo di produzione capitalistico (vedi) ha due caratteristiche principali: da una parte la formazione di un proletariato industriale urbano, a scapito dei ceti (vedi) contadini immiseriti e assoggettati alla rendita fondiaria (vedi), dall’altra la rapida crescita dell’industria, contrapposta a un’estrema lentezza dell’agricoltura. Liberandola dai vincoli feudali e inserendola nello sviluppo industriale e commerciale, il capitale non ha affatto composto la frattura fra industria e agricoltura, che anzi è stata estesa sia dal punto di vista dello sviluppo tecnologico sia con la distruzione della produzione artigianale e del commercio locale. Così
«L’agricoltura diventa sempre più una semplice branca dell’industria ed è completamente dominata dal capitale. Lo stesso dicasi della rendita fondiaria… La rendita fondiaria non può essere intesa senza il capitale, ma il capitale può ben essere inteso senza la rendita fondiaria. Il capitale è la potenza economica della società borghese che domina tutto. Esso deve costituire il punto di partenza così come il punto di arrivo, e deve essere trattato prima della proprietà fondiaria» (Marx, Introduzione a Per la critica dell’economia politica, p. 195).
E ancora:
«... la grande proprietà fondiaria riduce la popolazione agricola ad un minimo continuamente decrescente e le contrappone una popolazione industriale continuamente crescente e concentrata nelle grandi città; essa genera così le condizioni che provocano una incolmabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita» (Il Capitale, libro 111, p. 926).
Così come l’industria sfrutta e rovina la forza-lavoro umana salariata, la proprietà fondiaria e l’agricoltura minano la forza-lavoro laddove essa si presenta come fondo di riserva naturale, nelle campagne, depauperizzando la terra e fornendo all’industria la propria mano d’opera. Fin qui gli effetti del capitalismo; ma Marx mette in rilievo anche l’altro aspetto del processo. Nell’agricoltura l’effetto rivoluzionario della grande industria abbatte i caratteri della vecchia società. «I bisogni sociali di rivolgimento e gli antagonismi sociali della campagna vengono in tal modo resi uguali a quelli della città». Il modo di produzione capitalistico rompe l’originaria società patriarcale, spezza i limiti dell’economia naturale e, se porta con sé l’oppressione e lo sfruttamento delle masse nelle campagne, corrompendole socialmente e moralmente, crea al tempo stesso le premesse materiali per una sintesi nuova, per l’unione cioè tra città e campagna, tra industria e agricoltura.
In altre parole con lo sviluppo della popolazione urbana che la produzione capitalistica accumula in grandi centri, vengono pure accumulate «le forze motrici storiche della società», cioè la classe operaia e i contadini. Se «…ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non solo nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo», nello stesso processo maturano le condizioni storiche per le quali la classe operaia, sulla base dell’alleanza fondamentale coi contadini, possa trasformare le radici dello sfruttamento sociale dell’uomo e della natura, attraverso la soppressione dell’antagonismo tra città e campagna, tra industria e agricoltura. È questo il compito storico che si presenta nella costruzione del socialismo. I grandi problemi della società contemporanea, da quello di uno sviluppo equilibrato tra industria e agricoltura, all’urbanizzazione e allo sfruttamento delle campagne, fino alla questione ecologica e della salvaguardia degli ambienti naturali, esigono risposte che si situano in un terreno radicalmente diverso da quello capitalistico.
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Classe
Dal latino classis che indicava il livello tributario, cioè il censo, dei cittadini secondo una scala di valori che vedeva gli «assidui» (o primi) al vertice e i «proletari» (aventi numerosa prole) al polo opposto.
Nel corso della storia questo termine ha assunto un carattere valutativo, designando la divisione dei cittadini in strati o gruppi omogenei sotto il profilo economico, ma anche sotto quello sociale: liberi e schiavi, patrizi e plebei, nobili e servi della gleba, ecc., ed è stato usato nelle più diverse accezioni, come sinonimo di «rango», di «ceto», di «ordine» e via dicendo.
Al di là delle diverse denominazioni, che sono legate al particolare momento storico a cui si riferiscono, queste classi presentano una caratteristica comune valida per ogni epoca: da un lato quelli che nel Manifesto sono definiti gli «oppressori», dall’altro gli «oppressi». Tuttavia la constatazione che la società è fondata sulla divisione in classi e sul conflitto esistente tra queste, non è una scoperta di Marx, come egli stesso afferma, né questa constatazione è di per se stessa rivoluzionaria: perché divenisse tale era necessario sia comprendere il legame diretto tra le classi e un dato modo di produzione (vedi) sia dimostrare che, con la fine del modo di produzione capitalistico, le classi erano destinate a scomparire. Infatti, mentre tutte le classi del passato hanno determinato conflitti tra loro, la borghesia e il proletariato, che sono le classi principali dell’attuale sistema di produzione, sono tra loro in rapporto antagonistico. Vale a dire che nel momento in cui il proletariato porta avanti i propri interessi all’interno di questo sistema, essendone in quanto forza-lavoro (vedi) prodotto e componente prima, ne determina la totale distruzione; e poiché alla proprietà privata dei mezzi di produzione sostituisce la proprietà comune, elimina anche le classi che sono a quella connesse.
È quindi evidente che le condizioni necessarie per la formazione della classe, secondo Marx, sono di ordine economico; esse possono però soltanto delimitare quella che viene definita dagli economisti e dai sociologi una «situazione di classe». Questa risulta dalla trasformazione della maggior parte dei membri della società in lavoratori, per i quali il capitalismo ha creato una situazione comune. Conseguentemente esistono interessi comuni all’intera classe diversi e contrapposti a quelli di altre classi.
«Nella misura in cui milioni di famiglie vivono in condizioni economiche tali che distinguono il loro modo di vita, i loro interessi, e la loro cultura da quella di altre classi e li contrappongono ad essi in modo ostile essi formano una classe» (Marx, Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, p. 111).
Tuttavia questo non basta ancora. Infatti, come accade tra i contadini piccoli proprietari,
«se esistono soltanto legami locali e l’identità dei loro interessi non crea tra di loro una comunità, una unione politica su scala nazionale e una organizzazione politica, essi non costituiscono una classe. Sono quindi incapaci di far valere i loro interessi nel loro proprio nome, sia attraverso un Parlamento, sia attraverso una Convenzione» (ivi).
Posizione economica, interesse di classe, organizzazione politica sono dunque i tre elementi costitutivi della classe, ma non ancora sufficienti a definirla in senso marxiano; infatti, complementare e inscindibile a questi è la consapevolezza del ruolo storico svolto o da svolgere, non solo per il passaggio da un modo di produzione all’altro, ma per «la costituzione di una nuova società».
Nelle prime fasi della sua storia il proletariato conduce una lotta spontanea, frammentaria e discontinua che non permette di cogliere la reale natura del capitalismo; è la fase in cui il proletariato è classe «di fronte al capitale», cioè una «classe in sé». Nel momento in cui si organizza, conduce una lotta politica, si appropria della teoria marxista e perviene alla comprensione dei rapporti di produzione, della lotta di classe, dei compiti del proletariato, allora diventa anche una classe «per se stessa» e acquisisce una coscienza di classe (vedi). Classe e lotta di classe sono concetti inscindibili e decisivi del marxismo: la classe non può esistere se non attraverso la sua lotta.
Ovviamente accanto alle classi «pure», borghesia e proletariato, operano nella società moderna altre classi, frazioni di classi, strati sociali, ceti, ecc. che sono in continua trasformazione. La divisione del lavoro (vedi) e la mobilità sociale facilitano lo sviluppo di nuovi gruppi e lo scomparire di altri, il passaggio degli individui da un gruppo all’altro, rendendo difficili delimitazioni nette; tutto ciò ha fornito lo spunto per considerare antiquati e inutilizzabili nel mondo contemporaneo i concetti di classe e di lotta di classe. Conclusioni di questo genere sono tipiche per esempio della sociologia (vedi) cresciuta all’interno dell’ideologia del neocapitalismo (vedi).
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Coesistenza pacifica
È l’insieme dei principi a cui si attengono i paesi socialisti nei rapporti con gli altri Stati. La formulazione generale dei principi della coesistenza pacifica è dovuta a Lenin, che per primo affrontò i problemi che si ponevano alla Russia – dopo la rivoluzione – nel rapporto con gli altri Stati, all’interno della questione più generale della guerra e della pace nell’epoca dell’imperialismo (vedi).
Il contenuto fondamentale della politica di coesistenza pacifica può essere riassunto nell’affermazione della possibilità per i paesi socialisti di stabilire normali relazioni internazionali con paesi a differente sistema sociale sulla base del mutuo rispetto per l’integrità e la sovranità territoriale, della reciproca non aggressione, della reciproca non interferenza negli affari interni, dell’uguaglianza e del mutuo beneficio.
In seguito allo sviluppo delle contraddizioni caratteristiche del capitalismo (vedi) e all’antagonismo tra le nazioni oppresse e i paesi imperialisti, la politica di coesistenza pacifica è stata diversamente interpretata dai diversi paesi socialisti, soprattutto dopo la divisione del movimento comunista internazionale caratterizzata dal contrasto russo-cinese. Secondo la concezione marxista i principi della coesistenza pacifica non devono condizionare gli interessi generali dell’internazionalismo proletario (vedi) e il sostegno alle lotte dei paesi del Terzo Mondo (vedi) contro l’imperialismo. Infatti la coesistenza pacifica tra gli Stati non implica la rinuncia alla lotta di classe e non è un semplice accorgimento diplomatico, ma anzi rappresenta lo strumento concreto attraverso il quale i paesi socialisti possono difendersi dalla tendenza alla guerra e all’aggressione che è caratteristica dell’imperialismo.
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Collettivismo
Socializzazione dei mezzi di produzione e della distribuzione. È il mezzo attraverso il quale si realizza il passaggio dalla proprietà privata a un tipo di proprietà collettiva.
La parola inoltre presuppone intrinsecamente la gestione collettiva dei mezzi di produzione e l’amministrazione comunitaria dei beni.
Il termine, di per sé, esprime solo la tendenza, l’obiettivo che intende perseguire: vi sono poi modi di interpretarne e realizzarne l’attuazione diversi tra loro a seconda che si consideri il socialismo, il comunismo, ecc.
Contrariamente alle teorie anarchiche che consideravano possibile il collettivismo anche all’interno dello Stato liberale, il marxismo non può prescinderne l’attuazione dal rovesciamento del sistema statale.
Il collettivismo infine è una forma tipica della società socialista. Secondo alcuni una forma di anticipazione del collettivismo è il cooperativismo nei regimi capitalistici, secondo altri invece il collettivismo non ha modo di esistere senza una trasformazione radicale dei rapporti di produzione e di distribuzione.
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Colonialismo
È la politica tendente a realizzare e mantenere il dominio economico, politico, culturale e militare da parte di una nazione nei confronti di altri paesi. Secondo la concezione marxista il colonialismo è determinato da esigenze di sviluppo economico e assume caratteristiche diverse in relazione al modo di produzione dominante nel paese «colonizzatore».
In particolare il colonialismo, che pure era sempre esistito – anche se in forme diverse – in seguito allo sviluppo del commercio e delle vie di comunicazione che misero in contatto nazioni potenti ed economicamente sviluppate e paesi ricchi di materie prime ma meno sviluppati economicamente e militarmente, con lo sviluppo del capitalismo (vedi) divenne una necessità economica per le classi dominanti dei paesi industrializzati. Infatti la necessità di realizzare sempre maggiori profitti investendo i capitali in aree non ancora economicamente sviluppate e la formazione del capitalismo monopolistico (vedi) portarono alla nascita del colonialismo imperialistico moderno (vedi Imperialismo).
Questo tipo di colonialismo, a differenza del precedente «colonialismo mercantile», fondato cioè sull’importazione di materie prime dalle colonie alla «madre patria» e sull’esportazione dei prodotti finiti nelle colonie, che fu largamente diffuso fino alla metà del XIX secolo, fu caratterizzato dalla creazione di «zone di influenza», sottoposte al dominio politico, economico e militare dei diversi paesi imperialistici, in cui lo sviluppo delle nazioni colonizzate era rigidamente imposto e determinato dalle esigenze economiche dei paesi industrializzati. Lo scontro tra i paesi «ricchi» dell’Europa per la spartizione delle «zone di influenza» fu una delle cause che determinarono lo scoppio della prima guerra mondiale (vedi Neocolonialismo).
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Composizione organica del capitale
È, secondo l’espressione di Marx, «…la composizione del valore del capitale in quanto sia determinata dalla sua composizione tecnica e in quanto rispecchi le variazioni di questa». La composizione del valore del capitale è la proporzione tra capitale costante (valore dei mezzi di produzione) e capitale variabile (valore della forza lavoro, somma complessiva dei salari). La composizione tecnica è il rapporto tra la massa dei mezzi di produzione usati e la quantità di lavoro necessaria per il loro uso. La composizione tecnica è in stretto rapporto con il processo materiale di produzione in cui il capitale è impiegato, e il rapporto che la esprime aumenta proporzionalmente allo sviluppo delle tecniche di produzione.
Marx analizzò uno dei fenomeni caratteristici del modo di produzione capitalistico, l’uso di macchinari sempre più costosi e raffinati e la tendenza all’utilizzazione di una minore quantità di forza-lavoro per produrre la stessa quantità di merci, in rapporto al saggio del profitto (vedi) del capitale, che è strettamente collegato alla composizione organica.
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Comunismo
È la società senza classi. Il comunismo, nella sua forma primitiva, fu l’organizzazione sociale tipica delle prime comunità umane, dove il processo di divisione sociale del lavoro (vedi) era ancora in una fase del tutto naturale, e i mezzi di produzione erano limitati alle sole mani o a strumenti semplicissimi. In questo periodo storico, secondo il marxismo, gli uomini erano nella condizione della più completa dipendenza dalla natura e mancanza di libertà (vedi Libertà e necessità). Tuttavia in questo tipo di società mancava anche quel fenomeno caratteristico di tutte le società che da allora l’umanità ha conosciuto, cioè l’oppressione e lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
Anche per questo, dal momento della dissoluzione del comunismo primitivo si è manifestata nelle classi oppresse, sia pure in forme estremamente diverse, l’aspirazione alla realizzazione del comunismo. Secondo il marxismo queste aspirazioni possono concretizzarsi solo a condizione che esista una classe che, per la funzione che svolge all’interno della produzione, sia in grado di eliminare radicalmente e definitivamente le differenze di classe. Le condizioni per la nascita di questa classe si sono verificate soltanto con lo sviluppo del capitalismo industriale moderno.
«I primi tentativi fatti dal proletariato per far valere direttamente il suo proprio interesse di classe in un tempo di fermento generale, nel periodo del rovesciamento della società feudale, dovevano di necessità fallire, sia per il difetto di sviluppo del proletariato, sia per la mancanza di quelle condizioni materiali della sua emancipazione, le quali non possono essere che il prodotto dell’epoca borghese.
La letteratura rivoluzionaria che accompagnò questi primi moti del proletariato è, per il suo contenuto, necessariamente reazionaria. Essa insegna un ascetismo universale e una rozza tendenza a tutto uguagliare» (Manifesto, pp. 62-63).
Questo comunismo ancora «rozzo e materiale» non era in generale che «l’espressione conseguente della proprietà privata» e al pari di questa era negazione della personalità umana come è evidente nella pretesa della «comunanza delle donne» il cui unico risultato avrebbe potuto essere soltanto quello di «un rapporto di prostituzione generale con la comunità». Si trattava in sostanza di cupidigia per la proprietà privata più ricca, espressa «sotto forma di invidia e di tendenza al livellamento», nelle forme stesse, dunque, che costituiscono la natura della concorrenza. Il comunismo rozzo è perciò «il compimento di questa invidia e di questo livellamento, la negazione astratta dell’intero mondo della cultura e della civiltà», l’assurdo ritorno alla condizione dell’uomo primitivo.
Dalla critica delle teorie del socialismo e comunismo critico-utopistici, ben diversi dal comunismo rozzo, dell’economia politica inglese e della filosofia classica tedesca (cfr. Lenin, Tre fonti e tre parti integranti del marxismo) Marx ed Engels svilupparono la concezione scientifica del comunismo, che afferma la necessità e la possibilità della sua realizzazione, in base allo studio delle leggi di sviluppo del capitalismo. Marx distinse due fasi del comunismo: una prima fase sviluppata sull’«espropriazione degli espropriatori» o «stato della necessità» in cui a ciascuno è dato secondo il suo lavoro (vedi Socialismo) e una seconda fase, «stato della libertà», in cui a ciascuno è dato secondo i suoi bisogni. Lenin a questo proposito, nell’affrontare il problema della «fase superiore della società comunista», nel suo libro Stato e Rivoluzione scritto nel settembre del 1917, riporta a pagina 106 un passo della Critica del programma di Gotha di Marx:
«…In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione asservitrice degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e fisico; dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo onnilaterale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti della ricchezza collettiva scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni!».
Un problema centrale, secondo la concezione marxista, per la realizzazione del comunismo è quello di riuscire a determinare nella prima fase le condizioni per la progressiva estinzione dello Stato (vedi). La stessa formulazione del problema fa riferimento, nell’analisi marxista, non alla «distruzione» dello Stato socialista ma alla sua progressiva perdita di funzioni, al cessare delle condizioni storiche ed economiche che ne giustificano l’esistenza.
«Soltanto allora [nella società comunista] diventa possibile e si attua una democrazia realmente completa, realmente senza alcuna eccezione. Soltanto allora la democrazia comincia ad estinguersi, per la semplice ragione che, liberati dalla schiavitù capitalistica, dagli innumerevoli errori, barbarie, assurdità, ignominie dello sfruttamento capitalistico, gli uomini si abituano a poco a poco a osservare le regole elementari della convivenza sociale, da tutti conosciute da secoli, ripetute da millenni in tutti i comandamenti, a osservarle senza violenza, senza costrizione, senza sottomissione, senza quello speciale apparato di costrizione che si chiama Stato» (ivi, p. 99).
Il riferimento all’abitudine non è dovuto alla ovvia difficoltà nello stabilire esattamente quali saranno, nei minimi particolari, i caratteri del comunismo, ma è un tratto distintivo della concezione marxista del comunismo nei confronti di interpretazioni utopistiche (vedi Anarchismo, Socialismo) dello stesso. Infatti l’abitudine all’autogoverno – in altri passi si fa riferimento al costume – fa parte di quel processo generale di riappropriazione da parte dell’uomo della propria coscienza sociale, che può avvenire solo a patto che vengano eliminate le condizioni materiali del prodursi dell’alienazione (vedi).
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Concentrazione del capitale
Processo mediante il quale i mezzi di produzione tendono a essere controllati da pochi «grandi» capitalisti, i quali vengono così a trovarsi nelle condizioni di poter influenzare in modo determinante la produzione e la distribuzione dei profitti. La specializzazione dei sistemi produttivi e le innovazioni tecnologiche sollecitate dalla concorrenza (vedi) sono la spinta all’aumento dei fondi a disposizione dei capitalisti, poiché sono le aziende più forti economicamente ad avere la possibilità di acquistare macchinari più efficienti e ad essere nelle migliori condizioni per un efficace andamento del processo di accumulazione (vedi).
Questo determina contemporaneamente la necessità di aumentare il volume dei mezzi di produzione a cui consegue un maggior profitto e l’impossibilità della sopravvivenza delle piccole imprese, che sono obbligate ad abbandonare il mercato e ad assoggettarsi o a lasciarsi incorporare dai grandi complessi. Ciò comporta la perdita di indipendenza del piccolo capitale: con la concentrazione del capitale, dice Marx, i capitalisti espropriano i capitalisti. La concentrazione del capitale, che non va confusa col processo di centralizzazione del capitale (vedi), è una delle tappe verso la formazione del capitale finanziario (vedi) e del capitalismo monopolistico (vedi).
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Concorrenza
È una tipica manifestazione delle contraddizioni (vedi) e delle tensioni antagonistiche che, nel modo capitalistico di produzione, si sviluppano in tutti gli ambiti della vita sociale ed economica. Può essere definita, in generale, secondo l’espressione di Hobbes, ripresa da Marx nella Critica alla filosofia hegeliana del diritto pubblico, come «lotta di tutti contro tutti». Le cause e la funzione di questa lotta sono state diversamente interpretate nelle teorie economiche precedenti o estranee all’analisi marxista del capitalismo. Vi fu una concezione, largamente diffusasi nella prima metà del secolo XIX, che considerava la concorrenza come uno stimolo allo sviluppo della produzione e del commercio (vedi Liberismo), e spesso tendeva a sottovalutarne gli effetti negativi e il processo di disgregazione sociale che questo fenomeno comporta.
L’analisi marxista del processo complessivo della produzione capitalistica mostra che la concorrenza viene necessariamente generata dalle modalità stesse di accumulazione (vedi) e riproduzione del capitale ed è in stretto rapporto con la tendenza alla diminuzione del saggio del profitto (vedi). Infatti questa lotta, che si manifesta – in gran parte indipendentemente dalla volontà singola di coloro che la conducono – come necessaria per la stessa sopravvivenza non solo tra i capitalisti, ma tra tutti i componenti della società, trae origine dall’insieme delle condizioni generali di produzione che il capitale determina per la sua continua autovalorizzazione. Secondo Marx
«…lo sviluppo della produzione capitalistica rende necessario un aumento continuo del capitale collocato in un’impresa industriale, e la concorrenza impone a ogni capitalista individuale le leggi immanenti del modo di produzione capitalistico come leggi coercitive esterne. Lo costringe ad espandere continuamente il suo capitale per mantenerlo, ed egli lo può espandere soltanto per mezzo dell’accumulazione progressiva» (Il Capitale, libro I, p. 648).
La concorrenza è, accanto al credito, un potente meccanismo del processo di centralizzazione del capitale (vedi); tuttavia il regime di concorrenza, nel modo di produzione capitalistico sviluppato, sfugge in un certo senso al controllo degli stessi detentori del potere economico e si presenta ad essi e a tutta la società come una forza incontrollabile che livella i profitti così come il consumo, e appare come condizione dello sviluppo in generale e non come risultato di un certo tipo di sviluppo.
In seguito alle gravi crisi (vedi) di sovrapproduzione (vedi) e in particolare a fenomeni di sovrapproduzione cronica generale provocati dagli squilibri caratteristici di una prima fase dello sviluppo del capitalismo, detta anche di libera concorrenza, si verificarono dei tentativi di superare almeno nelle sue manifestazioni più evidenti i guasti provocati dallo sviluppo indiscriminato della concorrenza attraverso l’organizzazione di cartelli (vedi) e monopoli (vedi).
Tuttavia, secondo l’analisi marxista, la concorrenza e gli squilibri che essa genera si riproducono nel capitalismo monopolistico in forma ulteriormente aggravata e la scomparsa di questa lotta può avvenire soltanto attraverso il passaggio a un’organizzazione socialista della produzione (vedi Socialismo).
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Concreto e astratto
Nell’opera di Marx tale rapporto acquista un significato specifico nella critica dell’economia politica borghese (vedi) e nell’analisi dei modelli teorici adatti alla comprensione scientifica della società capitalistica e dei suoi meccanismi.
In particolare nella Introduzione alla critica dell’economia politica del 1857 Marx presenta i criteri generali di metodo seguiti nella sua opera. Il punto di partenza è la negazione dell’affermazione secondo la quale il metodo dell’indagine scientifica procede, nella conoscenza e riproduzione del reale, dal dato di fatto, dal concreto empirico. Per Marx è ben vero che il pensiero procede dal reale, attraverso l’intuizione e la rappresentazione sensibile, ma la realtà nella sua concretezza non deve confondersi con quel concreto del pensiero che appare appunto come prodotto di un procedimento che necessariamente muove da una razionale astrazione degli elementi che costituiscono il reale.
«Il concreto è concreto perché è sintesi di molte determinazioni, quindi, unità del molteplice. Per questo esso appare nel pensiero come processo di sintesi, come risultato e non come punto di partenza, sebbene esso sia il punto di partenza effettivo e perciò anche il punto di partenza dell’intuizione e della rappresentazione» (Marx, Introduzione a per la critica dell’economia politica, p. 38).
Marx quindi rivaluta, contro l’empirismo, l’uso dell’astrazione. Le scienze non hanno come punto di partenza del proprio procedimento la realtà così come essa si presenta nella sua immediatezza, ma partono invece astraendo da questa i suoi elementi costitutivi, per poi riprodurla nella teoria, proprio mettendone in luce i nessi, le priorità, i processi. La critica di Marx però si rivolge al tempo stesso al procedimento idealistico, in particolare di Hegel, per cui il processo di astrazione del pensiero giunge a identificarsi con la formazione del reale stesso. Ciò conduce all’illecita estensione del procedimento per cui la produzione dell’astrazione diventa proprio la produzione della realtà e non invece l’adeguamento delle scienze alle strutture reali oggettive. Quindi Marx afferma:
«... il metodo di salire dall’astratto al concreto è solo il modo in cui il pensiero si appropria il concreto, lo riproduce come un che di spiritualmente concreto. Ma mai e poi mai il processo di formazione del concreto stesso» (ivi, p. 38).
Ecco quindi che le osservazioni di Marx sulla dialettica (vedi) che si svolge tra astratto e concreto nel procedimento del pensiero acquistano un significato fondamentale. Da una parte la realtà nella sua concretezza viene mantenuta come presupposto oggettivo e materiale della conoscenza, cioè «continua a sussistere tanto prima che dopo nella sua indipendenza, fuori del pensiero», ma al con tempo diviene fondamento di un processo conoscitivo che, partendo dall’astrazione degli elementi del reale, giunge a produrre nel pensiero un proprio oggetto. In altre parole il riconoscimento oggettivo del reale porta a riconoscere il carattere concreto e determinato anche dei processi di astrazione e dei modi della conoscenza teorica, a concepire «l’attività umana stessa come attività oggettiva». Da qui la necessità di integrare la funzione positiva dell’astrazione con gli elementi storicamente determinati dello sviluppo del reale. Solo così si può arrivare a una visione della totalità che non commetta l’errore di sovrapporre la rappresentazione logica del reale e il reale stesso, e che riconosca nel sapere un carattere storico e pratico. Alla concretezza nell’indagine scientifica non si arriva attraverso la negazione di ogni livello di astrazione teorica: ciò porta non già alla comprensione del reale, ma al contrario all’empirismo vuoto di pensiero. Così il richiamo a una presunta analisi concreta che dimentica l’importanza della teoria (vedi) non significa la comprensione reale dei problemi concreti, quanto piuttosto il loro misconoscimento attraverso un piatto adeguamento a ciò che esiste. Non inserire una situazione concreta nel quadro complessivo teorico che ne può indicare le condizioni, i limiti, i modi del suo sviluppo, non vuol dire comprendere la realtà per ciò che è, bensì accettarne i presupposti, senza prefigurarne il superamento.
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Contraddizione
Indica l’esistenza di elementi incompatibili o comunque contrastanti all’interno di un pensiero, di un fenomeno, di una qualsiasi situazione concreta; nelle opere di autori marxisti si parla con frequenza di contraddizioni esistenti a ogni livello e in ogni campo di indagine e ciò dipende dal modo dialettico, proprio del marxismo, di affrontare i più diversi argomenti (vedi Dialettica).
Osserva Engels che se «consideriamo le cose in stato di riposo e prive di vita, ciascuna per sé, l’una accanto all’altra, l’una dopo l’altra, è certo che in esse non incontreremo nessuna contraddizione»; il modo di pensare «metafisico» è allora adatto alla conoscenza di quelle cose proprio perché di loro non interessano antro che notizie frammentarie, isolate dall’insieme e senza connessioni reciproche. «Ma è invece tutt’altra cosa allorché consideriamo le cose nel loro movimento, nel loro cambiamento, nella loro vita, nella loro azione reciproca. Qui cadiamo subito in contraddizioni».
Ogni forma di sviluppo, di trasformazione, di moto si svolge dunque sotto il segno della contraddizione: per non vederla occorre un atteggiamento preconcetto che immagini la realtà come immobile ed eterna e che non voglia considerare questa nella sua complessa mutevolezza. Il cambiamento è infatti il prodotto delle contraddizioni di ciò che cambia, la loro dissoluzione e l’apertura di una nuova fase che ha superato le contraddizioni precedenti e ne pone di nuove e di diverse: tanto nelle piccole quanto nelle grandi cose, tanto nei fenomeni naturali quanto nelle vicende della storia, nei processi che si svolgono nella mente dell’uomo come in quelli che si verificano nella sfera dell’economia.
Esempi classici di contraddizioni studiati attentamente in seno al marxismo sono quelli tra la forma sociale della produzione e la proprietà privata dei mezzi per attuarla, tra valore d’uso e valore di scambio della merce (vedi), tra città e campagna (vedi), ecc.
La consapevolezza della contraddizione e il suo studio nelle specifiche situazioni non è soltanto uno degli strumenti di conoscenza che hanno permesso la fondazione dell’analisi marxista della storia e della società, ma anche uno dei modi pratici per evitare giudizi superficiali o schematici sulle questioni relative alla lotta politica. In questo campo l’opera di Lenin è stata veramente rilevante: per esempio nel denunciare la tendenza a pensare il nemico di classe come un blocco omogeneo e compatto, libero da contraddizioni interne utilizzabili per la sua sconfitta.
Sul significato della contraddizione esiste anche uno scritto di Mao-Tsetung che ha sollevato nei tempi recenti notevole interesse (vedi Maoismo).
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Controrivoluzione
Ogni attività tendente a soffocare un processo rivoluzionario. L’esperienza storica e politica indica come la lotta della classe operaia e l’avanzamento del processo rivoluzionario si accompagnino sempre a spinte opposte da parte della borghesia e delle forze reazionarie. In particolare in quei paesi dove la lotta per il socialismo ha portato la classe operaia al potere, i tentativi controrivoluzionari operati dai settori della borghesia sconfitta e delle forze imperialistiche costituiscono la più grave minaccia, come già indicò Lenin, per la costruzione del socialismo e per lo sviluppo di una reale democrazia proletaria.
L’insegnamento che nel socialismo continuano a esistere le classi e la lotta di classe, e che da ciò deriva la necessità di promuovere la lotta di classe in ogni campo e all’interno stesso del partito, individuando le forme nuove attraverso le quali essa si sviluppa, costituisce la più valida indicazione per la sconfitta di ogni minaccia controrivoluzionaria.
Un esempio storico di tentativo controrivoluzionario è quello messo in atto in Russia, a partire dal 1917, da varie formazioni politiche reazionarie che contrastarono in ogni modo, compreso quello militare, l’affermarsi del potere sovietico, trascinando il paese in una lunga guerra civile.
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Cooperativismo
È la tendenza alla creazione di associazioni di produttori (cooperative di produzione) o di consumatori (cooperative di consumo) che determinino forme di collaborazione e di controllo nella produzione o distribuzione delle merci. Le condizioni per il sorgere di una forte tendenza alla formazione di cooperative sono determinate in primo luogo dal carattere sociale della produzione in generale, che è una delle caratteristiche fondamentali del capitalismo (vedi).
La nascita di un vero e proprio movimento cooperativo avvenne solo in seguito alla comprensione da parte degli stessi produttori e consumatori della necessità di attribuire alla cooperazione finalità diverse da quelle di un semplice aumento della produttività o di un semplice aumento delle possibilità di consumo. Il cooperativismo sorse infatti, dapprima nel consumo e in seguito si estese ai settori produttivi, quali l’agricoltura, come il tentativo di contrastare le tendenze alla disgregazione e alla concorrenza (vedi) tra gli stessi produttori e consumatori, che pure sono determinate dalle leggi generali di sviluppo del capitalismo. Per questo motivo il movimento operaio, nel corso della sua storia, ha sempre più cercato di ampliare le basi del movimento cooperativo, che nel secolo XX ha assunto dimensioni notevoli, tali da incidere in misura rilevante nel processo complessivo della produzione e della distribuzione. Lenin attribuì un’importanza notevolissima alle cooperative considerandole come elementi fondamentali per la stessa edificazione del socialismo, anche perché possono svolgere, qualora siano impostate secondo principi che tendono a realizzare «una battaglia per l’inventario e il controllo popolare», una funzione educativa e di abitudine alla collaborazione cosciente che è uno dei presupposti per la realizzazione del socialismo.
Tuttavia, nel capitalismo, oltre al manifestarsi di tendenze che contrastano direttamente lo sviluppo del cooperativismo, come la stessa crescente centralizzazione e accumulazione (vedi) del capitale che pone nelle mani di pochi capitalisti tutto il potere decisionale per quanto riguarda la produzione e la distribuzione delle merci, si verificano spesso fenomeni involutivi, interni allo stesso movimento cooperativo, che tendono a integrare le cooperative nel quadro generale delle esigenze di sviluppo del capitale, privandole della loro funzione storica e riducendole a semplici associazioni assistenziali.
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Cooperazione
Il termine compare ne L’Ideologia tedesca per indicare molto generalmente il carattere collettivo della produzione e la conseguente ripartizione delle mansioni al suo interno; in questo primo significato è strettamente connesso con il concetto di divisione del lavoro (vedi).
Nel Capitale il termine viene ad assumere un significato molto più preciso, che Marx illustra in questa definizione:
«la forma del lavoro di molte persone che lavorano l’una accanto all’altra e l’una assieme all’altra secondo un piano in uno stesso processo di produzione o in processi di produzione differenti ma connessi si chiama cooperazione» (Il Capitale, libro I, p. 367).
Come si vede sono in tal modo descritte le condizioni necessarie per l’esecuzione di un lavoro (vedi) da parte di più persone, cioè per un lavoro «combinato» costituito dalle prestazioni organizzate di più operai.
Il riferimento al processo di produzione compiuto in una fabbrica appare evidente; qui «il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dal mezzo di lavoro stesso».
La cooperazione come viene descritta da Marx è dunque un fatto ben diverso da quello cui ci si riferisce nel linguaggio comune che utilizza il termine in stretto rapporto col movimento delle cooperative o cooperativismo (vedi); in un caso è una situazione tecnico-organizzativa presente in ogni industria moderna, nell’altro una forma di lavoro associato che tende a sottrarsi al dominio del capitale.
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Corporativismo
Dottrina fondata sull’intervento diretto dello Stato nella repressione della lotta di classe; la parola deriva da corporazione, libera associazione professionale e di mestiere, operante fin dai tempi dell’antichità romana. Le corporazioni svolsero per molto tempo un ruolo altamente positivo nello sviluppo della società, ma già a partire dal XVIII secolo cominciarono a rivelarsi istituzioni antiquate, ostacolanti lo sviluppo economico tanto che nel 1791 in Francia (legge Chapelier) e nel 1799 in Inghilterra (Combination Laws) dovettero essere soppresse per le difficoltà che frapponevano al nuovo modo di produzione.
L’espansione del capitalismo industriale non mancò di suscitare rimpianti per il mondo preindustriale o, come fu anche chiamato, per la «società organica»; la vecchia idea della corporazione fu rielaborata e divenne alla fine dell’800 il nucleo della neonata dottrina sociale dei cattolici tendente a ricercare una via di mezzo tra le esigenze del capitalismo liberale e l’incalzare del socialismo classista. Il tentativo fallì completamente in quanto nonostante la vernice democratica che prevedeva, tra l’altro, l’elezione diretta dei dirigenti delle varie categorie produttive, la credibilità di un’operazione diretta a separare la lotta di classe in due componenti rigorosamente distinte, una interna all’impresa capitalistica e l’altra sul terreno dello Stato e delle istituzioni, si rivelò pressoché nulla.
Mentre i cattolici rinunciavano all’idea corporativistica nuove forze politiche se ne impadronivano: in Italia, nazionalisti prima e fascisti poi; le remore democratiche spariscono e il sistema corporativo viene immaginato come un organismo rigidamente strutturato secondo criteri gerarchici e burocratici sotto il controllo e la direzione dello Stato autoritario. Di fatto, come è ben noto, il fascismo eliminò le libertà sindacali, impose un unico sindacato per i lavoratori ma lo mantenne distinto dalle organizzazioni degli imprenditori facendone in pratica uno strumento per bloccare qualsiasi rivendicazione.
Logico risultato di atteggiamenti interclassisti, il corporativismo è, come si è detto, un modo per contenere la lotta di classe a tutto vantaggio della classe al potere e, nelle sue forme meno brutali, pretende di sostituire la conflittualità sul piano economico con la solidarietà tra coloro che fanno lo stesso tipo di lavoro, la lotta di classe con qualche armonica composizione dettata dall’alto, lo scontro ideologico con la comune fede nella superiore essenza dello Stato.
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Coscienza di classe
Il concetto di coscienza di classe non è separabile da quello di classe (vedi) e di lotta di classe, e ciò per la centralità del nesso teoria-prassi in tutto il pensiero marxiano e nel marxismo posteriore. Infatti, secondo Marx, nel momento in cui la divisione sociale del lavoro produce la sua forma estrema, cioè la divisione tra lavoro materiale e lavoro spirituale «… la coscienza può realmente figurarsi di essere qualcosa di diverso dalla coscienza della prassi esistente, concepire realmente qualche cosa, senza concepire alcunché di reale».
Gli elementi che concorrono alla formazione di una classe, primo la situazione economica come dato della classe in sé, quindi l’organizzazione politica e la consapevolezza della propria funzione storica, come dati della classe per sé, possono essere messi in relazione con fasi formative della coscienza di classe; il che non indica uno sviluppo graduale di questa nel tempo, anche se talvolta ciò può avvenire, ma il modo di porsi della coscienza nella storia. Né d’altro canto questa coscienza è riducibile al semplice dato di una psicologia collettiva; non si tratta cioè, nel caso del proletariato, della somma delle idee che i singoli lavoratori sviluppano sulle loro specifiche condizioni, ma della consapevolezza che il contrasto degli interessi sul piano economico e quindi sul piano sociale è lotta politica, lotta di classe organizzata per la soppressione degli attuali rapporti di dominio. Per usare le parole di Marx:
«Ciò che conta è che cosa esso [il proletariato] è e che cosa esso sarà costretto storicamente a fare in conformità a questo suo essere. Il suo fine e la sua azione storica sono indicati in modo chiaro, in modo irrevocabile, nella situazione della sua vita e in tutta l’organizzazione della società civile moderna» (La sacra famiglia, in Opere IV, p. 38).
Il rapporto coscienza-situazione di classe, che per il proletariato è in linea teorica il più semplice e immediato, assume in concreto una forma complessa; la struttura della società capitalistica appare infatti alla coscienza come una «pluralità» di cose singole, prive di relazioni. Tra queste la separazione della sfera economica dalla sfera politica si rivela come la più pericolosa dal punto di vista della lotta di classe: il soddisfacimento dei bisogni immediati come fine e non come mezzo della lotta, tipico di certi aspetti del revisionismo e latente in tutti i movimenti sindacali, porta la classe operaia a «dimenticare che essa lotta contro gli effetti, ma non contro le cause di quegli effetti; che essa applica soltanto dei palliativi, ma non cura la malattia».
Alla autentica coscienza di classe si impone invece il problema del legame che intercorre tra interesse immediato e scopo finale, che, nel caso del proletariato, è la fondazione della società senza classi, e quindi la necessità di condurre la lotta organizzata anche a livello politico; allora la sfera politica apparirà alla coscienza nella sua vera natura di espressione dei rapporti economici.
«La coscienza politica di classe può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il solo campo dal quale è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi» (Lenin, Che fare?, p. 115).
Secondo Lenin quindi questa coscienza, cioè la «coscienza politica socialista», non può essere raggiunta dalla classe operaia direttamente, ma si sviluppa con l’apporto della conoscenza della teoria rivoluzionaria, cioè del marxismo; intermediario fra la teoria e il movimento è il partito, che si presenta in una prima fase come il portatore dall’esterno della coscienza di classe e in una seconda fase come l’elaboratore della teoria stessa, che deriva in questo caso dalla riflessione diretta sulle lotte politiche, economiche e sociali.
La coscienza politica è infine per il proletariato coscienza del proprio ruolo storico, cioè della funzione rivoluzionaria che nell’ambito della storia umana esso è destinato ad assolvere. Il proletariato è infatti la
«classe che forma la maggioranza di tutti i membri della società e dalla quale prende le mosse la coscienza della necessità di una rivoluzione che vada al fondo, la coscienza comunista» (Marx, L’ideologia tedesca, in Opere V, p. 37).
In Lukács il concetto di coscienza di classe subisce un ulteriore allargamento; all’interno della società capitalistica la lotta sociale è vista come una lotta ideologica per «l’occultamento o il disvelamento» della base classista. La borghesia è costretta a mascherare attraverso l’ideologia (vedi) la sua reale funzione di classe dominante, mentre il proletariato in quanto classe che tende alla soppressione di tutte le classi, non ha bisogno di mascheramenti, è una coscienza «pura», perciò «… il destino della rivoluzione (e con esso quello dell’umanità) dipende dalla maturità ideologica del proletariato, dalla sua coscienza di classe».
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Cosmopolitismo
Nel linguaggio marxista viene solitamente preferito al termine cosmopolitismo quello di internazionalismo proletario (vedi) per sottolineare gli aspetti antinazionalisti della concezione marxista dei rapporti tra i popoli di diverse nazioni. intatti il significato di cosmopolitismo, di derivazione illuministica, viene piuttosto riferito a un ideale di superamento delle nazionalità indipendentemente dalla valutazione delle condizioni politiche, economiche e, in generale, storiche che possono determinarlo, mentre l’accezione internazionalismo proletario meglio si adegua agli obiettivi storici generali della classe operaia e, in ultima istanza, al superamento dei confini nazionali dovuto all’estinzione delle classi e dello Stato (vedi Comunismo).
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Costituzione
Il termine ha diversi significati: il più frequente è quello che si definisce «strumentale» e indica l’atto scritto, il documento che sanziona il complesso fondamentale delle norme giuridiche vigenti in uno Stato; in questo senso può essere sinonimo di Statuto. Nel suo significato «empirico» indica il modo di essere dello Stato nei suoi ordinamenti fondamentali: in questa accezione, la parola costituzione veniva già usata dai politici dell’Età Antica e del Medio Evo.
A tale termine si ricollegano anche le recenti teorie che fanno coincidere, almeno in parte, il concetto dell’ordinamento giuridico dello Stato con le istituzioni, intese come aspetto oggettivo della sua organizzazione. Il significato «materiale» del termine si riferisce al complesso delle norme giuridiche fondamentali, che formano l’ordinamento dello Stato. In questo senso, quindi, il termine equivale a «diritto costituzionale».
Come insieme delle norme giuridiche la costituzione registra, nel linguaggio che le è proprio, e sancisce, sotto la forma di norme statuali, le esigenze economiche e politiche delle classi dominanti, determinando le condizioni giuridiche per la conservazione della loro egemonia (vedi).
Le costituzioni inoltre, limitandosi alla enunciazione di principi, non contengono possibilità attive di assicurare che gli stessi siano operativi: è noto, ad esempio, come la dichiarazione che il cittadino è «uguale» di fronte alla legge, non significa che davanti a un giudice vengano realizzate di fatto le condizioni di uguaglianza dichiarate in linea di principio.
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Crisi economica
È il verificarsi di condizioni che determinano una perturbazione o la paralisi temporanea nel processo di produzione. Può investire il processo produttivo nel suo complesso o manifestarsi in un settore particolare dello stesso.
Già la scuola classica dell’economia politica (vedi) aveva individuato nelle crisi un fenomeno caratteristico del capitalismo (vedi). Tuttavia le cause che conducevano al verificarsi di crisi periodiche, la funzione che queste crisi assumevano nel quadro generale dello sviluppo del capitalismo restarono in gran parte sconosciute ai fondatori dell’economia politica. Marx affrontò il problema delle crisi conducendo sia una critica complessiva del modo di produzione capitalistico che la critica dell’economia politica classica. Secondo l’analisi marxista la crisi è il manifestarsi di un limite, di una contraddizione nel modo capitalistico di produrre, e al tempo stesso costituisce una parziale e temporanea soluzione degli squilibri e delle contraddizioni che lo sviluppo stesso del capitalismo comporta.
«La contraddizione, esposta in termini generali, consiste in questo: la produzione capitalistica racchiude una tendenza verso lo sviluppo assoluto delle forze produttive, indipendentemente dal valore e dal plusvalore in esso contenuto, indipendentemente anche dalle condizioni sociali nelle quali essa funziona; ma nello stesso tempo tale produzione ha come scopo la conservazione del valore-capitale esistente e la sua massima valorizzazione (vale a dire l’accrescimento accelerato di questo valore). Per la sua intrinseca natura essa tende a considerare il valore-capitale esistente come mezzo per la massima valorizzazione possibile di questo valore» (Il Capitale, libro III, p. 302).
L’enorme sviluppo delle forze produttive, caratteristico del capitalismo industriale, non è controllato e organizzato in relazione alle esigenze e agli effettivi bisogni della società, ma in seguito alle condizioni di valorizzazione del capitale. In conseguenza a ciò, a un determinato grado di sviluppo del processo di produzione, si verifica una sovrapproduzione (vedi) relativa di capitale, nella forma sia di mezzi di produzione che di merci, che non sono più in condizione di fornire plusvalore in una proporzione «adeguata» (cioè sempre maggiore) alle esigenze di sviluppo del capitale stesso. Descrivendo il limite del modo capitalistico di produzione Marx afferma:
«L’estensione o la riduzione della produzione non viene decisa in base al rapporto fra la produzione e i bisogni sociali, i bisogni di un’umanità socialmente sviluppata, ma in base all’appropriazione del lavoro non pagato e al rapporto fra questo lavoro non pagato e il lavoro oggettivato in generale o, per usare un’espressione capitalistica, in base al profitto e al rapporto fra questo profitto e il capitale impiegato, vale a dire in base al livello del saggio di profitto» (ivi, p. 312).
Analogamente lo sviluppo irrazionale di alcuni settori della produzione determina, quando vengono a cessare le condizioni di valorizzazione del capitale impiegato nei settori divenuti inutili – dal punto di vista capitalistico – in seguito a sovrapproduzione, una sovrappopolazione relativa, cioè un eccesso di offerta di forza-lavoro in quei settori. Le crisi sono, in generale, lo strumento attraverso il quale, nel modo capitalistico di produrre, viene ristabilito l’equilibrio tra capitale impiegato e profitto realizzato, attraverso la distruzione delle forze produttive che risultano in eccesso in seguito alla sovrapproduzione e alla sovrappopolazione relative. Nei «periodi» di crisi si verifica una generale restrizione dei consumi:
«Precisamente perché solo in questo nesso, specificamente capitalistico, il prodotto in eccesso riveste una forma tale che colui che lo possiede può metterlo a disposizione del consumo unicamente quando esso si riconverte per lui in capitale» (ivi, p. 311).
Restrizione che si accompagna all’espulsione dal processo produttivo di ingenti masse di lavoratori.
Le crisi, pur essendo collegate a questa contraddizione fondamentale tra carattere sociale della produzione e proprietà privata dei mezzi di produzione, hanno assunto, soprattutto nel XX secolo, caratteristiche alquanto diverse dalle crisi decennali di sovrapproduzione dell’Ottocento, in seguito allo sviluppo del capitalismo monopolistico (vedi) e dell’imperialismo (vedi), hanno avuto come «fattori scatenanti» anche motivi di carattere finanziario. Tuttavia, secondo l’analisi marxista, permangono le stesse motivazioni di fondo e gli stessi fenomeni speculativi, di concorrenza spietata e realizzazione di superprofitti, che erano immediatamente evidenti nelle crisi periodiche del 1800.
Gli Stati moderni sono in grado di utilizzare strumenti più efficaci di quelli impiegati nell’Ottocento per risolvere o tentare di risolvere le crisi economiche nella nostra epoca. Tra questi vi sono provvedimenti diventati ormai tradizionali, anche se di volta in volta vengono presentati con etichette diverse. Il primo consiste nell’aumento delle imposte indirette. Ciò produce, tra l’altro, un rialzo generale dei prezzi di vendita delle merci, che determina una diminuzione dei redditi reali, non già in rapporto al reddito complessivo, ma al reddito destinato all’acquisto dei beni che sono soggetti all’aumento di imposta. La conseguenza più ovvia che ne deriva è una riduzione del salario reale in quanto la parte maggiore dei salari è spesa nell’acquisto di tali beni. Invece l’aumento generalizzato dei prezzi dei generi di prima necessità non incide, se non in minima parte, sui redditi più alti.
Il secondo provvedimento è basato sull’emissione in eccesso di banconote, cioè su una politica inflazionistica controllata. I pagamenti con carta moneta svalutata producono, in generale, gli stessi effetti di rialzo dei prezzi e di riduzione del salario reale che si verificano con l’aumento delle imposte indirette. In entrambi i casi si tratta di provvedimenti che rafforzano lo Stato e le classi che questo rappresenta, indebolendo oggettivamente il movimento operaio, e aggravano le condizioni di vita dei lavoratori.
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Cultura
Questo termine è utilizzato in almeno tre significati diversi legati tra loro in vario modo.
1) Per indicare il patrimonio personale di conoscenze e di riflessioni sulle stesse, che nel loro insieme contribuiscono a formare la personalità dell’individuo. In questo caso il termine rinvia al livello di istruzione di una persona pur non volendo limitarsi a ciò. È esemplificabile da espressioni del tipo «persona di grande cultura», che indicano non soltanto la quantità di conoscenze ma anche le loro conseguenze sul piano del comportamento, del gusto, ecc.
2) Per indicare l’insieme delle conoscenze, delle opere, degli atteggiamenti critici e, talvolta, delle istituzioni relative a un dato campo delle attività creative (artistiche, scientifiche, ecc.) o a un loro periodo. Questo significato si trova in espressioni del tipo «cultura storica», «cultura matematica», «cultura classica», ecc., e in quelle del tipo «la cultura italiana del dopoguerra» e altre consimili.
«Cultura marxista» rientra solitamente in questo significato e intende riferirsi non solo agli studi e alle discussioni sul marxismo, ma anche al clima politico ed etico che le alimenta.
3) Per indicare tutte quelle attività – dalle tecniche di lavoro ai riti, dalle usanze generali alle istituzioni, dalle arti alle leggende – che contraddistinguono nel loro insieme una comunità umana. Questo si ritrova nelle espressioni del genere «la cultura dravidica», «la cultura degli Irochesi», ecc. A questo senso ci si riferisce quando, parlando del marxismo, si dice che è una trattazione critica della cultura di un’epoca.
Si è detto che questi tre significati della parola cultura, ai quali è possibile aggiungerne altri, con diverse sfumature, sono legati tra loro; il legame tra il primo e il secondo significato è evidente in quanto ambedue si riallacciano al livello di istruzione necessario per poter parlare di cultura in questo senso. Nel significato più corrente non si definisce «colta» una persona che non sia istruita né, d’altra parte, si parla di cultura storica senza le relative conoscenze che si acquisiscono soltanto attraverso lo studio. Infine questi due significati sono uniti anche dal segno positivo che li accomuna: contengono cioè un giudizio di valore (vedi) che manca invece nel terzo significato della parola. Qui la connessione con gli altri due è data dal comune rinvio a qualcosa di più del semplice elenco delle conoscenze raggiunte da un popolo cioè al loro riflettersi in usanze, atteggiamenti, schemi di comportamento; il sapere o la religione degli Irochesi, in altri termini, non vengono identificati con la loro cultura.
Queste distinzioni e affinità servono a comprendere il significato di espressioni come cultura «borghese», cultura «subalterna», ecc.
Nell’antichità esisteva una concezione aristocratica della cultura che prendeva atto dell’esistenza di una minoranza «colta» e di una maggioranza «incolta» e fissava per la prima un certo codice di comportamento che le persone colte, e non altri, erano tenute ad osservare. Nell’epoca del dominio della borghesia le cose cambiano e la cultura diventa un valore supremo al quale tutti, indiscriminatamente, sono tenuti a inchinarsi: la bellezza dell’anima, la libertà dello spirito, la fratellanza universale, la grandezza dell’arte diventano un regno autonomo distaccato dal mondo materiale e superiore alle sue miserie.
La contraddizione fondamentale della cultura borghese, al di là delle variazioni, delle preferenze e degli orientamenti, è data dall’esistenza accanto a questa sua pretesa di universalità che vincola tutti senza eccezione a riconoscere un superiore valore, dell’oppressione di grandi masse escluse di fatto dall’istruzione e dalle altre condizioni necessarie per accedere a questo mondo dei grandi valori. Essa riproduce fedelmente nello specifico ambito della cultura le contraddizioni di fondo di una classe che aveva promesso libertà, uguaglianza, benessere per tutti mentre la sua stessa esistenza poteva essere assicurata solo dalla loro negazione per i più.
Di questa riproduzione parla concisamente Marx in un celebre passo dell’Ideologia tedesca:
«Le idee della classe dominante sono in ogni epoca le idee dominanti; cioè, la classe che è la potenza materiale dominante della società è in pari tempo la sua potenza spirituale dominante. La classe che dispone dei mezzi della produzione materiale dispone con ciò, in pari tempo, dei mezzi della produzione intellettuale, cosicché ad essa in complesso sono assoggettate le idee di coloro ai quali mancano i mezzi della produzione intellettuale» (in Opere V, p. 44).
La cultura borghese compie al suo interno un processo di assolutizzazione uguale a quello che la borghesia ha compiuto sul suo ruolo storico: costruisce l’ ideologia (vedi) di sé stessa, spaccia per eterno ciò che è proprio di un periodo della storia e quindi transitorio; così come la borghesia scambia la fine del modo di produzione capitalistico per la fine di ogni produzione, essa pensa che la fine della sua cultura di classe sia la fine di ogni cultura.
La consapevolezza del carattere classista della cultura borghese è ben altra cosa del rifiuto dei prodotti intellettuali – le scienze, le arti, le attività creative di ogni genere – sui quali e attraverso i quali essa si è sviluppata; una cosa alla quale né Marx né Engels avevano mai neppure vagamente pensato, così come mai avrebbero potuto pensare che il grano non dovesse essere più coltivato perché intorno alla sua coltivazione era cresciuta l’economia agraria borghese. L’esistenza di questa cultura di classe nell’esercizio del suo dominio non giustifica quindi posizioni di rifiuto che sono semplicemente variazioni sul tema borghese della fine della cultura con la fine della borghesia.
Il problema che si pone è insieme quello della cultura subalterna e quello dell’appropriazione di prodotti della cultura dominante. Il primo non deve sollevare illusioni: la cultura del proletariato è una cultura subalterna fino a quando il proletariato resta una classe subalterna. Cosa significa in questo caso cultura subalterna? Significa che per motivi storici essa non ha potuto esprimere dal proprio seno una cultura capace di alimentare prodotti intellettuali o – come dice spesso Marx – spirituali di livello paragonabile a quelli della classe finora dominante.
Non bisogna confondere il marxismo in quanto teoria critica della società capitalistica divenuto poi «coscienza teorica» del proletariato con un prodotto della cultura di questa classe : queste idealizzazioni costituiscono una fuga dalla realtà che ha sempre effetti negativi. Scriveva Lenin in proposito:
«La cultura proletaria non è qualcosa che sbuchi fuori da chissà dove, non è un’invenzione di coloro che se ne dicono specialisti. La cultura proletaria deve consistere nello sviluppo sistematico di tutto il sapere che l’umanità ha elaborato» (I compiti delle associazioni giovanili, in Sulla gioventù e sulla scuola, p. 79).
Così dunque come si appropria dei mezzi di produzione materiale, il proletariato si appropria dei mezzi di produzione spirituale; la classe subalterna diventa, nella fase di passaggio alla società senza classi, classe dominante e la sua cultura segue lo stesso destino. Solo quando la «liberazione del genere umano» sarà compiuta, solo quando sarà abolita la divisione sociale del lavoro (vedi), allora non ci saranno più pittori «ma uomini che, tra l’altro, dipingono anche».
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Democratismo o democraticismo
Tendenza a privilegiare su ogni altro gli aspetti giuridico-formali della democrazia borghese (vedi). Da questo punto di vista il democratismo fu una caratteristica specifica dei partiti aderenti alla II Internazionale; in modo particolare la socialdemocrazia tedesca coltivò questa tendenza fino a negare ogni altra pratica politica che potesse in qualche modo contrastare il concetto puramente giuridico della democrazia, così come era astrattamente sancito dalle leggi dell’epoca.
Il democraticismo dei socialdemocratici tedeschi portò l’intero partito, con la sola eccezione dell’ala sinistra, non già a difendere la democrazia, ma a ricercare l’alleanza con i gruppi più reazionari per la repressione dei moti spartachisti del 1919 e per altre operazioni politiche che favorirono la crescita del nazismo; a una situazione assai simile condusse il democratismo dei socialdemocratici austriaci, dimostrando ancora una volta come questa tendenza non coincida affatto con la reale difesa della democrazia.
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Democrazia
Dall’accezione di origine greca secondo la quale democrazia significa «governo del popolo», oggi generalmente si indica con questo termine un regime in cui il popolo partecipa alla vita politica tramite l’elezione di propri rappresentanti.
La manifestazione della volontà popolare si compie attraverso l’esercizio del diritto di voto, che spetta a tutti i cittadini (suffragio universale) i quali, sia pure indirettamente, possono esercitare anche funzione di controllo sui propri eletti.
È inoltre tipica di un regime democratico la salvaguardia formale dei diritti fondamentali di voto, espressione, stampa ecc.
Storicamente troviamo in Grecia, in particolare nell’Atene dell’età di Pericle, i primi esempi di democrazia; il significato moderno del termine ha però origine dalla rivoluzione francese.
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Democrazia borghese
È la società e la corrispondente organizzazione statale affermatasi, nella sua forma classica, con la rivoluzione francese. Essa corrisponde ai rapporti economici imperniati sulla produzione e lo scambio delle merci e sulla compra-vendita della forza-lavoro. I rapporti giuridici quindi prevalenti in essa sono essenzialmente espressi nella forma dell’eguaglianza (vedi) e della possibilità per i produttori di essere «liberi» di vendere la propria capacità lavorativa in cambio del salario (vedi).
Questo tipo di Stato è, secondo il marxismo, lo strumento di coercizione e di potere di cui la borghesia si serve per realizzare e perpetuare le condizioni per l’accumulazione di capitale (vedi).
Una delle caratteristiche fondamentali della democrazia borghese è l’organizzazione parlamentare in cui risiedono i tre poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario. La dottrina della necessità che i poteri non siano più, come avveniva nei regimi e nelle monarchie assolute, emanazione diretta del potere del sovrano e indissolubili nella sua persona, ma siano distinti e provenienti dal popolo, è stata affermata, sia pure con caratteristiche diverse, dai più grandi pensatori che svilupparono la concezione borghese dello Stato.
La concezione classica espressa da Rousseau, detta anche democratica, che fu di fondamentale importanza per lo sviluppo della rivoluzione francese, sosteneva che la sovranità popolare è il momento effettivo in cui ha origine il potere dello Stato e che quindi, in essa, i poteri sono unificati: la distinzione avviene poi come delega elettiva e temporanea che il popolo affida ai suoi rappresentanti parlamentari.
L’altra concezione, detta liberale, espressa particolarmente da Locke e Montesquieu e che ha influenzato l’organizzazione statale inglese, sostiene che i poteri sono sempre distinti e che solo l’equilibrio tra questi poteri, che si realizza nelle istituzioni parlamentari, può garantire il rispetto della libertà.
Entrambe le concezioni sono state criticate dal marxismo in quanto non comprendono l’origine di classe dello Stato e il legame che si realizza tra la classe che detiene il potere economico e l’organizzazione statale.
Secondo il marxismo infatti la democrazia borghese non è l’espressione della volontà del popolo, ma l’espressione della volontà e degli interessi della classe dominante. La democrazia borghese è stata la prima realizzazione storica della libertà politica e dell’uguaglianza giuridica degli uomini. Tuttavia, una volta giunta al potere, la borghesia contrastò e impedì la realizzazione completa degli stessi principi che l’avevano guidata nel corso della sua rivoluzione; infatti la realizzazione completa delle libertà politiche e istituzionali contemplate nella concezione democratica è incompatibile con gli interessi della borghesia stessa. Ciò avviene soprattutto a causa delle contraddizioni politiche che lo sviluppo della società capitalistica, e quindi della democrazia borghese ad essa corrispondente, genera con lo sviluppo del proletariato industriale moderno.
La democrazia borghese è stata poi criticata sul piano teorico e combattuta sul piano politico dal movimento operaio. In particolare Lenin affermò la necessità della lotta immediata e decisa per tutte le rivendicazioni democratiche, sostenendo che l’organizzazione della classe operaia deve
«formulare e porre tutte queste rivendicazioni in modo rivoluzionario e non riformista, non limitandosi al quadro della legalità borghese, ma spezzandolo; non accontentandosi dei discorsi parlamentari e delle proteste verbali, ma attirando le masse alla lotta attiva, allargando e rinfocolando la lotta per ogni rivendicazione democratica fondamentale, fino all’attacco del proletariato contro la borghesia, cioè sino alla rivoluzione socialista che espropri la borghesia» (Lenin, La Rivoluzione socialista e il diritto delle nazioni all’autodecisione, in Opere scelte, vol. unico, p. 155).
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Democrazia popolare
L’espressione indica quel tipo di organizzazione politica ed economica che si è realizzata dopo la sconfitta del nazi-fascismo in alcuni paesi dell’Europa orientale.
In particolare in Albania, Cecoslovacchia, Polonia, Romania, Ungheria e nella zona orientale della Germania subito dopo la seconda guerra mondiale si verificarono le condizioni necessarie per il passaggio dalla fase della dittatura politica e militare a cui erano stati sottomessi questi paesi, alla costituzione di una società socialista senza il ripristino della democrazia borghese.
Infatti il legame tra Stato borghese e interessi economici imperialistici da un lato e, dall’altro, la complicità dei regimi democratico-borghesi nelle distruzioni gravissime provocate dalla guerra avevano fatto sì che le stesse istituzioni statali democratico-borghesi fossero considerate dai popoli di quei paesi come un’esperienza negativa che era necessario sostituire con una democrazia di tipo nuovo. Furono determinanti – per la costituzione di queste democrazie popolari – l’influenza economica e politica dell’Unione Sovietica, che aveva liberato l’Europa centro-orientale dal punto di vista militare, nonché le organizzazioni e i partiti che in questi paesi avevano condotto la resistenza al nazi-fascismo.
Più in generale il termine democrazia popolare è usato come sinonimo di democrazia socialista, anche se propriamente è la costruzione del socialismo nei paesi che avevano avuto uno sviluppo industriale notevole e in cui il dominio del nazismo e la guerra avevano creato le condizioni per un superamento della democrazia borghese.
Anche in Cina il tipo di regime realizzato dal Partito Comunista cinese in tutto il territorio nazionale dopo la fondazione della Repubblica popolare cinese (ottobre ’49) viene considerato come democrazia popolare, anche se per esso sono usate altre denominazioni come «nuova democrazia» o «dittatura democratica popolare» che distinguono le caratteristiche specifiche della rivoluzione cinese da quelle dei paesi dell’Europa orientale.
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Democrazia progressiva
Fase di transizione dal capitalismo al socialismo.
Propriamente, secondo la teoria marxista della rivoluzione socialista non può esistere una forma statale e tanto meno una struttura economica intermedia tra capitalismo e socialismo, in quanto o sussiste la proprietà privata dei mezzi di produzione o questi sono di proprietà statale.
Tuttavia, profilandosi la situazione di un paese capitalistico sviluppato industrialmente e dominato dal fascismo, quale era ad esempio l’Italia, liberata col contributo fondamentale della lotta partigiana, si rese necessaria, secondo le indicazioni fornire dalla Terza Internazionale, la rivendicazione di un’alternativa al fascismo che, non potendo essere un passaggio immediato al socialismo, perché non se ne verificavano le condizioni essenziali, fosse diversa dalla vecchia democrazia borghese, fosse cioè una tappa di avvicinamento al socialismo.
La «democrazia progressiva» divenne il programma politico del Partito comunista durante la seconda guerra mondiale e immediatamente dopo. L’attuazione del programma della «democrazia progressiva» consisterebbe nel porre le basi per la trasformazione completa del potere economico in senso socialista, attraverso la nazionalizzazione dei nuclei fondamentali dell’attività produttiva (grandi fabbriche, grandi banche, riforma agraria, ecc.) permanendo tuttavia la piccola proprietà privata e forme statali e istituzionali borghesi.
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Democrazia socialista
È l’organizzazione statale corrispondente al periodo della dittatura del proletariato e alle esigenze economiche derivanti dalla necessità di mantenere e sviluppare la proprietà collettiva dei mezzi di produzione e di impedire che si possa riprodurre su vasta scala il processo di accumulazione di capitale e che si riformino i rapporti giuridici e politici che permettono alla borghesia di svilupparsi (vedi Democrazia borghese).
Storicamente la prima esperienza di democrazia socialista si è verificata in Russia con la vittoria della Rivoluzione, anche se la Comune di Parigi nel 1871 aveva iniziato un tentativo in tal senso, subito represso dalla borghesia.
I principi teorici che costituiscono l’essenza della democrazia socialista sono stati formulati nelle loro linee generali da Lenin nella sua opera Stato e rivoluzione, dove si afferma la necessità di una forma transitoria di Stato che nello stesso tempo realizzi la massima libertà politica per la classe operaia e il massimo della coercizione per la borghesia.
La democrazia socialista deve determinare le condizioni istituzionali per il realizzarsi di un’effettiva parità economica dei cittadini. Infatti solo su questa base anche le libertà di espressione, di pensiero, di stampa possono essere effettivamente tali in quanto non vi sono più i privilegi economici che costituiscono la base per le diseguaglianze politiche e sociali caratteristiche dei regimi capitalistici. «In regime capitalistico la democrazia è ristretta, compressa, monca, mutilata da tutto l’ambiente creato dalla schiavitù salariale, dal bisogno e dalla miseria delle masse».
Inoltre la democrazia socialista deve realizzare le condizioni per l’autoeducazione del popolo al «governo delle cose» e quindi impostare lo sviluppo della società in direzione dell’estinzione dello Stato (vedi Comunismo).
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Denaro
Con questa parola si indica la merce che è immediatamente scambiabile con ogni altra. La sua comparsa deriva dallo sviluppo dello scambio di merci al di fuori delle forme di baratto (vedi) e cioè dalla necessità di un bene di valore universalmente riconosciuto che fungesse da intermediario nelle vendite e negli acquisti. L’estensione e l’approfondimento degli scambi rese indispensabile la ricerca di un mezzo adatto a riassumere in sé la misura del valore (vedi) di scambio di tutte le merci; in altri termini è la conseguenza del fatto che nella concreta pratica commerciale i possessori di merci sono costretti a confrontare i loro prodotti, qualitativamente e quantitativamente diversi, con un termine di riferimento accettato da tutti.
«Le forme particolari del denaro, puro e semplice equivalente della merce, o mezzo di circolazione, o mezzo di pagamento, o tesoro o moneta mondiale, indicano di volta in volta, a seconda della diversa estensione e della relativa preponderanza dell’una o dell’altra funzione, gradi diversissimi del processo sociale di produzione» (Il Capitale, libro I, p. 202).
Con lo sviluppo dell’economia la funzione e le caratteristiche di questo termine subiscono dunque considerevoli variazioni fino ad assumere una forma tipica nel modo di produzione capitalistico (vedi); qui infatti il denaro svolge principalmente il ruolo di capitale, cioè viene inserito all’interno della produzione di plusvalore (vedi).
Perché ciò possa avvenire sono necessarie condizioni storiche generali, tra le quali la più importante è la presenza sul mercato di una merce particolare che ha la caratteristica di produrre valore, cioè la forza-lavoro (vedi). La funzione del denaro come capitale nasce soltanto dove il proprietario di mezzi di produzione e di sussistenza può, attraverso il denaro stesso, comperare tale forza. Quando il denaro viene investito nella produzione e nel commercio che ne segue diventa capitale (vedi). Il denaro perde così, o mantiene solo in minima parte, i semplici attribuiti di mezzo per risolvere i problemi generati dallo scambio di merci differenti e diventa una potenza sociale contrapposta al lavoro che domina e sfrutta.
«Il denaro è il valore universale di tutte le cose, costituito per se stesso. Ha quindi spogliato il mondo intero, l’uomo e la natura, del loro proprio valore. Il denaro è l’essenza del lavoro dell’uomo e della sua esistenza resagli estranea, e questa essenza estranea lo domina, ed egli la adora» (Marx, La Questione ebraica, in Opere 111, p. 187).
Le caratteristiche fondamentali del denaro sono sostanzialmente riconducibili a quattro funzioni:
– misura del valore, in quanto per mezzo del denaro è possibile rappresentare materialmente la quantità di lavoro socialmente necessaria (vedi) per produrre qualunque tipo di merce;
– deposito di valore, in quanto nel processo di circolazione (vedi) alla vendita può anche non seguire l’acquisto di altre merci, e pertanto il denaro può essere sottratto alla circolazione stessa senza perdere il suo valore;
– intermediario dello scambio, o mezzo di circolazione;
– mezzo di pagamento;
queste ultime due funzioni sono già state brevemente descritte sopra. Il denaro non va confuso con la moneta poiché «Moneta in contrapposizione a denaro viene … usata a designare il denaro nella sua funzione di puro e semplice mezzo di circolazione in contrapposizione alle altre sue funzioni». Marx analizzò l’origine, le funzioni, la natura del denaro nella società moderna in rapporto allo sviluppo del capitale e, studiando il processo di accumulazione originaria (vedi), ne descrisse le drammatiche conseguenze.
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Determinismo economico
È la concezione che ritiene che lo sviluppo storico sia rigidamente ed esclusivamente determinato dallo sviluppo delle forze produttive e delle componenti «tecniche» della società. Il determinismo economico esclude la possibilità che l’organizzazione cosciente della classe operaia possa in qualche modo influire sullo sviluppo storico. È il fondamento teorico di alcune delle più importanti correnti opportuniste (vedi Opportunismo) della II Internazionale. La teoria secondo cui avrebbe dovuto verificarsi «il crollo inevitabile del capitalismo» per motivi esclusivamente economici, ampiamente diffusa nella socialdemocrazia tedesca negli ultimi anni dell’Ottocento, fu una delle espressioni più classiche di questa concezione.
Il determinismo economico fu criticato dai principali esponenti del movimento comunista in quanto rappresentava un’incomprensione dei fondamentali principi del materialismo storico (vedi). Spesso si accompagnava all’affermazione della necessità di una «revisione» (vedi Revisionismo) del marxismo. Inoltre, dal punto di vista politico, si manifestò come rinuncia alla difesa degli interessi della classe operaia.
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Deviazionismo
Termine che sta ad indicare molto genericamente il deviare dai principi e dal programma codificato di un partito o di un movimento politico. In campo marxista l’accusa di deviazionismo è rivolta a coloro che in un modo o nell’altro si allontanano dai principi «ortodossi» del marxismo-leninismo (vedi) e soprattutto dalla linea di condotta del partito che ne è il sostenitore ufficiale.
Si può accostare ad altri termini, quali revisionismo, riformismo, opportunismo (vedi), tutti indicanti un allontanamento, sotto forma di critica, rielaborazione o rifiuto, di quella che è ritenuta una corretta interpretazione del marxismo.
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Dialettica
L’uso del termine dialettica all’interno del marxismo si riallaccia direttamente al significato che Hegel le attribuì. Egli stesso, una volta, lo definì in modo telegrafico: «lo spirito di contraddizione organizzato». Con questa concisa sintesi del proprio modo di intendere la dialettica, Hegel voleva sottolineare anzitutto la consapevolezza della moltitudine delle contraddizioni (vedi) e del loro incessante movimento che anima una realtà in perenne trasformazione. La dialettica appare così tanto il modo di essere della realtà quanto un’esigenza del pensiero che voglia comprenderla adeguatamente; ed è proprio la concezione della realtà, che Hegel professò all’interno di una filosofia idealistica (vedi Idealismo), a costituire il limite del suo procedimento dialettico e la necessità da parte di Marx ed Engels di superarlo.
In lui, dice Marx, la dialettica è capovolta, poggia sulla testa: bisognava rimetterla sui piedi per liberare il nocciolo razionale dal rivestimento mistico; bisognava, in altre parole, passare da una dialettica idealistica a una dialettica materialistica.
Premesso, dunque, che la dialettica ha la sua ragion d’essere nel carattere dialettico della realtà, ovvero che la dialettica in quanto modo del pensiero ha un senso perché esiste una dialettica delle cose e dei fatti, è possibile rilevarne alcuni aspetti essenziali.
Nel passato i mercanti comperavano merci nei luoghi dove queste si trovavano a prezzo conveniente, e le rivendevano nei luoghi dove erano richieste e ben pagate; la condizione necessaria per compiere queste operazioni era che vi fossero popolazioni ignare dei prezzi correnti altrove, vale a dire popolazioni arretrate, senza pratica di viaggi o contatti con terre lontane. Tuttavia, mentre i mercanti procedevano nei loro affari, riducevano sempre di più l’arretratezza di quelle popolazioni: i rapporti con viaggiatori stranieri sono stati da sempre un motivo di progresso. Il capitalismo mercantile (vedi Capitale commerciale) creava dunque insieme ai propri traffici le premesse della propria fine; esso poteva esistere soltanto a patto di gettare le basi della propria futura negazione.
Traducendo questo discorso in termini generali si può dire che nell’interazione tra una certa attività e lo stato delle cose su cui questa agisce nasce un profondo cambiamento; il soggetto attivo, mutando una certa realtà, produce i mezzi con cui egli stesso sarà mutato. Nel caso limite sopra esposto, il mutamento si identifica con la fine del soggetto attivo: il capitalismo mercantile scompare infatti per cedere il posto ad altre forme di attività commerciale che non hanno più bisogno per svilupparsi delle stesse condizioni. Analogamente, su un altro piano, la borghesia in quanto classe dominante affermatasi col modo di produzione capitalistico produce «i suoi seppellitori»; a sua volta il proletariato affrancato dal dominio della borghesia e impadronendosi dei mezzi di produzione crea le condizioni del proprio dissolvimento in quanto classe.
Il soggetto che nel corso della sua attività determina le condizioni del proprio cambiamento è una figura centrale della dialettica. Si può dare ora una prima definizione della dialettica: essa è la scienza e, se si vuole, la logica del movimento reale che compiendosi crea le premesse della propria negazione.
Per Marx «i rapporti di produzione di ogni società costituiscono un tutto»: ciò significa che egli non immagina i singoli fenomeni o gruppi di fenomeni che concorrono a formare una totalità (vedi) come elementi autonomi provvisti di un’identità e di un significato comprensibili al di fuori della loro appartenenza all’insieme. Quando per ragioni di studio essi vengono isolati dalla loro reale situazione, non si deve dimenticare che il fatto costituisce una forzatura della realtà; in caso contrario si scivola nell’astrattezza e i risultati ottenuti ne portano il segno. Perciò Marx afferma che la conoscenza parte dall’astratto, cioè dalla parte isolata, per arrivare al concreto, cioè alle sue relazioni col tutto (vedi Concreto e astratto); in altri termini la parte dalla quale ha necessariamente inizio la ricerca è una astrazione.
Questa tesi implica evidentemente la convinzione che il rapporto delle parti con il tutto non è definibile in termini puramente quantitativi: non è il rapporto tra gli addendi e la loro somma, così come non lo è, per esempio, il rapporto tra i diversi organi che costituiscono un corpo vivente; è un tipo di rapporto diverso, un rapporto appunto dialettico. Si può ora definire un secondo significato di dialettica: la scienza o la logica consapevole – nel trattare i singoli problemi – che essi appartengono a una totalità.
I due significati qui illustrati permettono ora di elencare sommariamente altre caratteristiche costitutive del pensiero dialettico:
– la nozione di «superamento» di una qualsiasi situazione (teorica, storica, economica, ecc.) indica che la nuova situazione, qualitativamente diversa, e prodotta dall’impossibilità della vecchia situazione di conciliare più oltre le proprie opposizioni, conserva al suo interno alcuni elementi della situazione precedente.
– La concezione della storia come seguito di graduali trasformazioni che giunte a un certo punto determinano esplosivi cambiamenti. In altre parole: il progressivo e costante sviluppo delle forze produttive sociali porta al brusco mutamento dei rapporti di produzione. La forma storica di questo cambiamento è la rivoluzione.
– La convinzione che ben difficilmente esistono corrispondenze meccaniche, dirette, unilaterali tra fenomeni o gruppi di fenomeni che pure sono tra loro interdipendenti. L’esempio classico è quello del rapporto tra struttura e sovrastruttura (vedi). E’ vero che la seconda riflette i caratteri distintivi della prima e ne dipende: non però in modo passivo; così ad esempio la sovrastruttura giuridica agisce di riflesso sulla base economica fino a modificarla.
L’elenco potrebbe continuare: basterà pensare al rapporto tra teoria e prassi (vedi), tra volontà del soggetto storico e situazione oggettiva, tra scienza e ideologie (vedi), ecc.
Quanto detto può permettere di comprendere certe definizioni allusive della dialettica, come quella di Herzen («la dialettica è l’algebra della rivoluzione»); l’insistenza di Engels contro i miti della conoscenza assoluta, l’attenzione riposta da Lenin nello studio della dialettica hegeliana. E, soprattutto, si comprende, secondo le parole di Marx, perché la dialettica materialistica sia «orrore e scandalo per la borghesia e i suoi corifei »: essa pone accanto alla «comprensione positiva» dell’epoca storica dominata dalla borghesia, la comprensione del suo declino.
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Dialettica della natura
Espressione con la quale si vuole indicare il carattere dialettico del mondo della natura; non si tratta, ovviamente, di un’estensione ai fenomeni naturali dei principi elaborati nel mondo storico-sociale, ma della convinzione che il modo di essere della natura sia dialettico. Anche in questo caso la dialettica è dunque considerata come appartenente prima alla realtà e poi al pensiero, che assume qui la forma specifica delle scienze naturali (vedi Scienza).
Nell’ambito delle discipline biologiche la convinzione che i fenomeni studiati abbiano un carattere dialettico, anche se spesso sono state usate altre espressioni per indicare la stessa cosa, è da tempo presente e operante; una delle più semplici constatazioni della biologia e cioè che la cellula vivente, sia essa animale, vegetale o batterica, è costituita da molecole e da complessi di molecole non viventi, denota già per più aspetti la dialetticità del fenomeno vita. Basterà comunque ricordare a questo proposito tre punti generalissimi:
– il fatto che a ogni livello di organizzazione degli elementi costitutivi di un sistema biologico compaiono funzioni e proprietà diverse da quelle del precedente livello;
– i processi di retroazione, che sono una variante particolare dei processi di interazione tra le parti di una totalità, attraverso i quali ciò che è regolato modifica lo stato del regolatore;
– le interazioni e gli esiti delle tendenze opposte di conservazione e di soppressione degli stati di equilibrio.
Nel caso della materia non vivente esiste una situazione diversa; qui per molto tempo le discipline fisiche più importanti si sono sviluppate al di fuori di un’immediata evidenza dialettica com’è quella presentata dai fenomeni biologici. Ma poiché le scienze fisiche sono considerate da decenni come un modello ideale al quale tutte le scienze avrebbero dovuto uniformarsi, si è pensato alla natura in generale nei termini propri di queste scienze, trascurandone o negandone gli aspetti dialettici.
Con l’affermazione della nuova fisica relativistica e quantistica, che ha «superato» la fisica classica, anche i caratteri dialettici della natura inanimata sono stati portati in primo piano. Basterà ricordare anche qui alcuni punti generali: le evidenze per la considerazione dello spazio e del tempo come elementi distinti di una sola unità; l’opposizione tra il carattere discontinuo, corpuscolare, e il carattere continuo, ondulatorio, esistenti nelle stesse particelle subatomiche; l’intero campo dei fenomeni studiati dalla cibernetica dov’è particolarmente interessante constatare la ripresa e l’impiego dialettico di molti elementi teorici della fisica classica.
Su queste linee, compatibilmente con lo sviluppo delle scienze in quel dato momento storico, si era mosso Engels al quale si deve una raccolta di scritti frammentari e di appunti che avrebbero dovuto servire per un’opera intitolata Dialettica della natura; Lenin riprese questi temi sia nei suoi studi sul pensiero di Hegel che nella critica all’empiriocriticismo (vedi); per ambedue il riconoscimento della dialetticità della natura è alla base del materialismo dialettico (vedi).
Sull’esistenza o meno di una dialettica della natura è in corso una lunghissima polemica che risale alle origini del revisionismo; il rifiuto della concezione dialettica della natura è stato condotto con gli argomenti più svariati, da quelli dei positivisti che l’accusavano di metafisica a quelli degli antipositivisti a vario titolo che l’accusavano invece di positivismo; da quelli dei marxisti occidentali (vedi Marxismo) che la tacciano di materialismo volgare e di «apologia della scienza borghese» a quelli di coloro che sentenziano il suo insopprimibile carattere idealistico hegeliano; da quelli provenienti dalla sfera dell’esistenzialismo a quelli tipici di certe forme di storicismo.
Ciò che contraddistingue e accomuna tutti coloro che negano la dialetticità della natura è il fatto di utilizzare per queste polemiche un’immagine del mondo della natura arcaica, meccanicistica, ottocentesca o addirittura quella presentata non dalle scienze, ma da certe correnti filosofiche.
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Diritto
È l’insieme delle norme che regolano i rapporti interni alla società: il diritto pubblico comprende le leggi che attengono alla sfera pubblica e allo Stato, il diritto privato sancisce i rapporti tra i singoli individui. I rapporti giuridici sono quindi l’espressione dei rapporti di produzione:
«In un certo stadio, molto primitivo, di sviluppo della società sorge il bisogno di comprendere in una regola comune tutti gli atti della produzione, della spartizione e dello scambio dei prodotti, atti che ricorrono giornalmente; di provvedere a che il singolo si assoggetti alle condizioni comuni di produzione e di scambio. Questa regola, che dapprima è semplice consuetudine, diventa ben presto legge. Con la legge sorgono necessariamente degli organi incaricati di farla osservare: i pubblici poteri, lo stato. Procedendo l’evoluzione sociale, questa legge si sviluppa dando luogo ad una legislazione più o meno ampia. Più complicato diventa questo sistema, e più la sua terminologia si allontana da quella mediante cui si esprimono le condizioni usuali della vita economica. La legislazione acquista l’aspetto di un elemento indipendente, che fa derivare la giustificazione della propria esistenza e il motivo del suo ulteriore sviluppo non dai rapporti economici, ma da motivi propri, immanenti, poniamo dal concetto di volontà. Gli uomini dimenticano che il loro diritto deriva dalle condizioni della loro esistenza economica, nella stessa misura in cui hanno dimenticato la propria discendenza dagli animali (Engels, La questione delle abitazioni, p. 123).
L’origine, la funzione, lo sviluppo del diritto risiedono dunque nella società (vedi), e poiché questa è l’insieme dei rapporti di produzione e di scambio e delle forme sovrastrutturali ad essi connessi (vedi Famiglia, Stato, Ideologia) ne deriva che, nella società divisa in classi in cui prevalgono i rapporti della proprietà privata e dello scambio, è possibile solo un diritto di classe e più propriamente il diritto della classe dominante.
Tutte le leggi, gli aggiornamenti, i cambiamenti del diritto sono il riflesso dei mutamenti economici, ma più esattamente esprimono gli interessi della classe in ascesa o dominante. Fino alla repubblica di Amalfi, ad esempio, non esisteva un diritto marittimo: la sua istituzione derivò da condizioni oggettive, ma la regolamentazione dei rapporti esistenti tra i proprietari di navi, sancì fondamentalmente l’interesse della borghesia nello specifico settore del commercio marittimo (vedi Capitale commerciale). Il diritto, proprio per non cadere in contraddizione con se stesso, deve imporsi, cioè deve essere esercitato attraverso il potere: «il diritto è un potere organizzato dalla classe dominante»; in questo senso diritto e Stato sono elementi inscindibili del dominio di classe.
Ovviamente questo classismo di fondo del diritto non è riflesso meccanicamente nelle leggi, e ciò per due motivi:
1) che costituisce comunque un’astrazione e una concettualizzazione dei rapporti reali;
2) che come corpo dottrinario deve tener conto della sua logica interna.
In altri termini il diritto diventa una concezione ideologica, che si pone nei confronti della realtà sociale in un rapporto dialettico: nato dalla base economica, «reagisce su questa e può, entro certi limiti, modificarla».
Esiste quindi la possibilità di una funzione rivoluzionaria del diritto, nella misura in cui la «legge può essere anche creativa». L’esempio più noto è dato da Marx nel I libro del Capitale a proposito della riduzione della giornata lavorativa, che ha rappresentato un’affermazione politica e giuridica del proletariato di portata rivoluzionaria:
«Al pomposo catalogo dei diritti inalienabili dell’uomo, subentra la Magna Charta di una giornata lavorativa limitata dalla legge, la quale chiarisce finalmente quando finisce il tempo venduto dall’operaio e quando comincia il tempo che appartiene all’operaio stesso» (p. 326).
Ma esiste un altro aspetto del diritto borghese decisivo per il proletariato: tutte le leggi e le norme che regolano i rapporti tra la classe degli sfruttatori e la classe degli sfruttati, devono tener conto del fatto che questi ultimi non possono essere totalmente distrutti perché sono la condizione dell’esistenza dei primi. Solo lo sfruttato, se vuol far valere il proprio diritto, deve distruggere lo sfruttatore; secondo Stučka: «La lotta di classe rivoluzionaria consiste, dunque, nella lotta per il diritto, a causa del diritto, in nome del proprio diritto di classe».
In una concezione marxista della società, i diritti sanciti dalla democrazia borghese costituiscono in gran parte una finzione giuridica perché fondati su una disuguaglianza fondamentale dei «cittadini» (vedi Democrazia borghese).
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Dittatura del proletariato
Fase di transizione dal capitalismo al comunismo, conseguente all’abbattimento dello Stato borghese; si verifica, secondo Marx, quando il proletariato può servirsi
«della sua supremazia politica per strappare alla borghesia, a poco a poco, tutto il capitale, per accentrare tutti gli strumenti di produzione nelle mani dello Stato, vale a dire del proletariato stesso organizzato come classe dominante, e per aumentare con la massima rapidità possibile, la massa delle forze produttive» (Manifesto, p. 51).
La dittatura del proletariato è dunque una delle «determinate fasi storiche», nel processo dialettico legato alla lotta di classe e allo sviluppo della produzione; quella fase, in particolare, che media il passaggio dalla società borghese all’avvento della società senza classi; Per Marx, infatti, l’esistenza delle classi è semplicemente legata a determinate fasi storiche di sviluppo della produzione e la lotta di classe porta inevitabilmente alla dittatura del proletariato, che rappresenta soltanto il momento del passaggio all’abolizione di tutte le classi.
In altri termini è lo stadio in cui, attraverso la rivoluzione, il proletariato si organizza come classe dominante subentrando alla borghesia nel possesso dei mezzi di produzione e assumendo un ruolo egemone (vedi Egemonia). In tal modo prepara la società comunista; si tratta dunque, dice Marx, di un momento di sviluppo indispensabile all’eliminazione delle differenze di classe e allo scioglimento dei vecchi rapporti di produzione con tutte le conseguenze che ne derivano sul piano degli altri rapporti sociali, delle idee, delle istituzioni, ecc.; è evidente che in questa prospettiva l’espressione «dittatura del proletariato» non implica alcun carattere di riduzione della libertà individuale, se non nella misura inevitabile in cui è ancora dominio di classe. Va infine considerato che se l’espressione può apparire ora infelice per l’ovvio richiamo alle forme politiche e istituzionali di dittatura che si sono poi conosciute nella storia, ai tempi di Marx essa aveva una carica suggestiva che rinviava ai momenti più avanzati dell’antica Roma repubblicana, così come li avevano colti e amati gli uomini della Rivoluzione francese.
Lenin riprese con forza il concetto marxiano di dittatura del proletariato, ritenendolo indissolubilmente legato alle tesi sulla funzione rivoluzionaria del proletariato nella storia:
«la guerra più eroica e più implacabile della classe nuova contro un nemico più potente, contro la borghesia, la cui resistenza è decuplicata dal fatto di essere stata rovesciata (sia pur in un solo paese), e la cui potenza non consiste soltanto nella forza del capitale internazionale, nella forza e nella solidità dei legami internazionali della borghesia, ma anche nella forza dell’abitudine, nella forza della piccola produzione» (L’estremismo, malattia infantile del comunismo, p. 7).
Il concetto di dittatura del proletariato è stato ed è oggetto di molte controversie, in buona parte suscitate da quello che andava sotto questo nome nel periodo staliniano (vedi Stalinismo).
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Divisione del lavoro
In un primo generico significato indica «la coesistenza di differenti modi di lavoro» (vedi Lavoro) osservabili concretamente nelle caratteristiche diverse delle merci. In questo senso la divisione del lavoro è molto antica; pur restando nell’ambito della produzione separata dallo scambio (vedi) essa data dalla comparsa dei primi mercanti e dei primi artigiani, cioè di persone che all’interno della comunità svolgevano non occasionalmente attività specifiche.
«In senso capitalistico» la divisione del lavoro indica la coscienza «…del lavoro particolare che produce una determinata merce (vedi), in una somma di semplici operazioni, combinate e ripartite fra operai differenti»; una caratteristica fondamentale di questa nuova situazione è che essa «presuppone la divisione del lavoro entro la società, al di fuori dell’officina, come divisione delle professioni». Da un punto di vista storico ciò si manifesta al tempo delle manifatture (vedi) al cui interno non solo il lavoro è organizzato in modo che a ciascun operaio tocchino solo poche e semplici operazioni, ma, ben presto, anche in modo gerarchico (capisquadra, capireparto, tecnici, ecc.) allo scopo di sorvegliare e dirigere il lavoro.
Così in una manifattura di carrozze del XVII e XVIII secolo vi sono gli operai che costruiscono soltanto le razze delle ruote, altri il cerchio, altri ancora provvedono al loro montaggio e altri a verniciarle. Analogamente per ogni altra parte e gruppo di parti che costituiscono la carrozza finita. Il risultato è che nessun operaio saprebbe costruire una carrozza e nemmeno passare agevolmente da un’operazione all’altra.
Man mano che le operazioni diventano più particolareggiate la divisione del lavoro si accentua in mansioni sempre meno collegabili da parte del singolo operaio al prodotto finito; egli diventa un ripetitore di gesti destinati a produrre oggetti che gli sono estranei e finisce col saper fare sempre meglio e soltanto quelli. Si perpetuano così i mestieri via via più specializzati e quindi limitati, la cui esistenza è altrettanto rilevabile fuori della fabbrica, nella società dove servono a indicare, perfino nei documenti personali di identità, una precisa collocazione sociale.
D’altra parte, osserva Marx, questo fatto
«presuppone, per svilupparsi ordinatamente, una certa densità di popolazione, e ancor più la presuppone lo sviluppo della divisione del lavoro nell’officina. Quest’ultima divisione, fino a un certo grado presupposto dello sviluppo della prima, a sua volta l’aumenta per una azione reciproca. Poiché separa operazioni prima appartenenti alla stessa categoria in altre indipendenti l’una dall’altra, accresce e differenzia i lavori preparatori indirettamente richiesti da esse, e infine, con l’accrescimento della produzione, della popolazione, la messa in libertà di capitale e di lavoro, crea nuovi bisogni e nuove maniere di soddisfarli…» (Marx, Storia delle teorie economiche, III, p. 291).
Il modo di produzione capitalistico, in altri termini, reca in sé la necessità della divisione sociale del lavoro accanto alla necessità di altre divisioni: del lavoro produttivo dai mezzi di produzione, dell’uomo-cittadino dall’uomo-operaio, del lavoro intellettuale da quello manuale, ecc.
Nei Manoscritti economico-filosofici del 1844 Marx definiva la divisione del lavoro come «l’espressione economica della socialità del lavoro nell’alienazione umana»; più tardi, nella sua maturità, accentuando l’analisi dei meccanismi che producevano l’alienazione piuttosto che descrivere le sue forme, scrisse:
«La divisione del lavoro sviluppa la forza produttiva sociale del lavoro o la forza produttiva del lavoro sociale, ma a spese della capacità produttiva generale dell’operaio. E quell’aumento della forza produttiva sociale gli si contrappone quindi come aumentata forza produttiva non del suo lavoro, ma della potenza che lo domina, del capitale» (ivi, p. 91).
La soppressione del modo capitalistico di produzione porta dunque con sé la fine del lavoro diviso e perciò alienato, vissuto da chi lo compie come monotonia, costrizione insensata, ripetizione, soffocamento delle inclinazioni naturali, mancanza di sviluppo aperto della propria personalità. Insieme cadranno anche la divisione tra il pur necessario lavoro manuale e il lavoro intellettuale, creativo, artistico che sarà liberato a sua volta dalla servitù materiale e dal carattere di privilegio di classe; anche la divisione del lavoro su scala mondiale, prodotto tipico dell’età dell’imperialismo, potrà allora essere eliminata venendo meno il potere che assegna in nome del profitto a certi paesi alcuni tipi di produzione piuttosto che altri.
La divisione del lavoro è dunque un fenomeno che si manifesta su piani diversi ma tra loro connessi; non solo nel luogo del lavoro ma nella società, non solo in ragione della specificità del lavoro svolto ma del «grado» occupato nell’organizzazione del lavoro in fabbrica. Divenuta reale con la separazione del lavoro intellettuale da quello materiale, la divisione «sociale» del lavoro è un evento parallelo a quello della proprietà privata (vedi). Meglio, secondo Marx, le due espressioni indicano la stessa cosa: la divisione del lavoro «in riferimento all’attività», la proprietà privata «in riferimento al prodotto dell’attività».
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Dogmatismo
La caratteristica del dogmatismo è lo schematismo antidialettico (vedi Dialettica), cioè la tendenza a cogliere tra gli elementi costitutivi della realtà unicamente quelli che immediatamente coincidono con le formule di cui si è in possesso e a cui non si intende rinunciare. L’incomprensione del carattere dinamico e problematico della realtà, del fatto che «ogni passo del movimento reale è più importante di una dozzina di programmi», porta al dottrinarismo e al formalismo nell’enunciazione teorica e, nell’azione pratica, al distacco dalla realtà, la quale viene intesa non per ciò che è, quanto piuttosto per ciò che si vorrebbe fosse, secondo i propri intendimenti. Il risultato è la sovrapposizione dei propri desideri alla realtà, la semplificazione dei processi e dei nessi reali, l’incapacità di operare – in ogni situazione concreta – un’analisi concreta e critica che ne colga le priorità e le specificità. Il dogmatismo conduce cioè all’impotenza e all’immobilismo verso una situazione che non si riesce a comprendere o, peggio, al tentativo artificioso di far rientrare nei propri schemi astratti una realtà infinitamente più ricca e quindi al fallimento pratico, alla sconfitta.
Se di ogni pensiero è possibile una riduzione dogmatica, in particolare il disconoscimento del carattere critico e dinamico del marxismo (vedi) ha rappresentato uno dei pericoli più gravi e ricorrenti nell’esperienza storica dei comunisti. Marx e Lenin, nel corso delle battaglie teoriche e politiche da essi condotte, misero ripetutamente in rilievo il carattere antidogmatico del marxismo.
In particolare il metodo dogmatico, che sostituisce all’interpretazione e alla costruzione storica la semplice descrizione esteriore dei fatti sulla base di pochi principi ritenuti assoluti, porta a una concezione statica e libresca del marxismo e all’incapacità di legare la sua teoria (vedi) generale alla pratica (vedi) rivoluzionaria comunista, nelle diverse situazioni particolari e originali in cui la lotta di classe (vedi) si può sviluppare.
«Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualcosa di definitivo e di intangibile; siamo convinti, al contrario, che essa ha posto soltanto le pietre angolari della scienza che i socialisti devono far progredire in tutte le direzioni, se non vogliono lasciarsi distanziare dalla vita» (Lenin, Il nostro programma, in Marx-Engels-Marxismo, pp. 100-101).
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Economia
In generale può essere intesa come la base materiale, il fondamento, della vita umana e della società (così come la natura immediatamente il fondamento, per esempio, dell’esistenza animale). È l’insieme del lavoro e delle condizioni della sua realizzazione come trasformazione della natura, «ricambio organico tra l’uomo e la natura». In questo senso l’economia comprende tutto il complesso dei rapporti di produzione (vedi) e di distribuzione, delle forze produttive (vedi) e dei mezzi di produzione (vedi).
L’uso di questa parola ha spesso dato origine a equivoci, in quanto, essendo riferita a qualcosa di molto complesso, può assumere molti significati. Anche per questo il marxismo adotta prevalentemente una terminologia più precisa per indicare i «fenomeni economici». Infatti l’«economia» in generale è il fondamento di qualunque società umana e occorre, secondo il marxismo, individuare i tratti caratteristici delle diverse formazioni economico-sociali (vedi) succedutesi nella storia dell’umanità.
Inoltre così come il concetto di società, nel senso marxista del termine, non può essere compreso senza l’economia, l’«economia» comprende in sé i rapporti sociali. Il concetto più ampio e comprensivo di «modo di produzione» (vedi), quindi, è più adeguato nell’analisi dei complessi fenomeni che vengono genericamente riassunti sotto il nome di «economia».
Per quanto riguarda la cosiddetta scienza economica intesa come determinazione puramente quantitativa dei rapporti economici, come se fossero dei semplici rapporti tra «cose», essa, proprio perché non ha come fondamento l’analisi complessiva del modo di produzione, non è in alcun modo in grado di comprendere le leggi di sviluppo dell’economia e, in generale, non riesce ad essere neppure un efficace strumento di previsione dell’evoluzione di quelle che essa definisce «le diverse congiunture economiche», nonostante si avvalga di metodi di indagine statistica e dell’applicazione di «modelli matematici» estremamente raffinati e complessi. Secondo M. Dobb,
«La crescente formalizzazione della teoria economica negli ultimi decenni ha avuto per risultato di rendere quasi completamente quantitativa l’analisi dell’equilibrio del mercato compiuta da questa teoria, lasciando poco o punto spazio alle differenze qualitative, e certamente nessuno spazio alla differenza di natura cosiddetta socio-economica» (Introduzione al Capitale, in Il Capitale, p. 8).
Tuttavia il marxismo afferma che è possibile la conoscenza delle leggi di sviluppo dell’economia, contraddicendo la conclusione a cui sono pervenuti molti studiosi borghesi di «scienza economica», a condizione che l’analisi venga condotta sulla base dell’esame approfondito del modo di produzione nel suo complesso, svolta secondo un metodo materialistico e dialettico (vedi Economia politica).
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Economia politica
È la conoscenza scientifica dell’economia del periodo della produzione capitalistica. Si è sviluppata come scienza autonoma, con categorie (vedi) proprie, in modo sistematico, solo dal periodo della manifattura (vedi). Secondo il marxismo ciò che è l’oggetto dell’economia politica, cioè il modo di produzione capitalistico e le sue leggi di sviluppo, ne condiziona fortemente gli orientamenti e gli stessi metodi di indagine. Nella prefazione alla prima edizione de Il Capitale Marx afferma:
«Nel campo dell’economia politica la libera ricerca scientifica non incontra soltanto gli stessi nemici che incontra in tutti gli altri campi. La natura peculiare del materiale che tratta chiama a battaglia contro di essa le passioni più ardenti, più meschine e più odiose del cuore umano, le Furie dell’interesse privato… Oggi perfino l’ateismo è culpa levis, in confronto alla critica dei rapporti tradizionali di proprietà» (p. 7).
Infatti una delle caratteristiche distintive dell’economia politica, nel periodo precedente a Marx, è quella di considerare i rapporti capitalistici di produzione come rapporti «naturali», destinati a durare in eterno, in contrapposizione ai rapporti di produzione precedenti al capitalismo che venivano invece considerati come «artificiali» e di cui veniva riconosciuto il carattere transitorio di forme storiche particolari della produzione. Tuttavia i complessi rapporti che intercorrono tra il capitalismo, così come esso si sviluppa concretamente, e il riflesso di questo sviluppo nelle concezioni di coloro che per primi cercarono di studiarne le leggi, ha fatto sì che Marx dovesse distinguere tra economia politica in generale, economia politica nella sua forma classica o scuola classica dell’economia politica, e economia politica volgare, più spesso citata come economia volgare, a cui Marx non riconosceva alcun carattere di scientificità.
La scuola classica dell’economia politica, i cui principali esponenti furono A. Smith e D. Ricardo, che ebbe, in senso stretto, tra i suoi fondatori anche W. Petty, secondo Marx fu il primo vero e proprio tentativo di analisi scientifica del capitalismo, che pose quella che da Marx stesso è considerata come la legge fondamentale dell’economia politica: i valori delle merci sono determinati dai tempi di lavoro in esse contenuti. Il tratto distintivo di questa scuola fu, indipendentemente dalle differenze specifiche tra i suoi vari esponenti, quello di porre al centro della propria indagine il lavoro, e di condurre un’analisi che cercava di scoprire i nessi interni dei rapporti capitalistici di produzione. L’economia politica classica, particolarmente con Ricardo, giunse fino alle soglie della comprensione del carattere mistificatorio e alienante della produzione su basi capitalistiche.
«Il grande merito dell’economa politica classica consiste nell’aver dissipato questa falsa apparenza e illusione [la materializzazione dei rapporti sociali, vedi Reificazione, n.d.r.], questa autonomizzazione e solidificazione dei diversi elementi sociali della ricchezza, questa personificazione delle cose e oggettivazione dei rapporti di produzione, questa religione della vita quotidiana, riducendo l’interesse a una parte del profitto e la rendita all’eccedenza oltre il profitto medio, così che ambedue coincidono nel plusvalore; in quanto essa rappresenta il processo di circolazione come pura e semplice metamorfosi delle forme e infine riduce, nel processo diretto di produzione, valore e plusvalore delle merci al lavoro» (ivi, libro III, pp. 943-944).
Gli studi condotti da Smith e da Ricardo, che prestò maggior attenzione al problema dell’analisi dello sfruttamento capitalistico, del valore-lavoro e del plusvalore (vedi), possono essere considerati come la più alta espressione – sul terreno delle teorie economiche – del pensiero borghese, così come la filosofia classica tedesca trovò in Hegel il suo massimo e insuperato esponente. Marx, oltre a riconoscere e ad apprezzare l’impegno scientifico di questa scuola, dedicò la parte senz’altro più rilevante dei suoi studi alla critica dell’economia politica classica. Infatti la citazione sopra riportata così prosegue:
«Tuttavia anche i migliori suoi rappresentanti rimangono, e del resto non può accadere diversamente partendo dal punto di vista borghese, più o meno impigliati in quel mondo dell’apparenza da essi criticamente dissolto e quindi cadono tutti più o meno in incoerenze e contraddizioni non risolte, arrestandosi talvolta a metà strada» (ivi).
Il limite principale dell’economia politica classica fu proprio quello di non riuscire a portare fino alle sue estreme conseguenze l’analisi del valore-lavoro e di non comprendere che il carattere transitorio e storicamente determinato è proprio anche del capitalismo (vedi), e che i rapporti di produzione capitalistici nel loro sviluppo generano le premesse per il loro superamento.
Ricardo che ha, secondo l’espressione di Marx, «sezionato» l’economia borghese «che nelle sue profondità ha un aspetto del tutto diverso da quello che presenta alla superficie», può essere considerato come l’ultimo esponente della scuola classica dell’economia politica, in quanto lo sviluppo coerente della sua concezione implica la critica del regime economico fondato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e sfocia direttamente nella critica radicale del capitalismo e anche della scienza che ha cercato di studiarne lo sviluppo dal punto di vista della classe borghese.
Sismondi che, sia pur frammentariamente, ha cercato di criticare Ricardo partendo dai presupposti dell’economia politica classica, viene considerato da Marx come l’autore di un timido tentativo di autocritica di questa scienza. Inoltre l’economia politica classica non riuscì a spiegare soddisfacentemente le cause delle crisi, la legge dell’accumulazione (vedi) capitalistica, il fenomeno della concorrenza (vedi) e le sue cause profonde (questo soprattutto in Smith, che fu un sostenitore del liberismo [vedi]) e in generale, come afferma Engels nella prefazione dell’edizione inglese de Il Capitale, essa
«…pur consapevole perfettamente che sia il profitto sia la rendita non sono che suddivisioni, sezioni di quella parte non retribuita del prodotto che l’operaio deve fornire al suo imprenditore (che è il primo ad appropriarsela benché non ne sia il possessore ultimo, esclusivo), non è mai andata al di là delle nozioni comunemente accettate di profitto e di rendita, non ha mai esaminato nel suo complesso, come un tutto unico questa parte non retribuita del prodotto (che è chiamata da Marx plusprodotto), e dunque non è mai giunta ad una chiara comprensione né della sua origine e della sua natura, né delle leggi che regolano la successiva distribuzione del suo valore» (ivi, libro I, p. 55).
Ben diversa fu, come già abbiamo accennato, la considerazione che il marxismo ha dell’economia volgare, che non è altro che la banalizzazione dell’economia politica, che si ferma alla superficie dei fenomeni economici e spesso è una vera e propria apologia del capitalismo, corrispondente in pieno alle esigenze che la classe dominante ha di nascondere e mistificare i reali rapporti di produzione. Esponenti divenuti famosi più che per proprio merito per le critiche che il marxismo rivolge loro furono, tra gli altri, ai tempi di Marx ed Engels, F. Bastiat e E. Dühring.
Se l’economia politica classica ha in Ricardo il suo ultimo esponente, l’economia politica borghese in generale è sopravvissuta alle critiche di Marx, nel senso che ha preferito ignorarne l’opera o deformarne i principi. Lo sviluppo del capitalismo monopolistico, in particolare, ha fatto ritenere a molti studiosi che si potesse parlare di un superamento della concezione marxiana (vedi Marxismo) dell’economia politica, in quanto la nuova fase del capitalismo sarebbe regolata da leggi diverse da quelle studiate da Marx.
L’analisi del capitalismo monopolistico condotta da Lenin in L’imperialismo fase suprema del capitalismo mostra invece che, anche in questa nuova fase, permangono le stesse condizioni generali dei rapporti di produzione esaminati da Marx, e che anzi si sono aggravate e intensificate le contraddizioni caratteristiche del capitalismo del XIX secolo.
Dopo la grande crisi del 1929, soprattutto negli USA, sorse una nuova scuola economica, il cui principale esponente fu Keynes, che fornì il fondamento teorico della politica inflazionistica che caratterizzò la successiva ripresa economica. Questo periodo, comunemente chiamato neocapitalismo (vedi) o ancora più genericamente società dei consumi, è stato considerato come totalmente differente dal capitalismo studiato da Marx e da Lenin. Tuttavia gli sviluppi più recenti del modo di produzione capitalistico, che sono contraddistinti dal permanere di una situazione di crisi generalizzata di carattere internazionale, non solo economica ma anche politica, confermano che è tuttora indispensabile, per comprendere la natura di questa crisi e le sue possibili soluzioni, rifarsi ai principi della critica dell’economia politica e del capitalismo sviluppati dal marxismo.
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Economicismo
Tendenza abbastanza diffusa nei partiti socialdemocratici – a cominciare dagli ultimi anni dell’Ottocento – a limitare gli obiettivi della classe operaia alla lotta economica connessa all’aumento dei salari. Si presentò come corrente relativamente organizzata in Russia e nel sindacalismo (vedi) rivoluzionario di G. Sorel, l’economicismo fu la manifestazione sul piano politico della rinuncia a una critica complessiva dal punto di vista marxista della società capitalistica e, in ultima analisi, fu il prodotto di una concezione che contraddiceva gli stessi risultati fondamentali dell’analisi di Marx, che dimostravano l’esistenza di uno stretto rapporto tra organizzazione economica capitalistica e Stato borghese e l’impossibilità per la classe operaia di ottenere miglioramenti stabili delle condizioni di vita dei lavoratori attraverso la semplice rivendicazione economica.
L’economicismo fu combattuto dai principali esponenti del movimento comunista in quanto riduceva il ruolo del partito a semplice contemplazione dell’evoluzione spontanea del movimento di rivendicazione economica. Lenin dedicò una delle sue opere più importanti, il Che fare, all’analisi del rapporto tra rivendicazione economica e lotta politica, mostrando la necessità che il partito politico rivoluzionario trasformi la lotta economica – spesso spontanea – delle masse in lotta politica organizzata per il fine consapevole del rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici, della distruzione dell’apparato statale borghese e della sua sostituzione con lo stato socialista.
Anche Gramsci esaminò criticamente le concezioni economiciste, paragonando il «liberismo» proprio di un gruppo sociale dominante e dirigente e 1’«economicismo» proprio «di un gruppo ancora subalterno, che non ha ancora acquisito coscienza della sua forza e delle sue possibilità e modi di sviluppo e non sa perciò uscire dalla fase di primitivismo». Secondo Gramsci infatti il «sindacalismo teorico» di Sorel, giudicato «economicismo allo stato puro», era una derivazione delle dottrine economiche del libero scambio e impediva alla classe operaia «…di svilupparsi oltre la fase economico-corporativa per elevarsi alla fase di egemonia etico-politica nella società civile e dominante dello Stato» (vedi Egemonia).
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Egemonia
È la funzione esercitata dal gruppo sociale che è, o è in grado di diventare, il nucleo dirigente di un’intera società. Essa si manifesta come capacità di orientamento e di aggregazione di altri gruppi sociali, che svolgono ruoli non altrettanto decisivi all’interno dei rapporti di produzione, nonché come direzione politica, intellettuale e morale su vasti settori di popolazione che non appartengono al gruppo sociale egemone in senso stretto. Secondo Gramsci:
«... il contenuto dell’egemonia politica del nuovo gruppo sociale che ha fondato il nuovo tipo di Stato deve essere prevalentemente di ordine economico: si tratta di riorganizzare la struttura e i rapporti reali tra gli uomini e il mondo economico o della produzione» (Quaderni del Carcere, p. 1053).
Infatti pur essendo un fenomeno di direzione essenzialmente culturale e morale, una «valorizzazione del fatto culturale», le capacità egemoniche di un gruppo sociale sono un’emanazione organica di necessità economiche. Il problema dell’egemonia è strettamente legato a quello del «blocco storico» (vedi), cioè al problema della trasformazione del gruppo subordinato in dominante, «perché l’egemonia è anche economica e ha il suo fondamento nella funzione decisiva che il gruppo dirigente esercita nel nucleo decisivo dell’attività economica».
Nel caso di una formazione sociale sviluppata e complessa la funzione egemonica comprende in sé sia il momento della direzione e dell’orientamento politico, culturale e morale, che quello della coercizione, del dominio sui gruppi sociali egemonizzati. Un esempio, in Italia, del caso in cui l’egemonia si è manifestata come contrasto permanente e ha assunto le caratteristiche di un dominio è il rapporto che si è storicamente realizzato tra il gruppo dirigente industriale del Nord e il Sud arretrato (vedi Questione meridionale). Un altro esempio tipico di rapporto egemonico analizzato da Gramsci è quello che si verificò durante il Risorgimento tra il gruppo che ebbe l’effettiva direzione del moto, i moderati guidati da Cavour, e altri gruppi politici tra i quali i mazziniani, che, anche se in gran parte furono gli artefici materiali delle insurrezioni, non riuscirono a imprimere al processo di formazione dello Stato unitario italiano l’orientamento politico da essi proposto.
La funzione egemonica e le condizioni necessarie per il suo verificarsi sono oggetto di analisi e di studio per tutto il movimento comunista, in quanto, secondo il marxismo, è necessario che la classe operaia e le sue organizzazioni sappiano realizzare l’egemonia come direzione politica, culturale e morale già all’interno della società borghese, nel processo rivoluzionario, conquistando alla prospettiva della costruzione del socialismo la maggioranza della popolazione. Inoltre, poiché l’egemonia storicamente si è presentata anche, e in certi casi soprattutto, come dominio e coercizione di classe, per il partito rivoluzionario si presenta il problema della realizzazione di un’egemonia di tipo nuovo, in cui il momento della direzione, del consenso e della partecipazione siano prevalenti e il momento del dominio scompaia progressivamente, cosa che può avvenire completamente solo con l’estinzione dello Stato e la scomparsa delle classi (vedi).
L’egemonia viene proposta, nell’attuale dibattito politico italiano, come la capacità da parte del Partito Comunista di unificare forze politiche e sociali diverse sulla base di un programma comune che affronti e risolva problemi di interesse generale. A questo proposito è in corso una discussione concernente la corretta interpretazione della stessa formulazione gramsciana dei concetti di egemonia e di blocco storico che, originariamente, si accompagnavano a quello di dittatura del proletariato.
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Eguaglianza
Principio della parità dei diritti degli uomini, che nella sua forma moderna è stato sviluppato in modo particolare dall’Illuminismo. Con la Dichiarazione dei Diritti dell’uomo e del cittadino, votata dall’Assemblea Costituente il 26 agosto 1789, il principio dell’«uguaglianza giuridica e politica» entrava a far parte dei principi legislativi dello Stato francese; era certamente la più grande conquista rivoluzionaria dell’umanità, eppure rivelava già i limiti e gli interessi della classe che l’aveva ispirata.
L’Articolo 1, per esempio: «Gli uomini nascono e restano liberi e uguali nei diritti. Le distinzioni sociali non possono essere fondate che sull’utilità comune…», era già un criterio di subordinazione dell’eguaglianza a un principio estraneo, quello dell’utilità, interpretabile in vario modo. A sua volta l’Articolo 6 dichiarava che
«La Legge deve essere la stessa per tutti, sia che protegga, sia che punisca. Tutti i cittadini, essendo uguali di fronte ai suoi occhi sono egualmente ammissibili a ogni dignità, posto e impiego pubblico, secondo le loro capacità, e senz’altra distinzione di quella delle loro virtù e dei loro talenti»
trascurando quindi di considerare che «capacità», «virtù», «talento» dipendono in ultima analisi, dalla condizione economica e sociale in cui l’uomo si trova fin dalla nascita. La Dichiarazione sanciva dunque un’eguaglianza formale di fronte alle leggi, ai tributi, agli impieghi, ma, garantendo nel contempo la proprietà privata, introduceva di nuovo una fonte insopprimibile di disuguaglianza.
È questo il senso della critica marxista al concetto di eguaglianza giuridica e politica entrato a far parte della Costituzione di quasi tutti gli Stati moderni: la promessa dell’uguaglianza per tutti è subito revocata nella difesa giuridica di condizioni di privilegio.
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Egualitarismo
È la dottrina tendente a garantire a tutti gli uomini le condizioni necessarie e i mezzi per poter raggiungere un’eguaglianza sociale reale ed effettiva.
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Emancipazione
Nel significato letterale è la concessione della libertà, la cessazione del rapporto di schiavitù, indipendentemente dalla volontà dello schiavo. Nel marxismo, invece, assume il significato di risultato della lotta per la liberazione del proletariato dalla condizione di dipendenza economica, politica, sociale e culturale in cui è costretto nella società borghese. Questo termine è spesso riferito a un contesto specifico, come per esempio emancipazione dai vincoli giuridici, o emancipazione del lavoro, e in questo si distingue dal significato più complessivo del concetto di liberazione (vedi).
A questo proposito sono sorte delle polemiche riguardo all’uso del termine di emancipazione per caratterizzare l’obiettivo di movimenti politici, come ad esempio quello femminile. Infatti, secondo alcuni, indicare nell’«emancipazione della donna» le finalità di questo movimento comporta, in un certo senso, l’implicita ammissione del carattere parziale e limitato alla «conquista della parità di diritti con l’uomo» di questa lotta, che invece deve essere una vera e propria lotta di liberazione nel senso più ampio del termine.
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Empiriocriticismo
Concezione filosofica sviluppata da E. Mach e R. Avenarius e affrontata criticamente da Lenin in Materialismo ed Empiriocriticismo. Il punto di partenza della riflessione, in particolar modo di Mach, è il tentativo di liberare il positivismo dal dogmatismo e dalla metafisica di cui era intriso verso la fine del sec. XIX, attraverso la critica dei concetti e dei metodi delle scienze e la definizione di una filosofia il più possibile rigorosa e adeguata allo sviluppo scientifico.
Mach parte nella sua analisi dall’«esperienza pura», cioè dalla sensazione come sola realtà certa e fonte prima di ogni vera conoscenza. La tesi fondamentale è che l’esperienza pura precede la distinzione tra l’aspetto fisico e quello psichico della realtà, che perciò non può e non deve essere interpretata né in senso materialistico né in senso idealistico. Non vi è quindi alcuna distinzione tra soggetto e oggetto: ambedue si identificano in un’unica realtà psicofisica. Gli elementi di questa realtà sono le sensazioni, che, in sé neutre, si qualificano conformemente ai rapporti che di volta in volta vengono a stabilirsi tra di esse.
Così ciò che noi chiamiamo «cose» e «pensiero» sono soltanto forme diverse di rapporto degli stessi complessi elementi, nel senso che la loro diversità dipende solo da una diversità di caratteri e di rapporti. Per Mach le cose al di là di questi elementi sono un’illusione metafisica. In questa concezione anche le teorie scientifiche e le leggi di natura non corrispondono a entità oggettive, ma hanno un carattere convenzionale e di economicità, dipendendo da criteri di utilità, comodità e abitudine.
Lenin combatté aspramente la posizione filosofica di Mach e dei suoi seguaci in Russia mettendone in luce, dietro la facciata critica e aperta, la realtà idealistica e reazionaria. Il significato dell’intervento leniniano può essere compreso solo all’interno della situazione politica e culturale creatasi nella socialdemocrazia russa dopo il fallimento della rivoluzione del 1905. Gli interlocutori di Lenin erano quei pensatori che, pur richiamandosi al marxismo, ne abbandonavano la concezione materialistico-dialettica per farsi portatori della sintesi tra marxismo ed empiriocriticismo, ritenuto idoneo a modernizzare il marxismo, alla luce dei più moderni sviluppi delle scienze e della più avanzata cultura europea. Per Lenin, in una situazione di ripensamento della propria strategia da parte del partito, tale operazione, sotto l’apparenza di un raffinato spirito critico, non solo portava a posizioni idealistiche in filosofia, ma, trattando problemi solo apparentemente slegati dall’azione politica e dalla battaglia teorica, giungeva all’agnosticismo anche nel campo delle scienze sociali e alla negazione della lotta rivoluzionaria.
La critica di Lenin non si rivolse solo ai machisti russi, ma anche e soprattutto a quel movimento più vasto che dominava gli ambienti filosofici e scientifici d’Europa e che ambiva a presentarsi come la più valida scuola di interpretazione dei nuovi risultati scientifici. In questo senso il testo leniniano assume il valore di opera teorica di difesa del marxismo e di suo sviluppo in relazione alle nuove condizioni delle scienze all’inizio del sec. XX. All’empiriocriticismo che riteneva il materialismo superato, Lenin oppose la validità delle tesi del materialismo dialettico (vedi), come le uniche capaci di sciogliere il nodo della crisi delle scienze dell’Ottocento, la considerazione della quale portava i filosofi a conclusioni di tipo convenzionalistico e idealistico.
La realtà esiste oggettivamente, dice Lenin, e l’uomo la conosce attraverso un attivo processo di rispecchiamento teorico e di trasformazione pratica. Mach, nel suo tentativo di superare sia il materialismo che l’idealismo, non si rende conto dell’assoluta opposizione delle due tendenze. Il partire dalle sensazioni di Mach quindi è equivoco finché non si precisa la natura delle sensazioni. Per Lenin «la sensazione è realmente il legame diretto della coscienza col mondo esterno». E’ proprio questo legame che nega Mach, vedendo anzi la sensazione come un muro invalicabile tra la coscienza e il mondo esterno, in definitiva pertanto come l’unica realtà conoscibile. Così o gli elementi sono sensazioni e allora non esistono fuori della coscienza, o non lo sono e allora si dovrebbe in un modo o nell’altro accedere a posizioni materialistiche, in quanto si dovrebbe ammettere l’esistenza di oggetti indipendentemente dalla coscienza. Per Lenin sono le stesse scienze e il loro sviluppo che confermano la validità delle posizioni materialistiche.
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Entrismo
Tattica (vedi) consistente nell’introdursi, con una linea politica predeterminata, all’interno di un gruppo politico già organizzato, allo scopo di condizionare la linea politica di quest’ultimo e di provocare frazioni o scissioni. Questa tattica è stata spesso adottata da organizzazioni che si rifacevano al trotskismo (vedi).
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Estraneazione
È il processo attraverso il quale il produttore si trova nel rapporto col prodotto del suo lavoro come se questo fosse un oggetto esterno. Di conseguenza,
«…quanto più l’operaio lavora, tanto più acquista potenza il mondo estraneo, oggettivo, che gli si crea di fronte, e tanto meno egli possiede. Come nella religione. Più l’uomo mette in Dio e meno serba in se stesso. L’operaio mette nell’oggetto la sua vita, e questa non appartiene più a lui, bensì all’oggetto…» (Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in Opere III, p. 298).
Si tratta dunque di un fenomeno strettamente legato ai processi di oggettivazione (vedi) e di alienazione (vedi). Di quest’ultima, secondo molti, il termine estraneazione è praticamente sinonimo: Marx cioè userebbe l’uno e l’altro indifferentemente per indicare la condizione di estraneità del lavoratore di fronte ai prodotti del suo lavoro e al lavoro stesso. Secondo altri esisterebbe una certa differenza: estraneazione indicherebbe genericamente il diventare estraneo di un prodotto dell’attività umana, alienazione sarebbe la forma storica dell’estraneazione nella società dominata dal capitalismo.
In ambedue i casi il termine rinvia al fatto che i lavoratori sono esclusi da ogni scelta relativa alla qualità e quantità della produzione, imposta dall’alto secondo criteri tendenti a realizzare il massimo profitto (vedi) e indifferenti a ogni altra ragione. I lavoratori colgono qui la loro reale collocazione all’interno delle esigenze produttive: essi verificano in concreto il loro ruolo di «strumenti della produzione, che devono rendere quanto è possibile e costare il meno possibile».
Lo stesso imprenditore non sfugge in quanto uomo a un processo dello stesso tipo e diventa lo strumento del suo capitale, che ha
«…potere di comando sul lavoro ed i suoi prodotti. Il capitalista ha questo potere non per le sue personali o umane qualità, bensì in quanto proprietario del capitale. Il suo potere è il potere d’acquisto del suo capitale, cui niente può resistere» (ivi, p. 269).
L’estraneazione è dunque un fenomeno che riguarda l’umanità nel suo insieme in una lunga epoca del suo sviluppo storico; averne coscienza vuol dire acquisire una di quelle forme di consapevolezza che sorpassano i limiti del momento storico dominato dal modo di produzione capitalistico; è «un reale progresso», nota Marx, ma non la fine dell’estraneazione che è uno degli scopi del comunismo.
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Estremismo
Indica un atteggiamento intransigente, astratto, dogmatico, incapace di cogliere la specificità della situazione; si manifesta spesso nell’adozione di una pratica che, volendo essere rigida applicazione della teoria, è inadeguata a risolvere i problemi posti del processo storico reale. Estremistico, ad esempio, è l’atteggiamento che «si abbandona con facilità a sentimenti rivoluzionari estremi, ma non è capace di dimostrare fermezza, organizzazione, disciplina, tenacia».
Storicamente l’estremismo di sinistra ha rappresentato una delle tendenze costanti dei movimenti rivoluzionari, dai comunardi blanquisti fino ai nostri giorni, e fu sempre avversato dai partiti leninisti che lo valutarono negativamente per le sue risoluzioni velleitarie.
Lenin in particolare intervenne contro il «dottrinarismo di sinistra» espressione teorica del comunismo di sinistra (Linkskommunismus), movimento sviluppatosi in Germania nel primo dopoguerra e le cui direttive pratiche furono fatali per il movimento organizzato. Soprattutto l’invito a non «compromettersi con altri partiti, a non partecipare ai sindacati reazionari e ai parlamenti borghesi, furono indicati da Lenin come operazioni che, indebolendo la classe operaia, finivano col fare il gioco della borghesia.
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Etica
Il termine, che ha una lunga storia di significati variabili, indica la scienza (vedi) costituita dalle attività teoriche dirette alla formulazione di giudizi di valore (vedi Valore); l’oggetto di un’etica, in altre parole, è la valutazione di un comportamento secondo i criteri derivati da un certo sistema di riferimento.
Sul rapporto tra etica e morale esistono pareri discordi: non manca né chi tende a considerarle di fatto non distinguibili l’una dall’altra, né chi considera l’etica come la scienza che ha per oggetto la morale intesa come la somma delle prescrizioni e degli obblighi di carattere, appunto, morale.
Nei classici del marxismo si ha a che fare piuttosto con il primo modo di intendere l’etica che non con il secondo; il sistema di riferimento dell’etica marxista è assai ampio e implica un’interpretazione della storia nella quale è definito lo scopo collettivo di una classe, di un popolo, ecc.; una concezione antropologica (vedi Antropologia) che individua la natura del soggetto umano e le sue forme di espressione; una teoria politica in cui il senso astratto della libertà umana viene precisato concretamente come libertà politica; una teoria economica nella quale si dimostra come un sistema basato sulla divisione del lavoro (vedi) crea degli interessi materiali capaci di determinare diversamente la società e l’agire sociale. Il discorso sull’etica deve quindi richiamarsi a una serie di coordinate teoriche che coinvolgono il marxismo nel suo insieme e particolarmente il concetto di ideologia (vedi).
Nell’ambito di questa può infatti essere condotta l’analisi di un momento ideologico negativo, l’ideologia della borghesia, e di un momento ideologico antitetico, l’ideologia del proletariato come prodotti teorici dell’antagonismo di classe fra i detentori dei mezzi di produzione e i produttori. Come si può rilevare, per esempio a proposito della guerra (vedi) e della nazionalità, c’è sempre da parte maoista la consapevolezza che non si può ricorrere a giudizi di valore assoluto, che non esiste un unico sistema di riferimento; questo fatto semmai è verificabile all’interno dell’ideologia di una singola classe qualora esistano interessi omogenei, ma non tra le diverse classi, le cui differenze di interessi hanno dato origine a un pluralismo ideologico.
Questo può essere constatato nella sfera della morale positiva, cioè di tutte quelle forme di eticità che si sono andate istituzionalizzando come correlato giuridico-politico di un «costume» confacente alla classe al potere; secondo il marxismo le varie regole morali comparse nel corso della storia si rivelano infatti come obblighi specifici che la collettività impone al singolo per realizzare la coesione e l’ordine sociale. La formazione economico-sociale (vedi) è dunque il presupposto dell’etica tanto a livello delle istituzioni quanto a livello di coscienza individuale; se l’uomo, secondo la definizione di Marx, è l’insieme dei suoi rapporti sociali vuol dire che questi non sono soltanto una realtà esterna ma entrano a far parte della sua vita interiore: istituzionalizzati, essi penetrano nella coscienza e nel linguaggio (vedi).
La coscienza etica dell’individuo, in breve, è il riflesso del momento etico della sovrastruttura (vedi) relativa a una data epoca dello sviluppo della società; la morale è allora lo strumento ideologico della classe dominante attraverso il quale si esprime e si rinsalda la legittimità del dominio fino all’interno delle singole coscienze; in questi termini essa entra a far parte integralmente dell’ideologia e, nel caso dell’ideologia borghese che continua a considerare i rapporti umani in modo astratto, introduce specifici concetti mistificatori la cui funzione oggettiva è l’occultamento del proprio interesse di classe. Se infatti un’ideologia (vedi) non contempla l’idea dello sfruttamento di una classe sull’altra, è evidente che non potrà dar luogo ad alcun giudizio morale sul fatto.
Criticando radicalmente la società dominata dal modo di produzione capitalistico il marxismo tocca dunque la sfera dell’etica sotto tre aspetti tra loro diversi ma complementari. Il primo è quello della critica alla concezione e alle regole della moralità borghese, condotta all’interno dell’analisi scientifica dell’ideologia. Il secondo aspetto riguarda l’etica futura, quella dell’umanità finalmente liberata dal dominio di classe dove l’uomo potrà passare dal «regno della necessità al regno della libertà» (vedi Libertà e necessità); così secondo le parole di Engels finirà la condanna alla «lotta per l’esistenza individuale» e gli uomini potranno realizzare pienamente le proprie facoltà fisiche e spirituali.
Il terzo aspetto si può riassumere in una domanda: qual è il «giusto» comportamento umano secondo i criteri del marxismo nella società ancora divisa in classi? Da Marx in poi buona parte degli scritti marxisti contengono degli imperativi morali: il Manifesto stesso si conclude con un imperativo, la Critica del programma di Gotha richiama a «doveri» che, inadempiuti, significano tradimento o capitolazione di fronte al nemico di classe; le opere di Engels non furono da meno nel delineare l’impegno morale dei militanti; Lenin insisté infinite volte sulla devozione alla causa, la fermezza, l’abnegazione spinte fino all’eroismo dei comunisti. Gramsci a sua volta scriveva: «siamo nel Partito perché persuasi che in esso, e solo in esso sia la moralità che corrisponde alle leggi dell’etica».
Vengono così tracciati gli elementi di un «codice etico» che indica doveri e pone le basi per giudizi di valore; il problema, ancora aperto, è quello di motivare in termini marxisti la validità di questi obblighi morali che costituiscono la premessa per ogni azione. Quando si tentò di farlo introducendo dall’esterno un’etica preesistente, l’operazione – svolta all’insegna del «ritorno a Kant» – diede anche in questo campo pessimi risultati (vedi Revisionismo).
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Evoluzionismo
Con questo termine bisogna intendere il complesso delle dottrine filosofiche che vedono nell’evoluzione il tratto fondamentale di ogni tipo o forma di realtà e perciò il principio adatto a spiegare la realtà nel suo complesso. In questo senso l’evoluzionismo è stato assunto come schema fondamentale di molte e diverse filosofie, sia in senso materialistico che in senso spiritualistico. Il tratto comune è il richiamo alla «teoria dell’evoluzione», sviluppata tra gli altri da Darwin, la quale afferma la provenienza di tutti gli esseri viventi da uno o più tipi originali attraverso la trasformazione graduale delle specie viventi, come ipotesi fondamentale delle teorie biologiche. Implicita in questa concezione è l’idea di progresso, cioè la convinzione che si vada pacificamente da forme inferiori e semplici a forme superiori e più perfette.
Questo principio andava contro quello della fissità e immutabilità della specie, riflessi in biologia della tradizione metafisica dal pensiero greco in poi, che aveva costituito per molti secoli l’impalcatura generale della ricerca filosofica e scientifica. Soltanto a partire dal sec. XVIII alcuni naturalisti cominciarono a considerare la possibilità della trasformazione delle specie biologiche: fu però Darwin nel 1859 col suo libro L’origine della specie a fondare scientificamente la moderna teoria dell’evoluzione biologica.
Da allora gli studi di genetica hanno avviato la teoria dell’evoluzione su un terreno di ricerche sperimentali, all’interno del quale essa è divenuta il quadro complessivo degli strumenti e delle direzioni possibili, evitando le banalizzazioni e le dogmatizzazioni che erano state le caratteristiche della fase precedente. Così per esempio l’abbandono dell’idea di progresso. Se l’evoluzione non è necessariamente progresso, tanto meno progresso unilineare, necessario e costante, fu invece proprio questo l’aspetto centrale dell’operazione di estensione dei principi evoluzionistici dal campo delle scienze naturali a quello delle scienze umane e sociali, che progressivamente giunsero a improntare di sé la concezione generale del mondo dominante nella cultura positivistica della seconda metà dell’Ottocento e a costituire un elemento – talora integrante, talora dominante – di concezioni opposte.
La figura più importante di questa operazione fu il filosofo inglese Spencer, che accentuò in senso meccanicistico i temi dell’evoluzionismo, postulando un’idea di progresso capace di spiegare la realtà nella sua totalità (vedi) e mettendo in particolare rilievo i tratti ottimistici e gradualistici, attraverso una concezione dell’evoluzione che, dal mondo naturale a quello umano, considerava la moralità e la socialità come ulteriori gradi di un unico processo naturale di sviluppo della realtà.
Se dapprima, come si è detto, la teoria dell’evoluzione fornì la base scientifica alle teorie positivistiche di tipo meccanicistico, in seguito, nell’ambito della crisi del positivismo (vedi), permeò anche le concezioni spiritualistiche e irrazionalistiche a cavallo dei due secoli: segno della vastissima diffusione che essa ebbe in tutte le forme della vita intellettuale.
La credenza che la realtà fosse un processo lento, graduale e necessariamente progressivo influenzò profondamente l’impostazione delle ricerche storiche e sociologiche, fino a contaminare anche il marxismo a un certo punto del suo sviluppo storico. I temi dell’evoluzionismo infatti furono fatti propri dalla Seconda Internazionale e dai suoi capi, i quali negando la dialettica (vedi), che si muove per contraddizioni (vedi) e rotture, accettarono il gradualismo e il meccanicismo positivista, sulla cui critica proprio Marx ed Engels avevano sviluppato la propria concezione.
Tale opera di revisione del marxismo si basava sull’ipotesi che la lotta di classe fosse destinata ad attenuarsi, attraverso il progressivo accoglimento delle necessità delle classi subalterne nel quadro di un pacifico e graduale ampliamento della democrazia borghese (vedi) verso il socialismo. In questa concezione, che si riassumeva nella frase di E. Bernstein secondo cui il movimento era tutto e il fine nulla, il processo rivoluzionario si riduceva a una linea retta, il cui obiettivo strategico rimaneva un miraggio slegato dalle sue tappe concrete di avvicinamento, mentre l’obiettivo tattico si riduceva a mero tatticismo (vedi) economicista, slegato dal progetto complessivo. La classe operaia non dovrebbe quindi mirare a impadronirsi del potere con la rivoluzione, ma riformare lo Stato, trasformandolo in senso democratico; dovrebbe limitarsi a battersi per la democrazia e a sostenere l’espansione economica e l’interesse nazionale. Dovrebbe cioè rinunziare al programma massimo del rovesciamento del sistema capitalistico, per un’evoluzione pacifica delle istituzioni borghesi, superando così la divisione e l’antagonismo tra le classi.
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Falsa coscienza
È una forma di coscienza inconsapevole dei propri limiti storici e della complessità dei propri rapporti con altri fattori che influenzano i suoi modi di essere. Non è dunque né critica né dialettica laddove sarebbe necessario esserlo; è una coscienza frammentaria e unilaterale che non sapendo della sua frammentarietà e della sua unilateralità si considera corretta; in breve è una comprensione distorta della realtà e si riallaccia in questo modo al concetto marx-engelsiano di ideologia (vedi).
Scriveva Engels in una lettera del 1893 a Franz Mehring:
«L’ideologia è un processo che il cosiddetto pensatore compie senza dubbio con coscienza, ma con una coscienza falsa. Le vere forze motrici che lo spingono gli restano sconosciute, altrimenti non si tratterebbe più di un processo ideologico. Così egli si immagina delle forze motrici apparenti o false. Trattandosi di un processo intellettuale, egli ne deduce il contenuto, come la forma, dal puro pensiero, sia dal suo proprio pensiero che da quello dei suoi predecessori. Egli lavora con la sola documentazione intellettuale che egli prende, senza guardarla da vicino, come emanante dal pensiero, e senza studiarla in un processo più lontano, indipendente dal pensiero; e tutto ciò è per lui identico all’evidenza stessa, perché ogni azione, in quanto trasmessa dal pensiero, gli appare così in ultima istanza fondata sul pensiero» (in Marx, Engels, Scritti sull’arte, p. 73).
Il rapporto tra falsa coscienza e ideologia, che Marx e Engels considerarono sempre strettissimo fino a usare talvolta i due termini come sinonimi, è stato inteso anche come rapporto tra un generico atteggiamento mentale (falsa coscienza) e la sistematizzazione teorica dei suoi contenuti (ideologia); in questo senso la falsa coscienza sarebbe il momento precedente l’ideologia propriamente detta che darebbe un’apparenza razionale a quanto era già confusamente presentito.
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Famiglia
Secondo la concezione materialistica della storia (vedi Materialismo storico), i rapporti capitalistici di produzione condizionano profondamente le istituzioni e in modo particolare la famiglia. La critica condotta dal marxismo al modo di produzione capitalistico coinvolge direttamente la famiglia, così come essa si presenta nella società borghese:
«La moderna famiglia singola è fondata sulla schiavitù domestica della donna, aperta o mascherata, e la società moderna è una massa composta nella sua struttura molecolare da un complesso di famiglie singole. Al giorno d’oggi l’uomo, nella grande maggioranza dei casi, deve essere colui che guadagna, che alimenta la famiglia, per lo meno nelle classi abbienti; il che gli dà una posizione di comando che non ha bisogno di alcun privilegio giuridico straordinario. Nella famiglia egli è il borghese, la donna rappresenta il proletario» (Engels, L’origine della famiglia della proprietà privata e dello Stato, p. 101).
Tuttavia se la critica della famiglia borghese è l’aspetto più conosciuto dell’analisi marxista della famiglia, esso non può essere compreso se non viene inserito nel quadro più generale dello studio, condotto dai fondatori del materialismo storico, e in particolare da Engels, sui rapporti che intercorrono, all’interno delle diverse epoche storiche, tra modo di produzione (vedi) e istituzioni sociali. In particolare la famiglia deve essere considerata, nel suo sviluppo storico, da un lato come il risultato di una delle prime e più semplici divisioni naturali del lavoro (vedi) tra uomo e donna all’interno delle società primitive, e dall’altro come uno stimolo a un ulteriore sviluppo della produttività del lavoro.
Lo sviluppo della proprietà privata e dello scambio hanno fatto sì che la famiglia, da semplice rapporto di riproduzione dell’umanità, divenisse sempre più un rapporto sociale, in cui uomo e donna intervengono solo in quanto partecipano, in diversa misura, alla produzione di mezzi di sussistenza. La famiglia è sorta, dunque, in stretto rapporto con il processo di divisione in classi (vedi) della società e ha risentito, nel corso della storia, dell’approfondirsi e dell’estendersi della divisione del lavoro. Il modo di produzione capitalistico ha portato alle estreme conseguenze la frattura tra ciò che è «naturale», cioè il rapporto tra uomo e donna, e ciò che sono uomo e donna in quanto inseriti nei rapporti di produzione capitalistici, innescando quello che Marx chiama il processo di dissoluzione della famiglia borghese.
La crisi della famiglia borghese, nei suoi diversi aspetti, da quello morale (vedi Etica) a quelli più strettamente connessi con le contraddizioni sociali e con le condizioni di vita dei lavoratori, si inserisce secondo il marxismo nel più generale processo di disgregazione dei rapporti umani (vedi Alienazione), che è caratteristico della società borghese. Nell’ analizzare i fenomeni collegati con la nascita della grande industria, che comportò l’inserimento, spesso coatto, delle donne e dei bambini nel processo produttivo, Marx afferma:
«…per quanto terribile e repellente appaia la dissoluzione della vecchia famiglia entro il sistema capitalistico, cionondimeno la grande industria crea il nuovo fondamento economico per una forma superiore della famiglia e del rapporto fra i due sessi, con la parte decisiva che essa assegna alle donne, agli adolescenti e ai bambini d’ambo i sessi nei processi di produzione socialmente organizzati al di là della sfera domestica... E’ altrettanto evidente che la composizione del personale operaio combinato con individui d’ambo i sessi e delle età più differenti, benché nella sua forma spontanea e brutale cioè capitalistica, dove l’operaio esiste in funzione del processo di produzione e non il processo di produzione per l’operaio, che è pestifera fonte di corruzione e schiavitù, non potrà viceversa non rovesciarsi, in circostanze corrispondenti, in fonte di sviluppo di qualità umane» (Il Capitale, libro I, pp. 536-537).
Infatti la critica delle istituzioni sociali borghesi, e in particolare della famiglia, nel marxismo non è fine a se stessa, ma si pone nella prospettiva di un superamento delle condizioni materiali che fanno della famiglia borghese un’istituzione oppressiva, in cui si riproducono, in forma mistificata, i rapporti capitalistici di produzione. La nuova funzione sociale svolta dalla donna nel capitalismo ha inoltre posto le premesse per il sorgere di un movimento di liberazione (vedi Questione femminile), che affronta non soltanto i problemi generati dalla posizione occupata dalla donna nell’organizzazione capitalistica della produzione, ma anche i problemi creati dalla famiglia e in generale dal rapporto uomo-donna.
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Fascismo
Le origini e la natura del fascismo, inteso come movimento politico e forma di organizzazione dello Stato, sono state oggetto di svariate e opposte analisi. le sue diverse interpretazioni, da quella liberale classica fino a quelle di tipo socialdemocratico, operano di esso una generalizzazione di alcuni elementi politico-sociali o di dati momenti storici, perdendo però il quadro complessivo del fenomeno e soprattutto i suoi presupposti reali di classe (vedi) e strutturali (vedi Struttura e sovrastruttura).
Così di volta in volta il fascismo viene visto come fenomeno di paesi economicamente e socialmente arretrati, come fenomeno «totalitario», come espressione politica del ceto medio o dei settori parassitari e arretrati della borghesia. Di esso si attribuisce la responsabilità alla piccola borghesia in crisi o, peggio, agli strati sociali sbandati dalla guerra, vedendolo cioè più come un prodotto dell’esasperazione soggettiva dei ceti colpiti dalla crisi che come una tendenza storica del capitalismo a un determinato stadio del suo sviluppo.
L’interpretazione marxista supera queste tesi riduttive e unilaterali e individua le radici del fascismo nella crisi dello Stato liberale e della democrazia borghese (vedi) nella situazione posteriore alla prima guerra mondiale, individuando cioè il legame storico del fascismo con le lacerazioni del quadro capitalistico e imperialistico. Esso testimonia l’impossibilità da parte della grande borghesia monopolistica di mantenere il proprio dominio economico e politico se non attraverso una profonda modificazione delle forme statali del dominio di classe, attraverso cioè la soppressione stessa della democrazia borghese e delle forme politico-istituzionali ad essa collegate (parlamento, partiti, sindacati, fino alle strutture associative e culturali proprie dello Stato liberale e all’abolizione totale delle libertà democratiche e di ogni forma di organizzazione autonoma delle masse).
L’analisi dell’intreccio di questi processi, da parte dei comunisti, portò Dimitrov, nel suo rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista (vedi Internazionale) nel 1935, ad affermare:
«Il fascismo non è una forma di potere statale che sia "al di sopra di tutte e due le classi, del proletariato e della borghesia", … il fascismo è il potere dello stesso capitale finanziario... non è l’ordinaria sostituzione di un governo borghese con un altro, ma è il cambiamento di una forma statale del dominio di classe della borghesia la democrazia borghese con un’altra sua forma, con la dittatura terroristica aperta» (Dimitrov, Rapporto al VII Congresso, in AA.VV., L’Internazionale e il fascismo, pp. 49-50).
Egli sintetizzò le caratteristiche fondamentali del fascismo nella celebre definizione di «dittatura terroristica aperta degli elementi più reazionari, più sciovinisti e più imperialisti del capitale finanziario». Il fascismo è quindi una forma specifica, particolare, della reazione capitalistica alle lotte proletarie e la spiegazione che ne dà il marxismo sottolinea la convergenza nazionalistica e antisocialista della piccola borghesia con l’orientamento del grande capitale nella crisi imperialistica post-bellica.
Per la definizione del fascismo quindi due sono gli elementi essenziali: il fatto che esso si realizza come dittatura della borghesia monopolistica da una parte e come movimento degli strati piccolo borghesi dall’altra. La loro unità e la loro compresenza nel processo storico reale possono essere comprese solo se si indica nel primo la fondamentale natura di classe, su cui fondare l’analisi del secondo come strumento di reclutamento.
Così la mobilitazione della piccola borghesia cittadina e rurale diventava proprio lo strumento attraverso il quale la borghesia poteva governare con metodi diversi da quelli democratici. In particolare in Italia, dove la borghesia non aveva mai avuto una forte organizzazione politica unificata, il partito fascista acquista le caratteristiche di organizzazione di tipo nuovo, adatta al tempo stesso a esercitare la dittatura sulle classi lavoratrici e a crearsi una forte base di manovra tra i ceti (vedi) medi impoveriti dalla crisi, e in certi casi, come avvenne per esempio in Germania, anche in alcuni strati più arretrati della classe operaia. Così il fascismo, espressione dei gruppi dirigenti della borghesia e degli agrari e proprietari fondiari, socialmente seppe apparire, all’inizio, come il rappresentante della lotta politica di parte della piccola e media borghesia contro le antiche classi dirigenti liberali. A questo proposito scriveva Togliatti:
«All’origine, la base sociale del fascismo era in certi strati della piccola borghesia rurale e contadina. In termini più precisi era costituita nelle campagne al massimo da contadini medi, da fattori e da mezzadri … Anche nelle città il fascismo si appoggiò dapprima sui piccoli borghesi: erano in parte lavoratori (artigiani), specialisti e commercianti in parte anche elementi spostati per colpa della guerra… Se si considera da qual lato si portassero le aspirazioni di questi ambienti sociali si vedrà che alcuni erano trascinati dai loro interessi alla lotta antioperaia; esisteva invece in altri una base obiettiva e anche l’inizio di una tendenza anticapitalistica. E’ già stato constatato altrove che storicamente i gruppi sociali intermedi possono talora allearsi alla borghesia, talora, e in presenza di circostanze ben precise, coalizzarsi con il proletariato» (A proposito del fascismo, in Opere II, p. 21).
In seguito, col trasformarsi del fascismo da movimento politico in regime, esso tese a perdere il carattere di movimento autonomo di certi strati sociali intermedi e si saldò strettamente, con la sua stessa organizzazione, alla struttura economica e politica delle classi dirigenti, come strumento di reazione e repressione, ma anche come centro di unità politica delle classi al potere: capitale finanziario (vedi), grande industria, agrari. Se politicamente ciò significò una trasformazione reazionaria di tutta la vita del paese e l’oppressione feroce della classe operaia e dei lavoratori in generale, nel campo economico il fascismo diventò strumento di accentramento e di controllo di tutte le ricchezze nelle mani del capitalismo. Così Togliatti ne coglie le caratteristiche essenziali:
«penetrazione del capitale finanziario in tutta la vita economica del paese per tentar di ridurre le contraddizioni interne che facevano ostacolo ad una rapida stabilizzazione; diminuzione feroce dei salari; sfruttamento odioso dei consumatori; tassazione inaudita dei produttori piccolo-borghesi» (ivi, p. 18).
Non potendo qui per brevità riassumere tutte le caratteristiche del fascismo come fenomeno non solo italiano, ma europeo e mondiale, e soprattutto indicarne le complessità dei rapporti politici e fra le classi e sul piano culturale, tuttavia è imprescindibile mostrarne almeno i riflessi in politica estera.
La definizione del fascismo come «dittatura terroristica» portò immediatamente i comunisti a denunciare la minaccia che esso rappresentava per la pace. Così l’abolizione del parlamentarismo e della democrazia borghese, se in politica interna erano il prodotto della lotta contro la classe operaia, in politica estera significavano un «indiscriminato sciovinismo» e la guerra come soluzione inevitabile della corsa alla spartizione imperialistica del mondo.
Coronamento di tutta la propaganda ideologica, dell’azione politica ed economica del fascismo è la tendenza di esso all’“imperialismo”. Questa tendenza è l’espressione del bisogno sentito dalle classi dirigenti industriali-agrarie italiane di trovare fuori del campo nazionale gli elementi per la risoluzione della crisi della società italiana. Sono in essa i germi di una guerra che verrà combattuta, in apparenza, per l’espansione italiana, ma nella quale in realtà l’Italia fascista sarà uno strumento nelle mani di uno dei gruppi imperialisti che si contendono il dominio del mondo» (Gramsci, Tesi di Lione, p. 30).
Queste osservazioni a proposito dell’Italia possono senz’altro essere estese alle diverse forme del fascismo europeo. Si poneva quindi alla Internazionale Comunista e ai partiti comunisti europei l’esigenza di comprendere che, se il fascismo nasceva e si sviluppava dal seno stesso della democrazia borghese, pure la difesa di essa contro la dittatura, si presentava come imprescindibile e anzi come lo strumento necessario per legare al proletariato il ceto medio e contadino, dapprima illuso dal fascismo, ma presto gettato dal capitalismo in condizioni simili a quelle della classe operaia.
In particolare nel VII Congresso dell’Internazionale Comunista, nel 1935, venne individuato il carattere instabile del fascismo e il fatto che esso portasse con sé forti elementi di decomposizione e dissoluzione politica. La parola d’ordine del «Fronte popolare (vedi) antifascista contro la dittatura e la guerra», indicò nella politica di unità della classe operaia con tutti gli strati sociali avversi al fascismo e all’imperialismo, le basi di quell’azione unitaria che nei fronti nazionali (vedi) avrebbe portato alla vittoria sul nazifascismo.
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Feudalesimo
Sistema politico-sociale-economico tipico del Medioevo, fondato su rapporti interpersonali tra il proprietario terriero e la classe lavoratrice in una forma di economia chiusa, basata sull’autoconsumo. Storicamente decaduto con la nascita degli stati nazionali, lasciò tuttavia alcuni ordinamenti tipici che restarono in uso fino alla rivoluzione francese e addirittura all’Ottocento.
Il feudalesimo è contraddistinto dalla presenza di un piccolo numero di grandi proprietari possessori delle terre, dei mezzi di produzione e, parzialmente, degli uomini addetti alla produzione.
Il livello di sviluppo delle forze produttive era caratterizzato essenzialmente dalla capacità di fondere e lavorare il ferro e dallo sviluppo dell’agricoltura e dell’orticoltura.
L’organizzazione statale, la cui forma caratteristica fu il Sacro Romano Impero, era caratterizzata dal dominio congiunto della Chiesa e dei grandi proprietari feudali e si ramificava attraverso l’apparato burocratico gerarchico del vassallaggio.
La dissoluzione del feudalesimo è avvenuta con lo sfasciarsi del Sacro Romano Impero e soprattutto col processo di sviluppo dell’artigianato, del commercio e della navigazione. Ma il fattore determinante è stato l’inizio dell’accumulazione originaria (vedi).
L’ulteriore sviluppo della produzione artigianale da un lato e dall’altro, il processo di accumulazione di tipo usuraio del danaro, nonché l’accentramento dei profitti del commercio, determinarono le condizioni per la nascita di una nuova classe sociale, la borghesia, che deteneva il possesso di gran parte del capitale commerciale, del danaro circolante.
L’esigenza di accumulare questo danaro ulteriormente spinse la nuova classe a contrastare i rapporti di produzione feudali e a dare inizio allo sfruttamento del lavoro salariato. Il danaro e la proprietà terriera infatti, per poter essere trasformati in capitale, necessitano della presenza di una massa di lavoratori liberi da rapporti di produzione feudali (vedi Plusvalore).
La formazione di questa massa di «proletari» fu una conseguenza del processo di dissoluzione complessivo della società feudale, in quanto i piccoli e i piccolissimi proprietari terrieri si trovarono impossibilitati a provvedere alla propria sussistenza a causa delle leggi sulle recinzioni e delle espropriazioni dei grandi feudi.
La privazione dei diritti di possesso comune delle terre e del legname spingeva la massa lavoratrice verso la città, dove era costretta a vendere la propria forza-lavoro.
Infine si ricorda che, mentre il passaggio dal feudalesimo al capitalismo fu di tipo economico-espansivo, quello dal capitalismo al socialismo è di tipo politico.
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Filosofia
Il termine indica, al di là delle infinite variazioni possibili, l’insieme delle riflessioni di tipo razionale svolte nel corso della storia su una serie di problemi, presunti o reali, posti nelle più diverse circostanze.
Nell’ambito della filosofia è stata così trattata una lunga serie di problemi: tra essi, quello della conoscenza (gnoseologia), cioè l’indagine sui limiti e sulla qualità dei modi con cui l’uomo conosce il mondo e lo interpreta; il problema etico-politico, che ricerca la distinzione tra ciò che è bene e ciò che è male nell’agire personale e nei rapporti interpersonali, includendo in questi ultimi anche il problema dello Stato (autorità, struttura, leggi); il problema metafisico, che include in sé quello ontologico, riguardante la natura degli aspetti immateriali delle cose e delle relazioni tra esse.
Il punto di vista del marxismo sulla filosofia e sui suoi problemi è connesso strettamente al complesso delle questioni generali del materialismo storico (vedi) e del materialismo dialettico (vedi), giacché è proprio partendo da un terreno filosofico, cioè il superamento critico della filosofia classica tedesca e in particolare dell’idealismo hegeliano, che Marx ed Engels giunsero a delineare la propria concezione.
Affrontare quindi il problema della filosofia nel marxismo significa proprio rimandare ai suoi fondamenti, sia da un punto di vista storico, sia ai fini di una comprensione unitaria dei suoi diversi aspetti. Per il marxismo, se una concezione filosofica si forma e si sviluppa sui risultati di tutto il pensiero filosofico anteriore e subisce inoltre l’influenza della situazione culturale e scientifica in cui si situa, essa al con tempo non può essere compresa se non come espressione razionale di una determinata epoca e classe, di cui anzi rappresenta, rispetto ad altri settori della cultura, il lato più consapevole e critico. L’indagine filosofica non è quindi una esercitazione arbitraria di principi staccati dal mondo, ma al contrario costituisce l’espressione più raffinata attraverso cui l’ideologia (vedi) maschera le contraddizioni sociali reali.
Su questa base il marxismo indica nella filosofia la presenza di una istanza sociale e morale, che in ultima analisi testimonia la politicità (la «partiticità» come dice Lenin) del confronto e dello scontro tra le diverse dottrine filosofiche, sia nel loro rapporto con la società in generale, sia nella loro dialettica (vedi) interna, dove in particolare l’alternativa tra le concezioni materialistiche e quelle idealistiche ne appare come l’antagonismo direttivo. Alla luce di queste considerazioni possiamo comprendere il significato dell’affermazione di Engels secondo cui «il movimento operaio tedesco è l’erede della filosofia classica tedesca».
Con ciò si intende che il proletariato è l’unica forza capace di risolvere praticamente quelle contraddizioni che in filosofia, apparendo in forma teorica mistificata, non potevano essere superate. In altre parole viene tradotto nella realtà sociale e anzi nella prefigurazione (vedi) di una nuova società, quella comunista, ciò che nella filosofia si presentava in una veste ideologica. La filosofia viene dunque negata, ma nel senso che il suo superamento è proprio la sua realizzazione (vedi Dialettica), cioè la realizzazione del rovesciamento pratico di ciò che teoricamente nella filosofia appariva mistificato: la società divisa in classi. La frase di Marx «i filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo, ma si tratta di trasformarlo» significa proprio questo: unità tra l’interpretazione e la conoscenza del mondo e la sua trasformazione, unità tra teoria (vedi) e pratica (vedi Prassi o pratica). E ciò nel duplice senso che da una parte si giunge al movimento rivoluzionario, come ciò che determina il cammino del mondo e dall’altra alla liberazione dalle gabbie della metafisica di ciò che permette ad esso di procedere: una concezione scientifica sia del mondo umano che di quello naturale.
Ciò del resto rappresenta proprio il percorso teorico di Marx ed Engels: dall’esame critico dell’idealismo hegeliano e del materialismo ingenuo di Feuerbach al loro superamento nella critica dell’economia politica (vedi) e nella fondazione di una teoria delle classi e della rivoluzione.
Comprendere il valore filosofico del marxismo allora significa vedere nella filosofia non più una metafisica coincidente con tutto l’ambito del sapere, una scienza delle scienze. Storicamente dalla filosofia si sono venute staccando, rendendosi autonome, per metodo e per oggetto di indagine, le varie discipline scientifiche. Il campo della filosofia si è così ristretto a vantaggio delle scienze positive. E’ quello che intende Engels quando afferma:
«Da ogni parte ormai non si tratta più di escogitare dei nessi nel pensiero, ma di scoprirli nei fatti. Alla filosofia, cacciata dalla natura e dalla storia, rimane soltanto il regno del pensiero puro, nella misura in cui esso continua a sussistere: la dottrina delle leggi del processo del pensiero: la logica e la dialettica» (Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, pp. 76-77).
La filosofia cioè non viene intesa come una costruzione che pretende di dare un quadro completo e definitivo della natura e del mondo; non è un sistema arbitrario di leggi.
«Insomma non è più una filosofia, ma una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza della scienza per sé stante, ma nelle scienze reali. La filosofia dunque è qui "superata", cioè "insieme sorpassata e mantenuta", sorpassata quanto alla sua forma, mantenuta quanto al suo contenuto reale» (Engels, Antidühring, p. 147).
È questo il significato della «fine della filosofia» affermata da Marx ed Engels. Fine di una forma storica della filosofia e rifondazione di essa come concezione unitaria del mondo naturale e umano, a partire dalla definizione materialistica del rapporto uomo-natura e dalla concezione dialettica dei processi di conoscenza della natura e delle forme di intervento su di essa. Di qui la nozione di materialismo dialettico (vedi), come istanza critica che si radica nelle scienze, di cui coglie il carattere unitario, dando una dimensione storica al loro sviluppo, ponendole in collegamento con le altre manifestazioni teoriche e soprattutto liberando le loro metodologie da ogni contaminazione idealistica, che nega le condizioni e i presupposti necessari alla loro stessa esistenza. Una concezione del mondo veramente unitaria (vedi Monismo), cioè che sappia allora risolvere, almeno tendenzialmente, la frattura tra «scienze umane» e «scienze della natura» e che, in prospettiva, si ponga come nucleo dinamico di una cultura in cui il sapere scientifico si medi con la conoscenza e il linguaggio comuni. Definendo i caratteri di quella «filosofia spontanea» del senso comune, per cui «tutti gli uomini sono filosofi», Gramsci poneva così la questione:
«Avendo dimostrato che tutti sono filosofi, sia pure a modo loro, inconsapevolmente, perché anche solo nella minima manifestazione di una qualsiasi attività intellettuale, il “linguaggio”, è contenuta una determinata concezione del mondo… è preferibile "pensare" senza averne consapevolezza critica… cioè "partecipare" a una concezione del mondo "imposta" meccanicamente dall’ambiente esterno, e cioè da uno dei tanti gruppi sociali nei quali ognuno è automaticamente coinvolto fin dalla sua entrata nel mondo cosciente… o è preferibile elaborare la propria concezione del mondo consapevolmente e criticamente… scegliere la propria sfera di attività, partecipare attivamente alla produzione della storia del mondo» (Quaderni del Carcere, pp. 1375-1376).
Il marxismo pone le premesse per una concezione del mondo che assicuri da un lato lo sviluppo della scienza in stretto rapporto con il linguaggio e il senso comune, ma che dall’altro assicuri che questo si costruisca su di una base razionale e scientifica, contro le tentazioni dell’arbitrio, delle credenze e dell’idealismo. In ciò soprattutto sta la necessità di una «filosofia della prassi» (vedi) come espressione critica e rivoluzionaria, come strumento per la liberazione degli uomini.
Riferirsi a una concezione del mondo unitaria non vuol dire tuttavia concepire il marxismo come in sé compiuto, ma anzi necessariamente occorre coglierne il carattere dinamico, aperto, sia nel senso di un costante riferimento creativo alla pratica concreta, sia come concezione che accoglie al suo interno i nuovi risultati delle scienze, ponendoli tra di loro in collegamento. E ciò anche evidentemente per quanto riguarda la comprensione critica dello sviluppo delle diverse correnti filosofiche dopo Marx, nell’Ottocento e nel Novecento, a partire dallo stesso positivismo (vedi), sino agli indirizzi neopositivistici, esistenzialistici e del pragmatismo.
Di essi, senza farne oggetto di un indiscriminato giudizio negativo, occorre cogliere le rilevanti influenze non solo nella cultura ma nella società in generale e soprattutto individuare gli orientamenti ideali di un pensiero borghese che, nelle sue diverse forme, trova nel confronto col marxismo le ragioni del proprio sviluppo. Non si tratta di operare mediazioni tra concezioni peraltro inconciliabili, quanto piuttosto di compiere un esame critico, ai fini di eventuali nuove acquisizioni, specialmente per quanto riguarda determinati ambiti della ricerca teorica moderna.
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Filosofia della prassi
È il termine con cui Gramsci indicava la dottrina di Marx. Probabilmente Gramsci non usava il termine «marxismo» per non incorrere nella censura; tuttavia la stessa scelta di questa parola e l’impostazione che Gramsci diede al suo sforzo per «liberare» il marxismo dalle interpretazioni errate, che ne impedivano lo sviluppo, conferiscono un interesse particolare a questo concetto.
Infatti, secondo Gramsci, una delle caratteristiche essenziali della «filosofia della prassi» è lo sforzo di «unificare il movimento pratico e il pensiero teorico» in quello che egli definiva uno «storicismo assoluto», cioè in una concezione che assegnasse alle ideologie un significato determinato in relazione alla struttura economica; una delle novità più importanti del marxismo nei confronti delle precedenti filosofie consiste, dunque, secondo Gramsci, nell’aver instaurato una concezione unitaria in cui «Tutto è politica, anche la filosofia o le filosofie e la sola “filosofia” è storia in atto, cioè la vita stessa»
Inoltre «il carattere della filosofia della prassi è specialmente quello di essere una concezione di massa, una cultura di massa che opera unitariamente…». Si tratta cioè di un fenomeno nuovo, che fa sì che il marxismo debba considerarsi come autonomo nei confronti delle filosofie precedenti.
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Fisiocrazia
È la prima teoria che analizza la produzione capitalistica considerando le leggi proprie della produzione come date dalle condizioni in cui il capitale viene prodotto e produce. Il principale esponente della fisiocrazia fu F. Quesnay, che viene anche considerato il fondatore della scuola chiamata dei «fisiocrati» (o fisiocratici) che si diffuse particolarmente in Francia nella seconda metà del ’700, La sua opera principale fu il Tableau économique (Quadro economico).
I fisiocratici attribuivano l’esistenza di valore (vedi) e di plusvalore (vedi) unicamente alla produzione agricola. L’indagine economica svolta dagli esponenti di questa teoria inizia dal sistema economico produttivo, immaginandolo autonomo e indipendente dalla circolazione (vedi) e dallo scambio (vedi). Fu una concezione che si contrappose al sistema monetario e mercantilista, riconoscendo lo scambio non tra uomo e uomo, ma unicamente tra uomo e natura. L’industria, secondo i fisiocratici, è considerata unicamente come una parte improduttiva del sistema economico, come una semplice appendice dell’agricoltura. La condizione originale dello sviluppo del capitale è la contrapposizione della terra – come condizione originaria ed autonoma del lavoro, nelle mani di una classe particolare – al lavoro libero. Anche i fisiocratici più aperti, che rivolsero la loro attenzione alla circolazione del prodotto divenuto merce (ma solo in quanto espressione di lavoro in generale), ritennero che il valore assunto fosse importante non per la sua forma, ma per la sua dimensione, e che il profitto derivante dalla circolazione dei beni non fosse che un profitto relativo. Secondo Marx i fisiocratici
«hanno innanzitutto il grande merito di risalire dal capitale commerciale, che esercita la sua funzione esclusivamente nella sfera della circolazione, al capitale produttivo, in contrapposizione al sistema mercantilistico, che col suo grossolano realismo costituisce la vera e propria economia volgare di quel tempo» (Il Capitale, libro III, p. 895).
Tuttavia essi, individuando nella rendita fondiaria l’unica, o almeno l’essenziale, fonte del plusvalore e nella produzione agricola non solo il fondamento dell’economia, ma l’unica attività umana veramente produttiva, non riuscirono ad analizzare le leggi che, proprio nel periodo di maggiore diffusione delle loro teorie, iniziavano a caratterizzare lo sviluppo del modo di produzione capitalistico (vedi Accumulazione originaria). La sottovalutazione dell’importanza della produzione industriale moderna e l’incomprensione della natura del capitale industriale possono, in un certo senso, essere considerati come i limiti fondamentali della fisiocrazia.
Se i fisiocratici furono, secondo l’espressione di Marx, «di fatto i primi portavoce sistematici del capitale», la scuola classica dell’economia politica, attribuendo maggiore importanza alla funzione dell’industria e svolgendo l’analisi del lavoro in modo più coerente con lo sviluppo effettivo del capitalismo, ne fu la comprensione, e spesso la giustificazione, teorica.
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Formazione economico-sociale
È il complesso dei modi e dei rapporti di produzione, delle corrispondenti forme giuridiche e politiche, delle ideologie e degli aspetti culturali in genere che contraddistinguono una società nel suo insieme e nel suo movimento. La nozione di formazione economico-sociale è tra le più generali – nel senso di comprendere al proprio interno un gran numero di elementi costitutivi – di quelle utilizzate da Marx (vedi Totalità). Non è dunque sinonimo di struttura, di base economica, come venne spesso interpretata dai teorici della II Internazionale, ma vuole indicare l’intera sfera dei fenomeni che «marcano» un’epoca storica; con la formazione economico-sociale contrassegnata dal modo di produzione capitalistico si chiude, secondo Marx, «la preistoria della società umana».
Il riferimento alla formazione economico-sociale avrebbe dovuto evitare le superficiali interpretazioni del marxismo in termini di privilegio assoluto per la base economica. In diverse lettere scritte nei primi anni del 1890, Engels denunciava che la trascuratezza nei confronti di questa categoria, non solo economica (vedi Categorie economiche), aveva portato a sovrasemplificazioni inaccettabili, ad appiattimenti e distorsioni positivistiche dei reali rapporti esistenti tra i diversi fattori che costituivano una formazione economico-sociale; Antonio Labriola, nel 1896, criticava quanti credevano che sarebbe bastato «mettere in evidenza il solo momento economico» per liberarsi del resto «come inutile fardello, di cui gli uomini si fossero caricati a capriccio»; Lenin utilizzò in concreto il concetto di formazione economico-sociale sia nella polemica contro il sociologismo populistico di Mikhailovskij, sia contro le tendenze di Kautsky a «... eludere la realtà dell’imperialismo e a evadere nel sogno di un ultraimperialismo che non si sa se sia realizzabile o no». Nel caso specifico l’errore consisteva nel privilegiare fuori misura il ruolo delle forze produttive (vedi) nel processo rivoluzionario; denunciandolo Lenin ribadiva la necessità di un riferimento concreto alla totalità espressa dalla formazione economico-sociale.
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Forza-lavoro
È la merce il cui valore d’uso ha la proprietà di costituire la fonte di valore di scambio; ossia è la merce (vedi) che, una volta acquistata da chi possiede il denaro necessario per farlo, produce una quantità di denaro superiore a quella spesa per il suo acquisto. Nella circolazione del denaro (vedi), espressa dalla formula D-M-D', si verifica il fatto che D' è maggiore di D: è quindi aperto il problema sull’origine di questa differenza, di questo plusvalore (vedi), che non può essere spiegata all’interno del processo di circolazione. Per usare le parole d Engels:
«il cambiamento del valore del denaro… non può avvenire nello stesso denaro poiché nell’acquisto esso non fa che realizzare il prezzo della merce, e d’altra parte, finché esso rimane denaro, non muta la sua grandezza di valore, e nella vendita ugualmente fa ritornare la merce soltanto dalla sua forma naturale alla sua forma di denaro. Dunque il cambiamento deve avvenire nella merce del D-M-D; ma non nel valore di scambio di essa, perché vengono scambiati… equivalenti, bensì esso può derivare soltanto dal valore d’uso della merce come tale, cioè dal suo consumo» (Studi sul Capitale, p. 44).
Questa merce è appunto la forza-lavoro; per acquistarla bisogna che essa sia reperibile sul mercato, vale a dire che ci siano persone disposte a venderla. «Poiché ambedue, il compratore e il venditore, come contraenti sono persone giuridicamente uguali bisogna che la forza-lavoro sia venduta soltanto temporaneamente; in caso contrario il venditore stesso sarebbe trasformato in merce.
Per aggiungere al denaro un plusvalore, cioè per trasformarlo in capitale, è perciò necessaria la disponibilità di lavoratori «liberi», nel senso che possano vendere la propria forza-lavoro. Da notare che il rapporto tra venditori e compratori di questa merce non è un rapporto comune a tutte le epoche, ma un rapporto «prodotto di molti rivolgimenti economici».
Come tutte le merci la forza-lavoro ha un valore di scambio (vedi) che si basa sul valore dei mezzi di sussistenza necessari per la conservazione di una normale capacità lavorativa, sulle spese per la famiglia in quanto strumento per la riproduzione dei venditori di merce, sulle spese di istruzione necessarie per la forza-lavoro più qualificata. I calcoli sono in funzione delle condizioni specifiche di ogni paese in un dato momento storico; in ogni caso trovano un limite minimo nel valore dei «mezzi di sussistenza fisiologicamente indispensabili», al quale già risulta compromessa la normale capacità lavorativa.
La forza-lavoro non va confusa con il lavoro (vedi), che è l’applicazione concreta delle capacità e delle energie umane in uno specifico processo. La forza-lavoro è il patrimonio di attitudini fisiche e intellettuali di cui il lavoratore dispone: egli vende queste a un prezzo variabile – il salario (vedi) – e non il lavoro.
L’uso della forza-lavoro «è allo stesso tempo il processo di produzione di merce e di plusvalore», perciò nella logica del capitalismo essa non può essere considerata che astrattamente divisa dall’uomo che la possiede; questo, commentava il giovane Marx in tempi ancora lontani dall’indagine scientifica del Capitale, è un oggetto che viene lasciato «alla giustizia criminale, ai medici, alla religione, alle tabelle statistiche, alla politica e agli abissi dell’accattonaggio».
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Forze produttive
Sono costituite da tutti gli elementi necessari al processo di produzione: i mezzi di produzione (vedi), la ricerca scientifica e l’avanzamento tecnologico che ne migliorano la qualità e l’uso, l’organizzazione del lavoro in fabbrica e nei singoli settori produttivi, e naturalmente dalla forza-lavoro (vedi) senza la quale non si avrebbe alcuna produzione.
Tra le forze di produzione e rapporti di produzione (vedi) esistono reciproche interferenze di grande complessità e di importanza decisiva; infatti nel corso del loro sviluppo le prime determinano nuove situazioni all’esterno del loro campo specifico che possono riguardare in larga misura i rapporti di produzione fino al punto di disporsi in modo antagonistico nei confronti di questi.
L’importanza delle forze di produzione è già sottolineata nell’Ideologia tedesca, scritta nel 1845-46: il loro livello di sviluppo, dice Marx, «condiziona la situazione sociale» per cui uno studio scientifico, non ideologico della storia deve essere costantemente «in relazione con la storia dell’industria e dello scambio» dove si può osservare l’insorgere delle contraddizioni tra le forze produttive e i rapporti sociali nei vari periodi storici. Ancora, nel Manifesto, scritto dieci anni dopo, il passaggio dal modo di produzione feudale a quello capitalistico è descritto nei termini di contraddizione tra le forze e i rapporti di produzione come un evento verificatosi quando
«L’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate» (p. 32).
In modo analogo le forze produttive del nostro tempo «non giovano più a favorire lo sviluppo dei rapporti della proprietà borghese, esse sono diventate troppo potenti per tali rapporti sicché ne vengono inceppate».
Successivamente le conseguenze e le modalità dello sviluppo delle forze produttive furono ampiamente studiate in molteplici occasioni sia da Marx stesso che da altri. La loro importanza nei confronti del modo di essere della società è facilmente intuibile anche se si pensa soltanto a ciò che hanno comportato certe scoperte scientifiche e innovazioni tecnologiche: esse hanno eliminato o radicalmente mutato interi settori dell’industria sostituendo i vecchi macchinari con altri infinitamente più potenti e redditizi, cambiato le fonti e le forme dell’energia utilizzata, annullato l’uso di certe materie prime e adottato l’uso di altre, introdotto l’automazione, ecc. Questi cambiamenti hanno sconvolto l’organizzazione del lavoro, creato nuovi mercati, alterato gli equilibri tra un settore e l’altro dell’economia, imposto la necessità di nuove leggi, prodotto nuovi strati sociali, determinato la politica estera degli Stati, stimolato la nascita di nuove ideologie.
Tutto ciò ha portato taluni a ritenere lo sviluppo di queste due forze produttive sufficiente di per se stesso a capovolgere i rapporti di produzione; questa tesi appare però alquanto schematica se si tien conto dei nessi tra le varie forze produttive nel loro insieme e, in particolare, del ruolo della forza-lavoro intesa qui nella sua concreta presenza di movimento organizzato dei lavoratori.
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Frazione
Gruppo organizzato su principi teorici e spesso con una disciplina autonoma, interno a un preesistente partito o movimento politico, con la prospettiva di formare un partito autonomo.
Nel linguaggio politico attuale è usato in un duplice senso: positivo per indicare il periodo di formazione del partito comunista, negativo perché a loro volta i partiti comunisti hanno combattuto, espellendoli, i frazionisti. Infatti il partito bolscevico si formò da una frazione (detta appunto bolscevica, cioè di maggioranza) del POSDR (Partito Operaio Socialdemocratico Russo) organizzata sui principi politici forniti da Lenin nel Che fare?; lo stesso PCI si costituì a Livorno nel 1921 da una frazione del PSI.
Le frazioni sono distinte dalle correnti e sono state combattute nella storia del movimento operaio poiché, secondo gli stessi principi indicati da Lenin, all’interno di un partito comunista eventuali minoranze non possono coagularsi su linee politiche alternative.
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Frazionismo
È l’attività tendente a organizzare gruppi autonomi all’interno di un partito.
I partiti comunisti dell’Europa occidentale, in particolare quello italiano e francese, sono sorti, anche in seguito a un’indicazione fornita dalla Terza Internazionale, come frazioni di stretta osservanza marxista all’interno dei vecchi partiti socialisti riformisti.
I gruppi trotskisti si propongono di svolgere attività frazioniste all’interno dei più grandi partiti comunisti con la denominazione particolare di entrismo (vedi).
L’applicazione del metodo del centralismo democratico impedisce il frazionismo.
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Fronte
Schieramento politico unitario realizzato da più partiti, movimenti politici o forze sociali sulla base di un programma e di obiettivi comuni, per far fronte e sconfiggere il nemico principale in una determinata situazione storica e politica. Storicamente il fronte è lo strumento attraverso il quale il partito comunista costruisce un vasto sistema di alleanze nella lotta contro il nemico di classe.
Alla base quindi della politica di fronte stanno i problemi storici dell’egemonia (vedi) e della direzione della classe operaia sugli altri strati sociali, del ruolo primario dell’alleanza coi contadini, della capacità cioè da parte di un partito rivoluzionario di saper determinare, in ogni momento e col mutare delle situazioni concrete, le forme e i contenuti tattici attraverso cui la strategia rivoluzionaria può avanzare. Ciò significa rispondere all’esigenza fondamentale di tracciare una linea precisa tra amici e nemici in ogni fase storica ed elaborare metodi corretti per unire tutte le forze che possono essere unite, per isolare e combattere l’avversario di classe.
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Fronte nazionale
Con questo termine si indicarono quelle coalizioni che in molti paesi europei, sia occidentali che orientali, si formarono durante la seconda guerra mondiale, radunando i partiti politici democratici e le forze sociali impegnate nella lotta antifascista e antinazista. Tale politica, che prese anche altre denominazioni come «fronti della patria», rappresentava la continuazione e l’estensione della politica di «fronte popolare» (vedi) in funzione antifascista, lanciata dall’Internazionale Comunista (vedi) in una situazione in cui, rivelatasi la reale funzione reazionaria e antinazionale della borghesia monopolistica, il fronte degli avversari non solo del fascismo, ma della stessa grande borghesia e dell’imperialismo, poteva abbracciare anche forze intermedie, di piccola e media borghesia urbana, di contadini piccoli e medi proprietari e delle proprie rappresentanze politiche.
La realizzazione di questi vasti schieramenti fu alla base della lotta di liberazione nazionale e del successo della Resistenza in Europa e in particolare in Italia, dove la lotta contro il fascismo fu diretta da un Comitato di Liberazione Nazionale, che raccoglieva tutte le forze comuniste, socialiste, cattoliche e democratiche. Nei Fronti nazionali il programma comune assunto dalle forze partecipanti si fondava essenzialmente sull’obiettivo della ricostruzione nazionale e del ripristino delle libertà democratiche e della pace. Pure, attraverso la lotta per questi obiettivi, maturavano già le condizioni per una fase successiva della lotta contro le basi stesse del potere della borghesia monopolistica, come concretamente avvenne poi in alcuni paesi dell’Europa orientale.
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Fronte popolare
Parola d’ordine lanciata dal VII Congresso dell’Internazionale Comunista (vedi Internazionale) nel 1935, sulla base di alcune esperienze, già verificatesi precedentemente in Europa e in particolare in Francia, di unità e di alleanza con tutte le forze antifasciste. Essa rappresentava l’applicazione in forme nuove della tattica di fronte (vedi), i cui caratteri vengono ridefiniti in funzione della possibilità di coalizzare, attorno al proletariato, vasti strati di piccola e media borghesia urbana e rurale e i partiti che ne rappresentano gli interessi, che sempre più venivano a trovarsi in aperto conflitto con la grande borghesia monopolistica. Per mezzo di questa tattica e dei suoi due contenuti fondamentali – lotta contro il fascismo e contro la guerra – si poneva ai comunisti non il compito immediato della conquista del potere, ma quello dell’abbattimento del fascismo, quale condizione per l’avanzamento verso la rivoluzione proletaria. La lotta per la democrazia e per la creazione di un governo che «pur non essendo ancora il governo della dittatura del proletariato si incarichi di applicare delle misure decise contro il fascismo e contro la reazione» si presentava dunque come l’indispensabile compito storico, come tappa cioè non di semplice restaurazione della democrazia borghese, ma di creazione di un terreno più favorevole, di una democrazia progressiva (vedi), che rompesse i legami con il monopolismo e l’imperialismo e che preparasse la rivoluzione. Così Dimitrov nel suo rapporto al VII Congresso dell’Internazionale Comunista descrive le caratteristiche principali del fronte popolare:
«Per la mobilitazione delle masse lavoratrici contro il fascismo è in particolar modo importante la creazione di un largo fronte popolare antifascista sulla base del fronte unico proletario. Il buon successo di tutta la lotta del proletariato è strettamente connesso all’alleanza di combattimento del proletariato con i contadini lavoratori e con le masse fondamentali della piccola borghesia urbana, che costituiscono la maggioranza della popolazione anche nei paesi industrialmente più sviluppati» (Rapporto al VII Congresso, in AA.VV., L’Internazionale e il fascismo, p. 69).
Si poneva quindi ai comunisti la necessità di comprendere la natura delle forze e degli strati sociali che di volta in volta potevano far parte del fronte, le contraddizioni che al suo interno continuavano a sussistere e a operare. Al di fuori di ciò, il fronte popolare rischiava di rimanere un principio astratto o la realizzazione di un blocco senza principi. L’egemonia e la direzione del fronte da parte della classe operaia (che si sintetizza nella frase «costruire il fronte popolare sulla base del fronte unico proletario») era allora la condizione che garantiva il legame tra la conquista del potere e gli obiettivi parziali per il suo avvicinamento: isolamento del fascismo e della grande borghesia, realizzazione di misure che ne intaccavano la forza, difesa e miglioramento delle condizioni di vita e di lavoro delle masse, unità e rafforzamento della classe operaia. Non si trattava quindi di assumere da parte del proletariato un programma piccolo borghese, ma al contrario di inserire nel programma rivoluzionario le rivendicazioni popolari.
«Ciò che è fondamentale, che ha importanza decisiva per la costituzione del fronte popolare antifascista, è l’azione risoluta del proletariato rivoluzionario in difesa delle rivendicazioni di questi strati e in modo particolare dei contadini lavoratori, rivendicazioni che hanno attinenza con gli interessi fondamentali del proletariato e che devono essere coordinate, nel corso della lotta, con le rivendicazioni della classe operaia. E’ di grande importanza nella creazione del fronte popolare antifascista avere un giusto atteggiamento verso le organizzazioni e i partiti ai quali appartengono in numero considerevole i contadini e le masse fondamentali della piccola borghesia urbana» (ivi, p. 70).
Politicamente il fronte popolare si espresse attraverso la ricerca dell’unità in particolare con la socialdemocrazia, le cui responsabilità nell’avvento del fascismo in Europa non escludevano però la possibilità di un’azione e di un programma comuni. Ciò rappresentava per l’Internazionale Comunista un’evidente autocritica rispetto al giudizio settario precedentemente espresso dai comunisti sui partiti socialdemocratici.
Le più significative esperienze storiche del fronte popolare – da quelle spagnola e francese del 1936 e poi dei Fronti nazionali contro il nazifascismo, fino a quella italiana (dal patto di unità d’azione con il PSI del 1934, fino alla politica unitaria nel Comitato di Liberazione Nazionale e all’esperienza del Fronte Democratico Popolare, nell’Italia post-bellica delle elezioni del 1948) – dimostrano proprio come il rapporto con i partiti socialdemocratici e riformisti sia l’asse su cui misurare la capacità di una coerente linea di fronte di evitare gli opposti errori che la riducono o a un patto interclassistico senza principi, o all’opposto a un’affermazione di principio incapace di una concreta presa sulla realtà storica e politica e sui rapporti tra le classi.
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Fronte unico
Linea politica che individua nell’unità della classe operaia e nelle sue organizzazioni, sindacali e politiche, lo strumento essenziale nella lotta contro la borghesia e il sistema capitalistico. La necessità di realizzare un fronte unico proletario fu sostenuta dalla III Internazionale (vedi Internazionale) fin dai suoi primi congressi. In particolare nell’«appello per il fronte unico» lanciato dall’esecutivo della III Internazionale (o Internazionale Comunista) il l° gennaio 1922, viene individuata come centrale la battaglia dei partiti comunisti per estendere la loro influenza fino a conquistare la maggioranza della classe operaia. Il IV congresso (novembre-dicembre 1922) ratificò questa politica, indicandone la validità generale. Il fronte unico, determinando come principale la necessità di unire la classe operaia sul terreno concreto della lotta per il miglioramento delle proprie condizioni, veniva visto come il mezzo per sottrarre il proletariato all’influenza socialdemocratica, cattolica e di altri partiti borghesi e sconfiggere ogni tendenza revisionistica (vedi Revisionismo). Con esse occorreva misurarsi sul terreno concreto dell’influenza e dell’azione tra le masse, per mostrare la rispondenza del programma comunista agli interessi della classe operaia e al tempo stesso il cedimento e l’attendismo del riformismo (vedi) verso la borghesia. L’unità in un fronte unico del proletariato si presentava come la condizione per poi unire attorno ad esso, attraverso la funzione dirigente del partito comunista, gli altri strati sociali oppressi e costruire una salda egemonia sui contadini e sulla piccola borghesia.
In seno all’Internazionale Comunista la discussione si sviluppò sui compiti del fronte unico nel campo sindacale e sulla possibilità che esso potesse, in determinate condizioni concrete, svilupparsi prevalentemente dal basso, cioè tra gli operai e gli altri lavoratori e come in ogni caso non dovesse ridursi all’unità dei vertici, dall’alto dei partiti politici, ma fondarsi su una reale unità nei luoghi di lavoro, nelle fabbriche, nelle strutture territoriali di base. L’avvento al potere del fascismo in Europa impegnò i comunisti in uno sforzo di analisi e di comprensione delle radici di classe del fenomeno e del problema complesso delle forze sociali che di esso erano al contempo espressione e matrice. La linea del fronte unico ricevette uno sviluppo nuovo e anzi venne posta come la base necessaria per una più vasta politica di unità attraverso il Fronte popolare antifascista.
«Il fronte unico del proletariato e il fronte popolare antifascista sono connessi dalla viva dialettica della lotta, si intrecciano, passano l’uno nell’altro nel corso della lotta pratica contro il fascismo e non sono per nulla separati da una muraglia cinese. Infatti non si può pensare seriamente che la realizzazione del fronte popolare antifascista sia possibile senza l’unità di azione della classe operaia, che è la forza motrice di questo fronte popolare. D’altra parte, l’ulteriore sviluppo del fronte unico proletario dipende in grande misura dalla sua trasformazione in fronte popolare contro il fascismo» (Dimitrov, Rapporto al VII Congresso, in AA.VV., L’Internazionale e il fascismo, p. 68).
Dei compiti dei comunisti e del fronte unico così Dimitrov diede una sintesi:
«La difesa degli interessi immediati economici e politici della classe operaia, la difesa della classe operaia contro il fascismo: ecco quale deve essere il punto di partenza, ecco che cosa deve costituire il contenuto fondamentale del fronte unico in tutti i paesi capitalistici … La creazione di organi di classe non di partito, è la forma migliore per attuare, estendere e rafforzare il fronte unico tra gli strati più profondi delle grandi masse. Questi organi saranno anche la barriera più efficace contro tutti i tentativi degli avversari del fronte unico di spezzare l’unità di azione della classe operaia» (ivi, pp. 67, 69).
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Fronte unito
Con tale termine si intende genericamente il contenuto della politica di fronte (fronte) indicata dall’Internazionale Comunista (vedi) fin dai suoi primi congressi; storicamente esso indica l’originale specificazione di tale linea operata dal Partito Comunista Cinese nella realtà semifeudale e semicoloniale della Cina. Mao (vedi Maoismo) delineò una serie di formulazioni teoriche sul fronte unito che costituiscono l’arma decisiva con cui il popolo cinese sconfisse l’imperialismo e le forze reazionarie, in particolare durante l’aggressione giapponese.
Oltre a fornire anche valide indicazioni sui problemi delle alleanze e dell’egemonia (vedi) per i paesi a capitalismo avanzato, queste formulazioni rappresentano uno strumento generale per le lotte di liberazione nazionale nei paesi coloniali e semifeudali (vedi Feudalesimo).
Il problema fondamentale che si poneva in Cina era su quali forze realizzare l’egemonia del proletariato, su quale piano essa doveva avvenire. Mao indicò come – in seno al fronte unito – senza l’alleanza fondamentale tra operai e contadini, senza l’egemonia della classe operaia su quella contadina, fosse impossibile costruire l’alleanza con gli altri strati sociali antimperialisti e progressisti. Il problema era quello di tracciare una linea precisa tra gli amici e i nemici, e di elaborare metodi corretti per unire tutte le forze che potevano essere unite, per isolare il nemico. Nella fase della rivoluzione democratica i nemici della rivoluzione cinese erano l’imperialismo, il feudalesimo e il capitalismo burocratico asservito allo straniero. Solo sulla base della vittoria di questa rivoluzione il popolo cinese poteva passare alla rivoluzione socialista. In questa fase gli strati e le classi che potevano prendere parte al fronte unito erano vasti: vi erano inclusi non solo la classe operaia e i contadini, ma anche la piccola borghesia e in certi periodi e in certa misura anche la borghesia nazionale e tutte le forze patriottiche.
Il motivo per cui era necessario conquistare la borghesia nazionale consisteva nel fatto che in questa fase essa manteneva un’influenza politica e svolgeva una funzione – sia economica sia culturale – progressiva e antifeudale. Essa era in contraddizione con l’imperialismo e la burocrazia capitalistica, ma se non conquistata al fronte unito sarebbe passata alla causa del nemico; era una forza vacillante e timorosa, ciò che rendeva necessaria la sua direzione da parte dei comunisti e della classe operaia. Misura che si espresse politicamente nell’alleanza con il Kuomintang, cioè il partito nazionalista che rappresentava gli interessi della borghesia cinese in contrasto con l’imperialismo. Di qui anche la necessità che il Partito Comunista Cinese mantenesse nel fronte unito l’indipendenza politica, ideologica e organizzativa.
Contro le linee di destra che si riassumevano nella parola d’ordine «Tutto per il fronte unito, tutto attraverso il fronte unito», Mao affermò il principio dell’«unità nella lotta» e della direzione della classe operaia, sulla base dell’alleanza fondamentale coi contadini. Nel fronte unito il partito deve combinare l’alleanza e la lotta, l’unità e l’egemonia. Così o il Partito Comunista Cinese sarebbe riuscito a conquistare le forze di centro della borghesia nazionale, isolando la destra reazionaria e asservita all’imperialismo, o la borghesia nazionale sarebbe passata alla destra capitolando all’imperialismo e rendendo più difficile la lotta antigiapponese.
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Frontismo
Tattica di un partito, movimento o in generale forza organizzata di una classe sociale che lega a sé, sulla base di un programma politico, partiti o strati sociali ad essa omogenei, costituendo così un fronte (vedi) comune contro l’avversario principale.
Nell’uso comune e di certa pubblicistica col termine di frontismo si suole indicare l’esperienza storica concreta di unità d’azione dei partiti comunisti con le altre forze della sinistra in Italia e in altri paesi europei, generalmente allo scopo di indicarne gli errori e i limiti, individuati – a seconda della provenienza delle critiche – o in uno sterile esercizio diplomatico e interclassistico che dimentichi l’obiettivo rivoluzionario della dittatura del proletariato, o all’opposto in un’operazione strumentale e tatticistica che dietro l’affermata esigenza unitaria porti avanti fini e disegni propri solo dei comunisti; oppure ancora nell’incapacità di estendere tale sistema di alleanze dalle sole forze di sinistra e popolari a organizzazioni che, estranee alle tradizioni e alle esperienze delle battaglie politiche e ideali per la democrazia e il socialismo, pure vengono ritenute atte a dare un contributo positivo verso questi obiettivi.
Più rigorosamente e proprio per precisare l’importanza di una puntuale analisi storica dei limiti e degli errori teorici e pratici delle diverse attuazioni della politica di fronte e di tutti i problemi ad essa connessi, occorre individuare nell’ esperienza storica dei fronti, dalla nascita dell’Internazionale Comunista fino alla situazione politica odierna, l’esigenza della ricerca delle forme più adatte per passare o avvicinarsi alla rivoluzione socialista, dei problemi cioè della transizione al socialismo in Occidente.
Solo così, attraverso il leninismo (vedi) e il pensiero di Gramsci, la questione delle alleanze, il problema della funzione egemonica (vedi Egemonia) e unitaria al tempo stesso dei partiti comunisti all’interno dei fronti, del legame tra tattica frontista e strategia per il socialismo, possono essere compresi nel loro significato storico e critico.
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Gauchismo
Per gauchismo s’intende la teoria e la pratica di quell’insieme di movimenti, aventi caratteristiche e dimensioni diverse, comparsi negli ultimi tempi in tutta Europa e che intendono porsi, con diverse sfumature, a sinistra dei partiti tradizionali della classe operaia. Sostanzialmente si propongono come alternativa al marxismo-leninismo, nel presupposto che ogni intervento direttivo e organizzativo centralizzato sul movimento costituisca un’interferenza perturbatrice del movimento stesso; da qui il disconoscimento dalla validità di tutte le rivoluzioni di questo secolo.
Poiché la coscienza rivoluzionaria nasce dalla lotta, il gauchismo vuol anche essere la teoria del movimento rivoluzionario nel suo farsi concreto, quindi rifiuta ogni autoritarismo, ogni centralizzazione, ogni organizzazione dall’alto, per lasciare spazio invece al volontarismo rivoluzionario e alla coscienza socialista. Ne deriva una pratica estesa a tutti i fronti come lotta all’alienazione in ogni sua forma (psicologica, sessuale, ideologica, culturale ed economica) e con ogni mezzo.
Nel gauchismo confluiscono tendenze spontaneistiche, estremistiche, anarcoidi, ecc. (vedi Anarchismo, Estremismo, Settarismo, Spontaneismo) che, con connotazioni diverse a seconda del luogo e del tempo in cui sono comparse, sono però presenti in tutta la storia del movimento operaio. Il loro limite è già stato evidenziato da Marx ed Engels e più tardi da Lenin; in sintesi si potrebbe dire che esso risiede proprio nella definizione che il gauchismo dà di se stesso, cioè di teoria alternativa al marxismo-leninismo e nell’assenza di un autentico rapporto dialettico fra teoria e prassi (vedi).
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Genere e specie
Nel linguaggio scientifico, soprattutto della biologia, la specie è un insieme di organismi viventi (individui) animali e vegetali che hanno tra loro e nei confronti degli ascendenti, caratteri comuni, che li distinguono da tutti gli altri individui, i quali a loro volta possono essere raggruppati in altre specie. Il genere è l’insieme di specie che hanno tra loro caratteri comuni che permettono di distinguerle da altri generi.
Genere e specie sono divenuti concetti scientifici nel senso moderno della parola, acquistando un significato preciso, solo in seguito al grande sviluppo del lavoro di classificazione e di studio comparato dei caratteri degli organismi viventi, che ha ricevuto un impulso decisivo dalle scoperte fatte nei secoli XVIII e XIX in questo settore della ricerca biologica.
In un significato più ampio i concetti di genere e specie sono spesso stati oggetto di «discussioni filosofiche» in cui apparivano non come strumenti, di analisi scientifica e di classificazione, ma come «qualità» inerenti a una presunta «essenza» del mondo naturale. Per quanto riguarda le discussioni filosofiche sul «genere umano» esso veniva inteso come caratterizzato da qualità immutabili, indipendenti dall’attività umana e dalla sua storia, e che provenivano all’uomo da una sorta di «differenza di principio» dal resto del mondo naturale, spiegata e giustificata prevalentemente sulla base di argomentazioni a sfondo religioso.
Attualmente la filosofia, o almeno quell’ambito della ricerca filosofica che presta maggiore attenzione ai problemi delle scienze esatte e naturali, ha abbandonato le polemiche «metafisiche» sulle definizioni di genere e specie, riconoscendo l’importanza del significato scientifico di questi concetti, la cui elaborazione spetta soltanto alla scienza. Marx affrontò, all’interno di una critica generale del «lavoro alienato» (vedi Alienazione), il problema di una definizione di «genere umano» che fosse adeguata a una concezione storica e dialettica dell’«umanità», anche sul terreno filosofico, nel nuovo significato da lui attribuito alla filosofia (vedi). Secondo Marx la caratteristica del genere umano (dal punto di vista storico-filosofico, naturalmente, e non strettamente biologico) è quella di svolgere un’attività vitale consapevole:
«L’animale fa immediatamente uno con la sua attività vitale, non si distingue da essa, è essa. L’uomo fa della sua attività vitale stessa l’oggetto del suo volere e della sua coscienza … L’attività vitale consapevole distingue l’uomo direttamente dall’attività vitale animale. Proprio solo per questo egli è un ente generico» (Manoscritti economico-filosofici, in Opere III, p. 303).
Cioè: proprio solo per questo l’uomo fa parte di un genere. Ma questa attività vitale, che è essenzialmente il lavoro, in tutte le sue forme e manifestazioni, è «la pratica produzione di un mondo oggettivo, la lavorazione della natura inorganica»; nella società capitalistica il lavoro è oppresso e sfruttato dal capitale, è una merce, non un fine consapevole, ma qualcosa di imposto. Il lavoro alienato, cioè quello che non appartiene a colui che lo compie, ma al capitale, priva l’uomo della caratteristica specifica che lo rende parte del genere umano.
Infatti, se l’uomo non può svolgere il suo lavoro liberamente e con la consapevolezza che il lavoro è ciò che gli permette di realizzarsi come uomo, se cioè egli deve vendere il suo lavoro, o meglio la sua forza-lavoro (vedi), non può più essere uomo, ma diventa una cosa (vedi Reificazione). In un certo senso dunque l’uomo deve essere restituito al genere umano, e ciò può avvenire solo a condizione che il lavoro sia libero e cosciente (vedi Socialismo, Comunismo).
«Poiché il lavoro alienato 1) aliena all’uomo la natura, e 2) aliena all’uomo se stesso, la sua attiva funzione, la sua attività vitale, aliena così all’uomo il genere; gli riduce così la vita generica (Gattungsleben = vita del genere) ad un mezzo della vita individuale. In primo luogo estrania l’una all’altra la vita generica e la vita individuale, in secondo luogo fa di quest’ultima nella sua astrazione lo scopo della prima, parimente nella sua forma astratta e alienata» (ivi, p. 302).
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Giacobinismo
In senso storico si riferisce all’insieme delle idee e dei metodi politici propri dei Giacobini, particolarmente nel periodo in cui furono guidati da Robespierre.
Per analogia in campo marxista la parola indica la tendenza a considerare in termini se non esclusivamente almeno prevalentemente politici i rapporti tra le classi, lasciando in secondo piano le questioni essenziali della società e dello Stato; in pratica ciò vuol dire che un programma d’azione non colpisce la fonte reale del potere borghese, cioè il suo specifico modo di produzione, ma si limita a contrastarne le attività sul piano politico.
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Guerra
È il conflitto con l’impiego di forze militari tra due o più nazioni. Nella storia dell’umanità il ricorso alla forza organizzata (esercito) per decidere i contrasti di qualsiasi natura, rivendicazioni territoriali, questioni dinastiche, espansione commerciale, e via dicendo, è un evento costante e così frequente da essere ritenuto nell’opinione comune alla stessa stregua di una calamità naturale.
Per Marx ed Engels la natura della guerra è essenzialmente economica e direttamente collegata alla lotta della classi; sotto questo profilo non può esistere la «guerra» in senso generale ma singole guerre le cui caratteristiche, e quindi la valutazione che ne deriva, dipendono dalle ragioni economico-sociali che ne sono alla base.
«La guerra è la continuazione della politica con altri mezzi (e precisamente con mezzi violenti). Questa celebre espressione appartiene ad uno dei più profondi scrittori dei problemi militari, Clausewitz. Giustamente i marxisti hanno sempre ritenuto questa tesi come la base teorica del modo di considerare il significato di ogni guerra. Marx ed Engels hanno sempre considerato le varie guerre precisamente da questo punto di vista» (Lenin, Il Socialismo e la guerra, p. 22).
Il marxismo, nel definire alcuni tipi storici di guerra, ne individua due caratteristiche fondamentali, che forniscono anche criteri di valutazione in senso positivo o in senso negativo: le guerre «difensive» e quelle di «aggressione». Così nel periodo che va dalla Rivoluzione francese alla Comune di Parigi (1789-1871) le guerre tra le nazioni hanno essenzialmente un carattere «borghese progressivo» nel senso che ad esse seguono rivolgimenti interni che mutano il vecchio assetto sociale e portano alla ribalta idee e esigenze più avanzate. Le guerre di questo periodo sono «difensive» e possono essere considerate «giuste» in quanto il loro fine è l’abbattimento del feudalesimo e dell’assolutismo, il che giustifica anche la presenza del proletariato accanto alla borghesia.
Guerre difensive sono ovviamente le guerre civili di tutti i tempi e le rivoluzioni; secondo Engels «il diritto alla rivoluzione» è del resto il solo vero «diritto storico», l’unico su cui riposano tutti gli Stati moderni senza eccezione; giuste sono le guerre di liberazione dei popoli che si ribellano al giogo imperialista delle grandi potenze.
Al contrario le guerre degli Stati imperialisti sono sempre e solo di «aggressione», perché motivate dalla «conservazione artificiale del capitalismo mediante le colonie, i monopoli, i privilegi e le oppressioni».
Le attuali guerre di liberazione dei popoli del cosiddetto Terzo Mondo (vedi), quale che sia la classe che le dirige, sono oggettivamente progressive perché si rivolgono contro l’imperialismo, e trovano perciò il loro naturale alleato nella classe operaia di questi paesi.
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Guerriglia
È la forma di lotta armata che consiste nel costringere il nemico ad affrontare numerosi combattimenti isolati, in cui si trovi in condizioni di inferiorità. Secondo la concezione marxista la guerriglia è l’applicazione tattica del principio strategico (vedi Strategia e tattica) della guerra di popolo di lunga durata per la liberazione nazionale, che permette, attraverso la mobilitazione popolare, di realizzare un legame diretto tra lotta politica e organizzazione militare. I movimenti di liberazione dei paesi del Terzo Mondo utilizzano ampiamente questa forma di lotta, poiché per attuarla non è necessario disporre di strumenti bellici estremamente costosi e raffinati. Durante la resistenza contro il nazifascismo in Italia, in Jugoslavia, nell’URSS, e in altri paesi europei le formazioni partigiane hanno adottato prevalentemente questa tattica (vedi Strategia e tattica).
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Idealismo
Il termine appare nel linguaggio filosofico alla fine del XVII secolo in contrapposizione a materialismo (vedi); nei testi dei teorici marxisti, al di là delle differenze non sempre trascurabili, è usato per indicare la tesi della priorità del pensiero su ogni oggetto esistente.
La definizione va messa in rapporto con la teoria della conoscenza (vedi Filosofia, Materialismo dialettico) in questo senso: il verbo conoscere rimanda a un soggetto che conosce e a un oggetto che è conosciuto o, come si dice, al pensiero e all’essere; la conclusione dell’idealismo di fronte a questa coppia di elementi è che l’essere (l’oggetto, la realtà) non è neppure immaginabile senza il pensiero (il soggetto, la coscienza). L’elemento prioritario è dunque quest’ultimo e tutto dev’esservi ricondotto.
Se si ritiene che il pensiero sia in grado di rappresentare l’essere in maniera conforme alla sua natura si è nella sfera dell’idealismo oggettivo, che considerando il mondo «una realizzazione progressiva dell’idea assoluta» attribuisce al pensiero la capacità di cogliere le idee presenti in ogni singola parte della realtà. Se al contrario si ritiene che il pensiero non colga l’essere così com’è, oppure che il fatto è indimostrabile o irrilevante in quanto sempre e comunque si ha a che fare con il pensiero elaborato da un soggetto, si è nella sfera dell’idealismo soggettivo.
È facile comprendere che queste posizioni non si concludono all’interno della filosofia in quanto pura e semplice teoria estranea alle cose del mondo; affermando la priorità del pensiero sull’essere si afferma che le idee, di fatto, precedono la realtà, che non esiste più di conseguenza tanto un soggetto conoscente che ha da fare i conti con un oggetto a lui estraneo, quanto un soggetto che crea i suoi oggetti; per usare le parole di Marx è una filosofia «che discende dal cielo sulla terra, che considera le «rappresentazioni, i pensieri, i concetti, e in genere i prodotti della coscienza» resa autonoma dalla realtà «come le vere catene degli uomini». Ne segue che essa può combattere soltanto una battaglia di frasi contro altre frasi ignorando il mondo reale, e che ogni teoria o ipotesi intorno a esso non è per l’idealismo altro che un prodotto del pensiero non giudicabile sulla base della sua aderenza alla realtà, ma soltanto sul piano di una logica astratta. Il rapporto pensiero-essere è dunque risolto in modo che il primo è tutto e comprende in sé, come propria creatura, il secondo; non c’è bisogno di fare, basta pensare.
Quando l’idealismo raggiunse con Hegel la sua insuperata pienezza sistematica, conteneva già in misura decisiva le premesse del proprio superamento. Lenin ha così sintetizzato la situazione:
«La fede di Hegel nella ragione umana e nei suoi diritti e la tesi fondamentale della filosofia hegeliana, secondo la quale nel mondo avviene un processo continuo di trasformazione e di evoluzione, portarono gli allievi del filosofo berlinese che non volevano conciliarsi con la realtà, all’idea che anche la lotta contro la realtà, la lotta contro l’ingiustizia esistente e contro il male dominante, debba avere le sue radici nella legge mondiale dello sviluppo perpetuo. Se tutto si sviluppa, se le istituzioni esistenti vengono sostituite da altre istituzioni, perché dovrebbero durare eternamente l’autocrazia del re di Prussia o dello zar russo, l’arricchimento di un’infima minoranza a spese della stragrande maggioranza, il dominio della borghesia sul popolo? La filosofia di Hegel trattava dello sviluppo dello spirito e delle idee; essa era idealista. Dallo sviluppo dello spirito essa deduceva lo sviluppo della natura, dell’uomo e dei rapporti sociali tra gli uomini. Marx e Engels, accettando il pensiero di Hegel sul perpetuo processo di sviluppo, respinsero la concezione aprioristica dell’idealismo; studiando la vita essi videro che non è lo sviluppo dello spirito che spiega lo sviluppo della natura, ma che, viceversa, lo spirito va spiegato per mezzo della natura, della materia» (Friedrich Engels in Marx-Engels-Marxismo, p. 45).
Conclusa l’epoca dell’idealismo come filosofia sistematica che abbracciava l’intero campo dei fenomeni del reale e del sapere in forma organica, l’idealismo in quanto tendenza generica a risolvere il rapporto tra pensiero ed essere in termini comunque idealistici è passato in molte correnti della filosofia borghese contemporanea e di qui in altri campi del sapere.
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Ideologia
Termine coniato dal filosofo francese Destutt De Tracy negli ultimi anni del secolo XVIII per indicare una nuova disciplina scientifica il cui oggetto di studio avrebbe dovuto essere la formazione delle idee e la ricerca delle leggi che le governano; successivamente la parola fu usata in senso completamente diverso per indicare teorie artificiose, astratte, senza alcun legame con la realtà.
Marx raccolse questo significato, molto diffuso nella prima metà dell’ottocento, dandogli una precisa fisionomia collegata ai suoi rapporti con la società: per Marx, infatti, l’ideologia è un sistema di idee (filosofiche, morali, sociali, giuridiche, politiche, ecc.) che si presenta come indipendente da ogni condizionamento che non sia quello derivante dalle leggi del puro pensiero. Questa è già una falsa pretesa alla cui base si trova la convinzione implicita che il pensiero abbia una sua vita e una sua storia staccata dalle condizioni reali degli uomini che pensano. Per Marx l’inizio di ogni riflessione che non voglia cadere in questo errore ma, al contrario, tener d’occhio la realtà deve essere diverso:
«…non si parte da ciò che gli uomini dicono, si immaginano, si rappresentano, né da ciò che si dice, si immagina, si rappresenta che siano, per arrivare da qui agli uomini vivi; ma si parte dagli uomini realmente operanti e sulla base del processo reale della loro vita si spiega anche lo sviluppo dei riflessi e degli echi ideologici di questo processo di vita. Anche le immagini nebulose che si formano nel cervello dell’uomo sono necessarie sublimazioni del processo materiale della loro vita, empiricamente constatabile e legato a presupposti materiali. Di conseguenza la morale, la religione, la metafisica e ogni altra forma ideologica, e le forme di coscienza che ad esse corrispondono, non conservano oltre le parvenze dell’autonomia. Esse non hanno storia, non hanno sviluppo, ma gli uomini che sviluppano la loro produzione materiale e le loro relazioni materiali trasformano, insieme con questa loro realtà, anche il loro pensiero e i prodotti del loro pensiero. Non è la coscienza che determina la vita, ma la vita che determina la coscienza» (Ideologia tedesca, in Opere, V, p. 22).
In assenza di questi presupposti si arriva a considerare ogni idea o sistema di idee come «un individuo vivente»; Engels parlava in questo caso del «vecchio e prediletto metodo ideologico» consistente «non già nel conoscere le qualità di un oggetto traendole dall’oggetto stesso» ma nel ricavarle mediante un processo deduttivo dal concetto dell’oggetto; in altre parole ci si fa, in un primo tempo, un’idea sommaria di una cosa e poi «si rovescia la frittata» prendendo l’idea della cosa come termine di confronto per la cosa stessa, alla fine non è più l’idea a dover corrispondere alla cosa ma questa all’idea, non il pensiero a doversi uniformare alla realtà, ma la realtà al pensiero.
Le ideologie non sono però soltanto innocui esercizi teorici; di fatto esse nascono e crescono in una società divisa in mille modi ed è proprio una di queste divisioni, quella del lavoro materiale dal lavoro intellettuale (vedi Divisione del lavoro), che assicura al pensiero 1’opportunità di «emanciparsi dal mondo», di immaginare cioè le idee in forma distaccata dalla vita reale.
Ciò non è senza conseguenze. La situazione effettiva - economica, sociale, politica, ecc. - in cui si formano le ideologie non è una situazione ideale di pacifica uguaglianza, ma al contrario una situazione di scontro, lacerata dall’antagonismo tra classi dominanti e classi subalterne. E si dà il caso, osserva Marx, che gli uomini appartenenti alle prime
«…in quanto dominano come classe e determinano l’intero ambito di un’epoca storica, è evidente che essi lo fanno in tutta la loro estensione, e quindi fra l’altro dominano anche come pensanti, come produttori di idee che regolano la produzione e la distribuzione delle idee del loro tempo; è dunque evidente che le loro idee sono le idee dominanti dell’epoca» (ivi, pp. 44-45).
Queste idee che rappresentano in vario modo il pensiero della classe al potere nelle sue diverse componenti dominano la cultura dell’epoca in tutte le sue espressioni particolarmente laddove queste assumono un interesse pratico immediato per la conservazione del potere, come nella scuola e nella sfera del diritto; inoltre le idee della classe dominante vengono diffuse in ogni circostanza, a ogni livello, su ogni argomento della vita quotidiana in modo non solo da contenere e screditare gli atteggiamenti critici ma da esercitare una vasta opera di persuasione, più o meno diretta, sulle classi subalterne.
È da notare che la divisione del lavoro è penetrata anche all’interno della classe dominante così che una sua parte
«…si presenta costituita dai pensatori della classe (i suoi ideologi attivi, concettivi, i quali dell’elaborazione dell’illusione di questa classe su se stessa fanno il loro mestiere principale), mentre gli altri nei confronti di queste idee e di queste illusioni hanno un atteggiamento più passivo e più ricettivo, giacché in realtà sono i membri attivi di questa classe e hanno meno tempo di farsi delle idee e delle illusioni su se stessi» (ivi, p. 45).
Può anche accadere che tra i suoi gruppi si sviluppino delle ostilità e allora sorge l’impressione della reciproca indipendenza, ma non appena si profila un pericolo per la classe nel suo insieme «si dilegua anche la parvenza che le idee dominanti non siano le idee della classe dominante e abbiano un potere distinto da questa classe».
Marx e Engels usarono sempre la parola ideologia in senso negativo (vedi Falsa coscienza) non per sostenere che nelle ideologie mancassero elementi di verità ma per indicare che questi apparivano interpretati e disposti in modo da favorire o quanto meno non ledere gli interessi della classe corrispondente.
Successivamente, anche ad opera dei marxisti russi che non avevano potuto leggere né l’Ideologia tedesca né altri scritti ancora inediti, il termine ideologia venne usato in modo generico per indicare un sistema di idee: si parlò così di ideologia marxista, proletaria, borghese, cattolica, ecc.
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Illuminismo
Storicamente è il movimento di pensiero che nel XVIII secolo, specialmente in Francia, condusse un’aspra critica contro l’autoritarismo e le idee tradizionali in ogni campo. Ne fecero parte D’Alambert, Diderot, La Mettrie, Voltaire, Holbach, e molti altri. Engels li ricorda come
«I grandi uomini che in Francia, illuminando gli spiriti, li prepararono alla rivoluzione che si avvicinava, agirono essi stessi in un modo estremamente rivoluzionario. Non riconoscevano nessuna autorità esteriore di qualsiasi specie essa fosse. Religione, concezione della natura, società, ordinamento dello stato, tutto fu sottoposto alla critica più spietata; tutto doveva giustificare la propria esistenza davanti al tribunale della ragione o rinunciare all’esistenza. L’intelletto pensante fu applicato a tutto come unica misura» (Antidühring, p. 24).
Attualmente il termine di illuminismo viene talvolta usato in senso critico per indicare la ripresa diretta di idee e posizioni di quel movimento quasi che il tempo non fosse passato. Così, per esempio, si dice che ha un atteggiamento illuministico chi si avvale di una generica idea di progresso per spiegare fenomeni ora assai meglio conosciuti o chi pensa che l’istruzione, comunque portata, abbia un potere risolutivo nei confronti dei molti problemi sociali della nostra epoca.
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Imperialismo
È un fenomeno che investe l’economia, le caratteristiche politiche, sociali, culturali e istituzionali delle società borghesi a capitalismo avanzato, allorquando lo sviluppo del modo di produzione capitalistico o le esigenze di accrescimento del capitale non potrebbero essere soddisfatte nel quadro di un’economia limitata nei confini nazionali.
L’aumento della concorrenza determina infatti la necessità, per mantenere alto o per aumentare il profitto, di investire maggiore capitale in macchinari e tecnologia. Le imprese capitalistiche sono pertanto spinte a cercare all’estero mercati ancora liberi dalla concorrenza (vedi Capitalismo monopolistico e Capitale finanziario).
Questa fase si distingue dal precedente sviluppo di tipo «liberistico» perché i paesi capitalisti, invece di importare materie prime e di esportare merci, tendono a investire capitali nei paesi industrialmente meno avanzati o sottosviluppati, influenzando così il loro stesso sviluppo economico, sociale e politico.
In questo tipo di colonialismo (vedi) sorge ben presto una concorrenza tra gli stessi paesi imperialisti anche nella spartizione delle «zone di influenza».
Secondo la concezione marxista-leninista l’imperialismo è dovuto all’evoluzione delle caratteristiche fondamentali del capitalismo, come estremo tentativo di assicurare sbocchi commerciali alla produzione sovrabbondante sul mercato interno.
Mentre i teorici della seconda internazionale (Kautsky, Bernstein) separavano la politica imperialista dallo sviluppo in senso monopolistico del capitalismo, Lenin vide invece la necessità per il capitalismo della politica colonialista per il mantenimento del profitto. Egli individua cioè nell’imperialismo una fase storica necessaria del capitalismo. Per Lenin inoltre i caratteri dell’imperialismo sono quelli del capitalismo sulla via del tramonto («putrefazione» e «parassitismo» del capitalismo) necessari per il mutamento dei rapporti di produzione.
Sotto l’aspetto politico, l’imperialismo si configura come tendenza alla reazione e al fascismo dal punto di vista della politica interna e, per quella estera, all’aggressione e alla guerra ad altri popoli meno progrediti. Lenin mette in rilievo la differenza tra l’imperialismo del periodo monopolistico rispetto a quelli precedenti:
«Politica coloniale e imperialismo esistevano anche prima del più recente stadio del capitalismo, anzi, prima del capitalismo stesso. Roma, fondata sulla schiavitù, condusse una politica coloniale ed attuò l’imperialismo. Ma le considerazioni "generali" sull’imperialismo che dimentichino le fondamentali differenze tra le formazioni economico-sociali o le releghino nel retroscena, degenerano in vuote banalità» (Lenin, L’Imperialismo, in Opere scelte, vol. unico, p. 228).
Anche la politica coloniale dei precedenti stadi del capitalismo si differenzia sostanzialmente dalla politica coloniale del capitale finanziario: la caratteristica fondamentale del moderno capitalismo è costituita dal dominio delle leghe monopolistiche dei grandi imprenditori.
Il periodo dell’imperialismo, secondo il marxismo, è stato preceduto ed è la conseguenza di una serie di crisi economiche internazionali, di cui la più grave ha avuto inizio negli ultimi decenni del secolo scorso, a cui la borghesia ha cercato di sfuggire attraverso la soppressione della libera concorrenza e con quella che è nota come la formazione del capitale finanziario (compenetrazione del capitale bancario con quello industriale).
A questo proposito Lenin delinea la formazione e lo sviluppo dell’imperialismo in tre momenti: un primo periodo dal 1860 al 1870 durante il quale si verifica l’apogeo della libera concorrenza e i monopoli sono soltanto in embrione; un secondo periodo dopo la crisi del 1873 in cui si ampliò lo sviluppo dei cartelli o trust, e infine l’ascesa degli affari alla fine del sec. XIX e il periodo della crisi degli anni 1900-1903 durante i quali i cartelli diventano una delle basi di tutta la vita economica.
Lenin poi delinea i principali contrassegni dell’imperialismo: in primo luogo la concentrazione della produzione e del capitale, poi la formazione di un’oligarchia finanziaria sulla base del capitale finanziario, l’importanza avuta dall’esportazione di capitale rispetto all’esportazione di merci, la nascita di associazioni monopolistiche internazionali, e infine la compiuta ripartizione della terra tra le più grandi potenze capitalistiche.
«L’imperialismo è dunque il capitalismo giunto a quella fase di sviluppo in cui si è formato il dominio dei monopoli e del capitale finanziario, l’esportazione di capitale ha acquistato grande importanza, è incominciata la ripartizione del mondo tra i trust internazionali, ed è già compiuta la ripartizione dell’intera superficie terrestre tra i più grandi paesi capitalistici» (ivi, p. 234).
Rispetto all’antico imperialismo, quello moderno è basato su due fondamentali novità: la concorrenza dei diversi imperialismi e la prevalenza del finanziere sul commerciante. L’imperialismo rappresenta quindi storicamente una «scelta obbligata» compiuta dalla borghesia dei paesi capitalistici più sviluppati, in quanto unica alternativa possibile per superare le difficoltà economiche intrinseche al capitalismo liberistico, senza tuttavia rinunciare al sistema di organizzazione sociale fondato sul profitto capitalistico.
Conseguentemente l’imperialismo rappresenta l’ultima forma possibile di organizzazione economica capitalistica e inoltre determina le condizioni internazionali (lotte di liberazione dei popoli coloniali) per la definitiva soppressione dell’imperialismo stesso. In questo senso l’imperialismo è «la fase suprema del capitalismo».
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Industria
Come attività collettiva organizzata intorno a materiali da trasformare in vista di un certo uso, essa esiste fin dall’antichità; l’estrazione di minerali e la costruzione di edifici, per esempio, sono forme antichissime di industria basate quasi esclusivamente sul lavoro degli schiavi e sull’uso di macchine molto semplici (mulini ad acqua, argani, ecc.) o di strumenti di lavoro individuali. Per questo Marx, criticando le considerazioni ideologiche sui rapporti tra uomo e natura, poteva affermare che «la celeberrima unità dell’uomo con la natura è sempre esistita nell’industria». Qui infatti l’uomo attraverso il lavoro conosce, utilizza e modifica forze e materiali naturali.
Ma è con l’introduzione di «macchinari», cioè di un insieme comprendente la macchina motrice, il meccanismo di trasmissione, la macchina utensile o operatrice, che sorge quella che Marx chiama la «grande industria», l’industria moderna, erede della manifattura (vedi). Qui
«l’articolazione del processo lavorativo sociale è puramente soggettiva, è una combinazione di operai parziali; nel sistema delle macchine la grande industria possiede un organismo di produzione del tutto oggettivo, che l’operaio trova davanti a sé, come condizione materiale di produzione pronta» (Il Capitale, libro I, p. 428).
Questa condizione materiale esige il lavoro in comune: «il carattere cooperativo del processo lavorativo diviene dunque necessità tecnica imposta dalla natura del mezzo di lavoro stesso»; di conseguenza è necessaria una coerente organizzazione che regoli il lavoro in comune nel modo più adatto a favorire il funzionamento delle macchine. Nascono così i regolamenti e le norme di lavoro per gli operai; dal piano tecnico si passa al piano umano, sociale, indicando i comportamenti più razionali nel processo lavorativo. Il capitalismo si impadronisce di questa pur necessaria elaborazione di regole e la trasforma in un codice oppressivo che ha per scopo l’intensificazione dello sfruttamento:
«Il codice della fabbrica in cui il capitale formula come privato legislatore e arbitrariamente la sua autocrazia sugli operai, prescindendo da quella divisione dei poteri tanto cara alla borghesia e da quel sistema rappresentativo che le è ancor più caro, non è che la caricatura capitalistica della regolazione sociale del processo lavorativo» (Il Capitale, libro I, pp. 468-469).
La democrazia borghese, in altre parole, si sbarazza apertamente delle proprie illusioni davanti alla porta della fabbrica al suo interno infatti i grandi principi di libertà, di uguaglianza, di dignità perdono il loro significato e l’uomo «libero» che ha «liberamente» venduto la propria forza-lavoro (vedi) diventa un’appendice della macchina. Riassume Engels:
«È fenomeno comune a tutta la produzione capitalistica, in quanto non sia soltanto processo lavorativo, ma anche processo di valorizzazione del capitale, che non è l’operaio ad adoperare la condizione del lavoro, ma, viceversa, la condizione del lavoro ad adoperare l’operaio; ma questo capovolgimento viene ad avere soltanto con le macchine una realtà tecnologicamente evidente. Mediante la sua trasformazione in macchina automatica, il mezzo di lavoro si contrappone all’operaio durante lo stesso processo lavorativo quale capitale, quale lavoro morto, che domina e succhia la forza-lavoro vivente» (Studi sul Capitale, pp. 79-80).
I temi dell’industria, e quindi delle macchine, sono per Marx essenziali non solo per lo studio del modo capitalistico di produzione in senso tecnico-economico, ma anche per individuare le nuove forme di servitù dell’esistenza umana; dai Manoscritti del ’44 al Capitale la disgregazione dell’uomo è il centro di un interesse che si esprime dapprima nei termini filosofici dell’estraniazione (vedi), dell’alienazione (vedi), della reificazione (vedi), poi in termini più concreti del modo di essere dell’uomo nel sistema di fabbrica, cioè in un complesso organico di macchine che non ha più alcun bisogno della tradizionale abilità artigiana del passato; qui si compiono, per usare le parole del Capitale, il cammino verso «la desolazione intellettuale», la trasformazione dell’uomo in semplice macchina che produce plusvalore, la corruzione dello sviluppo dello spirito: tanto più gravi in quanto esse sono di fatto una realtà nella quale il lavoratore è gettato fin dall’infanzia o dalla primissima gioventù.
Certamente negli anni in cui Marx scriveva queste righe la situazione era giunta a un punto così drammatico da indurre la borghesia a porvi un limite; il parlamento della nazione più altamente industrializzata, l’Inghilterra, istituì l’obbligo legale dell’istruzione elementare quale condizione per il consumo «produttivo» dei ragazzi al di sopra dei 14 anni. Con ciò si pensava di salvaguardare almeno in parte lo sviluppo della personalità minato dal lavoro in fabbrica; in altri Stati, quando l’industrializzazione portò a problemi analoghi si adottarono provvedimenti dello stesso genere.
La grande industria, dove l’applicazione cosciente della scienza aveva sostituito l’esperienza connessa con i vecchi mestieri, segnava la decisiva affermazione del modo di produzione capitalistico su ogni altro precedente; nel con tempo formava alla sua «dura scuola» la coscienza della nuova classe con la quale, entro un tempo brevissimo, avrebbe dovuto sostenere ben altre lotte da quelle delle occasionali e confuse ribellioni del più recente passato.
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Industria domestica
Attività produttiva, sorta prevalentemente nelle campagne a partire dalla fine del XIV secolo, svolta da artigiani su commissione di mercanti che fornivano sia la materia prima che gli strumenti di lavoro. In questo modo i mercanti tendevano ad aggirare l’ostacolo dei prezzi maggiori fissati dalle corporazioni urbane degli artigiani: nelle campagne invece gli artigiani si trovavano in condizioni molto diverse; lontani dai mercati, che potevano raggiungere solo abbandonando il lavoro per periodi relativamente lunghi, finivano col vendere i loro prodotti all’unico mercante presente sul luogo di lavoro. In breve, la dipendenza dal mercante, che era solitamente anche il fornitore delle materie prime, produsse un diffuso indebitamento e i mercanti si trovarono spesso ad essere proprietari degli strumenti di lavoro degli artigiani.
Successivamente l’industria a domicilio conobbe un notevole sviluppo che portò alla ribalta la figura del mercante-imprenditore, nella quale si manifestava concretamente la prevalenza del capitale monetario sulla piccola produzione mercantile (vedi Capitale commerciale). Sorse ben presto la necessità, in certi settori, di organizzare la produzione in forme più controllabili da parte dell’imprenditore: nacquero così le manifatture (vedi).
Nell’epoca del capitalismo moderno esiste ancora un’attività chiamata industria domestica che, per usare le parole di Marx, ha in comune con quella del passato soltanto il nome, essendo un puro rapporto esterno della fabbrica in cui il lavoro può essere eseguito con attrezzature modestissime e il più delle volte da mano d’opera non esperta e ancor meno retribuita.
Questa situazione è continuata anche dopo l’affermazione del capitalismo monopolistico e costituisce una fonte di profitto che può essere ingrandita o ridotta, senza comportare investimenti i proporzionali.
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Infantilismo
Una strategia politica è «infantile» quando invece di tener conto della situazione concreta, è ispirata piuttosto da atteggiamenti emotivi che travisano o perdono di vista i caratteri oggettivi di una determinata realtà storica. Engels, riferendosi al proclama dei Comunardi blanquisti del 1874, scriveva nello stesso anno: «Quale puerile ingenuità portare come argomento teorico la propria impazienza!».
Lenin a sua volta metteva in guardia dalle analisi avventate, dalla superficialità e dalla rigidezza di certe posizioni teoriche che, individuando in modo schematico i caratteri di una situazione, finiscono col proporre forme unilaterali di lotta con scarse probabilità di successo o, peggio, destinate fin dall’inizio alla sconfitta.
«La conclusione è chiara: negare per principio i compromessi, negare in generale ogni ammissibilità di compromessi, di qualunque genere essi siano, è una puerilità, che è persino difficile prendere sul serio» (Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, p. 24).
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Intellettuale
Genericamente indica l’attività separata e diversa dall’attività pratica. Intellettuali sono definiti coloro che svolgono prevalentemente questo tipo di attività, il più delle volte come professione. La concezione materialistica della storia riconduce il problema della definizione di ciò che è «intellettuale» e dell’analisi della funzione di coloro che svolgono prevalentemente un’attività intellettuale, al più generale problema della divisione sociale del lavoro (vedi) e della società (vedi) divisa in classi. Infatti l’attività intellettuale ha potuto apparire come indipendente dalla produzione materiale solo dal momento in cui una parte della società si è trovata nella condizione di poter ottenere i propri mezzi di sussistenza senza produrli direttamente. Gli intellettuali sono dunque il prodotto di una delle prime e più importanti divisioni dei compiti all’interno della società, che sostanzialmente corrisponde anche alla nascita di due classi distinte: coloro che producono i mezzi di sussistenza e coloro che non hanno bisogno di farlo, perché possono ottenerli utilizzando il lavoro dei primi.
Soltanto una parte di questi ultimi fu in grado di dedicarsi interamente all’elaborazione di teorie, concezioni e idee che costituiscono il patrimonio intellettuale dell’umanità. Marx afferma: «Quegli stessi uomini che stabiliscono i rapporti conformemente alla loro produttività materiale, producono anche i principi, le idee, le categorie, conformemente ai loro rapporti sociali».
Nel corso dello sviluppo storico la separazione fra trasformazione pratica del mondo e riflessione teorica si è ulteriormente approfondita, fino a determinare un contrasto inconciliabile all’interno del capitalismo. La borghesia ha elaborato e approfondito, attraverso i suoi intellettuali, le conoscenze di tutta l’epoca storica in cui essa è la classe dominante. Tuttavia le contraddizioni del modo di produzione capitalistico si riflettono anche in questo grande lavoro teorico, al punto che le «idee dominanti» della borghesia hanno suscitato dei problemi che non possono trovare soluzione se non oltre il suo punto di vista, che è necessariamente limitato e ristretto dai suoi interessi di classe.
La classe operaia ha anch’essa prodotto una «coscienza teorica», ma lo ha fatto solo in quanto si è posta come classe rivoluzionaria, che ha creato un nuovo tipo di attività intellettuale che ha come scopo diretto la soppressione della separazione tra lavoro manuale e intellettuale, il ricongiungimento di teoria e pratica, la critica sia delle idee borghesi, che della realtà storica in cui sono le idee dominanti.
Il problema degli intellettuali è dunque, nel marxismo, sia quello della formazione di nuovi «intellettuali», organicamente legati alla funzione storica della classe operaia (vedi Intellettuali organici e tradizionali), che quello del superamento pratico, concreto e storico della separazione fra teoria e prassi (vedi), fra intellettuali e produttori. Il problema della funzione degli intellettuali, in Italia fu affrontato, dal punto di vista marxista, da Gramsci, all’interno della prospettiva della costruzione di un nuovo blocco storico (vedi) e della realizzazione dell’egemonia (vedi) della classe operaia.
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Intellettuale collettivo
Gramsci sviluppò la concezione del partito come «intellettuale collettivo». Nella sua analisi l’intervento diretto di grandi masse nella vita delle nazioni moderne, la costituzione di una vasta rete di organi di informazione e di mezzi di comunicazione, rendono indispensabile l’organizzazione e la centralizzazione delle forze e delle aspirazioni, della «volontà collettiva», di settori sempre più ampi di popolazione. Questa funzione non può più essere svolta, secondo Gramsci, come avveniva spesso nel passato, da «una persona reale, un individuo concreto», ma è compito di un «organismo collettivo», di «un elemento di società complesso nel quale già abbia inizio il concretarsi di una volontà collettiva riconosciuta e affermatasi parzialmente nell’azione».
Non solo tutti gli appartenenti a un partito politico diventano «intellettuali», cioè svolgono una «funzione che è direttiva e organizzativa, cioè educativa, cioè intellettuale», ma l’intero partito svolge nei confronti della classe che rappresenta un ruolo fondamentalmente educativo e di direzione politica, cosa che può avvenire solo in quanto è un «collettivo»:
«Con l’estendersi dei partiti di massa e il loro aderire organicamente alla vita più intima (economico-produttiva) della massa stessa, il processo di standardizzazione dei sentimenti popolari da meccanico e casuale diventa consapevole e critico. La conoscenza e il giudizio di importanza di tali sentimenti non avviene più da parte dei capi per intuizione ... ma avviene da parte dell’organismo collettivo per “compartecipazione attiva e consapevole”, per “con-passionalità”, per esperienza dei particolari immediati … Così si forma un legame stretto tra grande massa, partito, gruppo dirigente, e tutto il complesso, ben articolato, si può muovere come un “uomo collettivo”» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1430).
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Intellettuali organici e tradizionali
Secondo Gramsci
«Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o più ceti di intellettuali che gli danno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico» (Quaderni del Carcere, p. 1513).
Lo studio della formazione di questo tipo di intellettuali fu uno dei più impegnativi per Gramsci nel periodo del carcere. Egli, ampliando notevolmente l’accezione del termine «intellettuale», si oppose alla concezione che intendeva l’attività intellettuale come separata dalla cosiddetta attività pratica e più in generale dall’attività produttiva, criticando anche la pretesa esistenza di un «ceto» intellettuale autonomo dalle classi sociali direttamente legate al mondo della produzione. Tuttavia ogni gruppo sociale che «emerge dalla storia» si trova a dover contrastare il ceto di intellettuali legato ai gruppi preesistenti, che Gramsci chiama «intellettuali tradizionali». «La più tipica di queste categorie intellettuali è quella degli ecclesiastici … (che) … può essere considerata … la categoria intellettuale organicamente legata all’aristocrazia fondiaria».
Gramsci si adoperò per favorire la formazione di un nuovo tipo di intellettuali che formassero il «personale politico specializzato» in grado di svolgere un’opera di «direzione» e organizzazione nel processo di formazione di un nuovo blocco storico:
«ogni nuovo organismo storico (tipo di società) crea una nuova superstruttura, i cui rappresentanti specializzati e portabandiera (gli intellettuali) non possono non essere concepiti anch’essi come "nuovi" intellettuali, sorti dalla nuova situazione e non continuazione della precedente intellettualità» (ivi, p. 1407).
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Interesse
L’interesse è la parte del profitto (vedi), o meglio del plusvalore (vedi), che il capitalista operante, industriale o commerciante, qualora impieghi capitale preso a prestito deve pagare al proprietario che gli ha prestato questo capitale. Nell’analizzare le caratteristiche specifiche che il capitale assume quando viene prestato per essere restituito con un interesse, cioè quando diventa capitale produttivo di interesse, Marx mette in rilievo la particolare forma mistificata in cui appaiono i rapporti sociali nel modo di produzione capitalistico:
«È nel capitale produttivo di interesse che il rapporto capitalistico perviene alla sua forma più esteriore e assume l’aspetto di un feticcio. Noi abbiamo qui D-D’, denaro che produce più denaro, valore che valorizza se stesso, senza il processo che serve da intermediario fra i due estremi … Il rapporto sociale è perfezionato come rapporto di una cosa, del denaro, con se stessa … Qui la figura di feticcio del capitale e la rappresentazione del capitale come feticcio sono portate a termine … Nella sua forma immediata, in quanto il capitale produttivo di interesse, e precisamente nella sua forma di capitale monetario produttivo di interesse … il capitale riceve la sua forma di feticcio pura, D-D’, come soggetto, cosa vendibile» (Il Capitale, libro III, pp. 463, 464, 465).
Infatti l’interesse ha, in realtà, la stessa origine del plusvalore: lo sfruttamento della forza-lavoro (vedi). Ma il capitale produttivo di interesse non viene impegnato direttamente e immediatamente nella produzione, ma solo dopo che è stato prestato. Marx osserva che in questo modo il capitale viene usato come merce. Nel capitale produttivo di interesse il capitale è merce.
Tuttavia non solo non è una merce come tutte le altre, in quanto il suo valore d’uso è quello di essere capitale e quindi di valorizzarsi (e in questo Marx rileva un’analogia, anche se solo formale, con la forza-lavoro, poiché anch’essa, quando è venduta come merce produce valore), ma il capitale produttivo di interesse non viene affatto venduto in cambio di un equivalente, bensì viene solo momentaneamente alienato dal suo proprietario per ritornare al suo punto di partenza, valorizzato, con gli interessi, al termine di un ciclo produttivo o di un determinato periodo di tempo anche più lungo.
La complessità dei rapporti che intercorrono tra chi presta e chi riceve in prestito il capitale, che in una fase avanzata di sviluppo del capitalismo sono sempre mediati dal credito, dalle banche, ecc., e la concorrenza (vedi) tra chi presta e chi riceve in prestito il capitale per aumentare la propria parte di profitto, accentuano in modo mistificatorio l’analogia del capitale produttivo di interesse con la merce «normale».
Questo è uno dei motivi per cui l’economia borghese in genere, e lo stesso Proudhon, che pure per certi aspetti fu critico nei confronti del capitalismo, definisce l’interesse come prezzo del capitale. Questa è, del resto, una delle definizioni tuttora più diffuse, o che almeno sottende a molte interpretazioni attuali dell’interesse. A questo proposito Marx osserva che definire «l’interesse come prezzo del capitale è un’espressione del tutto irrazionale», infatti il prezzo di una merce è il suo valore espresso in denaro, ma il capitale produttivo di interesse è essenzialmente capitale monetario, cioè denaro:
«Come potrebbe ora una somma di valore avere un prezzo oltre al proprio prezzo, oltre al prezzo espresso nella sua stessa forma monetaria? … Un prezzo che differisca qualitativamente dal valore è una contraddizione assurda» (ivi, pp. 420-421).
Inoltre la reale natura dell’interesse può essere compresa, secondo Marx, solo a condizione che il capitale produttivo di interesse venga considerato nel suo processo complessivo di valorizzazione, quindi nel suo rapporto antagonistico da un lato con il profitto commerciale e industriale, e dall’altro come parte costitutiva del capitale complessivo, nella sua contraddizione fondamentale con il lavoro salariato. La semplice espressione giuridica, formale, del contratto tra chi presta e chi riceve in prestito del denaro non rivela, anzi nasconde, il legame profondo che sussiste tra profitto medio e interesse, e rispettivamente tra saggio medio del profitto (vedi Saggio del profitto) e saggio dell’interesse, che esprime la proporzione tra interesse e capitale prestato.
«Il carattere sociale antagonistico della ricchezza materiale – il suo antagonismo col lavoro – quale lavoro salariato è espresso, a parte il processo di produzione, già nella proprietà di capitale in quanto tale. Questo momento particolare, separato dallo stesso processo di produzione capitalistico, di cui è un costante risultato e quindi una costante premessa, si esprime nel fatto che il denaro, e parimenti la merce, in sé e per sé, sono capitale in modo latente e potenziale, che essi possono essere venduti come capitale, rappresentando in questa forma il potere di disporre di lavoro altrui, il diritto di appropriarsi di lavoro altrui, costituendo quindi valore che si valorizza» (ivi, p. 422).
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Internazionale
Organizzazione dei movimenti operai sul piano internazionale. Il primo tentativo di unificazione delle organizzazioni operaie dei diversi paesi, per l’elaborazione di un programma di lotta che superasse i limiti imposti dai confini nazionali, costituisse un adeguamento allo sviluppo della coscienza della classe operaia e rispondesse al carattere internazionale dello sfruttamento capitalistico con una lotta internazionale, fu la I Internazionale.
Tra i principali sostenitori della necessità di questa associazione furono Marx ed Engels, che contribuirono notevolmente a organizzare nel 1864 a Londra il primo congresso di questa «Associazione Internazionale degli Operai».
All’interno della I Internazionale sorsero, tuttavia, dei contrasti sul problema del ruolo della classe operaia e su quali dovessero essere le sue forme di organizzazione per il raggiungimento degli obiettivi rivoluzionari. Soprattutto in seguito alla sanguinosa i repressione della Comune di Parigi, nel 1871, le divergenze sulle prospettive di sviluppo dell’associazione internazionale divennero inconciliabili e nel 1872 di fatto la I Internazionale cessò di esistere. Essa fu sciolta ufficialmente nel 1876. Alla I Internazionale partecipò, fino al 1872, anche la corrente anarchica, capeggiata da Bakunin.
Tredici anni dopo, una vasta ripresa dell’attività politica e organizzativa del movimento operaio ripropose il problema di un’organizzazione e di un’attività internazionale dei partiti socialisti («socialdemocratici»), che nel frattempo si erano formati in gran parte dei paesi europei. Fu costituito, così, a Bruxelles un ufficio permanente che diresse la Il Internazionale. Tuttavia anche questa esperienza mostrò ben presto i suoi limiti storici, a causa soprattutto delle tendenze opportuniste (vedi Opportunismo) dei suoi principali esponenti, che giunsero fino al punto di appoggiare la politica imperialista dei governi dei principali paesi europei. Con lo scoppio della prima guerra mondiale la contraddizione tra le aspirazioni rivoluzionarie delle classi oppresse e la politica della Il Internazionale giunse al punto che si rese necessaria la creazione di una III Internazionale, nel 1919, che fu chiamata Internazionale Comunista.
Soprattutto Lenin contribuì alla costruzione di questo nuovo organismo, che riunificò le correnti rivoluzionarie che erano state in minoranza all’interno della Il Internazionale, a cui Lenin stesso aveva partecipato, favorendo la formazione dei partiti comunisti in tutto il mondo. Questa Internazionale fu l’esperienza forse più significativa e progredita di lotta internazionale del movimento operaio e contadino e contribuì grandemente alla lotta contro il nazifascismo (vedi Fronte), mantenendo saldi legami tra i vari partiti comunisti anche durante la seconda guerra mondiale. Fu sciolta nel 1943. Da allora non sono più stati fatti tentativi importanti di creare altri organismi internazionali per il coordinamento del movimento operaio.
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Internazionalismo proletario
È la concezione che sostiene la necessità dell’unione e dell’aiuto reciproco tra le forze rivoluzionarie di tutto il mondo.
In particolare si oppone al nazionalismo e all’imperialismo. Fin dai primi anni della sua esistenza il movimento operaio organizzato ha fatto propria la concezione internazionalista, organizzando associazioni internazionali (vedi Internazionale) e appoggiando «dappertutto ogni moto rivoluzionario contro le condizioni sociali e politiche esistenti».
La concezione internazionalista propria del marxismo afferma che è indispensabile che le classi oppresse conducano la lotta rivoluzionaria contro i rispettivi governi per contribuire allo sviluppo della rivoluzione internazionale. Secondo Lenin l’internazionalismo consiste nell’affermare, agendo di conseguenza, che «l’interesse della rivoluzione operaia internazionale sta al di sopra dell’integrità territoriale, della sicurezza, della tranquillità di questo o quello, e più esattamente del proprio Stato nazionale».
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Laburismo
Movimento associazionista che ebbe le sue origini in Inghilterra nel 1900 dall’unificazione delle varie organizzazioni operaie di tendenza radicale e socialista.
Questo movimento aveva come aspirazione e progetto pratico quello di creare una rappresentanza operaia in parlamento, il cosiddetto «comitato della rappresentanza operaia»; nel 1906, prese il nome di Partito Operaio Laburista.
Nato come partito rappresentante della classe operaia, ben presto assunse caratteristiche moderate e riformiste, contrapponendosi al movimento comunista.
Il Partito laburista ha svolto ruoli alternativamente di maggioranza e opposizione fino ai giorni nostri ed è caratterizzato da una complessa serie di correnti e da atteggiamenti propri del trasformismo. Comportamento posto sotto accusa da Lenin:
«…i fabiani, gli indipendenti e i laburisti in Inghilterra hanno stipulato tra il 1914-’18 e il 1918-’20 dei compromessi con i banditi della propria borghesia e talvolta anche con quelli della borghesia alleata contro il proletariato rivoluzionario del loro paese; questi signori si sono comportati senz’altro come complici del banditismo» (L’estremismo malattia infantile del comunismo, pp. 23-24).
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Lavoro
Secondo la classica definizione data da Marx nel libro I del Capitale è in primo luogo
«…un processo che si svolge fra l’uomo e la natura, nel quale l’uomo per mezzo della propria azione produce, regola e controlla il ricambio organico fra se stesso e la natura: contrappone se stesso, quale una fra le potenze della natura, alla materialità della natura. Egli mette in moto le forze naturali appartenenti alla sua corporeità, braccia e gambe, mani e testa, per appropriarsi i materiali della natura in forma usabile per la propria vita» (Il Capitale, libro I, p. 195).
Il lavoro è dunque l’attività attraverso la quale l’uomo modifica la materia in modo da poterla utilizzare per i suoi scopi o, come anche dice Marx, in modo da appropriarsi della natura. In questa concezione non vi è posto per le confusioni tra lavoro dell’uomo e attività di alcune specie animali – api, castori, ecc. – pur dirette a trasformare in qualche modo materiali naturali per soddisfare le proprie esigenze di vita; per Marx queste attività sono caratterizzate dall’invariabilità del bisogno e dei modi di provvedervi, fissata da un meccanismo biologico particolare per ogni specie.
L’uomo invece modifica la natura in funzione di necessità che sono ampiamente mutate nel corso della storia, seguendo criteri basati sulla conoscenza delle leggi e delle proprietà della materia, utilizzando i modi più diversi; l’uomo cioè si avvale, nella sua opera sulla natura, di strumenti che sono già il prodotto della trasformazione di qualche cosa che è trovato in natura. Il ramo o la pietra raccolti dall’uomo primitivo nel mondo circostante sono certamente elementi naturali, ma solo l’osservazione e l’esperienza potevano trasformarli in strumenti, ossia in oggetti di per sé incapaci di soddisfare i bisogni umani, ma utilizzati per ottenere quanto poteva soddisfarli. Caratterizzare l’essenziale differenza tra lavoro, fenomeno esclusivamente umano, e attività animali con una superficiale somiglianza era necessario per evitare all’interno del marxismo interpretazioni naturalistiche, vale a dire la riduzione dei problemi in termini biologici e il conseguente atteggiamento fatalistico e passivo.
In quanto attività adeguata a uno scopo, il lavoro ha quindi caratteristiche generali che possono valere in ogni momento della storia e della società; sono, per usare le parole di Marx, i «momenti semplici» del lavoro che comprendono oltreché l’attività lavorativa vera e propria, «l’oggetto su cui si agisce e il mezzo con cui si agisce». Perciò un esame che voglia comprendere con la necessaria serietà cosa sia il lavoro non può fermarsi a questo punto, ma deve studiarne tutte le caratteristiche come concretamente si sono presentate in passato e si presentano attualmente, vederlo cioè fin dove è possibile nella sua totalità, che comprende quindi il ruolo assegnato al lavoro in ogni società, i rapporti sociali che ne discendono, la destinazione del suo prodotto.
In questa prospettiva che costituisce uno dei temi più generali del pensiero di Marx e del marxismo, si possono indicare alcuni punti essenziali relativi sia all’aspetto delle condizioni di esistenza dell’uomo, sia del ruolo e della storicità del lavoro nel meccanismo di produzione.
– I prodotti del lavoro hanno un valore d’uso (vedi) e compaiono sotto forma di merce (vedi); essi non appartengono ai produttori ma a un’altra persona, il capitalista, che possiede i mezzi di produzione, organizza il lavoro in conformità a questi e agli scopi tecnici ed economici che si è prefisso, provvede alla vendita delle merci.
– Lavoro e prodotto del lavoro non si identificano più per il produttore; il primo si svolge sotto la direzione di altri, il secondo non gli appartiene nemmeno nel modo più indiretto; il prodotto del lavoro si pone dinanzi al produttore come un oggetto estraneo (vedi Estraniazione) che serve ad alimentare la macchina del profitto (vedi).
– Il lavoro, per chi non possiede altri mezzi per vivere, è un’attività svolta in seguito alla vendita della propria forza-lavoro.
– Perché tale vendita sia possibile occorrono: una società in cui si trovano individui disposti a vendere la loro forza-lavoro (vedi Classe, Proletariato), una funzione giuridica che garantisca la parità e la libertà contrattuale tra compratore e venditore di forza-lavoro (vedi Diritto), la convinzione – prevalente nella società su ogni altra – che tutto ciò sia giusto o, quanto meno, che non abbia alternative (vedi Ideologia).
– L’uomo vende la sua forza-lavoro senza altro scopo reale che la sopravvivenza; la sua vita non si svolge nel tempo di lavoro ma fuori da questo; il suo lavoro è, come si dice, alienato (vedi Alienazione).
– Fuori dal luogo di lavoro l’uomo non solo è costretto a contribuire al profitto di altri capitalisti attraverso l’acquisto delle merci necessarie alla sua sussistenza, ma può constatare che la sua condizione di venditore di forza-lavoro è oltreché un fatto economico anche un fatto sociale: nella società divisa in classi e basata sulla divisione del lavoro (vedi) egli è semplicemente un elemento utile e intercambiabile al meccanismo di produzione. Fuori da questo, non conta; se conta qualcosa, ciò è dovuto ai risultati della sua lotta organizzata.
– Ciò che il capitalista acquista col salario (vedi) non è il lavoro svolto dal produttore ma una parte del suo tempo; la quantità di tempo necessaria per fabbricare un oggetto misura il suo valore di scambio (vedi); la misura del tempo quindi è «un dato indispensabile» alla produzione e si concreta nei calcoli relativi alla giornata lavorativa, basati sui tempi del lavoro socialmente necessario (vedi) e sulla forza produttiva o produttività del lavoro che dipende dal grado medio di abilità dell’operaio e dal grado di sviluppo tecnologico degli impianti.
Quanto maggiore è la forza produttiva, tanto minore è il tempo di lavoro necessario per produrre una data quantità di merce nell’unità di tempo; ciò indica che per ottenere una certa produzione giornaliera si può ricorrere tanto al miglioramento degli impianti quanto a un aumento delle ore lavorative nella giornata. Il capitalismo industriale è ricorso e ricorre indifferentemente alle due soluzioni. La durata della giornata lavorativa è stata ed è calcolata sulla base di pure esigenze economiche: l’uomo è qui semplicemente il mezzo per raggiungere uno scopo a lui estraneo, cifra dì un calcolo economico in cui, fino a quando non riguarda l’entità del profitto, la durata della vita della forza-lavoro è priva di interesse. Il calcolo infatti deve limitarsi a prevedere un logoramento «normale» di tale forza; ma, si chiedeva Engels, che cosa vuoI dire normale? Il termine è molto vago e su questo si sviluppa una controversia tra classe operaia e capitalisti che solo la forza può decidere; di qui la lunga lotta per definire la durata contrattuale della giornata lavorativa normale.
– Il contratto di lavoro, come definizione della durata della giornata di lavoro, cioè la conquista di una legge dello Stato che si sostituisce al contratto «volontario» col capitale, costituisce una vittoria rivoluzionaria decisiva nel difficile cammino verso l’emancipazione del lavoro dallo sfruttamento.
– Il lavoro intellettuale (vedi Intellettuale) non è un lavoro produttivo in quanto produce idee, opere d’arte, ecc., ma in quanto produce un plusvalore (vedi); infatti
«La stessa specie di lavoro può essere produttiva o non produttiva. Milton, per esempio, che ha scritto il Paradiso perduto, era un lavoratore improduttivo. Invece lo scrittore, che fornisce lavoro al suo editore, è un lavoratore produttivo. Milton produsse il Paradiso perduto per lo stesso motivo per cui il baco da seta produce seta. Era una manifestazione della sua natura. Egli vendette poi il prodotto per 5 1st. Ma il letterato proletario di Lipsia, che sotto la direzione del suo editore produce libri (per esempio compendi di economia), è un lavoratore produttivo, poiché la sua produzione è a priori sottoposta al capitale, e ha luogo solo per farlo fruttare» (Marx, Storia delle teorie economiche, vol. I, p. 387).
– Lavoro utile è quello che porta alla formazione di valore d’uso (vedi) ed è perciò condizione necessaria per l’esistenza umana; in questo senso è indipendente dalla forma di società in cui si svolge, essendo il suo scopo quello della mediazione nel rapporto tra uomo e natura.
– L’espressione lavoro astratto indica il lavoro in genere considerato facendo astrazione dalle caratteristiche dei diversi lavori concreti; indica, in sostanza, l’elemento comune a ogni tipo di lavoro.
– Il lavoro morto è quello che si è fissato, in quanto svolto precedentemente, nei mezzi di produzione (vedi). Questi sono infatti prodotti di un lavoro che si è, per così dire, materializzato in essi; i proprietari dei mezzi di produzione dominano il lavoro vivo, cioè il lavoro attuale, che senza i relativi strumenti non potrebbe essere svolto (vedi Capitale costante e variabile).
– Il lavoro semplice è quello svolto dal lavoratore sprovvisto di una preparazione specifica, impiegato dunque nelle operazioni più elementari; il lavoro composto è invece quello svolto dal lavoratore fornito di una preparazione specifica che lo mette in grado di compiere operazioni più complesse. Questa distinzione è fondamentale per comprendere in che modo è fissato il valore di scambio (vedi) di una merce (vedi); merci che sono prodotte dalla stessa quantità di lavoro hanno infatti valori molto diversi a seconda della qualità del lavoro che è in essi rappresentato, nel senso che avranno un valore sempre più alto a seconda dalla maggior complessità del lavoro necessario per produrre una merce. Il conteggio viene effettuato moltiplicando il dato relativo al lavoro semplice per un coefficiente proporzionale alla complessità del lavoro.
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Lavoro salariato
È il lavoro «libero», secondo l’espressione di Marx: caratterizzato cioè dal fatto che il lavoratore vende «liberamente» l’unica merce di cui dispone, la propria forza-lavoro. E’ una forma di vendita propria del sistema capitalistico; non sempre infatti la forza-lavoro è stata una merce:
«Lo schiavo non vendeva la sua forza-lavoro al padrone di schiavi, come il bue non vende al contadino la propria opera. Lo schiavo, insieme con la sua forza-lavoro, è venduto una volta per sempre al suo padrone. Egli è una merce che può passare dalle mani di un proprietario a quelle di un altro. Egli stesso è una merce, ma la forza-lavoro non è merce sua. Il servo della gleba vende soltanto una parte della sua forza-lavoro. Non è lui che riceve un salario dal proprietario della terra; è piuttosto il proprietario della terra che riceve da lui un tributo» (Marx, Lavoro salariato e capitale, p. 28).
L’operaio libero, invece, «mette all’asta» un certo numero di ore della sua vita quotidiana che appartengono a chi le compera, affitta se stesso insomma al miglior offerente, in una situazione giuridica di libertà, che gli permette di abbandonare il datore di lavoro quando crede, salvo il rispetto di normali impegni contrattuali.
Si tratta ovviamente di una finzione di libertà; l’operaio che possiede soltanto la propria forza-lavoro può bensì abbandonare il datore di lavoro A per passare al «miglior offerente» B, ma «non può abbandonare l’intera classe dei compratori (della sua forza-lavoro) cioè la classe dei capitalisti, se non vuole rinunciare alla propria esistenza». Il lavoratore non appartiene a questo o a quel capitalista; può, se le circostanze lo permettono, scegliere l’uno o l’altro, ma è tra loro che deve trovare il compratore della sua unica merce.
Il lavoro salariato non coincide col lavoro effettivamente svolto, è solo una parte di questo: la differenza si indica come pluslavoro, che può quindi essere definito come «lavoro non pagato del lavoratore, compiuto oltre il tempo necessario per compensare il suo salario»; è quindi la fonte del plusvalore (vedi) e del costante aumento del capitale. Osserva Engels che
«Il lavoro non pagato non è, in sé, una particolarità della moderna società borghese. Da quando esistono classi possidenti e classi non possidenti, la classe che non possiede ha sempre dovuto fornire lavoro non pagato. Da quando una parte della società possiede il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o non libero, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento un tempo di lavoro eccedente, per produrre i mezzi di sussistenza per i proprietari dei mezzi di produzione. Il lavoro salariato è soltanto una particolare forma storica del sistema del lavoro non pagato, che domina fin da quando esiste la divisione in classi, una particolare forma storica che deve essere presa in esame come tale, per essere rettamente intesa» (Engels, Studi sul Capitale, p. 126).
Sul lavoro non pagato al lavoratore, cioè sul pluslavoro, vivono tutti coloro che non lavorano; «su di esso poggia l’intera situazione sociale nella quale viviamo» e si fonda infine il rapporto di dominio e di subalternità (vedi) che nasce dalla sfera della produzione.
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Lavoro socialmente necessario
È la quantità di lavoro necessaria in media per la produzione di un dato oggetto; sulla sua base viene determinato il valore di scambio (vedi) dell’oggetto stesso. Così se per costruire un tavolo dello stesso tipo la media dei falegnami impiega x ore, questo tempo misura il lavoro socialmente necessario per la costruzione di quel tavolo. Se infatti il valore di scambio del tavolo fosse fissato sulla base del tempo impiegato da ogni singolo falegname, si verrebbe a creare la paradossale situazione di un valore di scambio tanto più alto quanto minore è la capacità dell’artigiano. Il discorso è in linea di massima lo stesso anche per i prodotti sofisticati delle industrie: la quantità di lavoro per costruire un alternatore di un dato tipo è calcolata sui tempi medi impiegati dalle varie fabbriche che lo producono: la fabbrica che impiegasse un tempo sensibilmente superiore a quello medio si troverebbe ben presto in una difficile situazione. Questo stato di cose viene talvolta indicato come «economia basata sulla contabilità delle ore di lavoro».
Non tutto il lavoro socialmente necessario produce nello stesso tempo lo stesso valore di scambio: quanto maggiore è il grado di qualificazione-specializzazione del lavoro impiegato per costruire un oggetto tanto maggiore è il valore di scambio.
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Legalitarismo
È la tendenza a mantenere le rivendicazioni, le forme di organizzazione e la lotta della classe operaia entro i limiti stabiliti dalle leggi esistenti nella società capitalistica, e, in generale, è la concezione che ritiene possibile ottenere una legislazione che corrisponda alle esigenze fondamentali dei lavoratori senza una trasformazione rivoluzionaria della società e la distruzione dell’apparato statale borghese (vedi Riformismo). Il legalitarismo si diffuse largamente nei partiti socialdemocratici aderenti alla II Internazionale (vedi Internazionale). Fu criticato da Lenin come manifestazione di opportunismo (vedi) in quanto rendeva impossibile l’organizzazione di un movimento rivoluzionario, e in ultima analisi rinunciava alla lotta per la realizzazione della democrazia socialista.
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Leninismo
Per leninismo si intende la ripresa e l’elaborazione dei principi del marxismo condotte da Lenin nell’ambito delle specifiche condizioni storiche in cui egli operava. Marx e Engels avevano costruito la teoria della rivoluzione proletaria nell’epoca in cui dominavano le rivoluzioni borghesi; l’interesse immediato quindi era quello di chiarire la posizione della classe operaia all’interno di queste, di creare un’organizzazione politica e non solo sindacale, di dare al proletariato una coscienza di classe. Lenin opera invece nel momento in cui il capitalismo ha raggiunto la sua «fase suprema», cioè l’imperialismo (vedi), oltre la quale, secondo appunto la sua teoria, non esiste che il socialismo. Compito immediato della classe operaia era perciò la rivoluzione: da qui la necessità di studiarne i modi e le possibilità di attuazione, i modi e le forme del potere una volta conquistato.
Il leninismo quindi non è un’interpretazione o un ammodernamento della teoria marxista, ma ne rappresenta un arricchimento (vedi), in quanto elaborazione che tende a stimolare nelle condizioni storiche mature i processi politici per la rivoluzione proletaria. Si capisce allora perché in seguito i partiti della classe operaia si siano richiamati ai principi del marxismo-leninismo come ad un corpo unico. Del resto la necessità di una ripresa del marxismo nella sua corretta interpretazione, ma anche nel suo spirito più autentico, si era imposta a Lenin contro le deviazioni della II Internazionale, che, rinunciando ad alcuni principi fondamentali, avevano portato il movimento su posizioni revisionistiche e opportunistiche (vedi Revisionismo, Opportunismo). Lenin così sintetizza la situazione:
«Accade oggi alla dottrina di Marx quel che è spesso accaduto nella storia alle dottrine dei pensatori rivoluzionari e dei capi delle classi oppresse in lotta per la liberazione … Si dimentica, si respinge, si snatura il lato rivoluzionario della dottrina, la sua anima rivoluzionaria. Si mette in primo piano e si esalta ciò che è o pare accettabile alla borghesia» (Stato e Rivoluzione, p. 7).
Ne deriva la necessità di superare i limiti della II Internazionale per un’interpretazione autentica del senso ultimo dell’opera di Marx, che è poi l’attuazione dell’assunto rivoluzionario.
In questo contesto si inseriscono i numerosi argomenti trattati da Lenin e che costituiscono, nel loro insieme, ciò che si chiama leninismo. I suoi punti qualificanti possono essere così indicati:
– l’analisi dell’imperialismo (vedi) come ultimo stadio del capitalismo;
– la concezione dello Stato come critica allo Stato borghese, edificazione della società comunista, teorizzazione della dittatura del proletariato (vedi Stato, Dittatura del proletariato, Socialismo, Comunismo);
– il ruolo e l’organizzazione del partito rivoluzionario (vedi Partito, Centralismo democratico, Rivoluzione, Coscienza di classe);
– i problemi connessi alla costruzione del socialismo in un solo paese (vedi Nep, Bolscevismo, Soviet, Questione nazionale);
– lo studio dei fondamenti teorici del marxismo nelle nuove condizioni storiche (vedi Teoria, Empiriocriticismo, Monismo, Revisionismo).
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Liberalismo
Il pensiero liberale è l’espressione politica e culturale della lotta condotta dalla borghesia (vedi) contro i residui economici e sociali del feudalesimo e l’assolutismo monarchico. Esprime quindi nel campo dei rapporti politici e della concezione dello Stato, i principi del liberismo economico (vedi); fonda la dottrina del libero scambio delle merci (vedi) e della libera concorrenza sulla base dei valori della libertà individuale nei rapporti tra lo Stato e il cittadino e tra le diverse forze che con- corrono nell’insieme delle attività di governo.
Se il termine fu usato per la prima volta, col significato politico che poi divenne comune, da Madame de Stael, all’interno dell’indirizzo romantico liberale francese dei primi decenni del sec. XIX, il liberalismo affonda tuttavia le sue radici nel secolo precedente, nella Rivoluzione francese e nei movimenti di pensiero che l’avevano preceduta e preparata, in particolar modo nell’Illuminismo. Ispirato in campo giuridico ed etico-politico dalle teorie di Locke e Montesquieu, e in campo economico dai teorici del liberismo (Smith e Ricardo), esso rappresenta lo sbocco politico e teorico dell’affermazione della borghesia industriale contro il dispotismo statale e le caste nobiliari e fondiarie, attraverso l’affermazione di una serie di diritti inalienabili e uguali per tutti gli uomini, e la rivendicazione di uno Stato costituzionale retto da un sistema parlamentare, tale da assicurare il libero sviluppo delle esigenze produttive e commerciali della nascente società borghese.
La rivendicazione di diritti ritenuti naturali e imprescrittibili, individuati nella libertà personale, nella proprietà privata, nella libertà religiosa e nell’uguaglianza giuridica, rappresentava gli interessi di una classe borghese alla quale era indispensabile il progresso sociale, il rispetto della legalità e della costituzione, la garanzia della libertà politica.
Nel corso dell’Ottocento il termine liberalismo servì per indicare movimenti, che pur avendo in comune il richiamo ai principi della libertà individuale e della libera iniziativa, tuttavia divergevano per aspetti spesso non secondari del proprio pensiero. Il diverso corso che nelle nazioni europee ebbe l’ascesa della borghesia al potere, determinò pure profondi mutamenti nelle formazioni politiche liberali. Si formò in particolare una corrente più accentuatamente moderata, rappresentante politica dell’alta borghesia e dell’aristocrazia progressista; essa tendeva a interpretare in senso restrittivo i principi illuministici della libertà e dell’uguaglianza. Il rifiuto dell’esperienza rivoluzionaria e della democrazia basata sulla sovranità popolare portò il liberalismo moderato a far prevalere le istanze legalitarie e monarchiche.
Si delineò così il contrasto con quelle correnti democratiche, radicali e repubblicane, che, direttamente ispirate anche dal clima del romanticismo, si legavano all’idea di Rousseau della sovranità popolare, contrapponendo alla concezione liberale di una monarchia costituzionale fondata sull’istituto parlamentare e sul suffragio secondo il censo, un’organizzazione del potere basata sull’uguaglianza politica di tutto il popolo e sul suffragio universale. In particolare in Italia il dissidio tra liberali monarchici e democratici repubblicani, specie mazziniani, scandì il corso stesso del Risorgimento, fino alla costruzione dello stato unitario.
Parallelamente al consolidarsi della borghesia al potere, veniva anche meno il carattere universale e progressista del suo pensiero politico e delle sue forme istituzionali. Da strumento di emancipazione dell’intera umanità, il pensiero liberale si trasformò progressivamente in strumento di discriminazione verso le classi inferiori e in particolar modo verso la nascente classe operaia. Se l’esistenza di un proletariato che lottava per la democrazia e per la propria emancipazione all’inizio dell’Ottocento aveva costituito la base di manovra per l’affermazione al potere della borghesia, nella seconda metà del secolo la borghesia vide in esso il nemico principale, reso più pericoloso dallo sviluppo del socialismo scientifico (vedi) di Marx ed Engels. Da qui la costante tendenza del liberalismo a temere e a restringere la democrazia, a fare concessioni alle vecchie classi, a trasformare i propri ordinamenti in strumenti di contenimento e di repressione della lotta di classe. Il passaggio del liberalismo dalla fase iniziale e rivoluzionaria a quella moderata e conservatrice coincide con lo sviluppo di un movimento cosciente e organizzato delle classi lavoratrici sfruttate.
Con la crisi della libera concorrenza e la trasformazione dell’economia capitalistica in senso monopolistico e imperialistico, il patrimonio progressista del liberalismo fu abbandonato. Nel- l’epoca della decadenza economica e politica della borghesia, il liberalismo non solo negò i suoi tratti teorici nel nazionalismo e nell’irrazionalismo, dominanti nella cultura del primo novecento, ma assunse la tendenza alla reazione fino al fascismo, cioè la negazione stessa dei suoi principi liberali, come caratteristica organica e necessaria per la propria sopravvivenza politica ed economica, di fronte da una parte alla crisi dei meccanismi capitalistici e dall’altra all’avanzare della classe operaia.
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Liberismo economico
È la concezione secondo cui il libero sviluppo dell’iniziativa privata, tendente a realizzare il proprio vantaggio, è condizione necessaria e sufficiente a determinare il progresso economico. Il periodo di maggiore diffusione del liberismo corrisponde approssimativamente agli ultimi anni del XVIII secolo e alla prima metà del XIX. Concezioni improntate al più ampio liberismo economico possono essere considerate quelle dei fisiocratici (vedi Fisiocrazia) e di A. Smith (vedi Economia politica).
In particolare Smith viene considerato come il più grande teorico del liberismo; nella sua analisi la piena autonomia e uguaglianza giuridica degli agenti della produzione e dello scambio sono una condizione essenziale per il libero sviluppo delle forze produttive. Lo Stato, secondo Smith, non deve intervenire in alcun modo con misure protezionistiche di «chiusura» dei mercati o di limitazione della concorrenza (vedi). Infatti «l’interesse generale» si realizza grazie all’equilibrio determinato autonomamente dalle «leggi della domanda e dell’offerta», indipendentemente dalla volontà dei singoli soggetti, che agiscono nella produzione. Smith parla di una «mano nascosta» che fa valere l’interesse comune, proprio attraverso il raggiungimento dell’interesse privato.
Marx fu estremamente critico nei confronti di questa concezione smithiana, in quanto la considerava come il prodotto dell’incomprensione del complesso rapporto che intercorre tra la sfera della produzione e la sfera della circolazione delle merci (vedi), che implica non già uno scambio tra singoli liberi e uguali, ma un rapporto tra classi sociali che sono in condizioni di disuguaglianza economica. Solo considerando la sfera della circolazione come separata e indipendente da quella della produzione, la vendita della forza-lavoro (vedi) può apparire una «libera scelta» del lavoratore che sta di fronte al singolo capitalista che la compra.
Tuttavia, secondo Marx, l’analisi di Smith rappresenta un passo avanti nei confronti delle teorie economiche precedenti e, in un certo senso, era il riflesso di una condizione in cui il libero sviluppo della concorrenza e dell’accumulazione (vedi) era un fattore di progresso, ferme restando naturalmente le critiche al modo concreto in cui questo progresso si era realizzato (vedi Accumulazione originaria).
Ben diversa è la critica che Marx ed Engels condussero agli «epigoni» volgarizzatori del liberismo, che lo riproponevano in forma banalizzata in un periodo in cui questa concezione aveva già mostrato i suoi limiti storici e lo sviluppo del capitalismo cominciava ad essere contraddistinto da crisi periodiche dovute all’anarchia della produzione:
«È appunto una caratteristica dell’economia volgare ripetere cose che erano nuove, originali, profonde e giustificate in un certo grado di sviluppo ormai superato e ripeterle in un periodo in cui esse sono diventate banali, ammuffite e sbagliate. Essa dimostra così di non avere neppure un’idea dei problemi che hanno preoccupato l’economia classica. Essa li scambia con problemi che potevano essere posti solamente a un livello più basso dello sviluppo della società borghese. Allo stesso modo si comporta quando rumina senza fine e piena di autocompiacimento le tesi fisiocratiche sul libero scambio. Queste tesi hanno da lungo tempo perduto qualsiasi interesse teorico, nonostante che possano interessare praticamente questo o quello Stato» (Il Capitale, libro III, p. 897).
Il liberismo divenne una vera e propria ideologia (vedi), che si accompagnava al liberalismo politico, la cui funzione storica fu quella di contribuire a nascondere e a mistificare la reale natura dei rapporti capitalistici. Inoltre 1’ottimismo dei liberisti lasciò il posto, nella seconda metà del XIX secolo, a un’altra concezione detta protezionismo, che tuttavia non fu in grado di porsi come alternativa al liberismo, che riaffiora nelle teorie economiche borghesi ogni volta che un periodo di apparente prosperità segue a una crisi. Del resto il protezionismo e il capitalismo monopolistico (vedi) non solo non eliminano la concorrenza, ma coinvolgono direttamente anche lo Stato, all’interno di una economia (vedi) che non ha alcun principio razionale e consapevole di organizzazione.
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Libertà e necessità
Nel linguaggio comune si intende per libertà una situazione nella quale è possibile fare ciò che si vuole senza costrizioni da parte di persone, cose o istituzioni. Questa definizione, che si basa sull’autodeterminazione e sull’assenza di limiti per l’individuo, è evidentemente la più primitiva e ingenua. Pure è già rivelatrice in quanto in essa la libertà è definita indirettamente, negativamente, cioè in rapporto a ciò che non è libertà, alla costrizione.
In un altro significato la libertà è stata intesa come possibilità o scelta, cioè come limitata, condizionata in quanto solo scelta, ma pure sempre basata sull’autodeterminazione individuale. Anche qui tuttavia il concetto di libertà rimanda al suo opposto, a ciò che appare non libero.
Queste concezioni hanno occupato e occupano un posto preciso nella storia della filosofia e della cultura in generale. Nel pensiero filosofico il concetto di libertà ha questa caratteristica: ciò che è libero richiede, per essere definito, la definizione di ciò che non è libero. Ecco quindi che il concetto di libertà si salda strettamente a quello di necessità. Storicamente però tale legame venne sempre visto in senso negativo, opponendo cioè libertà e necessità e ricercando le condizioni attraverso le quali la prima potesse liberarsi dalla seconda.
Fu il filosofo tedesco Hegel che per primo colse il senso positivo di tale rapporto. Come osserva Engels: «Hegel fu il primo a rappresentare in modo giusto il rapporto di libertà e necessità. Per lui la libertà è il riconoscimento della necessità. Cieca è la necessità solo nella misura in cui non viene compresa». Marx ed Engels condivisero questa posizione e la svilupparono nell’ambito del materialismo storico.
«La libertà non consiste nel sognare l’indipendenza dalle leggi della natura, ma nella conoscenza di queste leggi e nella possibilità, legata a questa conoscenza, di farle agire secondo un piano per un fine determinato … Libertà del volere non significa altro perciò che la capacità di poter decidere con cognizione di causa. Quindi quanto più libero è il giudizio dell’uomo per quel che concerne un determinato punto controverso, tanto maggiore sarà la necessità con cui sarà determinato il contenuto di questo giudizio; mentre l’incertezza poggiante sulla mancanza di conoscenza, che tra molte possibilità di decidere, diverse e contraddittorie, sceglie in modo apparentemente arbitrario, proprio perciò mostra la sua mancanza di libertà, il suo essere dominato da quell’oggetto che precisamente essa doveva dominare. La libertà consiste dunque nel dominio di noi stessi e della natura esterna fondato sulla conoscenza delle necessità naturali: essa è perciò necessariamente un prodotto dello sviluppo storico» (Engels, Antidühring, p. 121).
Per il marxismo dunque la libertà è sempre basata sul principio dell’autodeterminazione, ma non è più attribuita individualisticamente all’uomo singolo, bensì alla totalità cui l’uomo appartiene, all’ordine sociale e storico, alle istituzioni. La coscienza della necessità non basta però per essere liberi: questa è soltanto una metà del problema. Per il marxismo la libertà è la coscienza della necessità, ma anche la trasformazione della necessità, la trasformazione della realtà. Come osserva Gramsci,
«…il concetto di necessità storica è strettamente connesso a quello di regolarità e razionalità … esiste necessità quando esiste una premessa efficiente e attiva, la cui consapevolezza negli uomini sia diventata operosa ponendo dei fini concreti alla coscienza collettiva e costituendo un complesso di convinzioni e di credenze potentemente agente…» (Quaderni del Carcere, pp. 1479-1480).
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Lingua e linguaggio
«Il linguaggio è la coscienza reale, pratica, che esiste anche per altri uomini e che dunque è la sola esistente anche per me stesso, e il linguaggio, come la coscienza, sorge soltanto dal bisogno, dalla necessità di rapporti con altri uomini» (Marx, L’ideologia tedesca, p. 29).
Da queste parole si comprende che per Marx linguaggio e pensiero costituiscono gli elementi distinti di un unico insieme nel quale il primo serve tanto ai fini della comunicazione quanto allo svolgimento stesso dei processi di pensiero; detto altrimenti, ogni cosa viene pensata in termini di linguaggio e poi comunicata ad altri con lo stesso mezzo: «la realtà immediata del pensiero è il linguaggio». Considerando che la comunicazione è un fatto sociale, risulta evidente che il linguaggio costituisce il tramite tra il pensiero del singolo e la società in cui egli vive, la forma stessa nella quale può elaborare le proprie idee. Il linguaggio in senso generale è ovviamente un concetto astratto come, per esempio, quello di lavoro; in concreto gli uomini usano una lingua, cioè un sistema di segni (per segno si intende qualsiasi cosa usata per indicarne un’altra) che ha assunto forme specifiche e regole proprie nell’ambito della formazione delle nazioni, costituendo uno degli elementi fondamentali per l’unificazione delle singole nazionalità (vedi). Questi sistemi che costituiscono le diverse lingue nazionali hanno storie estremamente complesse, all’interno delle quali si può cogliere lo sforzo compiuto in ogni epoca dalle classi dominanti per dare ordine al materiale linguistico esistente, trovarne leggi e regole, controllarne gli sviluppi.
Analizzando in modo specifico la formazione della lingua italiana, Gramsci mostrò il collegamento tra classe egemone, cultura egemonica, lingua «colta» e ruolo degli intellettuali all’interno dell’analisi del mancato sviluppo, in Italia, di una lingua propriamente nazionale e popolare (vedi Egemonia). Egli, quindi, legò strettamente la «questione della lingua» con il problema politico dell’organizzazione delle classi subalterne e della funzione del partito.
«Ogni volta che affiora, in un modo o nell’altro, la questione della lingua, significa che si sta imponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra i gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale» (Quaderni del Carcere, p. 2346).
La differenza tra lingua e linguaggio appare così evidente; essa viene ulteriormente ribadita nell’uso di espressioni come linguaggio filosofico, linguaggio della fisica, linguaggio politico, ecc.; queste indicano infatti la formazione di modi linguistici più importanti per gli argomenti a cui si riferiscono che per la lingua nazionale in cui sono espressi; così un testo di fisica o un testo di economia possono essere tradotti da una lingua nazionale all’altra senza perdere, se non in misura assai limitata, la propria caratteristica di linguaggi specializzati che fanno in gran parte astrazione dalla lingua in cui sono stati scritti.
Nel marxismo, benché non sia stata formulata una teoria della lingua e del linguaggio, si possono trovare indicazioni e premesse orientative per procedere in questo senso e per comprendere, tra l’altro, l’uso che del linguaggio viene fatto da parte delle classi dominanti al fine di conservare il proprio predominio politico, culturale e ideologico (vedi Ideologia). Esempi di tale uso sono forniti dai modi linguistici adottati dai mezzi di comunicazione di massa (mass media), da molti testi scolastici e dalle espressioni adoperate nell’ambito dei vari settori specialistici della cultura, della produzione e della pubblica amministrazione (leggi, decreti, circolari, ecc.).
Recenti orientamenti di studio insistono su certe analogie tra l’apparenza e la dinamica delle merci e le forme del movimento dei segni che costituiscono un linguaggio; queste analogie, che molti ravvisano in particolare intorno ai fenomeni che portano al feticismo delle merci, risiederebbero in una logica comune ai due mondi, della merce e del segno, a prima vista tanto lontani e diversi tra loro.
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Luddismo
Forma primitiva ancora non organizzata di ribellione all’oppressione dell’organizzazione capitalistica della produzione, che si manifestava con la distruzione delle macchine. E’ sorto nei primi anni dell’Ottocento in Inghilterra e non appena ha assunto un carattere sistematico è stato violentemente stroncato (pena di morte per chi distruggeva una macchina) ed è progressivamente scomparso.
La scomparsa del luddismo è dovuta soprattutto al prevalere di forme superiori di associazionismo operaio che hanno individuato non nella macchina, ma nell’uso capitalistico della macchina il nemico da battere. Fu soppiantato in Inghilterra dapprima dal Movimento Radicale e poi dal Cartismo. Il nome deriva da quello di Ludd o Lud, che avrebbe guidato il moto del 1811.
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Manifattura
Secondo la definizione di Marx, data nel capitolo XII del libro I del Capitale, è la forma classica della cooperazione (vedi) basata sulla divisione del lavoro; in altre parole è un processo di produzione capitalistica, diffusissimo in Europa tra il 1550 e il 1770 circa, che si avvale della concentrazione di più operai in un solo luogo dove gli strumenti e i mezzi di lavoro, come anche le materie prime, appartengono a un proprietario che paga un salario ai lavoratori. Con la manifattura ha quindi fine il sistema dei compensi usati nell’industria domestica, dove all’artigiano veniva ancora pagato il prodotto finito detratto del valore per l’affitto degli strumenti di lavoro e delle materie prime. La manifattura, che precede immediatamente la fabbrica (vedi Industria), è sorta in due modi diversi:
– mediante la riunione di differenti mestieri, a ciascuno dei quali è affidata un’operazione singola delle molte necessarie a mettere a punto il prodotto finito; qui l’artigiano perde rapidamente la capacità di eseguire nel suo insieme il lavoro necessario ma diventa sempre più abile e veloce nel suo compito specifico; Marx parla di «lavoratori parziali» la cui riunione forma una figura collettiva, quella del «lavoratore combinato complessivo» che sostituisce il singolo artigiano che compiva una volta tutte le operazioni necessarie; è il caso, per esempio, della costruzione di carrozze;
– mediante l’impiego simultaneo di molti artigiani che fanno gli stessi oggetti od oggetti molto simili: è il caso degli aghi, dei caratteri a stampa, della carta. Qui l’artigiano continua dapprima a fare il suo lavoro di una volta, ma ben presto l’esigenza di una maggiore rapidità di esecuzione porta a suddividere le operazioni. Il risultato è che la merce da prodotto individuale del singolo artigiano diventa prodotto sociale di una collettività di artigiani: la manifattura è dunque «un meccanismo di produzione i cui organi sono uomini». Il lavoro resta artigianale ma il mestiere vero e proprio è composto di operazioni parziali che vengono compiute successivamente da operai diversi: ogni gruppo di operai impegnato in una singola tappa del processo lavorativo fornisce all’altro il materiale per il lavoro. Nota Engels:
«Quindi è condizione fondamentale che ogni gruppo produca una quantità data nel tempo dato, insomma si generi una continuità, una regolarità, un’uniformità e intensità di lavoro molto differenti anche da quelle della corporazione. Qui dunque si perviene già alla legge tecnica del processo di produzione: che il lavoro è il lavoro socialmente necessario» (Studi sul Capitale, pp. 68-69).
Il funzionamento della manifattura è legato perciò a un considerevole sforzo tecnico e organizzativo che presuppone una divisione sociale del lavoro già avanzata e l’accresce ulteriormente, modificandola, attraverso la creazione di mansioni di importanza diversa tra quanti lavorano al suo interno; inoltre mentre la divisione del lavoro nella società produce merci attraverso il lavoro dell’artigiano, la divisione del lavoro nella manifattura che è «una creazione specifica del modo di produzione capitalistico», cancella la figura del singolo produttore di merci: l’operaio parziale, infatti, non produce alcuna merce ed è soltanto «un accessorio dell’officina del capitalista», incapace di una produzione indipendente, destinato a un lavoro uniformemente ristretto e a una vita proporzionalmente angusta; Marx parla di «rachitismo intellettuale», oltreché fisico, e sottolinea la nascita della patologia industriale citando le parole del pioniere di questa scienza, il medico italiano Ramazzini, che nel 1713 scriveva:
«Suddividere un uomo significa condannarlo a morte, quando abbia meritato la condanna; significa assassinarlo quando non la meriti. La suddivisione del lavoro è l’assassinio di un popolo».
La manifattura è stata dunque per un aspetto una determinata organizzazione del lavoro sociale, per un altro un metodo per generare plusvalore relativo (vedi); la sua base tecnica, insufficientemente sviluppata, entrò poi «in contraddizione coi bisogni di produzione da essa stessa creati»: si apriva così la via alla «grande industria» (vedi Industria) che trovava già approntati per la propria crescita alcuni elementi indispensabili; primo fra tutti quello dell’acquisto sul mercato della forza-lavoro.
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Maoismo
Concezione legata al pensiero e all’azione di Mao Tsetung, primo presidente del Partito Comunista Cinese e della Repubblica Popolare Cinese. I suoi tratti caratteristici riassumono l’esperienza rivoluzionaria del popolo cinese e del partito comunista nella lotta contro il feudalesimo e l’imperialismo, per l’affermazione e la costruzione del socialismo. La vittoria della rivoluzione, ottenuta sotto la direzione di Mao, ha costituito dopo la rivoluzione russa il più grande avvenimento rivoluzionario del secolo, mutando definitivamente i rapporti di forza a favore dei popoli rivoluzionari di tutto il mondo e costituendo un esempio per le lotte del popolo indocinese e dei popoli del Terzo Mondo (vedi).
Attraverso l’analisi delle esperienze positive e negative del movimento comunista internazionale e attraverso il bilancio dell’edificazione del socialismo nell’URSS, Mao maturò l’esigenza di legare l’azione di un partito rivoluzionario moderno alla carica di rivolta contadina tipica della storia cinese. Sottolineando la centralità del problema contadino, la necessità di profonde riforme agrarie e di una capillare organizzazione del partito nelle campagne, Mao elaborò la linea generale della rivoluzione popolare e democratica in un paese coloniale e semifeudale, attraverso la teoria della «guerra popolare di lunga durata» e legando le masse contadine attorno alla funzione dirigente della classe operaia in un Fronte Unito (vedi) antimperialista.
Nell’affrontare i problemi della costruzione del socialismo, la posizione di Mao fu dettata dall’esigenza di unire il popolo attraverso il consenso e la democrazia di massa. Per questo il maoismo sviluppò la teoria della continuazione della lotta di classe (vedi) anche sotto la dittatura del proletariato (vedi) affermando che nella società socialista, anche se i mezzi di produzione sono per l’essenziale in mano al popolo, continuano a esistere, nei mutati rapporti di forza, le classi (vedi) e la lotta di classe. Ciò deriva da ragioni oggettive, quali la persistenza del diritto (vedi) borghese, della produzione mercantile, delle grandi differenze tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, tra città e campagna, tra operai e contadini. Per il maoismo dunque la società socialista non è stabile, ma è una società in cui la lotta di classe è ancora la molla del progresso.
Su questa base Mao sviluppò la linea del partito sulle due direttrici di un rinnovamento dell’economia, attraverso uno sviluppo equilibrato tra industria e agricoltura, «ponendo l’agri- coltura come fattore base e l’industria come fattore guida» (vedi Pianificazione); e di una trasformazione dei rapporti tra gli uomini, attraverso la rottura radicale della vecchia cultura e la costruzione di nuovi valori e nuovi modelli di comportamento. Così egli indicò come le classi borghesi non si riducessero agli ex proprietari fondiari e ai vecchi capitalisti, ma che esse avevano gli elementi più pericolosi negli intellettuali borghesi che non trasformano la propria concezione del mondo, nei membri del partito che, consapevolmente o inconsapevolmente, applicano una linea revisionista. Per questo il maoismo indica la necessità di una «rivoluzione nella sovrastruttura» (vedi), di una ininterrotta «rivoluzione culturale», che deve investire in pieno il partito comunista e fondarsi su una profonda democrazia di massa. Questa necessità storica di promuovere la lotta di classe in ogni campo è la ragione profonda della necessità della mobilitazione costante del proletariato nell’epoca storica del socialismo.
L’apporto teorico del maoismo al marxismo e al leninismo si sviluppò anche in campo filosofico e culturale. In particolare l’analisi della teoria materialistico-dialettica (vedi) della conoscenza e del legame tra teoria e pratica (vedi) portò Mao ad accentuare creativamente e originalmente l’origine della conoscenza dalla pratica e in particolare dalla pratica sociale. Se il pensiero umano si sviluppa attraverso la pratica sociale, che per Mao si articola nella lotta per la produzione, nella lotta di classe e nella sperimentazione scientifica, da ciò deriva la necessità per il popolo, nella misura in cui partecipa attivamente alla lotta di classe e alla produzione, di impadronirsi creativamente anche del patrimonio scientifico e del pensiero teorico.
L’importanza della teoria, come arma rivoluzionaria nelle mani della classe operaia, significa nel socialismo lottare per il superamento della divisione storica tra lavoro manuale e lavoro intellettuale, contro l’influenza dell’ideologia (vedi) e della tradizione borghese. La necessità di innalzare la preparazione teorica e scientifica delle masse popolari, di stimolare nel socialismo il progresso delle scienze e lo sviluppo artistico, sintetizzato da Mao nella frase «che cento fiori sboccino e cento scuole gareggino», si basa sulla convinzione della capacità e della funzione propulsiva del popolo quale produttore – culturale oltre che materiale – consapevole e intelligente. La possibilità di unire la coscienza politica e la competenza professionale si salda all’esigenza di attenersi in tutti i campi a una «linea politica di massa», cioè a una linea che si costruisca sulla mobilitazione del popolo, nella espressione delle opinioni attraverso il dibattito di massa.
L’analisi della contraddizione (vedi) come ciò che esprime l’essenza sia del mondo naturale che di quello umano portò Mao a individuare due tipi fondamentali di contraddizioni sociali: le contraddizioni «in seno al popolo» e quelle «antagonistiche». La loro natura completamente diversa implica anche metodi diversi per la loro risoluzione. «Imparare dagli errori passati per evitarne in futuro e curare la malattia per salvare il malato» attraverso la discussione e la lotta contro le idee sbagliate, sono le linee direttrici di una concezione della rivoluzione socialista come costruzione di una società che, all’interno del processo di trasformazione dell’economia in senso socialista, sappia tenere sempre al primo posto le esigenze dell’uomo e sconfiggere ogni tendenza burocratica.
In questo senso il pensiero di Mao è la realizzazione di ciò che Marx intendeva quando affermava: «…la teoria si trasforma in potenza materiale non appena se ne impadroniscono le masse».
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Marginalismo
Teoria economica sviluppatasi negli ultimi decenni del sec. XIX sulla base di una critica radicale delle ricerche sul valore operate dall’economia classica (vedi Economia politica) e in particolare della teoria del valore-lavoro di Ricardo. Il punto di partenza del pensiero marginalista era la negazione del rapporto tra valore e costo di produzione di una merce (vedi), a cui veniva sostituito il concetto di utilità. Sebbene i classici non avessero ignorato l’analisi dell’utilità (Smith specialmente ne aveva trattato diffusamente), tuttavia essa non era stata mai considerata come la base della spiegazione del valore di scambio delle merci, che veniva invece fondato sul processo sociale complessivo dell’attività economica, trascurando i fattori individuali soggettivi.
Alternativamente alla teoria classica, invece, i marginalisti fondavano una teoria del valore che si basava sull’individuo e sull’analisi dei suoi bisogni, facendo dipendere interamente il valore di una merce dal suo grado di utilità, cioè dalla sua capacità di soddisfare i bisogni soggettivi. Così i fenomeni economici della società non erano intesi come l’espressione oggettiva di determinate forze sociali, ma risultavano dal comportamento soggettivo degli individui. I marginalisti sostenevano di aver sviluppato una teoria del valore indipendente da ogni particolare struttura sociale o considerazione storica, e quindi valida universalmente. L’introduzione evidente dell’elemento psicologico nell’analisi economica portava a trasformare radicalmente il concetto di lavoro che, invece di attività socialmente necessaria e misurabile quantitativamente sulla base dell’unità di tempo, diveniva espressione del «sacrificio soggettivo» sostenuto dai singoli in una società intesa come agglomerato di individui.
Se la scuola classica aveva posto l’accento sulla produzione e sull’offerta, il marginalismo si occupa principalmente del consumo e della domanda. Il concetto di utilità marginale fu introdotto appunto per spiegare questo spostamento di oggetto nell’indagine. Al di là di pur non secondarie differenziazioni tra i suoi esponenti – i maggiori sono l’inglese S. Jevons, l’austriaco K. Menger e il francese L. Walras – tale concetto si può così riassumere: per spiegare la non concordanza del valore di scambio di una merce con la sua capacità di soddisfare bisogni, cioè con il suo valore d’uso, si afferma che di un complesso di merci non bisogna considerare la sua utilità complessivamente, bensì quella variabile di ciascuna unità dell’insieme delle merci. Più il numero di queste unità è grande, minore è l’intensità dei bisogni che si può soddisfare con esse, poiché ogni bisogno vede decrescere la propria intensità nella misura in cui è soddisfatto. Così l’aumentare del complesso delle merci produce il decrescere dell’utilità di ciascuna unità. Quindi il valore di una merce dipende, per i marginalisti, dalla combinazione della sua utilità e della sua rarità; è determinato dall’utilità «marginale», cioè dall’utilità di quella merce che è, tra tutte, la meno utile; di quella che, essendo la meno rara, segna il confine nello scambio con le merci non vendute e, nella produzione, con quelle non prodotte.
Il marginalismo ebbe una grande influenza su tutti gli sviluppi della teoria economica, di cui divenne la base indiscussa e conquistò rapidamente un primato che non mancò di avere conseguenze nel pensiero economico del ’900, fino ai nostri giorni. Per questa ragione si è parlato anche di una seconda generazione della scuola marginalista che, sia pure con differenziazioni anche notevoli, attraverso i nomi di A. Marshall, E. Böhm-Bawerk e V. Pareto, segna gran parte del percorso della teoria economica dei primi decenni del ’900, si può dire fino alla grande crisi del ’29 e al pensiero di Keynes che ne conduce, sia pure all’interno dell’economia borghese, la critica più radicale. Con la crisi del liberismo (vedi) e dell’economia classica, di fronte alle profonde modificazioni in senso monopolistico che il capitalismo assumeva, il marginalismo rappresentava nel campo economico quelle risposte di tipo soggettivista e spiritualista verso cui il pensiero borghese e gli orientamenti culturali nel loro complesso si andavano volgendo.
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Marxismo
Il termine marxismo indica l’insieme delle concezioni che si richiamano espressamente all’opera di Marx. Si deve quindi intendere per marxismo sia la concezione di Marx, che gli sviluppi che ad essa sono stati apportati.
Si può poi distinguere per precisione tra marxiano, ciò che è stato affermato da Marx stesso, e marxista, ciò che è stato affermato da coloro che hanno interpretato e sviluppato il suo pensiero.
Il contenuto del marxismo non è, neppure approssimativamente, riassumibile in una definizione. E’ possibile tuttavia accennare brevemente ai problemi che esso affronta così come sono stati esposti da Lenin in Tre fonti e tre parti integranti del marxismo:
– il problema dell’interpretazione materialistica e dialettica della storia, della società e della natura, fondata sulla critica e sul superamento dialettico della filosofia classica tedesca (vedi Materialismo storico, Materialismo dialettico);
– il problema dell’analisi del modo di produzione capitalistico (vedi Capitalismo), dello studio delle leggi generali che ne determinano lo sviluppo, e quello della comprensione scientifica delle condizioni del suo superamento (vedi Socialismo, Comunismo), unitamente alla critica dell’economia politica classica inglese;
– il problema della comprensione della funzione della lotta di classe come forza motrice dello sviluppo storico che rende possibile e necessaria la dittatura del proletariato (vedi) e l’estinzione delle classi stesse; e conseguentemente la fondazione del socialismo scientifico e la critica al socialismo utopistico francese.
Questi problemi sono strettamente connessi tra loro nell’opera di Marx, che viene considerata da Lenin come il superamento critico delle concezioni dei più grandi rappresentanti della filosofia, dell’economia politica e del socialismo del secolo XIX. Il marxismo si presenta dunque come una teoria che si impegna nella comprensione e nella critica della società capitalistica e delle sue più alte espressioni teoriche, giungendo, secondo Lenin, a dare agli uomini «una concezione integrale del mondo che non può conciliarsi con nessuna superstizione, con nessuna reazione e con nessuna difesa dell’oppressione borghese».
La funzione storica della classe operaia e lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria all’interno del movimento operaio costituiscono un costante punto di riferimento di questa concezione, di cui Marx ed Engels delinearono i tratti fondamentali. Lo stesso sorgere del marxismo può essere considerato, nella storia del pensiero, come il risultato dello sforzo di comprensione razionale delle motivazioni storiche che assegnano alla classe operaia il ruolo di classe rivoluzionaria. Gli sviluppi ulteriori del marxismo sono anch’essi in stretto rapporto con la crescita politica e organizzativa del movimento operaio, e anzi trovano nel collegamento con la lotta per il superamento del capitalismo uno dei motivi fondamentali di continuità e coerenza con la concezione che fu propria di Marx ed Engels.
L’appartenenza al marxismo non può infatti venire definita come semplice ripetizione di ciò che già i suoifondatori avevano detto, come è dimostrato dalla vastità e dall’ampiezza degli studi di impostazione marxista che affrontano i grandi problemi della società contemporanea, ma assume il significato di un’adesione teorica e pratica al contenuto rivoluzionario di questa concezione. La lotta contro il revisionismo (vedi) e il riformismo (vedi) non è quindi da intendersi come semplice ristabilimento di una «lettura» corretta dei testi che vengono definiti «classici del marxismo», anche se ciò è stato storicamente reso necessario dalle frequenti deformazioni operate dai revisionisti nei confronti di questi testi.
L’aggiunta di prefissi o di aggettivi alla parola marxismo è pratica molto diffusa che indica concisamente il carattere specifico di una corrente del marxismo stesso. Qui di seguito sono riportate alcune delle voci di uso più corrente.
Austromarxismo
Alcuni dei più noti esponenti della socialdemocrazia (vedi) austriaca, tra cui O. Bauer, R. Hilferding e M. Adler, elaborarono una particolare interpretazione del marxismo che condusse anche a una parziale separazione organizzativa dalla II Internazionale (vedi Internazionale), sancita da un congresso tenutosi a Vienna. Questa corrente, che pure era in parziale dissenso con alcune tesi revisioniste della II Internazionale, si inquadra anch’essa, sia pure attraverso diverse contraddizioni, nel più generale processo di revisione del marxismo, condotto sulla base di interpretazioni neokantiane (vedi Revisionismo).
Lenin, pur riconoscendo ad alcune opere di Hilferding una funzione e un significato positivi, fu estremamente critico nei confronti dell’austromarxismo. Egli individuò in un’errata concezione dei rapporti tra socialdemocrazia e Stati imperialisti uno dei punti di contatto, oltre a quello già citato della revisione del marxismo, tra questa corrente e l’opportunismo che contraddistinse la II Internazionale. Inoltre l’atteggiamento nei confronti dei governi imperialisti sul problema della prima guerra mondiale fu pressoché analogo nell’austromarxismo come nella socialdemocrazia tedesca e portò Lenin a sostenere la necessità di una definitiva autonomia del bolscevismo (vedi) dalla socialdemocrazia.
Marxismo-Leninismo
L’importanza del contributo teorico e pratico dato da Lenin (vedi Leninismo) allo sviluppo rivoluzionario del marxismo ha fatto sì che sia invalso l’uso del termine marxismo-leninismo, nella storia del movimento operaio, per sottolineare la continuità e la coerenza della sua opera con quella di Marx. In particolare la III Internazionale (vedi Internazionale) fece proprio l’uso di questo termine. In seguito, interpretazioni del marxismo che differivano da quella data da Lenin o che negavano che Lenin potesse essere considerato, soprattutto dal punto di vista teorico, il continuatore diretto dell’opera di Marx, hanno preferito riferirsi semplicemente al termine marxismo.
Marxismo occidentale
Per marxismo occidentale si intende l’insieme delle interpretazioni di orientamento marxista che accentuano le analogie tra la concezione di Marx e quella di Hegel. Per questo il marxismo occidentale viene anche definito hegelomarxismo o marxismo hegeliano. L’opera che viene considerata il punto di partenza di questa interpretazione è Storia e coscienza di classe di Lukács, e ad essa fanno riferimento più o meno immediato tutti gli autori che appartengono al marxismo occidentale.
Uno dei tratti più caratteristici di questa interpretazione del marxismo è la distinzione tra la concezione che fu propria di Marx e il contributo specifico dato da Engels alla fondazione del marxismo, distinzione che assume talvolta il carattere di vera e propria separazione, giungendo fino a una contrapposizione che tende a considerare l’opera di Engels come in più punti contrastante con quella di Marx. Secondo Lukács l’interpretazione engelsiana del metodo dialettico non coglie il problema essenziale che ne fa un metodo rivoluzionario; afferma infatti Lukács che in Engels
«l’interpretazione più essenziale, il rapporto dialettico tra soggetto ed oggetto nel processo storico non viene neppure menzionato, e tanto meno quindi posto – come si dovrebbe – al centro della considerazione metodica. Eppure, senza questa determinazione, il metodo dialettico – nonostante il mantenimento, in ultima analisi puramente apparente, della “fluidità” dei concetti – cessa di essere un metodo rivoluzionario» (Lukács, Storia e coscienza di classe, pp. 4, 5).
Nel senso più generale al marxismo occidentale appartengono anche alcuni degli autori che parteciparono alla fondazione dell’Istituto per le ricerche sociali di Francoforte, noto anche come Scuola di Francoforte, i cui più noti esponenti sono T. Adorno, M. Horkheimer e H. Marcuse.
Marxismo ortodosso
Nel corso della storia del marxismo diverse correnti interpretative di questa concezione ritennero di doversi distinguere da altre o richiamandosi genericamente a un’ortodossia, cioè a un’interpretazione letterale dell’opera di Marx, o affermando di se stesse di essere ortodosse, cioè di rispettare fedelmente ciò che Marx voleva dire. La corrente della II Internazionale (vedi Internazionale) che si richiamava a K. Kautsky si definì «ortodossa» in contrapposizione a quella di Bernstein.
Soprattutto dopo il sorgere del revisionismo (vedi), si è effettivamente posto ai continuatori dell’opera di Marx il problema di tracciare delle discriminanti teoriche nei confronti dei tentativi di conciliazione del marxismo con teorie e ideologie tipicamente borghesi. In questo senso marxismo ortodosso può essere definito l’insieme di interpretazioni della dottrina di Marx, che è aderente alle esigenze rivoluzionarie della classe operaia e che effettivamente costituisce uno sforzo di comprensione teorica e di modificazione pratica della realtà attuale. Lukacs affermò che «per ciò che concerne il marxismo l’ortodossia si riferisce esclusivamente al metodo», in quanto il metodo dialettico (vedi Dialettica) può essere «potenziato, sviluppato e approfondito soltanto nella direzione indicata dai suoi fondatori».
Marxismo volgare
Il tentativo di conciliare il marxismo con il clima culturale e con le concezioni più diffuse in Europa alla fine del secolo scorso ha dato luogo a deformazioni e a banalizzazioni del suo contenuto originario. I maggiori esponenti del movimento operaio criticarono i tentativi fatti in tale senso, distinguendoli dal revisionismo (vedi) che ha invece il carattere di correzione sistematica, ufficiale, dei principi del marxismo fatta non in nome della sua divulgazione, ma come «contributo» al suo miglioramento. La volgarizzazione del marxismo invece è consistita essenzialmente nell’interpretazione schematica di alcune affermazioni approssimativamente dedotte da questa concezione, inserite nel quadro di teorie borghesi.
Il preteso carattere divulgativo di questi riassunti del marxismo ha ostacolato la comprensione e lo sviluppo rivoluzionario del socialismo scientifico (vedi). Soprattutto alcuni esponenti della II Internazionale (vedi Internazionale) sono stati criticati per aver operato questa semplificazione del marxismo, introducendovi arbitrariamente concezioni positivistiche, meccanicistiche, fatalistiche e deterministiche. Richiamandosi all’opera di seria divulgazione del marxismo condotta da A. Labriola, Gramsci criticò a fondo questo «marxismo della vulgata» sostenendo il carattere di concezione autonoma e rivoluzionaria di quella che egli chiamava filosofia della prassi.
Neomarxismo
Questa espressione, che viene usata in accezioni molto diverse e talvolta contrastanti, indica la ripresa o la riformulazione di alcune delle analisi di Marx. Talvolta per neomarxismo si intende ogni contributo o arricchimento apportato alla concezione originaria di Marx includendovi tutte le opere di orientamento marxista posteriori a Lenin. Tuttavia viene anche usato in un significato più specifico come affermazione della necessità di un neomarxismo che si adatti alle condizioni attuali: in questo senso alcuni tentativi di elaborazione di un neomarxismo si collocano al di fuori dell’impostazione e dei contenuti rivoluzionari del marxismo.
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Massa
Il termine usato tanto al singolare quanto al plurale non ha una fisionomia precisa nei classici del marxismo, dove indica molto genericamente e discorsivamente una collettività in qualche modo opposta al capitalismo nelle diverse manifestazioni del suo potere («la grande massa dei contadini», «le masse degli sfruttati», «le masse popolari», e via dicendo).
In espressioni del tipo «lotta di massa», «cultura di massa», usate attualmente con una certa frequenza, serve in sostanza a sottolineare fenomeni di larga partecipazione. Come ogni concetto non precisato può essere applicato a situazioni tra loro molto diverse, assumendo un significato specifico in relazione all’uso fattone all’interno di un dato contesto.
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Massimalismo
Tendenza politica manifestatasi all’interno del Partito Socialista Italiano nei primi anni del ’900 e per tutto il primo dopoguerra. Costituitasi in corrente, trae il proprio nome dal programma «massimo» che propugnava il rovesciamento dell’ordinamento capitalistico attraverso la rivoluzione per instaurare il «socialismo integrale».
Contrapponendosi alla corrente maggioritaria dei «riformisti», il massimalismo rifiutava ogni possibilità di mediazione o di compromesso con altre forze politiche. Teorizzava inoltre un programma politico nel quale l’obiettivo strategico del socialismo e della rivoluzione non era sostenuto da adeguati programmi tattici e parziali di riforme e di miglioramenti graduali delle condizioni di vita e di lavoro del proletariato. Se il riformismo aveva il limite di acconsentire a una politica di compromesso al punto di rinunciare alla lotta per il socialismo, il massimalismo dal canto suo proclamava solo teoricamente i principi del socialismo, senza individuarne però concretamente le forme di realizzazione.
Gramsci, criticando gli opposti errori, seppe analizzare le condizioni concrete del capitalismo in Italia e delineare i modi del suo superamento, proprio nel periodo in cui (1919-1922) la corrente massimalista, sotto la guida di G. M. Serrati, prevalse all’interno del partito.
Il massimalismo infine non seppe adeguatamente individuare la reale natura e la pericolosità del fascismo: contro di esso non seppe sviluppare, come del resto anche il riformismo, un’opposizione ferma e coerente e nemmeno, di conseguenza, un’adeguata organizzazione della classe operaia.
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Materialismo
I teorici del marxismo usano questo termine per indicare un atteggiamento molto generale sviluppato intorno alle tesi della priorità della materia sul pensiero.
Contrariamente all’idealismo (vedi), che privilegia il soggetto conoscente sull’oggetto conosciuto o, come anche si suol dire, il pensiero sull’essere, o la coscienza sul reale, presuppone che la realtà materiale venga prima di ogni conoscenza e sia, in sostanza, indipendente da questa.
La scelta di questa posizione, compiuta da Marx fin dal tempo delle sue prime opere, non ha un significato puramente filosofico: essa costituisce la premessa indispensabile per un’indagine sulla realtà che solo a questo patto può ricollegare le idee degli uomini con le loro attività pratiche; solo un atteggiamento materialistico poteva infatti permettere il passaggio da una critica ancora «filosofica» dalla filosofia idealistica di Hegel a una critica dell’ideologia (vedi) in generale, in quanto mistificazione di fatti reali, cioè di fatti socio-economici relativi alla produzione materiale (vedi Struttura).
L’adesione di Marx e di Engels a questo modo generale di concepire il rapporto tra pensiero ed essere non vuol dire adesione a questa o a quella forma di materialismo puramente filosofico; filosofi materialisti non erano mancati nella storia, ma non si trattava di riprendere le loro particolari riflessioni, bensì di dare al pensiero un termine di confronto nella realtà e di considerarlo come un fatto che accade nel mondo, non sopra di esso. Le idee, in altre parole, dovevano essere spiegate a partire dalla «prassi materiale» e non questa da quelle. Del resto proprio un fatto molto pratico com’era quello della separazione del lavoro materiale da quello intellettuale aveva permesso che le idee acquistassero la loro autonomia dal terreno reale nel quale erano cresciute.
Il materialismo appare perciò a Marx come l’unica prospettiva nella quale sia possibile comprendere che la soluzione delle «opposizioni teoretiche» –cioè le contraddizioni – passate dalla realtà nel pensiero, non è soltanto «un compito della conoscenza» ma un «compito reale della vita» che la filosofia non poteva risolvere nonostante i grandiosi sforzi compiuti. Esattamente a questo si riferiva Engels quando, non senza orgoglio, dichiarava che il proletariato era l’erede della filosofia classica tedesca, colui che avrebbe risolto i problemi nei quali essa si era dibattuta mutando la realtà che li aveva prodotti.
Il materialismo filosofico, di cui Marx traccia una breve storia ne La Sacra famiglia, è stato per lungo tempo un indirizzo di pensiero molto spesso progressista sia per il suo legame con le scienze della natura (vedi Scienza) che ne facevano un duro critico delle varie forme di irrazionalismo, sia per la considerazione della vita materiale degli individui che altre correnti filosofiche escludevano dai propri interessi. Ciò non vuol dire che sia stato sempre e in ogni caso all’avanguardia contro un idealismo sempre e comunque conservatore; anche in questa grande corrente di pensiero non sono certo mancati i filosofi che hanno svolto un efficace ruolo progressivo, specialmente nel sostenere il diritto della ragione contro chi tendeva a limitarlo.
È ben nota, a questo proposito, la critica di Marx e di Engels al materialismo volgare e meccanicistico (vedi Meccanicismo) che è in sostanza una critica al modo unilaterale e puramente filosofico, né storico, né dialettico, di giudicare le cose sia pure da un punto di vista materialistico. Così Feuerbach, per esempio, non collegò mai il momento storico con quello teorico: fino a che egli è materialista «per lui la storia non appare, e fin che prende in considerazione la storia, non è un materialista»; di conseguenza per lui materialismo e storia «sono del tutto divergenti».
Così, per Engels, «i volgarizzatori ambulanti che smerciavano il materialismo in Germania tra il ’50 e il ’60» non riuscirono mai ad andare più in là dei materialisti del secolo precedente, incapaci cioè di «concepire il mondo come un processo, come una sostanza soggetta a un’evoluzione storica»; con la differenza che quello che era stato avanzato e progressivo un secolo prima diventava antiquato e conservatore nel secolo seguente.
L’opposizione di Marx e di Engels a questo materialismo aveva la sua ragion d’essere nel fatto che, proprio per non essere né storico né dialettico, si riproponeva non come il corretto punto di partenza per l’analisi della realtà ma di nuovo come una filosofia, vale a dire come un’attività puramente teorica. Al contrario «per il materialista pratico, cioè per il comunista, si tratta di rivoluzionare il mondo esistente, di mettere mano allo stato di cose incontrato e di trasformarlo».
La concezione materialistica della realtà, che comprende ovviamente anche la natura, non può essere ridotta a una specie di privilegio concesso agli oggetti materiali, alle «cose» nel senso stretto del termine, trascurando le loro relazioni e le loro attività, cioè i «fatti».
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Materialismo dialettico
È la concezione materialistica della realtà propria del marxismo. L’aggettivo dialettico vuole infatti indicare le differenze con il materialismo meccanicistico (vedi Meccanicismo) e il materialismo metafisico che tende a descrivere la mobilità del reale usando schemi rigidi e perciò astratti.
Alla base del materialismo dialettico sta il problema dei rapporti tra pensiero e realtà, ossia la tradizionale domanda sui modi e sui limiti della conoscenza umana:
«Quale relazione passa tra le nostre idee sul mondo che ci circonda e questo mondo stesso? è in grado il nostro pensiero di conoscere il mondo reale; possiamo noi nelle nostre rappresentazioni e nei nostri concetti del mondo reale avere un’immagine fedele della realtà?» (Engels, Ludwig Feuerbach, p. 26).
La risposta dell’idealismo (vedi) a questa domanda è che il pensiero può cogliere gli elementi ideali presenti nelle cose; la risposta del materialismo è che il pensiero si trova di fronte a un universo di cose preesistenti ed estranee con le quali deve commisurarsi. Lo stesso problema si pone quando si considera quella parte della realtà che è la natura (vedi), nel senso più ampio del termine, e il pensiero che procede a conoscerla nella forma propria delle scienze naturali; nota Engels in proposito che se si guarda al pensiero come a un elemento rigidamente e da sempre contrapposto alla natura, come faceva il vecchio materialismo metafisico, deve apparire sommamente strano che «coscienza e natura, pensiero ed essere, leggi del pensiero e leggi della natura» riescano a coincidere in non pochi punti; se però ci si chiede
«che cosa siano allora pensiero ed essere, e da dove essi traggano origine, si trova che essi sono prodotti del cervello umano e che l’uomo stesso è un prodotto della natura che si è sviluppato col e nel suo ambiente; da ciò si intende allora senz’altro che i prodotti del cervello umano, i quali in ultima analisi sono anch’essi prodotti naturali, non contraddicono il restante nesso della natura, ma invece vi corrispondono» (Antidühring, p. 45).
Engels riprende qui in una prospettiva particolare quello che Marx diceva, tra l’altro, nella seconda Tesi su Feuerbach e cioè che la verità, il potere del pensiero di appropriarsi correttamente del reale, andavano verificati nell’attività pratica; le scienze naturali sono infatti uno dei luoghi in cui il pensiero, la produzione teorica ordinata in conoscenza scientifica, si confronta costantemente con la realtà della natura. «L’esperimento e l’industria» sono, secondo Engels, i momenti pratici in cui le scienze trovano conferma o smentita alle loro ipotesi.
È delineato così uno dei punti e degli scopi essenziali del materialismo dialettico: dare una risposta al problema della conoscenza in modo tale che l’intero edificio teorico del marxismo non possa essere rifiutato semplicemente negando la possibilità o la dimostrabilità di una conoscenza corrispondente alla realtà. Tuttavia lo sviluppo stesso delle scienze dimostra che la conoscenza dei fenomeni studiati è in ogni momento della storia imperfetta, lacunosa e alle volte persino assai vaga; di questo fatto, notava Engels, non abbiamo alcun motivo di spaventarci; anche se il livello di conoscenza al quale si è arrivati è tanto poco definitivo quanto i precedenti, esso è già sufficientemente avanzato per far capire che si è di fronte a un processo di approssimazione, non sempre lineare e continuo, e che parlare in questo caso di verità eterne e immutabili non è scienza ma metafisica. Perciò Engels, contrariamente ai vecchi materialisti, si rifiutava di dare qualsiasi definizione di materia lasciando che essa fosse «quella di cui parlano gli scienziati», soggetta dunque al procedere della conoscenza scientifica; di più, a ogni risultato di questa che facesse «epoca», il materialismo avrebbe dovuto rivedere la propria configurazione, fedele alla regola che
«i principi non sono il punto di partenza dell’indagine, ma invece il suo risultato finale; non vengono applicati alla natura e alla storia dell’uomo, ma invece vengono astratti da esse; non già la natura e il regno dell’uomo si conformano ai principi, ma i principi, in tanto sono giusti, in quanto si accordano con la natura e con la storia» (ivi, p. 44).
Emerge così un altro punto essenziale del materialismo dialettico: esso è «una semplice concezione del mondo che non ha da trovare la sua riprova e la sua conferma in una scienza delle scienze per se stante, ma nelle scienze reali».
Appare in tal modo evidente che questo orientamento materialistico che riconosce la dialetticità del pensiero e del reale pone a suo presupposto il carattere approssimativo e storicamente condizionato della conoscenza; essa non è una pura costruzione del pensiero la cui corrispondenza alla realtà non è dimostrabile, come vorrebbe il relativismo, né un itinerario tra verità assolute e definitive, come vorrebbe il dogmatismo (vedi); la conoscenza è invece un difficile processo di avvicinamento al reale, un seguito di tentativi, cambiamenti e contraddizioni, che procedono dai livelli teorici più semplici a quelli più complessi confrontando nella prassi (vedi) la loro validità.
Il materialismo dialettico non va confuso, come spesso avviene ed è avvenuto, con la versione, se così si può chiamare, datane in URSS durante lo stalinismo (vedi) e nota con la sigla diamat. Questo era un catechismo in cui si confondevano le necessità e i criteri di divulgazione con quelli della ricerca indispensabile per l’avanzamento della teoria; per di più era un catechismo che il potere statale si incaricava di far osservare a forza di provvedimenti amministrativi tutt’altro che lievi. I risultati ottenuti furono negativi sia perché offrirono agli avversari del materialismo dialettico l’occasione per denigrarlo, sia perché quella che non doveva essere «una scienza delle scienze per sé stante» fu investita del diritto di dichiarare – all’interno delle singole discipline scientifiche – ciò che era giusto o sbagliato. Era dunque una precettistica radicalmente all’opposto di «una semplice concezione del mondo» con tutti i difetti che le erano connessi.
Questo fenomeno di immaturità culturale deve essere valutato nelle concrete condizioni dell’URSS, accerchiata dai paesi capitalistici e tesa al grande e primario sforzo tecnologico per l’industrializzazione prima e la ricostruzione postbellica poi; il diamat era l’erronea risposta a un’esigenza reale che passava, tra l’altro, anche per una fiduciosa aspettativa nelle proprie capacità scientifiche. In questa luce si comprendono anche i motivi delle famose rivendicazioni di priorità agli scienziati russi del passato di un gran numero di invenzioni e scoperte scientifiche, che contraddicevano in primo luogo tutte le affermazioni sull’arretratezza della Russia fatte dai marxisti russi, Stalin compreso.
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Materialismo storico
È l’interpretazione della storia fondata sull’analisi del modo di produzione dominante in una determinata società. La concezione materialistica della storia ritiene infatti che elementi caratteristici di ogni periodo storico siano il livello di sviluppo delle forze produttive (vedi) e i rapporti di produzione (vedi) entro cui gli uomini si trovano nello svolgere la loro attività lavorativa. Il termine «materialismo» indica, appunto, che si considerano essenziali le componenti materiali della società. Il materialismo storico mette al centro dell’analisi storica l’uomo e la sua attività lavorativa, inserito nel quadro dei rapporti sociali, politici e intellettuali in cui vive.
Secondo il materialismo storico, in relazione al posto che occupano nei rapporti di produzione, gli uomini si dividono in due grandi classi: coloro che detengono il possesso dei mezzi di produzione e coloro che ne sono privi e che posseggono esclusivamente la loro forza-lavoro. Lo sviluppo della storia è determinato dall’antagonismo, dalla lotta, tra queste grandi classi. Infatti il carattere sociale della produzione, cioè il fatto che il prodotto del lavoro sia opera di molti uomini e sia destinato a molti uomini, è in contraddizione con la proprietà privata dei mezzi di produzione, cioè con il fatto che pochi detentori di macchine e capitale siano coloro che maggiormente beneficiano dell’attività produttiva. Quindi una classe lotta per il mantenimento della proprietà dei mezzi di produzione e l’altra per l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione.
Fondamentale è, secondo il materialismo storico, il carattere transitorio di ogni forma di società corrispondente a un determinato modo di produzione. Infatti lo sviluppo delle forze produttive, in determinate condizioni, entra in contraddizione con i rapporti di produzione; viene cioè impedito dall’insieme dei rapporti sociali, politici e istituzionali (ad es. giuridici) ogni ulteriore sviluppo delle forze materiali che costituiscono il fondamento su cui si regge l’intera formazione sociale. Lo sviluppo delle forze produttive può dunque avvenire soltanto a condizione che i vecchi e ormai inadeguati rapporti di produzione e l’intera società che su di essi si fonda vengano sostituiti da nuovi che lo consentano. Così, per esempio, i rapporti di produzione feudale e l’intera società che ad essi corrispondeva furono sostituiti dai rapporti di produzione capitalistici e della nuova società borghese quando le enormi forze produttive sprigionatesi dall’inizio della rivoluzione industriale, dall’invenzione delle macchine, dalla formazione delle prime industrie moderne, furono impedite nel loro sviluppo dalla società feudale nel suo complesso.
Secondo il materialismo storico la società capitalistica è contraddistinta dal fatto che il proletariato industriale moderno, che insieme alla borghesia è la classe principale di questa società, è portatore dell’esigenza di una società senza classi, in cui la proprietà dei mezzi di produzione sia comune.
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Meccanicismo
È la tendenza a interpretare ogni genere di fenomeni, compresi quelli storici e sociali, nei termini di una «meccanica», vale a dire di una logica nella quale le corrispondenze tra due eventi tra loro connessi da rapporti di causa ed effetto, di azione e reazione, sono considerate dirette, esclusive, senza alcuna mediazione. In questo senso la nozione di meccanica ha ben poco a che fare con la disciplina scientifica omonima della fisica moderna.
Quando nel marxismo si parla di interpretazione meccanicistica di un certo fenomeno si vuol dire che questo è preso in esame come se fosse la parte di un meccanismo, nell’accezione tecnica del termine, di cui si possiedono il disegno e i principi di funzionamento e che, di conseguenza, muoverà inevitabilmente quella parte nel modo e nell’ordine previsti. È evidente che in questo senso un’interpretazione meccanicistica è l’opposto di un’interpretazione dialettica.
Un esempio classico di meccanicismo è quello della tendenza a connettere direttamente un’ideologia con la base economica dalla quale indubbiamente deriva, senza tenere nel giusto conto le molteplici mediazioni che si frappongono tra i due momenti come la qualità delle ideologie preesistenti da cui quella considerata trae le proprie caratteristiche teoriche, il rapporto con la collocazione dei gruppi sociali che la producono, il ruolo e gli scopi e la natura delle istituzioni nelle quali viene elaborata, e via dicendo.
In questo caso la mancanza di mediazione, cioè di uno o più elementi intermedi che rendono possibile o condizionano l’interazione tra i due elementi terminali, dà l’impressione di una corrispondenza automatica, meccanica nel senso qui specificato, che non permette l’esatta conoscenza del fenomeno con tutte le conseguenze che ne derivano.
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Mercantilismo
Indica l’insieme delle teorie economiche che riguardarono, prevalentemente nel XVII secolo, lo sviluppo e le caratteristiche del capitalismo commerciale o mercantile nei secoli immediatamente precedenti (vedi Capitale commerciale).
Il mercantilismo costituisce la fase di transizione tra il pensiero economico medievale e l’economia politica classica (vedi) e riflette sul piano ideologico i problemi concreti del periodo storico al quale si riferisce.
I teorici del mercantilismo, come è ovvio, insistettero costantemente su tutto ciò che era connesso con la vendita, al punto di aver ben poco interesse per la produzione di ciò che si doveva vendere, e di confondere moneta (vedi) e capitale (vedi); la regola più generale era quella deducibile dall’equazione: moneta abbondante = commercio florido, e la ricchezza di una nazione era calcolata sulla base del suo patrimonio in moneta e in metalli preziosi.
Poiché era l’epoca della formazione degli Stati nazionali (vedi Nazionalità, Nazione) non mancarono le giustificazioni teoriche di tutte quelle misure (monetarie, protezionistiche, ecc.) che rinsaldavano l’unità nazionale; si può anzi dire che la richiesta di interventi di vario genere da parte dello Stato costituisce un tratto essenziale dell’intero corpo delle teorie mercantilistiche.
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Mercato
In una prima accezione, che è anche la più antica, indica il luogo nel quale si svolgono gli scambi di merci (vedi). La storia registra l’esistenza di mercati fin dai tempi più remoti: in ogni economia fondata sullo scambio (vedi) e sulla divisione del lavoro (vedi) i mercati sono del resto indispensabili. Mutate nel corso dei tempi le condizioni dello scambio, il vecchio mercato è stato sostituito dalla borsa che è pur sempre un mercato dove le merci non sono fisicamente presenti ma ugualmente vendute e acquistate, seguendo regole particolari; la borsa valori è una borsa specializzata in cui gli oggetti di compravendita sono titoli di Stato, titoli azionari, moneta straniera, ecc.
Da quando Marx ne trattò in dettaglio nel libro III del Capitale (sezione V, capitolo XXVII) si sono avuti grandi mutamenti; trent’anni dopo Engels poteva scrivere:
«Nel 1865 la Borsa rappresentava ancora un elemento secondario nel sistema capitalistico … era ancora in quei tempi un luogo dove i capitalisti si sottraevano l’uno all’altro i capitali accumulati, ed interessava gli operai soltanto come nuova dimostrazione dell’universale azione corruttrice dell’economia capitalistica e come conferma delle parole di Calvino, che la predestinazione, alias il caso, decide già in questa vita della salvezza e della dannazione della ricchezza, cioè del piacere e della potenza e della povertà, vale a dire della privazione e della servitù» (Studi sul Capitale, p. 114).
Lo sviluppo delle società per azioni (vedi), l’ampliamento rapido del commercio e del credito, lo sfruttamento delle colonie, i massicci investimenti nei trasporti, nell’agricoltura e nelle esportazioni-importazioni, fecero in breve tempo della borsa «il rappresentante più notevole della produzione capitalistica stessa», funzione che doveva ulteriormente svilupparsi in seguito alla comparsa del capitalismo finanziario.
In una seconda accezione, sorta all’interno delle scienze economiche, la parola mercato è usata per indicare in astratto la formazione del prezzo di una merce attraverso il gioco della domanda e dell’offerta, solitamente legato alla concorrenza. Infine vi è una terza accezione, di origine commerciale, che intende per mercato un’area geografica (per esempio, i mercati latino-americani) nella quale sono esercitate le attività commerciali in funzione della domanda e dell’offerta praticate sul luogo.
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Merce (e Feticismo delle merci)
Una delle principali e più evidenti caratteristiche della società capitalistica è che in essa la produzione è in generale produzione di merci (vedi Capitalismo). In altre parole il rapporto più diffuso che interviene tra gli uomini è lo scambio di merci. L’analisi del modo di produzione capitalistico, secondo Marx, deve iniziare con l’analisi della merce:
«La ricchezza delle società nelle quali predomina il modo di produzione capitalistico si presenta come una immane raccolta di merci e la merce singola si presenta come sua forma elementare. Perciò la nostra indagine comincia con l’analisi della merce.
La merce è in primo luogo un oggetto esterno, una cosa che mediante le sue qualità soddisfa bisogni umani di un qualsiasi tipo» (Il Capitale, libro I, p. 68).
Questo oggetto esterno oltre ad avere determinate qualità, che possono soddisfare i bisogni umani (vedi Valore d’uso), per essere merce deve avere anche un valore di scambio (vedi). Affinché in una società possano venire prodotte cose che hanno differenti valori d’uso, e che quindi possano «stare a confronto l’una con l’altra come merci», è necessario che esistano lavori qualitativamente diversi, cioè che sia sviluppata la divisione sociale del lavoro (vedi).
«Le merci vengono al mondo in forma di valori d’uso o corpi di merci, come ferro, tela, grano, ecc. Questa è la loro forma naturale casalinga. Tuttavia esse sono merci soltanto perché son qualcosa di duplice: oggetti d’uso e contemporaneamente depositari di valore. Quindi si presentano come merci oppure posseggono la forma di merci soltanto in quanto posseggono una duplice forma: la forma naturale e la forma di valore (ivi, p. 79).
Marx ha ricercato l’origine di questa duplice forma delle merci nel fatto che il lavoro che produce merci ha anch’esso un duplice carattere: da un lato è «dispendio di forza-lavoro umana in forma specifica e definita dal suo scopo», cioè produce il valore d’uso delle merci, e dall’altro è «dispendio di forza-lavoro umana in senso fisiologico», cioè produce valore in generale, che è espresso nel valore di scambio delle merci. Il valore e la grandezza di valore di una merce non sono qualità di un oggetto, ma sono l’espressione della quantità di lavoro socialmente necessario per la sua produzione. A questo proposito Marx parla di feticismo delle merci per indicare il fatto che nella società capitalistica il rapporto tra lavoro e valore è mistificato, nascosto dal carattere privato della proprietà dei mezzi di produzione. Le stesse relazioni sociali tra gli uomini, gli stessi rapporti di produzione appaiono come rapporti tra cose che hanno in se stesse un valore di scambio; anche la forza-lavoro (vedi), nella società capitalistica, è una merce, cioè può essere venduta e comprata.
«Quel che qui assume per gli uomini la forma fantasmagorica di un rapporto fra cose è soltanto il rapporto sociale determinato che esiste fra gli uomini stessi. Quindi, per trovare un’analogia, dobbiamo involarci nella regione nebulosa del mondo religioso. Quivi, i prodotti del cervello umano paiono figure indipendenti, dotate di vita propria, che stanno in rapporto fra di loro e in rapporto con gli uomini. Così, nel mondo delle merci, fanno i prodotti della mano umana. Questo io chiamo il feticismo che s’appiccica ai prodotti del lavoro appena vengono prodotti come merci, e che quindi è inseparabile dalla produzione delle merci» (ivi, pp. 104-105).
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Mercificazione
È il processo attraverso il quale un valore d’uso (vedi) diventa merce; nel modo di produzione capitalistico è caratterizzato dall’impiego di lavoro non retribuito e dalla conversione dei mezzi di produzione in «mezzi di assorbimento di lavoro non pagato». A questo processo non sfuggono valori d’uso particolarmente esaltati dall’ideologia borghese, come i prodotti dal lavoro artistico e intellettuale; nel caso poi delle opere d’arte che si presentano in forma di oggetto unico (dipinti, sculture, ecc.) si crea un vero e proprio mercato (vedi) con tutto l’insieme delle operazioni commerciali che vi sono connesse; notava Marx che la «produzione spirituale» più elevata «trova misericordia agli occhi del borghese» soltanto se si presenta come un mezzo adeguato a produrre ricchezza materiale.
Né alla mercificazione sfugge l’uomo stesso, ridotto a cosa (vedi Reificazione); nei Manoscritti del 1844 il fenomeno è indicato come produzione di «merce umana» che porta a un essere tanto spiritualmene che fisicamente disumanizzato e che è soggetta alle leggi del mercato:
«La domanda di uomini regola necessariamente la produzione di uomini, come di ogni altra merce. Se l’offerta è assai maggiore della domanda, una parte dei lavoratori cade in mendicità o muore di fame. L’esistenza del lavoratore è così ridotta alla condizione di esistenza di ogni altra merce. Il lavoratore è divenuto una merce, ed è una fortuna per lui se può offrirsi all’uomo. La domanda, da cui dipende la vita del lavoratore, dipende dall’umore dei ricchi e dei capitalisti» (in Opere III, pp. 255-256).
Nel Capitale il tema della mercificazione umana è ripreso in rapporto alla vendita della forza-lavoro (vedi) e alle condizioni di sfruttamento in fabbrica.
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Mezzi di produzione
L’insieme degli impianti, macchine, strumenti, attrezzi che costituiscono la condizione indispensabile per ogni genere di processo produttivo; essi rientrano tra le forze di produzione (vedi), e costituiscono, sotto il profilo economico, il capitale fisso (vedi) di un’impresa.
I mezzi di produzione sono in ogni momento storico l’espressione del livello tecnico e delle esigenze produttive del momento stesso.
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Modo di produzione
Per il marxismo ogni formazione sociale può venire compresa nelle sue caratteristiche essenziali solo se si analizzano i presupposti materiali su cui si sviluppa.
«Secondo la concezione materialistica, il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata […] la produzione di mezzi di sussistenza, di generi per l’alimentazione, di oggetti di vestiario, di abitazione e di strumenti necessari per queste cose» (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. 33).
Il modo di produzione dei beni materiali, il modo con cui si ottengono i mezzi di sussistenza necessari all’uomo per riprodurre le proprie condizioni di vita, costituisce per il marxismo la forza principale che determina i caratteri di una società, il suo sviluppo, le condizioni e i modi del passaggio da una formazione economico-sociale a un’altra. Questo aspetto materiale della vita umana è quello che ne condiziona tutti gli altri, indicando nello sviluppo della produzione materiale la base per la trasformazione del pensiero e dei suoi prodotti.
«Il modo di produzione della vita materiale condiziona il processo della vita sociale, politica e spirituale. Non è già la coscienza dell’uomo a determinare il suo essere, ma, al contrario, il suo essere sociale a determinare la sua coscienza» (Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 5).
Da questo punto di vista la storia dello sviluppo della società diventa la storia dello sviluppo della produzione e in particolare la storia dei modi di produzione, i cui cambiamenti sono condizione per il mutare del regime sociale e delle istituzioni politiche a esso corrispondenti. Tale movimento viene determinato dalla contraddizione fondamentale tra le forze produttive (vedi) e i rapporti di produzione (vedi), che presi nel loro complesso rapporto formano la struttura di un modo di produzione. Se lo stato delle forze produttive indica con quali strumenti di produzione gli uomini producono i beni materiali loro necessari, il tipo di rapporti di produzione determina il possesso dei mezzi di produzione e in particolare il suo carattere collettivo o privato. Sulla base di questa analisi Marx determinò, a partire dall’esame storico del modo di produzione capitalistico (vedi Capitalismo), le principali forme economiche che l’avevano preceduto.
«A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere definiti le epoche progressive delle forme economiche della società. I rapporti borghesi di produzione sono l’ultima forma antagonistica del processo di produzione sociale, antagonistica non nel senso di un antagonismo individuale, bensì in quello di un antagonismo che emerge dalle condizioni sociali di vita degli individui. Ma le forze produttive che si sviluppano nel seno della società borghese creano nello stesso tempo le premesse materiali per la soluzione di questo antagonismo. Con questa formazione sociale si chiude, dunque, la preistoria della società umana» (ivi, p. 18).
Così Marx argomentava la necessità del passaggio dal capitalismo al socialismo. Contro gli economisti borghesi che nel modo di produzione capitalistico vedevano una forma non storicamente determinata e quindi valida in generale, Marx ne ribadiva il carattere transitorio e relativo.
«L’analisi scientifica del modo di produzione capitalistico dimostra al contrario che esso è un modo di produzione di tipo particolare, specificamente definito dallo sviluppo storico; che, al pari di qualsiasi altro definito modo di produzione, presuppone un certo livello delle forze produttive sociali e delle loro forme di sviluppo, come loro condizione storica; condizione, che è essa stessa il risultato storico ed il prodotto di un processo precedente, e da cui il nuovo modo di produzione prende le mosse in quanto suo fondamento dato; che i rapporti di produzione corrispondenti a questo specifico modo di produzione, storicamente determinato – rapporti in cui gli uomini entrano nel loro processo di vita sociale, nella creazione della loro vita sociale –, hanno un carattere specifico, storico, transitorio» (Il Capitale, libro III, p. 235).
È necessario osservare a questo punto che il partire dal modo di produzione capitalistico nelle analisi delle forme economiche precapitalistiche si motiva con il fatto che per Marx esso si presenta come la forma di società più di ogni altra universale, quella cioè i cui elementi costitutivi permettono di capire al tempo stesso la struttura e i rapporti di produzione di tutte le forme sociali precedenti, sul cui superamento e con i cui elementi il capitalismo si è sviluppato e di cui sopravvivono in esso i residui. Il modo con cui Marx allora presenta il susseguirsi dei modi di produzione, da quello della comunità primitiva fino a quello capitalistico, non significa quindi né un’estensione meccanica delle categorie proprie del capitalismo alle forme precedenti, né tantomeno una teoria unilineare dello sviluppo storico.
La relazione tra forze produttive e rapporti di produzione non ha nulla di schematico, bensì acquista il suo reale valore solo all’interno di un esame preciso del passaggio da una formazione sociale a un’altra, tenendo presente il quadro complessivo degli elementi economici, storici, culturali e geografici a cui esso va riferito. Non si tratta quindi di generalizzazioni astratte sulla base di categorie ritenute assolute. «Qui si tratta soltanto di grandi tratti caratteristici generali, poiché né le epoche della geologia né quelle della storia della società possono essere divise da linee divisorie astrattamente rigorose». Si tratta quindi al contrario di riconoscere nel passato i tratti caratteristici dei modi di produzione che precedono e preparano lo sviluppo del capitalismo, usando quelle categorie fornite dall’indagine del capitale per studiare le forme originali e particolari in cui concretamente essi si presentano.
«Quali che siano le forme sociali della produzione, lavoratori e mezzi di produzione restano sempre i suoi fattori. Ma gli uni e gli altri sono tali soltanto in potenza nel loro stato di reciproca separazione. Perché in generale si possa produrre, essi si devono unire. Il modo particolare nel quale viene realizzata questa unione distingue le varie epoche economiche della struttura della società» (ivi, libro II, p. 43).
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Moneta
Il primo significato, il più diffuso del termine, si ricava da espressioni del tipo «moneta d’oro» che indicano l’oggetto metallico usato per lo scambio di merci diverse: una moneta d’oro per una data quantità di un qualsiasi prodotto.
Ciò indica che tale oggetto metallico ha la prerogativa dell’interscambiabilità, nel senso che ogni merce può essere acquistata per suo mezzo; vi è dunque un criterio di confronto quantitativo che fissa l’equivalenza tra l’oggetto in questione e gli altri prodotti.
Dal punto di vista storico, una volta manifesti i limiti del baratto (vedi) e più in generale dell’uso di materiali non frazionabili, ingombranti, deperibili, la soluzione fu trovata ricorrendo ai metalli preziosi e semipreziosi (oro, argento, rame) che erano da tempo utilizzati, data la loro rarità, per la produzione di ornamenti molto ambiti in quanto segno di distinzione sociale. Nacquero così i lingotti di metallo puro che ben presto portarono un marchio dello Stato a garanzia di giusto peso: la loro diffusione nell’Asia Minore risale a oltre quaranta secoli or sono, a circa trenta secoli nell’area della Grecia.
Molto più tardi (700 a.C.) comparvero in Lidia monete d’oro nel senso stretto del termine: dischi metallici del peso di pochi grammi che introducevano negli scambi a base di metalli preziosi anche i piccoli produttori, fino allora tagliati fuori dall’uso dei lingotti e costretti al baratto, data la modesta quantità di prodotti di cui potevano disporre. Le monete metalliche avevano vantaggi notevoli: potevano essere coniate in dimensioni diverse, misurabili dal loro peso, non erano deperibili, erano facilmente trasportabili.
Il problema che ora sorge è quello del criterio in base al quale fu stabilito, nelle varie epoche, che una moneta d’oro o d’argento, ovvero il suo peso in metallo, poteva essere scambiata con una data quantità di merce; questo criterio non poteva essere che lo stesso in virtù del quale si era concordata in vari luoghi e momenti l’equivalenza allo scambio di trenta capre con un cavallo da tiro, di sei quintali di sale con tre quintali di grano, di venti braccia di tela con cinque quintali di ferro, ecc.; in breve: di x merce A con y merce B. Tale criterio era quello della quantità di lavoro socialmente necessario (vedi) contenuto in ciascuno dei prodotti; l’oro, per esempio, difficile da trovare e poi da estrarre dal proprio minerale conteneva una quantità di lavoro socialmente necessario quindici volte superiore a quella dell’argento. Una moneta d’oro del peso di un grammo poteva perciò essere scambiata, in un dato momento dello sviluppo delle tecniche estrattive e metallurgiche, con quindici grammi di argento o anche con otto chilogrammi di ferro.
Uscendo dalla sfera dei metalli e, fermo restando il riferimento a un dato luogo e a un dato momento, la moneta in questione poteva essere usata per l’acquisto di trecento grammi di caffè o di settantacinque grammi di tè, ecc.; occorrevano invece più monete per un abito, un orologio, una poltrona in pelle, ecc.
La moneta d’oro diventa in questo caso l’equivalente generale, cioè una merce (vedi) nei cui termini tutte le altre definiscono il loro valore (vedi); la moneta non ha in tal caso altro valore d’uso che quello di funzionare come termine di riferimento per ogni altra merce; questo fatto diventa evidente quando la coniazione delle monete avviene sotto il controllo di autorità pubbliche. Si comprende ora cosa intende Marx quando afferma che la moneta in generale è una figura del denaro (vedi) in quanto mezzo di circolazione; nel prezzo (vedi), cioè nel nome di denaro delle merci, è rappresentata una certa quantità d’oro espressa in peso; nella circolazione questa quantità deve confrontarsi con la merce mantenendo lo stesso nome, cioè come moneta. Il prezzo di una merce, vale a dire la quantità d’oro nella quale può essere idealmente trasformata, si esprime quindi nei termini monetari della scala di misura dell’oro.
Perciò, osserva Marx, dire che un quarter di grano equivale a un’oncia d’oro vuol dire, in Inghilterra, che equivale a tre sterline, 17 scellini e 10 pences; in Olanda che equivale a 21 fiorini, in Francia a 110 franchi, ecc.; il valore di scambio delle merci è dunque registrato come nome monetario e il denaro diventa moneta di conto, ovvero elemento per determinare il prezzo delle merci, per «contare» in unità di misura monetaria come una merce qualsiasi viene considerata dal punto di vista del valore di scambio.
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Monismo
Dal greco mònos: unico. Sistema filosofico che designa qualunque atteggiamento pretenda derivare tutta la realtà da un unico principio, affermando che i termini opposti di «natura» e «spirito», «anima» e «corpo», pur nella differenza dei loro significati e delle loro attività, debbano avere per base un’identità fondamentale. L’impegno principale di ogni concezione monista è quello di tendere alla conciliazione tra il pensiero e i suoi oggetti, attraverso un’idea di ragione che postuli la necessità di un principio unitario per la spiegazione del molteplice.
Il monismo può venire concepito sia in senso idealistico che in senso materialistico, ma l’elemento comune delle due tendenze si riassume nel fatto che per il monismo la molteplicità del reale e dei fatti è vera solo se si risolve nell’unità; ogni singolo accadimento rimanda a una totalità (vedi) di accadimenti e situazioni. L’aspetto sostanziale è allora il riferirsi necessario di ogni ente, evento e manifestazione naturale e umana, a un principio che li riassuma e ne metta in luce le interazioni e le connessioni.
Ciò è condiviso anche dal marxismo la cui posizione filosofica, come Lenin ha sostenuto, si pone anzi al punto più alto dello sviluppo del monismo, fondando originalmente una concezione unitaria e integrale del mondo naturale e della storia umana, spiegando le condizioni e i presupposti necessari al loro proprio sviluppo, dandone una dimensione e un significato dialettici (vedi Dialettica).
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Monopolio
È in generale la situazione economica in cui in uno o più settori della produzione o della distribuzione, un singolo capitalista o, più spesso, un piccolo numero di proprietari associati, detengono il controllo e il possesso esclusivo dei capitali operanti in quei settori.
La tendenza alla formazione di monopoli è, secondo il marxismo, una delle caratteristiche fondamentali del modo di produzione capitalistico. Lo stesso processo di accumulazione del capitale, cioè la riproduzione su scala sempre più allargata dei rapporti capitalistici, che è contraddistinta da una sempre crescente concentrazione (vedi) e centralizzazione (vedi) dei capitali, conduce, secondo Marx, a una vera e propria «espropriazione» da parte dei proprietari di grandi capitali nei confronti di coloro che posseggono capitali più piccoli. Infatti con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico non solo «cresce il volume minimo del capitale individuale, necessario per far lavorare un’azienda nelle condizioni normali», ma
«Nella misura in cui si sviluppano la produzione e l’accumulazione capitalistica, si sviluppano la concorrenza e il credito, le due leve più potenti della centralizzazione. Allo stesso tempo il progresso dell’accumulazione aumenta la materia centralizzabile, ossia i capitali singoli, mentre l’allargamento della produzione capitalistica crea qua il bisogno sociale, là i mezzi tecnici di quelle potenti imprese industriali, la cui attuazione è legata a una centralizzazione del capitale avvenuta in precedenza» (Il Capitale, libro I, p. 686).
Inoltre l’aumento della produzione di plusvalore relativo (vedi Plusvalore) può avvenire solo a condizione che si verifichi, nel modo di produrre, un continuo perfezionamento delle tecniche produttive, e ciò rende necessaria una maggiore disponibilità di capitale costante. La formazione di grandi proprietà è dunque al tempo stesso il risultato della concorrenza (vedi) e la condizione per ogni ulteriore sviluppo del capitalismo che superi i limiti ristretti di una prima fase in cui la formazione della proprietà capitalistica è ancora determinata, in una certa misura, dall’iniziativa dei piccoli proprietari. In particolare il fattore determinante per la formazione di monopoli è, come già abbiamo accennato, il processo di centralizzazione dei capitali. Questo processo avviene, come rileva Marx, in seguito a un semplice cambiamento nella distribuzione dei capitali già esistenti.
«Il capitale può crescere qua fino a diventare una massa potente in una sola mano, perché là viene sottratto a molte mani individuali. In un dato ramo d’affari la centralizzazione raggiungerebbe l’estremo limite solo se tutti i capitali ivi investiti si fondessero in un capitale singolo. In una società data questo limite sarebbe raggiunto soltanto nel momento in cui tutto il capitale sociale fosse riunito nella mano di un singolo capitalista o in quella di un’unica associazione di capitalisti» (ivi, p. 687).
La fusione dei capitali sotto la direzione del grande capitale è, infatti, la caratteristica specifica del monopolio, che consente da una parte la realizzazione di sovraprofitti e dall’altra uno sviluppo rapidissimo delle forze produttive. Osserva Marx a questo proposito:
«Il mondo sarebbe tuttora privo di ferrovie, se avesse dovuto aspettare che l’accumulazione avesse messo in grado alcuni capitali individuali di poter affrontare la costruzione di una ferrovia. La centralizzazione, invece, è riuscita a farlo di un tratto, mediante le società per azioni» (ivi, p. 688).
Quella che viene definita da Lenin come fase suprema del capitalismo (vedi Imperialismo) ha precisamente inizio dal momento in cui il monopolio è divenuto la forma di proprietà dominante nella società capitalistica. La formazione del capitale finanziario (cioè la compenetrazione, l’unione, tra capitale bancario e capitale industriale, in altri termini la strettissima collaborazione tra possessori di grandi quantità di denaro e di grandi impianti industriali) e la sottomissione al capitale finanziario stesso delle altre forme assunte storicamente dal capitale, avvenuta approssimativamente a cominciare dai primi anni del ’900, ha condotto alla creazione di associazioni finanziarie (holding) che detengono il monopolio contemporaneo di più settori della produzione e della distribuzione. La concorrenza tra singoli individui, che agiscono nell’ambito di un mercato relativamente ristretto, si è trasformata così in una lotta per l’estensione del monopolio a settori diversi della produzione e della distribuzione, per il possesso esclusivo di grandi mercati internazionali, per l’accaparramento delle materie prime.
Il termine oligopolio indica la presenza di un piccolo numero di associazioni di tipo monopolistico che controllano la produzione e la distribuzione sulla base di accordi prestabiliti.
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Movimento contadino
I contadini, soprattutto i piccoli proprietari e i braccianti, occupano una posizione fondamentale nei rapporti di produzione capitalistici. La stessa nascita della società borghese moderna ha avuto come fondamento una profonda trasformazione dei rapporti di produzione nelle campagne.
Al rapporto feudale (vedi Feudalesimo) e a quello di mezzadria (spartizione degli utili tra colono e proprietario) si sostituì da una parte la tendenza allo sfruttamento estensivo delle colture anche con l’aiuto delle macchine, e dall’altra la necessità per la gran massa dei coltivatori di vendere la loro forza-lavoro.
Le opprimenti condizioni di vita nonché una certa presa di coscienza da parte dei contadini, furono all’origine di forme di associazionismo spontanee, che col tempo divennero leghe e in seguito formarono un vero e proprio movimento politico organizzato. Il movimento dei contadini costituisce il più valido alleato del movimento operaio nella lotta di classe.
Il ruolo del movimento contadino è sempre stato oggetto di analisi all’interno dei partiti comunisti: infatti la stessa origine sociale dei contadini li ha sempre relegati al margine della vita politica in quanto, come osserva Gramsci, è molto difficile che i contadini riescano a formare nel loro interno un gruppo di intellettuali e di organizzatori politici che siano in grado di far valere i loro interessi.
Anche Gramsci tuttavia rilevò che la partecipazione dei contadini è condizione indispensabile per la costituzione di un partito comunista e soprattutto per l’organizzazione e l’attuazione della rivoluzione sociale:
«…i contadini organizzati diventeranno un elemento di ordine e di progresso; abbandonati a se stessi, nell’impossibilità di svolgere un’azione sistematica e disciplinata, essi diventeranno un tumulto incomposto, un disordine caotico di passioni esasperate fino alla barbarie più crudele dalle sofferenze inaudite che si vanno profilando sempre più spaventosamente».
E aggiunge:
«…la rivoluzione comunista è essenzialmente un problema di organizzazione e di disciplina (…) ma con le sole forze degli operai d’officina la rivoluzione non potrà affermarsi stabilmente e diffusamente: è necessario saldare la città alla campagna, suscitare nella campagna istituzioni di contadini poveri sulle quali lo Stato socialista possa fondarsi e svilupparsi, attraverso le quali sia possibile allo Stato socialista promuovere l’introduzione delle macchine e determinare il grandioso processo di trasformazione dell’economia agraria» (Gramsci, Operai e contadini, in «Ordine nuovo», 2 agosto 1919, p. 87).
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Movimento operaio
Indica la presenza all’interno delle masse operaie di orientamenti generali di carattere economico e politico e di corrispondenti attività di lotta. Le condizioni economiche e sociali per la nascita del movimento operaio si realizzarono dal momento in cui il modo di produzione capitalistico prevalse su ogni altro. Il movimento operaio ha inizio in forma parzialmente organizzata con le prime associazioni a carattere assistenziale e di mutuo soccorso e successivamente sindacale nei primi decenni dell’800 in Inghilterra e in seguito in Francia e in Germania. Esso assunse fin dai primi anni caratteristiche internazionali, sancite la prima volta nel 1864 con la costituzione a Londra dell’Associazione Internazionale dei Lavoratori.
Per movimento operaio si intende dunque la generica tendenza a sviluppare forme di lotta e a costituire associazioni ad essa collegate; da questo punto di vista è diverso dal partito o dall’insieme dei partiti (vedi Partito) della classe operaia, che hanno livelli organizzativi, teorici e programmatici ben definiti.
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Nazionalismo
Come dottrina politica è l'esasperazione demagogica della tematica sorta intorno al concetto di nazionalità e nazione (vedi) e lo sfruttamento a fini politici di parte del sentimento patriottico. Si fonda su una concezione astratta della nazione, che è vista come un'entità metafisica al di sopra delle classi, dei partiti, degli stessi individui. E' implicita in questa concezione la tendenza a esaltare e affermare anche in campo internazionale la nazione ricorrendo alla violenza; perciò la guerra (vedi) è considerata il momento della consacrazione nazionale, «il bagno di sangue purificatore».
Il nazionalismo troverà il suo sbocco naturale e la sua forma storica nel fascismo (vedi), che ne assumerà totalmente l'ideologia e le parole d'ordine. Togliatti dirà che: «elemento di tutti i movimenti fascisti è intanto, ovunque, l'ideologia nazionalista esasperata» e che «una parte della ideologia [fascista], la parte nazionalista, serve direttamente alla borghesia». Proprio a motivo di questa ripresa delle dottrine nazionalistiche da parte del fascismo sarà messa a nudo la vera anima del nazionalismo: le altisonanti parole patriottiche si dimostreranno alla prova dei fatti nient'altro che retorica o malafede; infatti i tentativi di sopravvivenza del potere fascista si fonderanno quasi ovunque sull'appoggio dello straniero.
Se il nazionalismo come dottrina politica è per la borghesia una forma ideologica del dominio di classe, dato il suo contenuto violentemente antisocialista, antioperaio e antidemocratico, per il proletariato, in questo senso, è un elemento disgregatore dell'internazionalismo proletario. Tuttavia, poiché il proletariato «deve conquistarsi prima il dominio politico, elevarsi a classe nazionale, costituirsi in nazione, è anch'esso nazionale, benché non nel senso della borghesia». Il patriottismo del proletariato si è manifestato in tutto il mondo nella lotta antifascista durante l'ultimo conflitto e nei movimenti di liberazione posteriori, allorché ha difeso l'interesse nazionale più di ogni altra classe lottando contro le ingerenze o invasioni straniere.
Una forma di nazionalismo con una particolare accentuazione per la priorità del proprio popolo e il rifiuto di tutti gli altri è lo sciovinismo, termine derivante da N. Chauvin che fu un fanatico ammiratore di Napoleone e un esaltatore della Francia napoleonica.
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Nazionalità, nazione
In senso generale la nazionalità è il carattere della nazione che rappresenta l'insieme di un popolo legato da storia, tradizioni, lingua, cultura (vedi), ecc.
Le nazionalità si sono formate sulla base della disgregazione della società feudale e hanno avuto come caratteristica fondamentale la tendenza a delimitare i gruppi linguistici (vedi Lingua, linguaggio) entro confini territoriali ben definiti. In questa fase, secondo Engels, la monarchia ha rappresentato un «elemento progressivo»; tuttavia il concetto di nazionalità acquista la sua totale rilevanza con l'avvento del capitalismo:
«In tutto il mondo, il periodo della vittoria definitiva del capitalismo sul feudalesimo fu connesso con movimenti nazionali. La base economica di questi movimenti sta nel fatto che per la vittoria completa della produzione mercantile è necessaria la conquista del mercato interno da parte della borghesia, l'unificazione politica dei territori la cui popolazione parla la stessa lingua, la soppressione di tutti gli ostacoli che si frappongono allo sviluppo di questa lingua e al suo fissarsi nella letteratura … Ogni movimento nazionale tende a formare uno Stato nazionale che meglio corrisponda a queste esigenze del capitalismo moderno» (Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, pp. 58-59).
Lo Stato tipico del capitalismo è quindi lo Stato nazionale, il cui assetto economico-sociale e grado di sviluppo delle forze produttive determinano «il rapporto di una nazione con altre» oltre che «l'intera organizzazione interna di questa nazione».
Tuttavia l'espansione della grande industria toglie alla borghesia il carattere di classe nazionale: i suoi interessi si estendono e sono i medesimi in tutte le nazioni; essa diventa per così dire una classe sovranazionale.
«Essa costringe tutte le nazioni a adottare le forme della produzione borghese se non vogliono perire; le costringe a introdurre nei loro paesi la cosiddetta civiltà, cioè a farsi borghesi. In una parola, essa si crea un mondo a propria immagine e somiglianza» (Manifesto, p. 30).
In tal modo, introducendo brutalmente gli stessi rapporti di classe propri della società borghese, essa distrugge le caratteristiche specifiche delle singole nazionalità, che tendono a uniformare le condizioni di vita nella stessa proporzione in cui la produzione industriale conquista il mercato mondiale.
Il proletariato è invece una classe internazionale poiché le condizioni di sfruttamento e oppressione ideologica in cui è costretto sono preminenti rispetto a quei fattori economici, storici, culturali, ecc. che caratterizzano la nazionalità così come si è sviluppata nel corso della storia; in questo senso Marx dice che il proletariato non ha patria. Tuttavia poiché «il proletariato di ogni paese deve naturalmente farla finita prima con la sua propria borghesia», anche la sua lotta è in un primo tempo e nella «forma» una lotta nazionale.
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Neocapitalismo
L’estensione e l’approfondimento delle contraddizioni caratteristiche del capitalismo monopolistico contemporaneo, e in particolare la forma mistificata in cui appaiono i rapporti di produzione nella fase suprema del capitalismo, hanno portato alcuni a ritenere che si dovesse parlare di un neocapitalismo come nuova fase storica della società contemporanea. Il neocapitalismo, che viene talvolta definito «società dei consumi», sarebbe qualitativamente diverso da quello studiato da Marx e da Lenin, che oggi viene anche chiamato «paleocapitalismo».
Secondo la concezione marxista, tuttavia, il capitalismo monopolistico contemporaneo si dibatte precisamente nella stessa contraddizione tra carattere sociale della produzione e proprietà privata dei mezzi di produzione, che fu individuata da Marx come la contraddizione fondamentale del capitalismo. Le particolari forme assunte da questa contraddizione, così come i tentativi di soluzione delle grandi crisi attraversate negli ultimi cinquant’anni dal capitalismo, non hanno modificato la natura dei rapporti di produzione. Da questo punto di vista resta tuttora valida l’analisi leniniana secondo cui tra capitalismo monopolistico e socialismo non esiste alcun modo di produzione intermedio.
Le interpretazioni che sostengono la necessità di individuare nella società contemporanea un neocapitalismo fanno principalmente riferimento all’importanza che ha assunto l’intervento dello Stato nella direzione della vita economica. In particolare, tra i diversi modi in cui lo Stato direttamente o indirettamente può influenzare lo sviluppo economico in una società altamente industrializzata, assume particolare importanza la cosiddetta programmazione economica, il cui scopo sarebbe di coordinare l’insieme dei piani di investimento messi a punto dalle singole imprese, stabilendo a quali dare la priorità per ottenere profitti maggiori o creare le condizioni nelle quali essi potranno essere ottenuti.
È necessario distinguere la programmazione economica che si realizza nelle società capitalistiche dalla pianificazione vera e propria che è caratteristica dei paesi socialisti. Infatti la programmazione dell’economia capitalistica è sostanzialmente inefficace contro il verificarsi di gravi crisi; inoltre, proprio nei periodi di crisi economica risulta evidente il fatto che essa è uno strumento di classe, corrispondente alle esigenze dei grandi gruppi monopolistici. Un altro fenomeno caratteristico di quello che viene chiamato neocapitalismo è l’aumento numerico del personale impiegato nel lavoro specializzato o non direttamente utilizzato nel lavoro manuale.
Gli sviluppi più recenti del capitalismo indubbiamente hanno posto e pongono al movimento operaio problemi nuovi e diversi da quelli del periodo analizzato direttamente da Marx. In particolare alcuni teorici della fine del marxismo ritengono che il grande sviluppo della scienza, della tecnica e delle sue applicazioni, costituisca il fattore principale di superamento del cosiddetto paleocapitalismo. In questa interpretazione la valutazione dell’importanza fondamentale che la scienza e la tecnica assumono nella società contemporanea, diventa essa stessa il presupposto ideologico per la mistificazione in veste produttivistica delle contraddizioni e delle limitazioni a cui la scienza stessa è soggetta, in quanto forza produttiva, nei rapporti sociali capitalistici. Inoltre restano inspiegabili, per i sostenitori di queste tesi, l’approfondirsi degli antagonismi sociali e l’importanza crescente che il movimento operaio assume nella società contemporanea come punto di riferimento politico e ideologico di quegli stessi strati sociali non direttamente impegnati nel lavoro manuale in senso stretto.
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Neocolonialismo
Espressione che indica l’avvenuta sostituzione del vecchio colonialismo mercantile con le forme proprie del colonialismo nella fase suprema del capitalismo. Con questo termine si intende anche lo sfruttamento di territori ex-coloniali o di paesi sottosviluppati in forme diverse da quelle del vecchio colonialismo, realizzate mediante un’artificiosa – anche se giuridicamente riconosciuta – indipendenza nazionale che si accompagna all’effettivo predominio economico dei paesi imperialisti, che influenza in modo determinante lo sviluppo sociale e politico dei paesi colonizzati (vedi Imperialismo).
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Nep
Sigla con cui si indicò in Russia la «Nuova Politica Economica» adottata nel 1921-1928 e caratterizzata dall’introduzione di norme economiche meno rigidamente impostate a una collettivizzazione forzata. Tra queste, fondamentale, la legge che aboliva la requisizione del prodotto agricolo, tipica dell’economia di guerra (comunismo di guerra) instaurata negli anni immediatamente seguenti la rivoluzione, sostituendola con una «tassa in natura», che permetteva tra l’altro al contadino il libero commercio delle eccedenze. Ciò ebbe come conseguenza una serie di provvedimenti per il commercio e l’industria, che furono talvolta visti come reintroduzione di elementi capitalistici.
Di fatto la Nep fu promossa da Lenin sulla base dell’analisi della situazione di quegli anni in Russia e della teoria che vedeva nell’alleanza tra contadini e operai la condizione imprescindibile per la vittoria della rivoluzione. Già Marx scriveva ne Le lotte di classe in Francia a proposito della guerra civile del 1848 che:
«Gli operai francesi non potevano né muovere un passo avanti, né torcere un capello all’ordine borghese prima che il corso della rivoluzione non avesse sollevato la massa della nazione che sta tra il proletariato e la borghesia, cioè i contadini e la piccola borghesia, contro questo ordine borghese, contro il dominio del capitale, non li avesse costretti ad unirsi ai proletari come alla loro avanguardia» (p. 53).
Nel 1893 Engels metteva in rilievo che i contadini andavano conquistati con la «forza dell’esempio», dimostrando cioè loro la superiorità dell’«agricoltura socialista meccanizzata».
In Russia il problema si poneva con particolare urgenza rispetto a ogni altro paese d’Europa, data l’enorme massa di contadini che andavano dal semplice mugik, al contadino medio, al contadino agiato e che, nella loro totalità, rappresentavano 1’80% della popolazione e la cui produzione era di gran lunga superiore a quella industriale. Evidentemente questi strati erano tra loro divisi da interessi economici divergenti, tuttavia avevano in comune un obiettivo: la necessità di una rivoluzione democratico-borghese. Scriveva Lenin nel 1905:
«Nella Russia contemporanea il contenuto della Rivoluzione non è dato da due forze in lotta, ma da due guerre sociali diverse ed eterogenee: una in seno all’ordinamento attuale, autocratico, feudale; l’altra in seno al futuro ordinamento democratico borghese, che va già sorgendo sotto i nostri occhi. Una è la lotta di tutto il popolo per la libertà (per la libertà della società borghese), per la democrazia, cioè per la sovranità popolare; l’altra è la lotta di classe del proletariato contro la borghesia per l’organizzazione socialista della società» (Lenin, L’alleanza degli operai e dei contadini, p. 12).
E più tardi, nel 1919, riconoscerà che la vittoria della Rivoluzione era stata possibile anche per la risposta positiva dei contadini che erano stati chiamati a sostenere, con la classe operaia, le difficoltà e a risolvere i problemi imposti dall’economia di guerra.
Un secondo passo verso l’emancipazione dei contadini si era compiuto con la «differenziazione nelle campagne degli elementi proletari o semiproletari» che si erano uniti al proletariato delle città. Rimaneva aperta la questione dell’atteggiamento da assumere verso il contadino medio, una classe «in parte proprietaria, in parte lavoratrice»; Lenin, convinto del ruolo oggettivamente primario che questo strato svolgeva nell’economia di allora e che il contadino, per la sua peculiare mentalità, andava soprattutto attirato, optò per una politica a sostegno dell’agricoltura che inducesse la fiducia nel nuovo ordinamento. All’VIII Congresso del Partito giustificò questa posizione sostenendo che nella situazione tipica della Russia di allora era possibile realizzare la rivoluzione socialista solo «mediante un certo numero di misure transitorie speciali, che sarebbero affatto inutili nei paesi ad avanzato sviluppo capitalistico».
Le motivazioni della Nep hanno dunque radici molto lontane e vanno oltre la pur reale necessità di innalzare il livello produttivo per salvaguardare le conquiste della Rivoluzione d’Ottobre. La storia posteriore, in Cina e in altri paesi, dimostrerà nuovamente come una corretta formulazione del rapporto operai-contadini sia determinante per l’affermazione della società socialista.
Nell’ambito del marxismo le critiche alla Nep riguardarono essenzialmente il problema del ruolo della classe operaia nella costruzione della società socialista; ovviamente chi attribuiva a questa una funzione primaria, non poteva non considerare la Nep come un passo indietro rispetto alle conquiste del comunismo di guerra.
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Nichilismo
Deriva dal latino nihil: niente. Indica ogni posizione politica e teorica che assuma la distruzione dei valori vigenti o comunque la negazione della realtà nei suoi vari aspetti come fondamento della propria concezione.
Storicamente indica una delle correnti del pensiero sociale, politico e culturale russo che, sulla negazione radicale delle tradizioni della cultura e delle norme morali e religiose, fondava una visione della vita e dell’azione basata sul culto volontaristico dell’individuo e suun realismo ingenuo, che accoppiava elementi del romanticismo utopistico (vedi Utopia) di origine europea e il misticismo naturalista proprio della società contadina russa. Politicamente si sviluppò, tra il 1860 e il 1870, come espressione degli elementi più radicali della piccola borghesia (vedi) e di settori intellettuali, specie a partire dai circoli culturali e dagli ambienti studenteschi. Opponendosi ai residui feudali (vedi Feudalesimo) e combattendo l’aristocrazia zarista e la burocrazia di Stato, il nichilismo tuttavia si differenziava e anzi avversava le correnti liberali moderate (vedi Liberalismo) di cui non condivideva le speranze di riforma, e gli stessi indirizzi del populismo (vedi) di cui negava la fiducia nelle masse contadine e nell’azione popolare. Ne discendeva l’esaltazione dell’azione esemplare dei pochi e del terrorismo come metodo di lotta politica antizarista. Nonostante la funzione positiva di critica radicale delle istituzioni e del moderatismo liberale, l’angusta visione della lotta politica, la mancanza di un’analisi di classe della realtà sociale russa portò il nichilismo a non avere sbocchi e programmi tali da garantirne lo sviluppo verso le masse. Alcuni dei suoi temi e in particolare il terrorismo furono ripresi da altri indirizzi premarxisti in Russia, nell’ambito del populismo, mentre in Occidente taluni suoi seguaci arrivarono all’anarchismo (vedi).
Furono la penetrazione del marxismo e la formazione delle prime organizzazioni politiche ad esso ispirate fino alla creazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo alla fine del secolo a fondare una visione scientifica della società zarista e dei modi del suo superamento.
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Oggettivazione
È il processo per cui una qualsiasi cosa appare in un dato rapporto come oggetto. Marx ne tratta, riferendosi al lavoro, in questi termini: «Il prodotto del lavoro è il lavoro che si è fissato in un oggetto, che si è fatto oggettivo: è l’oggettivazione del lavoro».
L’oggettivazione è qui considerata come la premessa necessaria ai fenomeni di alienazione (vedi) e estraneazione (vedi); il lavoro è infatti un’attività umana che produce qualcosa, che si «oggettiva» nel suo prodotto; detto altrimenti, il soggetto che lavora costruisce un prodotto che è nei suoi confronti un oggetto. Fino a questo punto il fatto ha una validità generale che si può estendere a tutte le situazioni che sono descritte e descrivibili nei termini qui usati; tuttavia nella concreta situazione storica determinata dal modo di produzione capitalistico l’oggetto ha un destino particolare: si pone come un «ente estraneo» di fronte a chi l’ha prodotto, lo domina come «potenza indipendente». All’oggettivazione seguono quindi i processi di alienazione e estraneazione.
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Oggettivismo, Soggettivismo
Questi due termini opposti e complementari indicano, rispettivamente, una concezione della storia (vedi) e dell’attività che giudica prevalenti gli elementi oggettivi su quelli soggettivi in una data situazione o, viceversa, gli elementi soggettivi su quelli oggettivi.
Per elementi oggettivi si intendono quelli che costituiscono la realtà intorno all’uomo e nella quale si svolge la sua azione; se questi elementi sono quelli costitutivi del quadro economico, sociale e politico del momento storico in cui un partito svolge la propria attività e prende le proprie decisioni è facile comprendere che la questione oggettivismo-soggettivismo assume immediatamente un carattere tutt’altro che teorico.
Per elementi soggettivi si intendono quelli dipendenti dall’attività teorica e pratica non già del singolo individuo (il soggetto personale) ma di un gruppo politico o dell’intera classe. E poiché i due termini soggettivismo e oggettivismo sono di fatto usati con intenzioni critiche o polemiche, soggettivismo vorrà dire fiducia eccessiva nelle possibilità delle iniziative pratiche del gruppo e trascuratezza delle condizioni oggettive in cui le iniziative sono prese; oggettivismo, a sua volta, vorrà dire nessun credito alle iniziative pratiche del gruppo o alle possibilità di intervento della classe sulle quali prevarrebbero condizioni oggettive che non permettono di agire nel modo dovuto.
Queste tendenze si sono manifestate e si manifestano all’interno del marxismo e dei partiti che vi fanno capo; il costante richiamo alle condizioni oggettive è stato frequentemente un modo per mascherare l’assenza di volontà rivoluzionaria e per l’aggiornamento a tempo indeterminato della prassi (vedi); a sua volta l’insistenza sulla necessità dell’azione immediata ha spesso nascosto la povertà dell’analisi delle condizioni oggettive. Da una parte ha prevalso il timore che il ruolo della volontà attiva degli uomini nelle varie forme e momenti della lotta di classe fosse trascurato; queste posizioni, diffuse nel cosiddetto marxismo occidentale, hanno coinciso molte volte con il rifiuto del materialismo dialettico (vedi), a torto interpretato come un modo contemplativo o comunque distaccato di richiamarsi alla realtà, quindi passivamente in attesa di sviluppi indipendenti dall’intervento del soggetto-partito. Dall’altra si è teso a privilegiare la funzione della situazione concreta quasi che questa fosse totalmente autonoma, e perciò immodificabile, dall’intervento del soggetto attivo.
È evidente che trovare il giusto punto di convergenza tra la volontà soggettiva dell’intervento rivoluzionario e la realtà oggettiva nella quale e sulla quale si svolge l’intervento è tutt’altro che facile; per questo il problema resta polemicamente aperto. Marx ne aveva sottolineato le difficoltà in un celebre passo:
«Gli uomini fanno la propria storia, ma non la fanno in modo arbitrario, in circostanze scelte da loro stessi, bensì nelle circostanze che essi trovano immediatamente davanti a sé, determinate dai fatti e dalla tradizione» (Il 18 Brumaio di Luigi Bonaparte, p. 9).
Tra le altre difficoltà che si ricollegano alla questione vi è anche quella, non secondaria, del rapporto tra il «punto di vista soggettivo», per esempio l’interpretazione che un gruppo politico dà delle proprie iniziative, e il «punto di vista oggettivo», ossia l’effettiva funzione svolta da quelle iniziative in una data situazione. E’ ben noto, infatti, che nella storia del movimento operaio, come dimostrano le molte polemiche di Lenin sull’argomento, non mancano certo gli esempi di gruppi politici o partiti che hanno elaborato, sostenuto e praticato iniziative che a loro giudizio erano avanzate e coerenti ma che, di fatto, rafforzavano le posizioni degli avversari politici.
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Operaismo
Concezione della tattica e della strategia della classe operaia e del movimento comunista, secondo la quale il proletariato, nella lotta per la propria emancipazione, non avrebbe da contare che su se stesso, negando ogni validità e possibilità a una politica di alleanze anche con strati – quali i contadini e la piccola borghesia – potenzialmente antagonisti alla borghesia e ai suoi interessi. Storicamente l’operaismo nega l’apporto teorico di Lenin e di Gramsci sulla necessità del raggiungimento dell’egemonia (vedi) della classe operaia sui ceti intermedi attraverso la costituzione di un blocco storico (vedi) alternativo alla borghesia, e propone meccanicamente e semplicisticamente la contrapposizione fondamentale tra borghesia e proletariato.
Ciò ha come non ultima conseguenza l’esaltazione unilaterale della lotta economica delle masse operaie e l’incomprensione della necessità della sua trasformazione in lotta politica, con la conseguente sottovalutazione dell’organizzazione politica dei lavoratori e dell’importanza dell’elaborazione teorica e culturale del partito e dello sviluppo della coscienza politica dei suoi componenti e delle masse in generale.
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Opportunismo
Tendenza storica a rinunciare alla difesa conseguente dei diritti dei lavoratori e all’ideale rivoluzionario presentatasi all’interno del movimento operaio a cominciare dalla Seconda Internazionale. Essa è dovuta alla formazione di un’aristocrazia operaia (vedi) e alla penetrazione di idee borghesi e piccolo borghesi all’interno dei partiti socialdemocratici (vedi Socialdemocrazia).
Gli esponenti più famosi dell’opportunismo furono coloro che, ingannati da una presunta possibilità di transizione pacifica al socialismo attraverso il sistema parlamentare, acconsentirono a compromessi con le classi reazionarie al potere sia sui problemi economici che sulle libertà democratiche (K. Kautsky, E. Bernstein, E. Millerand).
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Pacifismo
È il rifiuto della guerra come strumento di soluzione delle controversie internazionali.
Storicamente si è presentato, a partire dai primi anni del ’900 in due forme: una generica di rifiuto totale della guerra indipendentemente dalle motivazioni storico-politiche che la determinano; l’altra marxista in cui il rifiuto, dettato dall’analisi storica della guerra (vedi), è rivolto ai conflitti che hanno per base la conservazione e il dominio del capitalismo.
Attualmente esistono molti movimenti che si richiamano al pacifismo, anzitutto quelli legati alla contestazione degli studenti americani durante la guerra del Vietnam. In Italia sono sostenitori del pacifismo in senso assoluto i radicali e diverse associazioni antimilitariste.
Una delle figure più rilevanti del pacifismo generico nel nostro secolo fu quella di Gandhi, il quale sosteneva la necessità della non violenza anche nella lotta per la liberazione nazionale.
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Parlamentarismo
Tendenza a entrare a far parte delle istituzioni borghesi, rinunciando alla mobilitazione delle masse contro l’organizzazione statale capitalistica. La polemica marxista contro il parlamentarismo, pur avendo avuto origine nel 1878, anno del clamoroso successo elettorale del Partito Socialdemocratico Tedesco, ha trovato una formulazione adeguata per tutto il periodo dell’imperialismo nella concezione di Lenin.
Dovendo far fronte alle elezioni della Duma (organismo rappresentativo del governo zarista) Lenin non rinunciò «per principio» a un’eventuale partecipazione del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, ma condannò coloro che, per far parte di questo parlamento, rinunciarono a svolgere l’attività rivoluzionaria tra le masse.
Precedentemente il V Congresso della Seconda Internazionale (1900) aveva approvato, sia pure «come un mezzo momentaneo e straordinario nella lotta contro le circostanze difficili» la partecipazione a governi anche reazionari di parlamentari socialdemocratici (Millerand: governo Waldeck-Rousseau). A tale risoluzione fecero riferimento successivamente tutti coloro che teorizzavano forme di parlamentarismo (Turati).
Antiparlamentarismo
Tendenza a sottovalutare l’importanza della lotta all’interno delle istituzioni in vista del loro rovesciamento. È tipica degli anarchici e dei gruppi estremisti.
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Partito
Nel senso attuale e generico del termine, indica una formazione politica che ha come punto di riferimento un programma, si articola in un’organizzazione e svolge un’attività continuativa. È l’espressione degli interessi di una classe, di un ceto, di uno strato sociale.
In Marx e Engels il partito della classe operaia è visto come momento necessario nel processo rivoluzionario del proletariato, il quale solo attraverso l’acquisizione di una coscienza politica può condurre vittoriosamente la lotta per la propria emancipazione e l’avvento di una società comunista:
«Nella sua lotta contro il potere unificato delle classi possidenti, il proletariato può agire come classe solo organizzandosi in partito politico autonomo, che si oppone a tutti gli altri partiti costituiti dalle classi possidenti. Questa organizzazione del proletariato in partito politico è necessaria allo scopo di assicurare la vittoria della rivoluzione sociale e il raggiungimento del suo fine ultimo, la soppressione delle classi» (Marx, Statuti dell’Associazione Internazionale degli Operai, in Fetscher, Il marxismo, vol III, p. 114).
Compito primo del proletariato in quel momento storico era la creazione di un’organizzazione autonoma dai partiti borghesi democratici, entro la quale fossero dibattuti e portati avanti gli interessi specifici della classe in vista della sua affermazione come classe dominante e la cui caratteristica fosse l’internazionalismo. Il Manifesto del Partito Comunista, al di là delle risonanze e del valore emblematico a cui assurgerà in seguito, espone analiticamente alcuni principi irrinunciabili del marxismo e di conseguenza i punti programmatici e gli obiettivi finali di una lotta di classe coerente, chiarendo anche il peculiare rapporto comunisti-proletari, che Marx e Engels vedono in questi termini:
«I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari solamente per il fatto che da un lato, nelle varie lotte nazionali dei proletari, essi mettono in rilievo e fanno valere quegli interessi comuni dell’intero proletariato che sono indipendenti dalla nazionalità; d’altro lato per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo.
In pratica, dunque, i comunisti sono la parte più risoluta dei partiti operai di tutti i paesi, quella che spinge sempre avanti; dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario» (p. 42).
Ovviamente il Manifesto non può essere visto come il semplice programma di un partito: esso fu soprattutto l’appello alla rivoluzione e alla liberazione dalla subordinazione economica, politica e morale rivolto alla classe operaia internazionale. La frase finale «Proletari di tutto il mondo unitevi!» fu deliberatamente voluta e inserita da Marx e Engels al posto del motto della Lega dei Giusti, l’organizzazione per la quale era stato redatto il Manifesto, e che suonava: «Tutti gli uomini sono fratelli».
Nella seconda metà dell’800 il dibattito interno ai partiti socialisti sui principi del marxismo e sui problemi inerenti l’organizzazione delle masse, la propaganda, la democrazia, ecc. sarà fittissimo e produrrà un numero considerevole di teorici di grande rilievo: ad essi spetta il merito di aver diffuso su larga scala la teoria marxista e di avere reso cosciente un numero sempre maggiore di operai, soprattutto in quei paesi come Francia, Inghilterra e Germania, dove lo sviluppo dell’industria era più avanzato (vedi Internazionale). Tuttavia non mancarono discordanze, fino ad arrivare a vere e proprie deviazioni (vedi Revisionismo, Opportunismo, Deviazionismo) che sarebbero state fatali per il movimento della classe operaia se la Rivoluzione d’Ottobre e, prima, la sua preparazione e teorizzazione da parte di Lenin non avessero riproposto il pensiero marxista alla luce delle mutate condizioni storiche (vedi Leninismo, Imperialismo). Se i teorici della II Internazionale considerarono la rivoluzione come la conseguenza logica dello sviluppo storico, per Lenin essa si pose come una necessità immediata da realizzare nella Russia zarista, arretrata e semifeudale, come rivoluzione proletaria che accoglieva in sé gli elementi della rivoluzione democratico-borghese. Da queste premesse il partito assume, nella concezione leniniana, un ruolo determinante sia sul piano teorico che su quello pratico-organizzativo per la conquista e la costruzione del nuovo Stato socialista.
Anzitutto si presentò a Lenin il problema di come mantenere a un partito di massa la caratteristica di partito di classe, vale a dire di quale rapporto intercorresse tra spontaneità e coscienza (vedi Coscienza di classe). Si sa che per Lenin l’esperienza immediata all’interno della fabbrica del contrasto tra diritto dell’operaio e interesse del padrone non è di per sé in grado di fondare una reale coscienza di classe; essa deve andare oltre la specificità economica e penetrare nell’ambito dei rapporti politici e ideologici (vedi Ideologia): ma per arrivare a ciò è indispensabile l’apporto della teoria marxista.
Il partito si presenta appunto come il portatore «esterno» della coscienza di classe, come il mediatore fra teoria e movimento. La sua struttura deve essere perciò adeguata a questa funzione di «avanguardia della classe operaia», cioè di soggetto rivoluzionario (vedi Oggettivismo Soggettivismo): «Non c’è rivoluzione senza teoria rivoluzionaria, non c’è rivoluzione senza un partito che incarni la teoria nel movimento delle masse, diriga le masse, le organizzi, elabori una strategia e conduca una tattica».
La coscienza teorica così intesa è quindi il momento più elevato della coscienza di classe; ogni cedimento allo spontaneismo (vedi) è anche un indebolimento della capacità d’azione autonoma del proletariato. Ne deriva la necessità di una disciplina consapevole che consenta al partito di svolgere il suo ruolo direttivo e organizzativo e di mantenere il contatto permanente con le masse (vedi Centralismo democratico).
Ma il problema della rivoluzione è essenzialmente il problema dello Stato (vedi), della conquista e dell’organizzazione del potere:
«Educando il partito operaio, il marxismo educa un’avanguardia del proletariato, capace di prendere il potere e di condurre tutto il popolo al socialismo, capace di dirigere e di organizzare il nuovo regime, d’essere il maestro, il dirigente, il capo di tutti i lavoratori, di tutti gli sfruttati, nell’organizzazione della loro vita sociale senza la borghesia e contro la borghesia» (Lenin, Stato e Rivoluzione, p. 30).
Nelle specifiche condizioni russe la conquista del potere si presenta nel duplice aspetto di rivoluzione democratico borghese con tutti i problemi a ciò connessi – cioè la capacità del partito di utilizzare le istituzioni democratiche, di contrarre alleanze con i partiti democratici, di definire il rapporto operai-contadini – e di rovesciamento dello stato borghese per il dominio della classe operaia (vedi Dittatura del proletariato) fino all’estinzione dello Stato.
«La dottrina della lotta di classe, applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua dittatura, il potere cioè ch’esso non divide con nessuno e che si appoggia direttamente sulla forza armata delle masse» (Lenin, Stato e Rivoluzione, p. 29).
La teoria leniniana del partito influenzerà tutti i partiti comunisti posteriori. In Italia Gramsci approfondì i principi del leninismo in rapporto alla specifica situazione storica italiana, e, pur non conoscendo le opere giovanili di Marx, tra cui l’Ideologia tedesca, giunse a una formulazione analoga del ruolo dell’ideologia. Egli infatti individuò le peculiarità del dominio borghese non solo nel campo economico ma anche nella sovrastruttura, come ricerca del consenso a quei fattori ideologici che sono la base del potere, presentati come valori (vedi) assoluti. In questo senso si può dire che la borghesia tenda a una funzione egemonica totale nella società, alla quale la classe operaia può opporsi solo raccogliendo intorno a sé quelle forze che per ragioni sociali, ideali, culturali e storiche mirano a una trasformazione dello Stato e formando con esse un «blocco storico» (vedi) di opposizione rivoluzionaria. Il partito assume in questo contesto la speciale fisionomia di «intellettuale collettivo» (vedi), cioè di organizzazione capace di trasformare i «propri componenti, elementi di un gruppo sociale nato e sviluppatosi come economico, fino a farli diventare intellettuali politici qualificati».
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Pauperismo
Tendenza al peggioramento delle condizioni di vita di importanti settori della popolazione. L’analisi marxista del modo di produzione capitalistico mette in rilievo il collegamento esistente tra il fenomeno del pauperismo e il processo di sviluppo del capitale.
La stessa accumulazione originaria (vedi), oltre a essere contraddistinta dalla formazione di grandi masse di proletari, ha generato le condizioni per il verificarsi della forma capitalistica del pauperismo. Infatti la rapidità con cui avveniva l’espropriazione dei contadini era tale che una parte rilevante della popolazione non poteva essere inserita nella manifattura o nella nascente industria, che non erano ancora sufficientemente sviluppate, e restava così senza alcuna fonte di sostentamento. A questo proposito Marx osservava che la stessa legislazione inglese dell’epoca aveva dovuto implicitamente riconoscere il dilagare del pauperismo istituendo la tassa sui poveri e le leggi contro il vagabondaggio.
Il fatto che una parte del proletariato viva costantemente al di sotto del livello medio di sussistenza della stessa classe operaia rimane comunque una caratteristica pressoché costante nella società capitalistica, anche nelle fasi superiori del suo sviluppo. Infatti la stessa accumulazione capitalistica, cioè la riproduzione su scala sempre più allargata del rapporto capitalistico, dà luogo a una sproporzione tra domanda e offerta della forza-lavoro. L’esistenza di sovrappopolazione relativa, e quindi di una parte della popolazione più povera della stessa classe operaia, oltre ad essere il prodotto necessario dello sviluppo della ricchezza capitalistica è, secondo Marx,
«…addirittura una delle condizioni d’esistenza del modo di produzione capitalistico. Essa costituisce un esercito industriale di riserva disponibile che appartiene al capitale in maniera così completa comese quest’ultimo l’avesse allevato a sue proprie spese, e crea per i mutevoli bisogni di valorizzazione di esso il materiale umano sfruttabile sempre pronto, indipendentemente dai limiti del reale aumento della popolazione» (Il Capitale, libro I, p. 692).
Inoltre nei periodi di crisi l’offerta di forza-lavoro supera notevolmente la domanda e ciò comporta in primo luogo una diminuzione assoluta del prezzo della forza-lavoro stessa, e quindi del salario. In secondo luogo la distruzione di grandi forze produttive, che è il meccanismo specifico adottato dalla borghesia per superare i periodi di crisi, è principalmente espulsione dal processo produttivo dei lavoratori che erano occupati nel precedente periodo di espansione. Lo sviluppo che segue alle crisi gravi non permette in generale il reinserimento di tutti i lavoratori rimasti disoccupati, che vanno così a ingrossare le fila dell’«esercito industriale di riserva». Il pauperismo, e in particolar modo la disoccupazione e la formazione del sottoproletariato (vedi) sono, quindi, fenomeni endemici e ineliminabili nel modo di produzione capitalistico.
Considerando l’attuale fase di sviluppo del capitalismo risulta evidente che questo fenomeno ha assunto forme e caratteristiche ben diverse da quelle del pauperismo ottocentesco. Soprattutto in alcuni paesi industrializzati quello che viene chiamato il tenore di vita o il livello medio di sussistenza della popolazione nel suo complesso si è notevolmente elevato e il pauperismo sembra essere diventato un fenomeno marginale. Tuttavia sia la crescente sproporzione tra l’accumulazione della ricchezza capitalistica da un lato e il salario (vedi) reale dei lavoratori dall’altro, sia il permanere della disoccupazione, sia inoltre la suddivisione del mondo in aree «ricche» e in aree «povere», confermano l’analisi marxista che considera ineliminabile il pauperismo nella società capitalistica.
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Personalità
Il problema della personalità si è sviluppato nel corso della storia fino ad essere posto in due modi diversi, che rispecchiano anche l’ambito storico in cui sono nati. Il primo riguarda la personalità come individualità eccezionale, emergente nei confronti dei suoi simili e che esercita o sembra esercitare una notevole influenza sul processo storico; l’impostazione soggettivistica di una certa storiografia lega la personalità al concetto di «genio», di «eroe», e via dicendo. La seconda si connette alla problematica inerente i rapporti della persona umana, dell’individuo, con la società e con la storia.
Nel maoismo il concetto di personalità è visto criticamente; anche se il soggetto svolge, secondo Marx e Engels, una funzione attiva nella prassi storico-politica, le cause generali del processo storico non sono le azioni di questa o quella individualità, ma risiedono nello sviluppo delle forze produttive e nei rapporti che esso determina. Questo problema fu trattato specificatamente da Plechanov, teorico russo del marxismo della II Internazionale, sostenendo che le particolari individualità, poiché operano in un contesto sociale che è una struttura retta da precise leggi economico-sociali, non possono «agire» su tale contesto che entro margini ristretti e definiti, ossia «dove, quando e in quanto lo permettono i rapporti sociali»; non possono, in una parola, «fare la storia».
«L’uomo sociale crea i suoi rapporti, cioè i rapporti sociali. Ma se egli, in un momento dato, crea appunto tali e non tali altri rapporti, ciò non accade naturalmente senza ragione: ciò è determinato dallo stato delle forze produttive. Nessuno grande uomo può imporre alla società rapporti che non corrispondono più allo stato di queste forze o che non gli corrispondono ancora. In questo senso egli non può veramente fare la storia…» (Plechanov, La funzione della personalità nella storia, p. 88).
Il problema della persona umana, cioè del rapporto tra individuo e società, individuo e storia – centrale in alcune correnti filosofiche come ad esempio l’esistenzialismo – è stato affrontato, in misura assai limitata, dal marxismo nel senso di una definizione dell’ambito di autonomia in cui l’individuo, inteso come il prodotto dei rapporti di produzione, può manifestare la propria libertà:
«…il contributo originale del marxismo non consiste nell’aver svolto una propria concezione della autonomia della persona umana, ma nell’aver elaborato con mirabile coerenza una concezione delle leggi obiettive dello sviluppo storico la quale non esclude, anzi, al contrario, presuppone finalità coscienti nell’azione (…) degli individui. Questo è il significato profondo della visione materialistica della storia, esso dà fondamento a tutto il sistema di pensiero del socialismo scientifico» (Schaff, Il marxismo e la persona umana, p. 149).
Il marxismo è dunque ben lontano dalle ideologie borghesi della personalità, dalle illusioni sulla libertà dell’individuo e dal falso rispetto del singolo che le contraddistinguono. L’inconsistenza di queste posizioni, riflesso teorico delle vecchie forme concorrenziali del capitalismo, è provata nella pratica quotidiana del capitale monopolistico e della sua scienza economica, sociale e psicologica, tendente a livellare le personalità intorno a standard di consumo, di lavoro, di comportamento e di opinione politica elaborati in vista di più sicuri profitti.
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Pianificazione
Programma economico che regola l’attività di una singola azienda o di un settore imprenditoriale, attraverso una progettazione organica nel campo degli investimenti, della produzione e della distribuzione. In questo senso sono stati intesi come pianificazioni anche quei programmi economici che, all’interno del quadro capitalistico, tendevano a un sistema di interventi a livello politico ed economico attraverso un controllo e una direzione dello Stato sull’attività produttiva (vedi Capitalismo di Stato).
Per il marxismo la pianificazione è l’organizzazione razionale ed equilibrata di tutte le fasi del processo economico, basata sulla proprietà collettiva dei mezzi di produzione (vedi), all’interno dunque della trasformazione in senso socialista dei rapporti di produzione (vedi) e delle forme statali e istituzionali ad essi corrispondenti. In particolare si riferisce alla concreta esperienza di trasformazione della struttura economica realizzata in URSS attraverso i piani quinquennali, confermata nel secondo dopoguerra dall’esperienza originale cinese e degli altri paesi a democrazia popolare.
Le ragioni dell’impossibilità di subordinare a un piano l’economia capitalistica stanno proprio nelle sue leggi e nella sua logica, cui sono strutturali il fenomeno della crisi (vedi), della sovrapproduzione (vedi) e della disoccupazione: sia l’intervento statale, sia una programmazione della produzione e dei suoi obiettivi, non possono intaccare la base del sistema capitalistico, che è poi la ragione stessa dei suoi squilibri, cioè la divisione dei redditi basata sulla ripartizione della proprietà. Così il capitalismo non può sottomettere il flusso degli investimenti a un piano complessivo proprio perché il suo andamento è determinato principalmente dalla prospettiva – anzi dall’esigenza – del profitto che essi possono produrre.
All’interno dell’economia socialista, invece, la pianificazione ha una funzione logica: determinare qualitativamente e quantitativamente i bisogni sociali, sia quelli di consumo che quelli di investimento, nel quadro dell’organizzazione complessiva dello sviluppo economico e sociale in senso socialista. Nell’URSS dopo il 1929, alla Nuova Politica Economica (vedi Nep) seguì l’organizzazione dell’economia nei piani quinquennali, col programma di conseguire una rapida industrializzazione e la trasformazione generale della struttura sociale delle campagne attraverso la collettivizzazione dell’agricoltura e l’abolizione delle grandi aziende individuali. Si poneva al governo socialista il compito di superare l’arretratezza economica e industriale dell’URSS nei confronti dei paesi capitalistici. In particolare fu data la priorità allo sviluppo dell’industria rispetto all’agricoltura, e specialmente all’industria pesante rispetto a quella di beni di consumo. Si operò una rapida e forzata collettivizzazione agraria, attraverso l’unificazione delle piccole aziende contadine in grandi aziende collettive e la liquidazione della classe dei grandi proprietari terrieri.
I risultati del primo piano quinquennale e dei successivi furono contraddittori. A un effettivo sviluppo dell’industria pesante e alla scomparsa della disoccupazione, corrisposero una sotto- valutazione della produzione dei beni di consumo e una cronica arretratezza della produzione agricola, causata dall’utilizzazione del surplus (vedi) agricolo ottenuto con la collettivizzazione della terra a beneficio dello sviluppo accelerato dell’industria pesante. L’analisi delle contraddizioni del sistema sovietico di pianificazione rappresenta uno degli aspetti centrali del dibattito odierno sui problemi connessi alla transizione al socialismo e ai suoi modelli economici.
Le successive esperienze di costruzione del socialismo e in particolare quella cinese hanno indicato alcune linee su cui si sono orientati il dibattito e l’analisi. La difficoltà di una pianificazione razionale delle piccole unità produttive e decentrate rispetto ai grandi complessi industriali ha portato a una diversa e più equilibrata considerazione dei bisogni dei mercati locali e della possibilità di utilizzazione delle forze produttive (vedi). Il fatto che l’organizzazione della produzione attraverso un centro pianificatore portasse al prevalere dell’attenzione verso i suoi aspetti quantitativi rispetto a quelli qualitativi, e l’altro fatto che l’assortimento e la rispondenza del prodotto alle esigenze del mercato venissero sacrificati alla necessità di realizzare la quantità prefissata di produzione, condusse a un’articolazione più autonoma degli obiettivi a partire dal basso, cioè dalle fabbriche stesse, capace di ovviare allo spreco di materie prime e al basso grado di utilizzazione degli impianti. Lo squilibrio tra i diversi settori produttivi venne affrontato attraverso un nuovo rapporto tra agricoltura, industria pesante e industria leggera, ponendo «l’agricoltura come fattore base e l’industria come fattore guida» dell’economia. Soprattutto fu affrontato il problema della gestione tecnica e politica delle aziende, attraverso il progressivo superamento della figura del direttore unico e la stretta cooperazione tra quadri dirigenti, tecnici e operai.
La soluzione della complessità dei problemi relativi alla pianificazione non può trovarsi che all’interno della concreta esperienza di costruzione della società socialista e non sulla base di schemi astratti o di formule di principio.
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Piccola borghesia
Termine che indica genericamente gli strati sociali intermedi tra le due classi «pure» e contrapposte: il proletariato e la borghesia (vedi).
Nel Manifesto, dopo un brevissimo cenno al passato, la questione viene posta in questo modo:
«Nei paesi dove la civiltà moderna si è sviluppata, si è formata una nuova piccola borghesia, che oscilla tra il proletariato e la borghesia e si viene sempre ricostituendo come parte integrante della società borghese» (p. 56).
Ci si riferisce qui in concreto al socialismo piccolo-borghese (vedi Socialismo) i cui teorici criticavano il capitalismo dal punto di vista del «piccolo borghese e del piccolo possidente contadino» e assegnavano un ruolo sociale alla classe operaia dallo stesso punto di vista. In scritti posteriori al Manifesto, Marx e Engels trattarono più volte l’argomento definendo la piccola borghesia come «classe intermedia» in cui «si smussano» gli interessi delle due grandi classi contrapposte e che perciò si reputa, in generale, superiore alla loro lotta; i suoi rappresentanti parlano spesso di democrazia e di popolo in modo generico rivelando in ciò la particolare fisionomia della classe, la cui ossatura fu a lungo costituita essenzialmente da piccoli commercianti, negozianti al dettaglio, piccoli proprietari terrieri, lavoratori indipendenti.
Le diverse condizioni locali determinavano varietà e cambiamenti: così nelle Lotte di Classe in Francia la piccola borghesia nazionale, una delle sette classi allora identificabili in quel paese, è descritta in termini ben diversi dalla piccola borghesia tedesca studiata in Rivoluzione e controrivoluzione in Germania, paese nel quale coesistevano otto classi tra le quali, ancora economicamente e politicamente importante, la classe dei «proprietari feudali».
Oggi la definizione di piccola borghesia appare più incerta a motivo dei grandi cambiamenti sopravvenuti che hanno portato alla comparsa di nuovi strati sociali, ceti, frazioni di classe, ecc., le cui caratteristiche variano a seconda del grado di sviluppo economico-sociale e della situazione politica dei vari paesi; questa fluidità è, d’altra parte, un segno degli attuali conflitti e opposizioni che travagliano il modo di produzione capitalistico. La piccola borghesia nel senso tradizionale di classe dei piccoli proprietari e lavoratori indipendenti ha così perduto gran parte del suo peso economico e politico; eredi delle sue ideologie, in una situazione storica mutata, sembrano essere le classi medie sorte dalle esigenze, reali o fittizie, degli apparati industriali, finanziari e burocratici moderni.
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Pluralismo
Si intende per pluralismo il riconoscimento e l’accettazione dell’esistenza di componenti diverse della società, il loro diritto alla direzione della vita associata e il relativo diritto di espressione.
Nel linguaggio politico corrente è spesso usata l’accezione «pluralismo ideologico» o «pluralismo nel campo delle idee», per intendere il riconoscimento della validità della visione del mondo o della proposta politica espresse dai rappresentanti dei diversi interessi di classe. Una definizione onnicomprensiva del termine risulta tutt’altro che semplice, in quanto il suo significato viene spesso forzato per motivi polemici, in presunta opposizione talvolta a «totalitarismo» o a «intransigenza ideologica».
Da un punto di vista propriamente marxista il pluralismo nel significato di «mettere sullo stesso piano diverse concezioni, anche opposte» è stato sempre aspramente criticato, anche da Lenin, in quanto comporterebbe la rinuncia alla lotta ideologica contro le concezioni borghesi.
Oggi il termine è impiegato nel senso di apertura e disponibilità di confronto verso proposte diverse dalla propria che si propongono di risolvere problemi di interesse generale.
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Plusvalore
È il valore della forza-lavoro non retribuita di cui il capitalista si appropria nel processo di produzione.
«Il plusvalore consiste proprio nell’eccedenza della somma complessiva di lavoro incorporata nella merce rispetto alla quantità di lavoro pagato che la merce contiene» (Il Capitale, libro III, p. 68).
La forza-lavoro che il lavoratore vende come merce ha infatti la caratteristica particolare di produrre valore, ma il valore della forza-lavoro è determinato essenzialmente dalla quantità di lavoro necessaria per la sua conservazione e riproduzione, oltre che da altri fattori dipendenti dalle situazioni storiche concrete; se questo valore viene riprodotto, per esempio, in quattro ore di lavoro quotidiano, ma l’impiego della forza-lavoro viene prolungato per un totale di otto ore al giorno, si avranno quattro ore di pluslavoro che si traducono in una maggior quantità di prodotto (plus-prodotto o sovraprodotto) e quindi in plusvalore.
Il plusvalore è dunque il valore del pluslavoro, cioè del lavoro compiuto in più dal lavoratore oltre a quello che corrisponde al valore del salario. La distinzione tra capitale costante e capitale variabile permette di calcolare il saggio del plusvalore e, di più, permette di comprendere meglio cosa sia la giornata lavorativa: è infatti intorno alla sua durata e all’intensità del suo sfruttamento che si esercita concretamente il potere politico del capitalismo attraverso lo Stato, cioè mediante la legislazione sul lavoro. Qui dunque si manifesta lo scontro di classe; qui risulta evidente che lo scopo delle minuziose analisi dei fenomeni economici non è semplicemente la costruzione di una teoria economica più coerente e precisa, ma il punto di partenza per la lotta contro le pratiche di sfruttamento nei luoghi di lavoro e la loro legalizzazione da parte dello Stato.
Si possono individuare due diversi modi di appropriazione di plusvalore. In primo luogo il capitalista può appropriarsi di plusvalore attraverso un prolungamento della giornata lavorativa oltre il tempo limite entro il quale la forza-lavoro produce il suo valore (tempo di lavoro necessario), in modo che si realizzi un pluslavoro (tempo di pluslavoro). Il plusvalore che il capitalista accumula in questo modo viene chiamato da Marx plusvalore assoluto, perché è dato dall’aumento assoluto della durata della giornata lavorativa. Questo è anche il primo modo storicamente verificatosi.
In secondo luogo il capitalista può appropriarsi di plusvalore attraverso la diminuzione, all’interno della giornata lavorativa stessa, del tempo di lavoro necessario e quindi un aumento del tempo di pluslavoro. Ciò avviene in seguito all’aumento della forza produttiva o, per usare un termine corrente, della produttività del lavoro. Questo è divenuto il modo prevalente da quando, in seguito alle lotte della classe operaia, è stata introdotta per legge una durata massima della giornata lavorativa. Il plusvalore che il capitalista accumula in questo modo viene chiamato da Marx plusvalore relativo, cioè dovuto a una diminuzione relativa del tempo entro il quale il lavoratore riproduce il valore della propria forza-lavoro.
«Chiamo plusvalore assoluto il plusvalore prodotto mediante prolungamento della giornata lavorativa; invece, chiamo plusvalore relativo il plusvalore che deriva dall’accorciamento del tempo di lavoro necessario e dal corrispondente cambiamento nel rapporto di grandezza delle due parti costitutive della giornata lavorativa» (ivi, libro I, p. 354).
L’analisi del plusvalore è uno dei punti centrali della ricerca scientifica svolta da Marx. La scoperta dello stretto rapporto che intercorre tra lavoro e valore e, rispettivamente, tra pluslavoro e plusvalore è stata definita da Lenin come «la pietra angolare della teoria economica di Marx».
Ne Il Capitale Marx non solo individua i modi specifici di produzione e di appropriazione da parte dei capitalisti del plusvalore, ma mostra come la produzione di plusvalore sia «motivo diretto e scopo determinante della produzione capitalistica». Infatti la condizione essenziale per il verificarsi della stessa accumulazione del capitale è la disponibilità di plusvalore nelle mani dell’imprenditore.
Il saggio del plusvalore, cioè il rapporto tra il plusvalore ottenuto e il capitale variabile anticipato in salari, esprime il grado di sfruttamento della forza-lavoro:
«Il grado di sfruttamento determina l’ammontare del saggio del plusvalore e, data la massa complessiva del capitale variabile, determina l’ammontare del plusvalore e quindi del profitto» (ivi, libro III, p. 241).
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Politica
La concezione materialistica della storia (vedi Materialismo storico) e della società intende la politica soprattutto come lotta fra le classi.
Nella società capitalistica la formazione di due grandi classi antagonistiche, la borghesia e il proletariato, lo sviluppo di istituzioni statali molto complesse e, in generale, l’estensione e l’approfondimento dei rapporti sociali, hanno condotto alla nascita e alla proliferazione di concezioni che affrontano i problemi dei rapporti tra gli uomini principalmente sotto il profilo politico. Esse cioè interpretano le diverse fasi storiche e formulano dei programmi indicando degli obiettivi e degli strumenti per determinare, in senso favorevole all’una o all’altra classe, gli ulteriori sviluppi economici, sociali e istituzionali.
La formazione dei grandi partiti (vedi) politici moderni è infatti dovuta in primo luogo all’adesione di masse più o meno considerevoli ai programmi e alle prospettive politiche formulati in corrispondenza agli interessi delle classi in lotta fra loro. Il movimento operaio ha elaborato i suoi programmi e metodi di lotta politica mettendo soprattutto in evidenza lo stretto collegamento che sussiste fra interessi economici e prospettive politiche. In ciò la strategia (vedi) del movimento operaio differisce anche dal punto di vista del metodo politico dalle concezioni borghesi: infatti essa fa esplicito riferimento agli interessi economici delle classi sfruttate e non cerca affatto di nascondere e mistificare questi interessi, caratteristica propria invece delle teorie politiche borghesi. Già Marx ed Engels, nel concludere il Manifesto del Partito comunista, affermano che i comunisti nella loro lotta
«…mettono avanti sempre la questione della proprietà, abbia essa raggiunto una forma più o meno sviluppata, come la questione fondamentale del movimento (…) I comunisti sdegnano di nascondere le loro opinioni e le loro intenzioni» (Manifesto, p. 67).
Inoltre l’analisi marxista del modo di produzione capitalistico fornisce alla classe operaia uno strumento teorico infinitamente più esatto di quanto non siano le ideologie politiche di orientamento borghese: analisi che consente l’elaborazione di una strategia che riesca a individuare le linee di tendenza dello sviluppo generale dell’intera società capitalistica. E’ adottando un metodo di analisi marxista, che Lenin fu in grado di preparare nel corso stesso della rivoluzione un programma e un’organizzazione del partito bolscevico che corrispondesse sostanzialmente alle esigenze poste dalle diverse fasi di sviluppo del processo rivoluzionario. Criticando la ristrettezza delle concezioni borghesi della politica, egli afferma:
«Nella concezione borghese del mondo la politica è stata come separata dall’economia. La borghesia diceva: contadini, lavorate per procurarvi i mezzi di sussistenza; operai, lavorate per procurarvi sul mercato quanto vi è indispensabile per vivere; ma lasciate che siano i vostri padroni a occuparsi della politica economica! Ma le cose non stanno così, la politica deve essere opera del popolo, deve essere opera del proletariato. Ed è qui necessario sottolineare che i nove decimi del nostro tempo e della nostra attività sono dedicati alla lotta contro la borghesia» (Lenin, Discorso alla conferenza panrussa dei comitati per l’istruzione politica, in Opere scelte, vol. unico, p. 650).
L’esperienza storica del movimento operaio internazionale nella lotta contro il fascismo (vedi) ha permesso un ulteriore approfondimento della concezione scientifica della politica, iniziata da Marx ed Engels; uno dei tratti caratteristici è costituito dallo stretto rapporto individuato tra coscienza di classe e sviluppo dell’organizzazione politica in senso stretto (vedi Centralismo democratico). Gramsci ha affrontato questo problema soprattutto riferendosi alla funzione di direzione complessiva che il partito della classe operaia deve essere in grado di sviluppare (vedi Egemonia), giungendo a formulare una concezione del partito politico come intellettuale collettivo (vedi).
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Populismo
Storicamente è il movimento rivoluzionario sorto in Russia con l’abolizione della servitù (1861), quando ampi strati di popolazione contadina entrarono nella lotta politica, da cui fino allora erano stati esclusi.
Questo movimento, che durò fino alla rivoluzione, ebbe come base l’obscina (comunità agricola di famiglie della stessa origine) e fu contrario sia alla burocrazia di tipo zarista che all’industrialismo occidentale; riteneva inoltre che i contadini e non il proletariato fossero la principale forza rivoluzionaria. Largamente influenzato dalle idee socialiste, si fece promotore principalmente della rivendicazione di una gestione collettiva della terra e di un’organizzazione statale alternativa a quella autocratica allora esistente. Significativa fu l’adesione di intellettuali e la formazione di gruppi politici che svolgevano attività di propaganda e di organizzazione, i cui membri spesso appartenevano a classi sociali elevate.
Il massimo esponente del populismo fu N. Cernyševskij, il quale sosteneva, fra l’altro, la necessità che la cultura fosse al servizio del popolo. Leone Tolstoj aderì sostanzialmente a queste idee e le espresse nei suoi romanzi.
Il fermento politico e intellettuale prodotto dal movimento e la vasta e capillare opera di propaganda costituirono una delle basi da cui iniziò l’organizzazione di un movimento socialista di carattere marxista in Russia. Lo stesso Plechanov, che fu tra i principali divulgatori del marxismo sovietico, aderì in un primo momento all’organizzazione populista, che allora era più consistente. Ricorda Lenin:
«All’inizio del primo periodo la dottrina di Marx non predomina affatto, essa non rappresenta che una delle frazioni o correnti straordinariamente numerose del socialismo. Predominano invece quelle forme di socialismo che, in sostanza, sono apparentate al nostro populismo».
L’incomprensione del ruolo fondamentale della classe operaia nel processo rivoluzionario portò tuttavia ben presto i populisti su posizioni arretrate rispetto alle necessità storiche. Contribuì alla decadenza del movimento la brutale repressione dello zarismo, che si abbatté soprattutto sulla corrente «nichilista».
Il movimento marxista in Russia, pur riconoscendo il carattere sostanzialmente progressista del populismo, ne criticò aspramente gli errori politici e organizzativi, sostituendo alle forme di primitiva organizzazione dei contadini un saldo movimento imperniato sul proletariato industriale che seppe del resto suscitare consensi tra gli stessi contadini.
Attualmente il termine viene usato in senso dispregiativo per indicare coloro che «vanno verso il popolo» senza partecipare realmente alle sue lotte.
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Positivismo
Indirizzo filosofico sviluppato dal filosofo francese Auguste Comte, a partire dal 1830, sulla base di un esame critico dello sviluppo della scienza e della tecnica, attorno ai problemi conoscitivi e di metodo che esse presentavano in rapporto agli altri ambiti del sapere.
Il punto di partenza di Comte è l’assunzione delle scienze naturali come fonte privilegiata di conoscenza, e del fatto empirico e delle sue leggi come i soli dati positivi su cui sviluppare l’attività umana razionale. Con questa affermazione il positivismo respingeva integralmente tutta la tradizione filosofica idealistica (vedi Idealismo) e ogni pretesa metafisica di indagine che superasse l’oggettività dei fatti e dei fenomeni. Veniva fondata una filosofia che trovava la sua funzione nell’accogliere e mettere in collegamento i risultati delle scienze. Suo oggetto di indagine è quello stesso delle scienze, visto però nell’unità organica di tutti i fenomeni della natura e ponendo le scienze all’interno del movimento storico dello sviluppo del pensiero umano, che fornisce proprio alla ricerca scientifica il suo significato reale e razionale.
Se le scienze hanno il compito non di rispondere alle astratte domande della metafisica, ma di spiegare i fenomeni, attraverso la previsione delle loro manifestazioni, la filosofia positiva, mediante una nuova concezione del sapere e della storia, fonda su di esse il progresso dell’umanità e la realizzazione di una scienza generale della società che Comte chiama sociologia (vedi). Sulla base di una classificazione delle scienze che mostri la connessione delle varie discipline all’interno del processo unitario del pensiero umano, Comte giungeva a delineare una «legge dei tre stadi», che segnava le linee di progresso dell’umanità e dei suoi sistemi intellettuali, secondo tre caratteri distinti e successivi:
«il carattere teologico, il carattere metafisico e il carattere positivo o fisico. Così l’uomo ha cominciato a concepire i fenomeni di tutti i generi come dovuti alla influenza diretta e continua di agenti sovrannaturali; li ha poi considerati come prodotti da diverse forze astratte inerenti ai corpi, (…) infine si è limitato a considerarli come sottoposti a un certo numero di leggi naturali invariabili che non sono altro che l’espressione generale delle relazioni osservate nel loro sviluppo» (Comte, Opuscoli di filosofia sociale; considerazioni filosofiche sulle scienze e gli uomini di scienza, p. 181).
Il positivismo ha rappresentato una delle correnti più importanti nella filosofia del sec. XIX, di cui influenzò molta parte degli sviluppi, soprattutto nel campo dell’indagine sulle scienze. Più che gli specifici risultati del pensiero comtiano, i suoi principi essenziali divennero l’orientamento prevalente non solo in filosofia ma nell’intero ambito della cultura per tutto l’Ottocento. La funzione antimetafisica delle scienze, l’accettazione dei risultati scientifici come condizione per lo sviluppo progressivo del sapere, l’estensione del metodo scientifico, come unico valido per la conoscenza della realtà: le discipline sociali vennero poste alla base di filosofie che per altri versi pure erano tra di esse completamente diverse.
Il pensiero positivista rispondeva alle esigenze tecnico-industriali del mondo capitalistico nella sua più piena e ottimistica espansione. Collegandosi con il grande sviluppo delle scienze e della tecnica, esso rappresentava l’ultima espressione di quella forma razionalistica e universalistica con cui il pensiero borghese si era realizzato nel secolo precedente attraverso l’illuminismo (vedi). L’assunzione acritica delle leggi scientifiche, l’estensione meccanica dei suoi caratteri a tutta la cultura, la visione ingenua di una scienza che, ritenendo come assoluti i suoi risultati, potesse dare soluzione a tutti i problemi dell’uomo, portò tuttavia il positivismo verso una degenerazione meccanicistica (vedi Meccanicismo), fondata su generalizzazioni astratte e dogmatiche.
L’influenza positivistica in campo letterario e artistico, se nasceva con l’intenzione di un’attenzione fedele alla realtà sociale e naturale, si risolse nella riproduzione acritica e banale della realtà, priva di un’interpretazione soggettiva e creativa. L’accoglimento dei temi dell’evoluzionismo (vedi) non giovò al positivismo, ma anzi ne accentuò, in particolare nell’opera dell’inglese Spencer, gli aspetti deterministici e meccanici. Anche il marxismo ne fu gravemente influenzato nelle sue espressioni politiche e teoriche, cadendo nell’incomprensione e nella negazione della dialettica (vedi).
La crisi del meccanicismo nelle scienze e la crisi del liberismo economico (vedi) preparò nell’ambito della cultura e della filosofia quella reazione al positivismo che, nei primi decenni del ’900, fece riemergere le istanze spiritualistiche e irrazionalistiche che, contro l’esaltazione positivistica delle scienze, ne negavano totalmente il valore conoscitivo e critico. Ciononostante il positivismo non cessò di essere un punto di riferimento in filosofia. La validità di alcune sue esigenze fu riflessa negli sviluppi di alcuni indirizzi contemporanei e in particolare del neopositivismo e del pragmatismo che al positivismo fecero esplicito riferimento, sia pure in modo critico.
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Prassi o Pratica
Nel senso più generale la pratica o la prassi è l’attività materiale di trasformazione della realtà, come distinta o separata dall’attività intellettuale e in particolare dalla teoria (vedi). Marx, soprattutto nella sua critica all’ideologia (vedi) e alla filosofia (vedi), ha sviluppato una concezione dei rapporti che intercorrono fra prassi e teoria e della funzione della prassi, radicalmente contrastante con le interpretazioni che l’idealismo (vedi) e il materialismo meccanicistico del ’700, e lo stesso materialismo di Feuerbach, che egli definisce «ingenuo», avevano dato di questi problemi.
Secondo l’analisi di Marx l’origine della separazione fra attività manuale, pratica, e attività intellettuale, teorica, è da ricercarsi non esclusivamente in una differenza naturale tra questi due aspetti dell’attività umana, ma nel processo storico che, attraverso la divisione del lavoro (vedi), ha approfondito la distinzione tra il ruolo della teoria e quello, ad esso contrapposto, della prassi, che appare così privo di qualsiasi funzione conoscitiva. Nella società capitalistica questa separazione si presenta nel suo massimo approfondimento: prassi è solo appropriazione e trasformazione degli oggetti materiali e teoria è solo comprensione e ragionamento; la teoria sembra avere in se stessa la sua origine e la sua completezza, e la prassi non ha apparentemente alcun collegamento con essa.
La concezione materialistica e dialettica della prassi e della sua funzione trae origine dalla negazione di questa astratta e schematica separazione, e afferma la necessità storica di una riunificazione di prassi e teoria sia come attività umana in generale che come lavoro manuale e comprensione teorica. Questa concezione della pratica assume come fondamento la realtà materiale e storica in cui gli uomini sono inseriti. Nelle Tesi su Feuerbach Marx chiarisce in forma estremamente sintetica (questi scritti erano appunti personali) alcuni aspetti del superamento critico della concezione di Feuerbach, che a sua volta costitutiva un tentativo di critica all’idealismo hegeliano. Queste «tesi» sono prevalentemente dedicate al problema della pratica. Nell’VIII viene affermato:
«Tutta la vita sociale è essenzialmente pratica. Tutti i misteri che trascinano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella prassi umana e nella comprensione di questa prassi» (in Opere, V, p. 5).
Uno dei punti centrali dell’interpretazione marxista della pratica è infatti l’affermazione materialistica della superiorità, della priorità, del momento concreto di trasformazione del mondo su quello della semplice interpretazione teorica. Questa priorità della prassi tuttavia nel marxismo non dà luogo in alcun modo a quello che viene comunemente inteso come pragmatismo, cioè a una svalutazione complessiva della teoria e alla negazione, in definitiva, della necessità della comprensione teorica. Inoltre, essendo la pratica per sua natura sociale, essa resta incomprensibile qualora venga considerata come fenomeno puramente individuale: deve dunque essere compresa all’interno dei rapporti sociali in cui essa si svolge. Il lavoro umano risulta così il fondamento materiale di tutta la società e quindi la pratica sociale è il fondamento anche della teoria che non viene più intesa come attività separata, ma come un’attività che acquista il suo pieno significato solo nel suo rapporto con la prassi:
«La questione se al pensiero umano spetti una verità oggettiva, non è questione teorica bensì una questione pratica. Nella prassi l’uomo deve provare la verità, cioè la realtà e il potere, il carattere immanente del suo pensiero. La disputa sulla realtà o non-realtà del pensiero – isolato dalla prassi – è una questione meramente scolastica» (ivi, II Tesi, p.4).
Infatti la prassi in quanto realizzazione della teoria può essere intesa come criterio della verità o falsità di una teoria. Lenin riprendendo e sviluppando sia le considerazioni svolte da Marx nelle Tesi su Feuerbach, che quelle di Engels in Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, affronta nella sua opera Materialismo ed empiriocriticismo il problema del rapporto tra pratica e conoscenza scientifica, affermando che il materialismo dialettico (vedi) è la concezione che meglio si adegua all’effettivo sviluppo delle scienze proprio perché collega strettamente la pratica e la teoria, garantendo attraverso il «criterio della pratica» di evitare il rischio di cadere nel dogmatismo (vedi):
«Il punto di vista della vita, della pratica, dev’essere il punto di vista primo e fondamentale della teoria della conoscenza (…) Certo, non si deve dimenticate che il criterio della pratica, in sostanza, non può mai confermare o confutare completamente una rappresentazione umana qualunque essa sia. Anche questo criterio è talmente «indeterminato» da non permettere alle conoscenze dell’uomo di trasformarsi in un «assoluto»; ma nello stesso tempo è abbastanza determinato per permettere una lotta implacabile contro tutte le varietà dell’idealismo e dell’agnosticismo. Se ciò che la nostra pratica conferma è la verità obiettiva, unica, finale, ne deriva l’ammissione che l’unica via che conduce a questa verità è la via della scienza che si mette dal punto di vista del materialismo» (Lenin, Materialismo ed empiriocriticismo, pp. 130-131).
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Prefigurazione
Con questo termine si intende la capacità o la possibilità di una teoria (vedi) di operare, attraverso l’analisi e il giudizio sul presente, una previsione e una rappresentazione di eventi che si attueranno, o per la cui realizzazione si opera.
In particolare per il marxismo il termine rimanda direttamente al legame fra teoria e pratica (vedi) e cioè alla capacità da parte di un soggetto politico di creare, attraverso l’analisi teorica dei presupposti, dei processi e delle potenzialità concrete di una situazione storica, le condizioni pratiche del suo superamento (vedi Dialettica). Ad esempio la critica di Marx all’economia politica borghese prefigura il rovesciamento dei rapporti di produzione capitalistici e l’instaurazione del socialismo.
Nel pensiero gramsciano il termine assume un significato originale e specifico, indicando la necessità e la possibilità da parte dei comunisti di operare politicamente e culturalmente per la creazione – già all’interno della società borghese – di valori, comportamenti ed embrioni di una nuova cultura che prefigurino quelli comunisti, tali cioè da preparare, attraverso un progetto egemonico, al contempo il rovesciamento dei modelli culturali del capitalismo e l’«abitudine» ai nuovi valori e a una pratica diversa nel rapporto fra gli uomini.
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Prezzo
È il nome in denaro (vedi) del valore di una merce (vedi). In altri termini il prezzo è la rappresentazione di una merce nella forma di un equivalente generale, cioè di una merce che possa essere immediatamente scambiata, in quantità determinate, con tutte le altre. Secondo Marx:
«Il prezzo, ossia la forma di denaro delle merci, è, come la loro forma di valore in generale, una forma distinta dalla loro forma corporea tangibilmente reale, quindi è solo forma ideale, ossia rappresentata» (Il Capitale, libro I, p. 128).
Infatti i prezzi possono essere considerati come espressione della quantità di denaro necessaria per acquistare una merce. Marx mette in rilievo la possibilità di una incongruenza quantitativa fra grandezza di valore e prezzo di una merce prodotta capitalisticamente, tuttavia il fatto che questa incongruenza si verifichi non è un difetto della forma di prezzo, «anzi al contrario ne fa la forma adeguata d’un modo di produzione nel quale la regola si può far valere soltanto come legge della sregolatezza, operante alla cieca». Inoltre Marx mostra l’infondatezza delle concezioni che fanno derivare il plusvalore da una disparità tra prezzo e valore delle merci, come se il plusvalore derivasse esclusivamente dalla sfera della circolazione in particolare dalla vendita delle merci a un prezzo superiore al loro valore.
Il prezzo di costo di una merce prodotta è costituito dalla somma del capitale costante (vedi) e capitale variabile impiegati nella sua produzione. È quindi inferiore al valore della merce prodotta che invece è dato da tale somma più il plusvalore. La trasformazione del plusvalore in profitto (vedi) nel momento della vendita della merce si realizza quindi anche se la merce prodotta viene venduta al di sotto del suo valore, a condizione che sia venduta a un prezzo superiore al prezzo di costo.
Il prezzo di produzione è, invece, la somma di prezzo di costo e profitto medio (vedi Profitto). A un grado notevole di sviluppo del modo di produzione capitalistico i prezzi delle merci risultano apparentemente come determinati dal loro prezzo di produzione:
«Il prezzo di produzione contiene il profitto medio (…) quegli stessi economisti, i quali non ammettono che il valore delle merci sia determinato dal tempo di lavoro, dalla quantità di lavoro che esse contengono, parlano sempre dei prezzi di produzione come di centri attorno ai quali oscillano i prezzi di mercato. Essi se lo possono permettere perché il prezzo di produzione è già una forma del tutto esteriore e prima facie [al primo aspetto] vuota del contenuto del valore, una forma che appare nella concorrenza, nella coscienza del capitalista volgare e per conseguenza può essere presente anche nell’economista volgare» (ivi, libro III, p. 242).
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Produttivismo
Concezione secondo la quale il momento tecnico e quantitativo della produzione viene privilegiato rispetto all’elemento umano e sociale presente nell’organizzazione del lavoro.
Nella società capitalista, al fine di raggiungere la più alta produttività possibile in tempi e costi minori, e quindi per l’accumulazione di sempre maggior profitto, il produttivismo tende a usare ogni innovazione tecnica e a trovare sempre nuovi metodi di lavorazione, spesso a scapito delle condizioni fisiche e psicologiche del lavoratore.
È un fenomeno tipico della società americana; si manifesta accanto al consumismo come negazione o appiattimento della personalità stessa dei lavoratori, anche se è spesso stato presentato come presupposto del mito del benessere.
Una delle forme di produttivismo esasperato della società americana è il taylorismo, dal nome del Taylor che per primo pensò alla razionalizzazione del lavoro e alla sua suddivisione tramite programmazioni scientifiche, per aumentare la produzione. Del taylorismo Gramsci scrive:
«Il Taylor esprime con cinismo brutale il fine della società americana: sviluppare nel lavoratore al massimo grado gli atteggiamenti meccanici ed automatici, spezzare il vecchio nesso psicologico del lavoro professionale qualificato che domandava una certa partecipazione attiva dell’intelligenza, dell’iniziativa, della fantasia del lavoratore e ridurre le operazioni produttive al solo aspetto fisico macchinale» (Quaderni del Carcere, p. 2116).
Anche nelle società socialiste possono verificarsi casi di produttivismo quando il raggiungimento dell’obiettivo produttivo venga anteposto all’organizzazione sociale del lavoro.
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Profitto
È il plusvalore considerato come parte del valore complessivo della merce in cui è incorporato il pluslavoro. La distinzione tra profitto e plusvalore è necessaria innanzitutto perché il primo «non viene intascato tutto dall’imprenditore capitalista» mentre il secondo è da questi «spremuto direttamente dall’operaio». Si consideri l’esempio comunissimo di un imprenditore che paghi l’affitto del terreno sul quale è posta la sua fabbrica e, nel contempo, si sia fatto prestare una certa somma di denaro da un altro capitalista o abbia da pagare macchine e materie prime ad altri, il che, nei limiti di questo esempio, è lo stesso. Quando egli si sia impossessato di un plusvalore di cento milioni, ne dovrà sborsare, poniamo, dieci per l’affitto del terreno e trenta per gli interessi. Il suo profitto sarà di sessanta milioni contro un plusvalore di cento milioni prodotto dalla forza-lavoro da lui comperata. Ecco quindi che:
«Rendita fondiaria, interesse e profitto industriale sono soltanto nomi diversi per diverse parti del plusvalore della merce, o del lavoro non pagato in essa contenuto, e scaturiscono in ugual modo da questa fonte e unicamente da questa fonte. Essi non derivano dal suolo come tale o dal capitale come tale; ma suolo e capitale danno la possibilità ai loro proprietari di ricevere la loro parte rispettiva del plusvalore che l’imprenditore capitalista spreme dall’operaio» (Marx, Salario, prezzo e profitto, pp. 67, 68).
Le interpretazioni borghesi dell’economia politica usano in generale esclusivamente il termine «profitto» per indicare il cosiddetto «guadagno dell’imprenditore»: cosi il profitto perde qualunque rapporto con il plusvalore, in quanto viene calcolato detraendo dal prezzo di vendita della merce il suo prezzo di costo, determinato non già come somma del capitale costante e del capitale variabile impiegati nella produzione, ma come somma di capitale fisso e circolante. Occorre anzitutto notare che nel cosiddetto capitale circolante, ad esempio, è contenuto non solo il valore dei salari ma anche il valore delle merci utilizzate nella produzione: «Il profitto, quale ci appare qui è dunque la stessa cosa che il plusvalore, soltanto in una forma mistificata, che per altro sorge necessariamente nel modo capitalistico di produzione».
Il profitto può anche essere considerato come la realizzazione del valore del plusprodotto (vedi Plusvalore). Anche da questo punto di vista può evidentemente sorgere una differenza quantitativa tra plusvalore e profitto, poiché il prezzo a cui viene venduta la merce prodotta può subire notevoli variazioni determinate dalla concorrenza e da altri fattori. Infatti il prodotto può essere venduto al di sopra o al di sotto del suo valore; in quest’ultimo caso il profitto che ne trae il capitalista è soltanto una parte del plusvalore di cui si è appropriato. Ma la restante parte di plusvalore viene anch’essa immessa nella circolazione come profitto del compratore, che ha comprato la merce al di sotto del suo valore reale.
«Se dunque la merce è venduta al suo valore, si realizza un profitto che è pari all’eccedenza del valore rispetto al prezzo di costo, vale a dire all’intero plusvalore incorporato nel valore della merce. Ma il capitalista può vendere la merce con profitto, anche se la vende a meno del suo valore. Fintanto che il prezzo di vendita, pur essendo inferiore al valore, supera il prezzo di costo, si realizza pur sempre una parte del plusvalore contenuto nella merce, vale a dire si determina pur sempre un profitto» (Il Capitale, libro III, p. 63).
Nell’analisi del profitto e del saggio del profitto (vedi) Marx mette in particolare rilievo il processo di trasformazione del profitto in profitto medio, e del saggio del profitto in saggio medio del profitto o saggio del profitto medio. I capitoli dedicati a questo problema sono molto complessi; si possono tuttavia riassumere molto brevemente alcuni aspetti essenziali. Considerando un singolo settore produttivo, i capitalisti che impiegano capitali della stessa grandezza ottengono approssimativamente lo stesso profitto. Infatti, nonostante il fatto che i profitti dovrebbero essere diversi nella misura in cui il plusprodotto sia costituito di merci di valore diverso, la concorrenza tra i capitalisti dello stesso settore li costringe a vendere i loro prodotti ai prezzi di mercato, che non permettono di realizzare interamente il valore del plusprodotto di cui sono proprietari. I loro profitti vengono livellati attorno a una media dalla concorrenza nella vendita delle merci.
Anche considerando i diversi settori produttivi la concorrenza fa sì che la proporzione di profitto ottenibile con capitali uguali oscilli intorno a una media. Infatti, anche se nei settori produttivi in cui la composizione organica del capitale (vedi) richiesto per la produzione è inferiore dovrebbero venire realizzati profitti superiori, nel concreto sviluppo della società capitalistica i capitalisti, proprio perché impiegano i loro capitali principalmente dove esiste la possibilità di ottenere maggiori profitti, a lungo andare provocano le condizioni di una sovrapproduzione e i prezzi delle merci prodotte in quei settori diminuiscono, e quindi i loro profitti tendono a ritornare ai valori medi degli altri settori produttivi. In una fase avanzata di sviluppo del modo di produzione capitalistico la stessa quantità di capitale impiegata in settori diversi, uguale rimanendo il saggio del plusvalore e il tempo di rotazione del capitale (vedi), dà origine a profitti sostanzialmente uguali.
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Proletariato
Storicamente il proletariato moderno è andato costituendosi durante lo sviluppo dell’economia capitalistica tra il XVI e il XVIII secolo, quando l’industria manifatturiera (vedi Manifattura) si sostituì alla produzione artigianale individuale: nell’impossibilità di reggere alla concorrenza, gli artigiani furono costretti a separarsi dai propri mezzi di lavoro e a vendersi come semplice forza-lavoro; parimenti i proprietari di piccoli appezzamenti di terreno, costretti a lasciare la campagna, si vendevano come forza-lavoro al proprietario della manifattura.
La prima definizione del proletariato è dunque quella di essere, nel sistema di produzione capitalistico, la classe produttrice che non possiede i mezzi di produzione e che di conseguenza vende la propria forza-lavoro.
Con la trasformazione della manifattura in grande industria (vedi) mediante l’introduzione delle macchine, il proletariato subisce un’ulteriore dequalificazione e arretramento: la fabbrica è il luogo della completa sottomissione del lavoro al dominio del capitale; non solo i mezzi di produzione (vedi) non appartengono all’operaio, ma anche l’organizzazione, gli scopi e il prodotto del suo lavoro gli sono ignoti e, per dirla con Marx, «estranei» (vedi Estraniazione).
«Il lavoro dei proletari, con l’estendersi dell’uso delle macchine e con la divisione del lavoro ha perduto ogni carattere d’indipendenza e quindi ogni attrattiva per l’operaio. Questi diventa un semplice accessorio della macchina, un accessorio da cui non si chiede che un’operazione estremamente semplice, monotona, facilissima ad imparare» (Manifesto, p. 34).
Tuttavia questa condizione di massima degradazione dell’uomo reca in sé i segni storici del suo riscatto: quanto più la fabbrica livella e riduce a oggetti gli operai, tanto più questi prendono coscienza dapprima della propria forza numerica, quindi, organizzandosi, della propria forza politica, infine del proprio ruolo storico. Questo è del resto insito nel processo produttivo stesso: il proletariato è infatti l’unica classe della storia la cui emancipazione sia legata alla fine della divisione in classi della società; in altre parole, come dice Marx, «Di tutte le classi che si contrappongono oggi alla borghesia solo il proletariato costituisce una classe realmente rivoluzionaria».
La storia dei paesi ad alto sviluppo capitalistico sembra smentire questa funzione del proletariato, le cui caratteristiche socio-economiche sono assai mutate; ma è necessario tener presente che l’epoca attuale è quella dell’imperialismo e che lo scontro di classe, come dice Lenin, non può essere visto solo nell’ambito delle singole nazioni, ma su scala mondiale, anche come lotta contro un «pugno di paesi progrediti» che opprimono la stragrande maggioranza della popolazione del mondo.
Il grande merito di Marx e di Engels davanti al proletariato di tutto il mondo, scriveva Lenin, si può cosi riassumere: insegnarono al proletariato a conoscere se stesso, a trovare la propria coscienza, ad abbandonare le illusioni per mettere al loro posto la scienza. In queste poche parole è tracciato il rapporto tra il marxismo e il proletariato: l’uno è la «coscienza teorica» dell’altro, il sapere di cui la classe si appropria, la conoscenza scientifica che guida l’azione rivoluzionaria.
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Proletarizzazione
È il processo attraverso il quale coloro che appartengono a classi e ceti diversi entrano a far parte del proletariato.
Il termine viene talvolta usato anche per indicare la genesi del proletariato moderno, cioè la perdita dei mezzi e delle condizioni di lavoro dei lavoratori indipendenti durante il periodo dell’accumulazione originaria (vedi). Nell’epoca dominata dal modo di produzione capitalistico accade che
«Quelli che furono sinora i ceti medi, i piccoli industriali, negozianti e la gente che vive di piccola rendita, gli artigiani e gli agricoltori, tutte queste classi sprofondano nel proletariato, in parte perché il loro esiguo capitale non basta all’esercizio della grande industria e soccombe quindi nella concorrenza coi capitalisti più grandi, in parte perché le loro attitudini perdono il loro valore in confronto coi nuovi modi di produzione. Così il proletariato si recluta da tutte le classi della popolazione» (Manifesto, p. 35).
Questo processo può essere valutato in termini numerici: negli USA per esempio, la popolazione attiva consisteva nel 1880 del 36,9% di imprenditori e del 62% di salariati, nel 1960 del 14% di imprenditori e dell’84,2% di salariati.
Attualmente si parla spesso di proletarizzazione in modo diverso, facendo riferimento alla tendenziale e progressiva assimilazione dei nuovi strati tecnici e intellettuali impiegati prevalentemente nel terziario (vedi Ceto) al proletariato.
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Proprietà privata
Indica genericamente la facoltà di disporre pienamente ed esclusivamente di beni di varia natura entro i limiti fissati dalle leggi nei vari momenti storici.
All’interno del marxismo, l’interesse è centrato sulla proprietà privata dei mezzi di produzione (vedi) e non su quella dei mezzi di sussistenza o di altri beni di consumo.
Da un punto di vista molto generale la nascita della proprietà privata è connessa con la comparsa della divisione del lavoro (vedi); Marx noterà che le due espressioni indicano la stessa cosa sotto due aspetti diversi: uno riguardante il prodotto dell’attività lavorativa, l’altro l’attività lavorativa stessa. Tra le popolazioni primitive esisteva una comunanza della produzione che pur svolgendosi entro limiti assai ristretti comportava
«…il dominio dei produttori sul loro processo di produzione e sul loro prodotto. Essi sanno che cosa avverrà del loro prodotto e lo consumano senza che esso lasci le loro mani, e la produzione, finché viene condotta su questa base, non può soverchiare i produttori né produrre, di fronte a loro, lo spettro di potenze estranee; il che accade regolarmente ed inevitabilmente nella civiltà. Ma in questo processo di produzione si insinua lentamente la divisione del lavoro. Essa mina la comunanza della produzione e dell’appropriazione, innalza a regola prevalente l’appropriazione individuale e produce con ciò lo scambio tra individui … Gradatamente, la produzione delle merci diventa la forma dominante» (Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, p. 204).
Gli sviluppi successivi portarono attraverso varie fasi alla proprietà privata nel senso moderno del termine e, insieme, al corrispondente adattamento delle norme giuridiche (vedi Diritto); ogni volta che l’industria e il commercio hanno prodotto nuove forme di scambio, nota Marx, il diritto fu obbligato a registrarli come modi per l’acquisto di proprietà.
La proprietà privata esiste quando i mezzi e le altre condizioni del lavoro appartengono a privati; che, occorre ricordare, possono essere essi stessi lavoratori: contadini che coltivano la propria terra e artigiani che lavorano nella propria bottega. Un tempo, anzi, questo modo di produrre era diffusissimo ma aveva il difetto di presupporre una divisione minuta del suolo e una dispersione dei mezzi di produzione che non permetteva alcun sensibile avanzamento nell’opera di controllo e di sfruttamento delle risorse naturali; perciò, giunto a un certo limite, cominciò a sviluppare al suo interno le condizioni del proprio disfacimento. Esse coincidono con le prime fasi del processo di accumulazione primitiva (vedi) o, come anche dice Marx, con la preistoria del capitale, alla cui fine la microscopica proprietà di molti si sarà trasformata nella massiccia proprietà dei pochi; nasce così la proprietà privata capitalistica basata sull’espropriazione della piccola proprietà e sulla conseguente disponibilità di una grande massa di libera forza-lavoro (vedi).
Quando questo processo di radicale cambiamento della società, che ha trasformato milioni di lavoratori in proletari (vedi Proletariato, Proletarizzazione) è giunto a un sufficiente grado di sviluppo, comincia un nuovo ciclo di espropriazioni riguardanti non più il piccolo proprietario ma il capitalista stesso: è il processo di centralizzazione del capitale (vedi), primo passo verso la costituzione del monopolio (vedi); contemporaneamente si sviluppano in misura sempre più avanzata le forme di cooperazione (vedi) nel processo lavorativo, l’uso consapevole delle conoscenze scientifiche nelle tecniche di produzione, la distribuzione dei prodotti su scala internazionale, ecc. Cresce anche la classe operaia, non semplicemente in senso numerico. Accentramento dei mezzi di produzione e socializzazione del lavoro vengono allora a trovarsi in contraddizione con la forma capitalistica nella quale sono sorte e che li domina: «Suona l’ultima ora della proprietà privata capitalistica. Gli espropriatori vengono espropriati».
Il modo di appropriazione capitalistico, continua Marx, sorge dal modo di produzione capitalistico e porta alla proprietà privata capitalistica che è dunque «la prima negazione della proprietà individuale, fondata sul lavoro personale». Ma la produzione capitalistica produce essa stessa, con l’inesorabilità di un evento della natura, le premesse e le condizioni della propria negazione. Da questa «negazione della negazione» sorge la nuova «proprietà individuale» derivante da nuove forme di cooperazione, dal «possesso collettivo della terra e dei mezzi di produzione prodotti dal lavoro stesso».
La critica marxiana della proprietà privata ha dunque ben altra dimensione e significato dei banali rifiuti del comunismo rozzo (vedi Comunismo) o delle astratte condanne di un Proudhon che proclamava drammaticamente «La proprietà è il furto» senza preoccuparsi di analizzare i concreti rapporti economici nei quali si affermano le diverse forme storiche e le relative forme giuridiche di proprietà.
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Protezionismo
È la tendenza a istituire tariffe e dazi doganali per limitare l’importazione di merci dall’estero; per «proteggere» la produzione, all’interno di un paese, dalla concorrenza del capitalismo straniero.
Marx polemizzò con l’economista F. List che sostenne in Germania la necessità di misure protezionistiche in difesa della sorgente industria tedesca, per la quale, essendo la Germania ancora divisa in numerosi stati, auspicava un’unione doganale.
Una forma esasperata di protezionismo può essere considerato il cosiddetto regime autarchico in cui vige un isolamento pressoché completo dagli altri paesi.
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Quadri
Termine che nel linguaggio militare è usato per indicare gli ufficiali; nel linguaggio politico adottato dai partiti comunisti, indica quei militanti che rivestono funzioni direttive e organizzative ai vari livelli della struttura del partito.
Le caratteristiche dei quadri dei partiti comunisti, le loro funzioni e la necessità storica che tali partiti avessero al loro interno dei «rivoluzionari di professione» furono elaborate da Lenin, secondo cui era essenziale che all’interno del partito vi fosse un gran numero di membri in grado di dirigere, in stretto contatto con le masse, le varie organizzazioni in qualunque occasione, e che soprattutto fosse in grado di ricostituire il partito nel caso di spietate repressioni, come di fatto avvenne in Russia dopo il 1905.
È oggi patrimonio comune del movimento comunista internazionale, anche grazie a Gramsci, la necessità della presenza di un «personale politico specializzato all’interno dei partiti comunisti».
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Questione femminile
La condizione di sfruttamento e di oppressione della donna è una caratteristica permanente dall’inizio del processo di divisione sociale del lavoro (vedi). Secondo il marxismo, dal momento in cui la donna venne allontanata dai settori determinanti del processo produttivo con la formazione delle società patriarcali, essa è sempre stata sottomessa a forme più o meno dure di sfruttamento e di subordinazione politica, culturale e sociale all’uomo. Per il marxismo inoltre i rapporti di produzione investono anche i rapporti di riproduzione: di conseguenza la famiglia (vedi), che è una delle forme istituzionali tipica dei rapporti di riproduzione dell’umanità da molti secoli a questa parte, viene influenzata in maniera determinante dal1’organizzazione complessiva del processo produttivo e quindi dalla società.
A loro volta determinate condizioni istituzionali che regolano i rapporti tra uomo e donna sono necessarie alla forma di organizzazione della società per riprodursi e mantenere immutati i rapporti di produzione.
La condizione della donna è quindi una delle contraddizioni fondamentali della società, resa particolarmente acuta dal momento della formazione della moderna società capitalistica.
La lotta che la classe operaia ha condotto per la propria emancipazione ha aperto condizioni politiche e sociali favorevoli allo sviluppo di un movimento di liberazione della donna.
Dopo le numerose testimonianze che già verso la metà dell’800 illustrarono la condizione femminile (ad esempio in: Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra), sorse un movimento in forma organizzata, anche se, inizialmente, la sua attività tese alla pura e semplice rivendicazione della cosiddetta parità di diritti tra uomo e donna. Soprattutto in Inghilterra e in America le «suffragette» si batterono per ottenere il diritto di voto e la parità di retribuzioni e di condizioni di lavoro con gli uomini, cosa che non avveniva in nessun paese del mondo.
Tuttavia la nascita di un vero e proprio movimento di rivendicazione femminile che prendesse coscienza da un lato della generale divisione in classi della società e della posizione sociale occupata dalla donna, e dall’altro dell’esigenza di costituire un’organizzazione femminile a fianco della classe operaia, è databile ai primi anni del ’900. La più famosa sostenitrice della necessità di un movimento femminile di classe fu Klara Zetkin che fece parte della Lega di Spartaco e fu tra i fondatori del Partito Comunista Tedesco.
Da allora le rivendicazioni di liberazione della donna sono state, con fortune alterne, legate alla storia del movimento operaio. Dopo la rivoluzione Lenin affermava:
«…nessun partito democratico del mondo e nessuna delle repubbliche borghesi più progredite ha fatto in decine d’anni nemmeno la centesima parte di quello che noi abbiamo fatto anche solo nel primo anno del nostro potere. Noi non abbiamo letteralmente lasciato pietra su pietra di tutte le abiette leggi sulla menomazione dei diritti della donna, sulle restrizioni al divorzio, sulle oziose formalità da cui era vincolata, sulla ricerca della parternità ecc.».
E molto realisticamente continuava:
«la donna, nonostante tutte le leggi liberatrici è rimasta una schiava della casa perché essa è oppressa, soffocata, inebetita, umiliata dalla meschina economia domestica che la incatena alla cucina, ai bambini e ne logora le forze in un lavoro bestialmente improduttivo, meschino, snervante che inebetisce e opprime. La vera emancipazione della donna, il vero comunismo incomincerà soltanto là e allora, dove e quando incomincerà la lotta delle masse contro la piccola economia domestica, o meglio dove incomincerà la trasformazione di questa economia nella grande economia socialista» (Lenin, La grande iniziativa, in Opere scelte, volume unico, pp. 505-506).
È quindi messo in evidenza il rapporto tra la questione femminile e il tema generale della lotta per una nuova organizzazione della società.
La seconda guerra mondiale ha provocato un’accelerazione della maturazione sociale della donna, ormai esposta quanto l’uomo alle conseguenze disastrose e distruttive di un conflitto moderno, e ne ha visto la partecipazione organizzata – e insostituibile – alle lotte di liberazione nazionale.
Molteplici cause sono all’origine della notevole produzione teorica e saggistica del dopoguerra, che, da vari paesi, ha contribuito ad approfondire i temi della condizione femminile: fra esse, l’imponente ingresso delle donne nella produzione e nelle lotte del lavoro, l’elevamento del livello culturale medio, l’introduzione del suffragio universale, la progressiva scomparsa della grande famiglia patriarcale che paralizzava soprattutto la donna, la massiccia proletarizzazione di donne appartenenti a vari ceti, ecc. Questi motivi indicano la fragilità delle posizioni che individuano semplicisticamente nel rapporto uomo/donna la contraddizione essenziale, attribuendogli di fatto una sorta di perennità sottratta alla complessa dinamica delle altre contraddizioni che lacerano la società dominata dal capitalismo.
Attualmente la partecipazione delle donne alle iniziative per la propria liberazione si manifesta in varie forme e organizzazioni, come dimostrano per esempio le lotte recenti e in corso in Italia per un nuovo diritto di famiglia e per l’autodecisione riguardo all’aborto.
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Questione meridionale
Dopo il 1860, in Italia la questione meridionale diviene emblematica per comprendere sia il periodo che condusse all’unificazione del territorio nazionale (Risorgimento), sia lo sviluppo economico, sociale e politico dello Stato unitario dal 1861 ai giorni nostri. Apertasi ufficialmente già nel corso della spedizione dei Mille, allorché vennero repressi i moti contadini – il cosiddetto «brigantaggio» – che reclamavano la «riforma agraria» del resto promessa da Garibaldi, la questione meridionale può dirsi ancora aperta.
Sulle cause del mancato sviluppo economico del Mezzogiorno d’Italia nei settori industriale e agricolo, a cui va aggiunto lo stato di arretratezza culturale, sociale e politica in cui sono stati mantenuti il proletariato e il sottoproletariato meridionali, si è avuto un lungo e ampio dibattito, che ha visto come protagonisti «meridionalisti» e uomini politici, e che infine ha coinvolto l’intera classe proletaria con analisi compiute da tutto il movimento operaio e contadino (vedi). In sintesi, attualmente si possono distinguere due analisi storiche, contrapposte, che inseriscono la questione meridionale nel più vasto problema del divario economico tra Nord e Sud d’Italia: quella degli storici liberali e quella degli storici marxisti.
La prima può essere riassunta nell’affermazione che «…l’inferiorità economica del Mezzogiorno si presentò … per un certo periodo, e sotto certi aspetti si presenta tuttora, come una condizione storica dello sviluppo industriale del Nord», basando questa affermazione sulla tesi dell’inevitabilità di uno sfruttamento di tipo colonialistico del Mezzogiorno per l’accumulazione di capitali necessari per lo sviluppo dell’industria già embrionalmente presente nel Settentrione.
La seconda, sviluppando le analisi compiute da Gramsci, sottolinea come il «blocco storico» (vedi) costituito dall’alleanza tra il capitale industriale e finanziario del Nord e quello agrario del Sud impose uno sfruttamento gravoso al Mezzogiorno e in generale a tutto il settore agricolo italiano, non per inevitabili «necessità economiche», ma per mantenere il proprio ruolo egemone nello Stato unitario. Mediante l’introduzione di un sistema fiscale centralizzato prima, del protezionismo e del rialzo delle tariffe doganali (1887) poi, l’economia del Mezzogiorno finanziò, impoverendosi ulteriormente, lo sviluppo industriale del Settentrione, cui contribuì anche con la forzata immigrazione interna e con l’emigrazione, che forniva rimesse in valuta pregiata, costantemente utilizzate per creare strutture industriali a vantaggio della grande industria concentrata nelle aree settentrionali. Con questi mezzi il Meridione, così come la maggior parte delle zone agricole, restavano grandi serbatoi di forza-lavoro a basso costo ed era garantito un elevato profitto al capitale industriale e finanziario e la massima rendita alla grande proprietà fondiaria.
La politica demagogica del fascismo aggravò la situazione, come risulta dalla analisi sul divario del reddito tra Nord e Sud, che smentisce la trionfalistica affermazione dell’Enciclopedia Italiana (vol. XXIII, p. 151) del 1934:
«Di una questione meridionale non si può più legittimamente parlare: perché tante differenze sono scomparse e perché ormai sono in piena attuazione i provvedimenti del Governo fascista che mirano intenzionalmente ad elevare il tono dell’Italia agricola, specialmente meridionale. Ma più ancora perché ogni traccia di contrasto, antagonismo, ogni senso di interessi diversi, sono scomparsi dagli animi per la funzione operata dalla guerra mondiale e dal fascismo».
In realtà la prima guerra mondiale costituì l’occasione, anche se parzialmente fallita, in cui i contadini del Sud poterono acquisire una coscienza di classe, e la lotta antifascista contribuì a rendere consapevole il proletariato operaio dell’imprescindibile necessità di un’alleanza con le forze contadine per giungere a una nuova egemonia. Scrive Gramsci nel 1926, in La questione meridionale:
«Il proletariato distruggerà il blocco agrario meridionale nella misura in cui riuscirà, attraverso il suo partito, ad organizzare in formazioni autonome e indipendenti sempre più notevoli masse di contadini poveri; ma riuscirà in misura più o meno larga in tale suo compito obbligatorio anche subordinatamente alla sua capacità di disgregare il blocco intellettuale che è armatura flessibile ma resistentissima del blocco agrario» (p. 42).
Le note vicende connesse con la seconda guerra mondiale, la Resistenza e il dopoguerra hanno evidenziato come non solo non sia stata realizzata la parola d’ordine dettata da Gramsci per la fondazione dell’«Unità» (settembre 1923) – «Personalmente io credo che la parola d’ordine “governo operaio e contadino” debba essere adattata in Italia così: “Repubblica federale degli operai e contadini”» – ma anche come la mancata soluzione della questione meridionale abbia piuttosto contribuito, col perpetuarsi del divario economico tra Nord e Sud, al rafforzamento del vecchio «blocco» dirigente.
Si può oggi constatare che mentre nel Mezzogiorno «la povertà diventa causa di se stessa», gli interventi principali dello Stato, che risalgono agli anni ’50, sono stati una riforma fondiaria («legge stralcio») che ha toccato solo un ventesimo del territorio del Sud, inserita nella mai approvata «riforma agraria»; e l’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno, che attraverso varie fasi –assistenziale, di intervento selettivo, di intervento selettivo-incentivante – ha contribuito soprattutto ad accrescere nel Mezzogiorno il clientelismo, lo spopolamento di intere aree agricole e la creazione di impianti largamente improduttivi, anche perché privi delle necessarie infrastrutture, le cosiddette «cattedrali nel deserto».
Lo squilibrio tra Nord e Sud rappresenta inoltre la fonte di un processo di restrizione generale del mercato interno e di dispersione e distruzione di forze produttive, costituendo una delle cause principali della debolezza del sistema economico italiano. La questione meridionale rimane, pertanto, un problema centrale per lo sviluppo dell’economia nazionale e per il progresso del movimento operaio e contadino.
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Questione nazionale
Il problema della nazionalità si pose con particolare rilievo e urgenza in seno al movimento operaio prima della guerra 1914-18 e fu affrontato da Lenin, soprattutto in polemica con Rosa Luxemburg, nel senso del «diritto delle nazioni all’autodecisione» cioè del «diritto all’indipendenza, alla libera separazione politica dalla nazione dominante».
In sintesi, per Lenin la questione nazionale si pone in questi termini: l’unità nazionale è un elemento essenziale della rivoluzione democratico-borghese inerente le specifiche necessità produttive e di mercato di quella fase; tuttavia tale unità non si è verificata nello stesso periodo in tutti i paesi, tanto che accanto all’Impero russo, paese a struttura semifeudale, coesistevano paesi europei che si erano già lasciati alle spalle le rivoluzioni nazionali e il cui capitalismo era già nella fase ultima dell’imperialismo. Il problema per il movimento operaio complessivo era quindi complicato dal fatto di dover mantenere l’unità internazionale di classe con i proletari di quelle piccole nazioni che aspiravano all’indipendenza e alla formazione di Stati nazionali. Secondo Lenin l’atteggiamento corretto da assumere era appunto quello del «diritto delle nazioni all’autodecisione».
«Gli interessi della classe operaia e la sua lotta contro il capitalismo esigono la stessa solidarietà e l’unità più stretta degli operai di tutte le nazioni, esigono che si opponga resistenza alla politica nazionalistica della borghesia di qualsiasi nazionalità. Perciò negare alle nazioni oppresse il diritto d’autodecisione, cioè di separazione, oppure sostenere tutte le rivendicazioni nazionali della borghesia delle nazioni oppresse, equivarrebbe, per i socialdemocratici, a sottrarsi ai compiti della politica proletaria e a subordinare gli operai alla politica borghese … L’operaio salariato rimarrà in tutti i casi un oggetto di sfruttamento, e per lottare con successo contro questo sfruttamento il proletariato dev’essere esente dal nazionalismo, deve essere, per così dire, completamente neutrale nella lotta della borghesia delle diverse nazioni per la supremazia. Il minimo appoggio del proletariato di una qualsiasi nazione ai privilegi della “propria” borghesia nazionale susciterà inevitabilmente la sfiducia del proletariato delle altre nazioni, indebolirà la solidarietà internazionale di classe, dividerà gli operai con grande gioia della borghesia. Negare il diritto all’autodecisione o alla separazione significa inevitabilmente sostenere in pratica i privilegi della nazione dominante» (Lenin, Sul diritto di autodecisione delle nazioni, p. 89-90).
L’analisi di Lenin si muove, ovviamente, dalla concreta situazione della Russia zarista, ma l’obiettivo finale è sempre l’affermazione del proletariato internazionale; egli ravvisava perciò nelle lotte di liberazione e di indipendenza delle piccole nazioni una formidabile arma contro l’imperialismo.
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Rapporti di produzione
Secondo Marx,
«…nella produzione sociale della loro esistenza, gli uomini entrano in rapporti determinati, necessari, indipendenti dalla loro volontà, in rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle loro forze produttive materiali» (Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 5).
I rapporti di produzione trovano la loro espressione giuridica nei rapporti di proprietà; ad esempio ai rapporti capitalistici di produzione corrisponde la proprietà privata dei mezzi di produzione e delle «condizioni di lavoro». Tuttavia i rapporti di produzione sono essenzialmente rapporti sociali, cioè da un lato condizionano tutta la società in cui sono «rapporti dominanti», e dall’altro sono a loro volta influenzati, in diversa misura, da tutte le altre manifestazioni della vita sociale, ivi comprese quelle che Marx chiama le sovrastrutture giuridiche, politiche, morali ecc.
Secondo la concezione materialistica della storia le diverse epoche, o fasi di sviluppo, dell’umanità devono essere analizzate studiando il rapporto che intercorre tra il grado di sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione corrispondenti. Infatti il solo modo in cui può concretamente realizzarsi il lavoro, e quindi il «ricambio organico tra l’uomo e la natura» consiste nel fatto che il lavoro stesso si attua all’interno di determinati rapporti di produzione e di una divisione sociale (del lavoro). Tuttavia, secondo Marx, in determinate condizioni storiche «questi rapporti, da forme di sviluppo delle forze produttive, si convertono in loro catene: allora subentra un’epoca di rivoluzione sociale».
I rapporti di distribuzione esprimono le modalità e la proporzione in cui il valore complessivo del prodotto viene ripartito, in un periodo di tempo determinato, tra i possessori dei diversi fattori della produzione; nella società capitalistica assumono la forma caratteristica di salario, profitto di imprenditore, interesse e rendita fondiaria. Secondo Marx:
«I cosiddetti rapporti di distribuzione corrispondono, quindi, a forme storicamente determinate, specificamente sociali, del processo di produzione e dei rapporti in cui gli uomini entrano nel processo di riproduzione della loro vita e derivano da queste forme. Il carattere storico di questi rapporti di distribuzione è il carattere storico dei rapporti di produzione, dei quali essi esprimono soltanto un aspetto. La distribuzione capitalistica è distinta dalle forme di distribuzione che derivano da altri modi di produzione, ed ogni forma di distribuzione scompare insieme con la forma di produzione determinata a cui essa corrisponde e da cui deriva» (Il Capitale, libro III, p. 1001).
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Realismo socialista
Formula che indicava, durante il periodo staliniano, le prescrizioni per una «corretta» interpretazione e produzione delle opere d’arte; sotto questo aspetto appare il corrispondente nell’ambito artistico di quel che era il diamat nell’ambito delle scienze naturali (vedi Materialismo dialettico).
Il realismo socialista fu una delle conseguenze dell’affermazione di Stalin secondo cui l’epoca dei conflitti di classe nell’URSS era chiusa, e assicurata la definitiva vittoria del socialismo; questa tesi, esposta ufficialmente nel 1936, portava a concludere che, essendo mutata la società nella quale l’arte affondava le sue radici, anche questa doveva cambiare. Con una logica che non aveva niente in comune con quanto Marx e Engels avevano sostenuto sui rapporti tra struttura e sovrastruttura fu stabilito che da quel momento letteratura, poesia, arti figurative e musica avrebbero dovuto rappresentare la nuova realtà socialista usando i mezzi espressivi ben collaudati della tradizione, intendendo con ciò un ritomo ai modelli ottocenteschi. Le caratteristiche principali del realismo socialista possono dunque essere cosi riassunte:
– rifiuto di ogni tentativo di ricerca di nuovi mezzi espressivi nelle varie forme d’arte e conseguente condanna, non soltanto verbale, degli innovatori, veri o presunti;
– negazione della possibilità di scuole e correnti diverse all’interno delle varie arti in quanto contrastanti con «una società socialista monolitica», priva di contraddizioni;
– denuncia di tutti i nuovi movimenti artistici fuori dalI’URSS, bollati di cosmopolitismo, di decadentismo borghese, ecc.;
– tendenza a imporre nei paesi del campo socialista gli stessi schemi meccanici vigenti nell’URSS.
Queste caratteristiche, legate prevalentemente al nome del burocrate sovietico Andrej Zdanov, non sono scomparse dopo la fine del periodo staliniano, per quanto appaiano attualmente [ricordiamo che questo dizionario del marxismo è del 1977, ndr] meno accentuate.
Non tutti i marxisti condivisero queste posizioni; tra i dirigenti politici Mao Tsetung, per esempio, denunciava nel 1942 l’erronea tendenza «a produrre opere di tipo propagandistico che hanno una visione politica giusta» ma mancano sul piano artistico di «vigore espressivo»; lo studio del marxismo, infatti, poteva permettere di «vedere il mondo, la società, la letteratura e l’arte sotto il punto di vista del materialismo dialettico e del materialismo storico», non doveva servire a scrivere corsi di filosofia in luogo di opere d’arte. Il marxismo comprendeva il realismo in arte, ma non per ciò poteva sostituirlo nella creazione artística. Tra i grandi artisti Bertold Brecht sottolineava fin dal tempo della prima comparsa del realismo socialista l’assurdità di prendere a modello opere del passato per i tempi nuovi:
«Si citano, come ho già detto, un paio di famosi romanzi del secolo scorso, tributando loro lodi senz’altro meritate, e da essi si estrae il realismo. Pretendere un tale tipo di realismo da scrittori viventi equivale a pretendere da un uomo che abbia le spalle larghe 75 centimetri, una barba lunga un metro e occhi splendenti, senza però dirgli dove può acquistare tutte queste cose» (Brecht, Sul realismo, in Scritti sulla letteratura e sull’arte, p. 196).
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Reddito nazionale
Espressione largamente usata dagli economisti borghesi, che indicavano con essa l’insieme dei redditi prodotti in un anno dalla nazione, comprendendovi i salari e le altre forme di retribuzione da lavoro dipendente, i redditi da lavoro indipendenti, la rendita fondiaria (vedi) e i profitti dell’industria; questa definizione coincide con quella di prodotto nazionale, solitamente suddiviso in prodotto nazionale netto e lordo a seconda che siano considerati o meno gli ammortamenti del capitale.
Secondo Marx, questa traduzione in una somma generica di salari, rendita fondiaria e profitto industriale cancella le differenze realmente esistenti tra le fonti di questi redditi e la loro collocazione all’interno del sistema sociale;
«Considerando il reddito di tutta la società, il reddito nazionale si compone del salario più il profitto, più la rendita, quindi del reddito lordo. Ma anche ciò non è che una astrazione, nel senso che tutta la società, sulla base della produzione capitalistica, ha una concezione capitalistica e considera in conseguenza come reddito netto unicamente il reddito che si risolve in profitto e rendita» (Marx, Il Capitale, libro III, p. 1936).
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Reificazione
È il processo, strettamente legato ai fenomeni di mercificazione e di alienazione, per cui tutto viene immaginato come «cosa», donde anche le espressioni cosalizzazione e cosificazione per tradurre il vocabolo tedesco Verdinglichung impiegato da Marx.
La parola «cosa», come è noto, è usata nel linguaggio comune in modo de poter sostituire ogni altro termine che indica un qualsiasi elemento, materiale e non, di cui a torto o a ragione si suppone l’esistenza; in un linguaggio più specifico la parola «cosa» è usata per indicare ciò che è diverso da un fatto o fenomeno: il sole è una cosa, il tramonto un fatto, ciò che si muove è una cosa, il suo movimento è un fatto.
Partendo dalla considerazione che nel sistema capitalistico il lavoratore è costretto a vendere la propria forza-lavoro come merce, a «mercificare» dunque una delle risorse essenziali dell’uomo, Marx sottolinea che in questo modo la forza-lavoro di ciascuno è trattata al pari di altre cose provviste di una qualche utilità che si possono vendere o comperare ai prezzi di mercato: viene ridotta a cosa, cloè subisce un processo di reificazione che ne occulta la vera natura, essendo una merce tra le molte disponibili. E poiché essa è l’elemento-tipo sul quale il capitalismo tende a ricondurre tutte le differenze, queste vengono abolite: prodotti del lavoro e qualità umane, idee e creazioni dell’arte, sentimenti e rapporti tra gli uomini, finiscono con l’assumere carattere di cose regolate dalla logica propria del mondo delle merci. Lo stesso capitalismo non appare più nella sua vera natura di rapporto di produzione sociale sorto in un dato momento storico ma come una cosa astratta e lontana di cui conviene registrare l’esistenza senza metterne in discussione l’opportunità e la durata.
Del resto tutti i rapporti tra gli uomini hanno assunto nella società capitalistica l’aspetto di cose o di rapporto tra cose:
«Il borghese vede nel proletario non l’uomo, ma la forza per creare ricchezza, una forza che egli allora può anche confrontare con altre forze produtive, con l’animale, la macchina, e ogni volta che il confronto gli sia sfavorevole, la forza il cui portatore sia un uomo deve cedere il posto alla forza il cui portatore sia un animale o una macchina, dove poi egli gode (possiede) sempre dell’onore di figurare come “forza produttiva”.
Quando io designo l’uomo come “valore di scambio”, già l’espressione dimostra che le condizioni sociali lo hanno trasformato in una “cosa”. Quando lo tratto come “forza produttiva”, io metto al posto del soggetto reale un altro soggetto, gli sostituisco un’altra persona, egli esiste ormai solo come causa di ricchezza.
L’intera società umana diviene soltanto una macchina per creare ricchezza» (Marx, A proposito del libro di Friedrich List, in Opere IV, p. 606).
Il concetto di reificazione è stato alla base di tutta una serie di ulteriori ricerche; la più nota e importante è quella svolta da G. Lukács in Storia e coscienza di classe, dove è studiata tra l’altro la reificazione alla quale soggiacciono i processi di coscienza in rapporto alle caratteristiche della presente società. Questo libro terminato alla fine del 1922, condannato nel 1925 da una dura critica di Bucharin, allora molto vicino a Stalin, e infine criticato dallo stesso Autore quando i tempi erano molto cambiati (1967), è una delle opere che ha maggiormente influenzato il cosiddetto marxismo occidentale (vedi Marxismo).
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Religione
Per religione si intende l’insieme di dottrine e di riti che l’uomo pone tra se stesso e tutto ciò che egli reputa sacro, divino, o che comunque è oggetto della sua devozione.
Secondo il marxismo i fenomeni religiosi sono in relazione con le contraddizioni sociali; in particolare la religione è nata come una rappresentazione primitiva e distorta nella mente degli uomini del loro rapporto con la natura. Dal punto di vista storico, le religioni si sono sviluppate nelle comunità primitive come un processo di progressiva attribuzione di caratteri sovrumani ai fenomeni naturali. La tendenza a idealizzare qualità umane, ritenendole provenienti da divinità, e più ingenerale a credere nell’esistenza di qualità sovrannaturali, si manifestò nelle società antiche in seguito all’impossibilità di una conoscenza, sia pure approssimativa, delle leggi naturali.
«In modo del tutto analogo, attraverso la personificazione delle forze della natura, nacquero i primi dèi, i quali, nel successivo sviluppo della religione, vennero assumendo una figura sempre più extraterrena, sino a che, per un processo di astrazione, e vorrei quasi dire di distillazione, compiutosi nel corso dell’evoluzione intellettuale, dagli dèi numerosi, più o meno limitati e limitantisi a vicenda, sorse nella mente degli uomini l’idea del dio unico, esclusivo, delle religioni monoteiste» (Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, p. 31).
L’analisi marxista della storia ha messo in luce il legame sempre più stretto stabilitosi tra i fenomeni religiosi e gli interessi delle classi dominanti nelle varie epoche storiche e la strumentalizzazione del sentimento «spontaneamente» religioso dovuto alla ristrettezza delle conoscenze umane da parte dei detentori del potere, che «lo impiegano unicamente come mezzo di governo, per mantenere sotto il giogo le classi inferiori».
La stessa religione cristiana, nata con forti con notazioni egualitarie e critica verso le condizioni di sfruttamento del tempo, e che agli inizi venne duramente repressa dalle classi dominanti della società romana, divenne in seguito «religione di Stato». Si verificò cioè un adattamento del contenuto alle condizioni di sfruttamento e la religione venne istituzionalizzata in una Chiesa che svolse oggettivamente una funzione di coercizione e di organizzazione del consenso dei «fedeli».
La Chiesa cattolica, soprattutto nel Medioevo, ha esercitato anche una funzione di dominio politico e culturale e il suo legame con lo Stato ha fatto sì che la scienza e ogni attività intellettuale che si opponessero in qualunque forma ai dogmi della religione fossero duramente repressi.
Nella società capitalistica, secondo il marxismo, la religione permane come fenomeno di massa nella sua forma di alienazione, può essere intesa come una particolare forma dell’alienazione in genere e può essere criticata comprendendo la reale natura delle contraddizioni che sono proprie di questa società e che spingono l’uomo a ricercare nella religione la speranza di una vita migliore.
La critica marxista della religione da un lato si svolge da un punto di vista teorico, mostrando che una conoscenza sempre più esatta della società e lo sviluppo delle scienze contraddicono le affermazioni delle dottrine religiose; dall’altro afferma che la religione è un’ideologia e che la sua funzione storica è quella di impedire lo sviluppo della coscienza rivoluzionaria delle classi oppresse.
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Rendita o rendita fondiaria
È costituita da ciò che i proprietari della terra ricavano da coloro che la lavorano. Così nel periodo feudale i servi erano tenuti a lavorare una parte della settimana per i proprietari terrieri cioè per i signori dei feudi; questa forma di rendita proveniente dal lavoro obbligatorio di persone che non avevano la condizione giuridica di schiavi ma che di fatto dovevano comportarsi come tali per una parte del loro tempo, è stata alla base dell’economia per quasi tutto il medioevo. È definita una rendita in lavoro per distinguerla da una forma di rendita sviluppatasi successivamente e caratterizzata dal fatto che il contadino non ha più l’obbligo legale di fornire a intervalli regolari prestazioni lavorative al proprietario del fondo, ma quella di cedergli una parte del prodotto, donde il nome di rendita in prodotto.
Quando comincia a subentrare la possibilità di convertire in denaro il prodotto della terra grazie allo stabilizzarsi di un mercato dei prodotti agricoli, la rendita in prodotto diventa rendita monetaria; fatto che storicamente coincide – e ne è parte integrante – col processo di dissoluzione del modo di produzione feudale.
Con l’affermarsi del capitalismo anche l’agricoltura è dominata dalle regole proprie del nuovo modo di produzione; per usare le parole di Marx, l’economia agricola viene esercitata da capitalisti che possono distinguersi dagli altri solo per il settore particolare in cui sono investiti i loro capitali e per il tipo di lavoro salariato che questi capitali attivano. Anche qui, con l’ovvia eccezione dei piccoli proprietari, il cui numero decresce continuamente, si manifestano le tre caratteristiche essenziali del capitalismo: la produzione è destinata al mercato, i mezzi di produzione sono concentrati in poche mani, il lavoro è salariato. Il proprietario di una certa superficie di terra non la lavora o ne può lavorare solo una piccola parte, non vende comunque la propria forza-lavoro e riceve la propria rendita in virtù del riconoscimento giuridico della proprietà. Il denaro che egli ottiene non può dunque provenire che dal lavoro non pagato di altri, essere cioè un plusvalore; la rendita fondiaria non è altro, allora, che una parte del plusvalore creato dalla produzione agricola.
Capitale e profitto, terra e rendita fondiaria, lavoro e salario, costituiscono la «formula trinitaria» che indica i punti chiave del processo sociale di produzione; la formula, secondo quanto Marx scrive nelle ultime pagine dell’incompiuto libro III del Capitale, si riferisce anche alle tre grandi classi della società moderna: gli operai salariati, i capitalisti e i proprietari fondiari, spesso indicati col termine francese di rentiers. Il potere di questi ultimi è in costante diminuzione nei paesi ad alto sviluppo e la loro classe assume sempre più il carattere di una sottoclasse di quella capitalistica propriamente detta.
Nella rendita fondiaria occorre distinguere tra rendita assoluta e rendita differenziale. La prima, spiega Marx nella 6ª sezione del libro III del Capitale, proviene dal fatto che capitali di ugual grandezza impiegati in differenti settori produttivi portano, in rapporto alla loro composizione media, a quantità diverse di plusvalore mantenendo invariato il saggio dello stesso o il grado di sfruttamento del lavoro; nel settore industriale le diverse masse di plusvalore si uniformano al profitto medio e si distribuiscono in modo omogeneo tra i singoli capitali del settore. La proprietà terriera impedisce invece un’analoga tendenza nei capitali investiti nei suoli e si appropria di un’aliquota di plusvalore sottraendola ai capitalisti industriali. La rendita assoluta è appunto questa frazione di plusvalore (vedi Plusvalore, Profitto).
La rendita differenziale è invece quella calcolata in base alla produttività dei terreni e può derivare sia dalle loro caratteristiche naturali, sia dai miglioramenti ottenuti con l’uso di appropriati mezzi tecnici cioè con l’ulteriore investimento di capitali.
Da quanto detto risulta evidente che il concetto di rendita differenziale è connesso con gli aspetti qualitativi e quantitativi della produzione basata sull’uso dei suoli, mentre il concetto di rendita assoluta riguarda piuttosto la sfera della ripartizione del plusvalore tra settori produttivi diversi.
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Restaurazione
Indica l’attività tendente a ristabilire le condizioni politiche, istituzionali ed economiche precedenti a un periodo rivoluzionario.
Storicamente le classi detentrici del potere ricorsero alla repressione e alla restaurazione quando lo sviluppo storico minacciava di privarle di privilegi acquisiti.
Il termine è entrato in uso quando ripetuti movimenti rivoluzionari condotti in Europa dalla borghesia dal 1815 al 1848 non ebbero la forza sufficiente per stroncare le resistenze delle vecchie classi al potere legate all’assolutismo.
Un tipico esempio di movimento restauratore di carattere internazionale fu quello della Santa Alleanza, che coalizzò sulla base del principio assolutistico tutte le forze conservatrici dell’Europa, con l’intenzione di cancellare quanto più fosse possibile le novità introdotte dalla Rivoluzione francese e dall’età napoleonica (vedi Controrivoluzione).
La Santa Alleanza comunque è stato l’unico grande movimento politico restauratore a carattere internazionale, che mirasse cioè a riportare sul trono le monarchie assolutistiche settecentesche, poiché ben presto l’unità delle classi reazionarie dei diversi Stati venne meno, con il progressivo svuotamento del potere economico nelle mani dell’aristocrazia.
Nella storia recente è difficile rintracciare un vero e proprio movimento restauratore analogo alla Santa Alleanza, in quanto le stesse tendenze restauratrici sono confluite in quelli che sono stati chiamati movimenti conservatori, oppure in tendenze reazionarie (vedi Fascismo) che tuttavia non costituiscono un vero e proprio ritorno alla fase precedente della storia, ma un’organizzazione sociale aderente agli interessi delle classi dominanti.
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Revisionismo
Opera sistematica di correzione e di presunto ammodernamento dei principi teorici del marxismo. Consiste essenzialmente nel considerare superata o una singola tesi di Marx o un intero settore della ricerca da lui svolta; i revisionisti considerano infatti l’opera di Marx come una dottrina superata dai fatti e propongono delle varianti parziali in alcuni casi, e in altri l’abbandono totale dell’analisi storico-economica marxiana. Il revisionismo si accompagna in generale all’opportunismo (vedi) e al riformismo (vedi), e testimonia la penetrazione diretta del pensiero borghese, delle «idee della classe dominante» nel corpo teorico del marxismo.
Tendenze revisioniste si sono più volte presentate nella storia del movimento operaio, soprattutto nei momenti più difficili, quando cioè più forte è stato il tentativo della borghesia di influenzare la lotta del proletariato, agendo sul piano della teoria (vedi). In generale anzi l’influenza revisionista rappresenta proprio lo strumento nelle mani della borghesia per la rottura dell’unità della classe operaia. Dalla pericolosità di queste influenze derivò il drastico giudizio che Lenin diede di ogni tendenza riformista e revisionista, ritenuta non come l’ala destra del proletariato, ma proprio come l’ala sinistra della borghesia in seno alla classe operaia.
Il massimo esponente del revisionismo, intendendo con questo il movimento sorto nella socialdemocrazia tedesca verso la fine del secolo XIX, fu Eduard Bernstein. Egli sostenne, dietro una presunta operazione di rinnovamento del marxismo, un ritorno a idee premarxiane, rifacendosi a quelle correnti di pensiero, dominanti in quel tempo nelle università tedesche, che sostenevano il «ritorno a Kant», cioè a un pensatore considerato non materialista e non dia1ettico. Mentre i circoli filosofici neo-kantiani affermavano «essere Kant l’autentico fondatore del socialismo» ed elencavano le condizioni per la conciliazione tra il kantismo e il socialismo nella sua forma organizzata (eliminazione radicale del materialismo quale fondamento del socialismo, accettazione dell’idea di Dio quale coronamento storico del socialismo e il rispetto dei concetti di diritto e di Stato come autonomi dai rapporti sociali), ciò si intrecciava e si alimentava con le tendenze revisioniste nel movimento operaio che si muovevano nelle medesime direzioni.
Così obiettivo principale della revisione di Bernstein era la confutazione della dialettica (vedi), sulla cui base poter sviluppare poi la negazione dell’analisi storico-economica di Marx. «Ciò che Marx ed Engels hanno prodotto di grande, essi l’hanno prodotto non grazie alla dialettica hegeliana, ma malgrado essa» scriveva nel 1899 Bernstein. Così egli dimostrava di non aver compreso in quale modo Marx si era appropriato di Hegel e quindi ciò che risultava dalla sua confutazione non era affatto una critica al materialismo dialettico e storico, bensì allo sviluppo idealistico del suo concetto. Nel 1908, esaminando il dibattito sul neokantismo, Lenin così ne effettuava la sintesi:
«Nel campo della filosofia il revisionismo si è messo a rimorchio della scienza borghese professorale. I professori “ritornano a Kant”, e il revisionismo si trascina dietro i neokantiani. I professori ripetono le banalità pretesche, mille volte rimasticate, contro il materialismo filosofico, e i revisionisti, sorridendo con condiscendenza, borbottano … che il materialismo è stato da un pezzo “confutato”. I professori considerano Hegel come un “cane morto” e predicando essi stessi l’idealismo, ma un idealismo mille volte più meschino e banale di quello hegeliano, alzano con sprezzo le spalle a proposito della dialettica, e i revisionisti si cacciano dietro a loro nel pantano dell’avvilimento filosofico della scienza, sostituendo alla dialettica “sottile” (e rivoluzionaria) la semplice (e pacifica) “evoluzione”» (Lenin, Marxismo e Revisionismo, in Opere scelte, vol. unico, p. 21).
Così come la filosofia che reclamava questo ritorno a un pensiero premarxiano esprimeva in veste teorica esigenze concrete della classe dominante o di una parte di essa, anche il revisionismo di Bernstein aveva una base nella situazione del movimento operaio organizzato. Come è stato osservato, il partito legale di grandi dimensioni acquisiva nuove caratteristiche; tutto il suo apparato burocratico, partitico e sindacale, non viveva «più per, ma del movimento operaio».
In campo politico la revisione si espresse nel rifiuto incondizionato della prospettiva rivoluzionaria a vantaggio di un’ipotetica, vittoriosa soluzione elettorale; vennero negati gli elementi di fondo del materialismo storico e di conseguenza vennero dati giudizi completamente sbagliati sui vari fenomeni che si accompagnavano alla trasformazione del capitalismo in senso monopolistico; la vecchia teoria meccanicistica del crollo spontaneo fu abbandonata e sostituita semplicemente con la negazione della possibilità di un crollo del sistema capitalistico, in nome dello sviluppo democratico delle istituzioni e del graduale, progressivo, allargamento della democrazia borghese fino al socialismo. Su questa base la socialdemocrazia si trasformava da «partito della rivoluzione sociale» in «partito di riforme sociali», di cui Lenin elencava i caratteri:
«Si nega la possibilità di dare un fondamento scientifico al socialismo e di provare che, dal punto di vista della concezione materialistica della storia, esso è necessario e inevitabile; si nega il fatto della miseria crescente, della proletarizzazione, dell’inasprimento delle contraddizioni capitalistiche; si dichiara inconsistente il concetto stesso di “scopo finale” e si respinge categoricamente l’idea della dittatura del proletariato; si nega l’opposizione di principio tra liberalismo e socialismo; si nega la teoria della lotta di classe, che sarebbe inapplicabile in una società rigorosamente democratica, amministrata secondo la volontà della maggioranza, ecc.» (Lenin, Che Fare?, pp. 36-37).
Le vicende storiche dei paesi in cui prevalse il revisionismo dimostrano più che a sufficienza la sua fragilità teorica e pratica; la giusta preoccupazione del rinnovamento si era di fatto conclusa col ritorno a una filosofia di cui Marx aveva denunciato a suo tempo i limiti; l’idea stessa che le classi al potere avrebbero accettato le regole del gioco democratico non appena queste si fossero volte seriamente a loro disfavore era, prima ancora che non marxista, puerile.
Nell’analisi del revisionismo occorre mettere in rilievo questo elemento: l’arricchimento e lo sviluppo originale del marxismo sono esigenze poste dalla sua stessa natura antidogmatica e dialettica. L’analisi concreta della situazione concreta, l’elaborazione della teoria a partire dalle pratiche specifiche nei diversi campi del sapere e dell’agire umano, rappresentano momenti indispensabili all’esistenza stessa del marxismo, che non vanno però confuse con quel «procedimento puramente revisionista» nel quale la ricerca del nuovo si confonde con la liquidazione dei punti essenziali della teoria e della pratica rivoluzionaria.
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Riflusso
Questo termine viene generalmente usato per indicare la situazione in cui a una fase di sviluppo favorevole alla classe rivoluzionaria subentra un momento di stasi o di regresso.
In particolare Gramsci osservò che, qualora venga a mancare la capacità di determinare un’egemonia da parte della classe rivoluzionaria,
«…la situazione rimane inoperosa, e possono darsi conclusioni contraddittorie: la vecchia società resiste e si assicura un periodo di “respiro”, sterminando fisicamente l’élite avversaria e terrorizzando le masse di riserva» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1588).
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Riforme
Trasformazioni graduali dell’organizzazione economica e politica di una determinata società. La loro caratteristica essenziale è che vengono attuate e dirette dalla classe che detiene il potere economico e politico.
Secondo la concezione materialistica della storia, una serie anche organica di riforme non può in generale modificare nel suo complesso la natura reale dei rapporti di produzione. Il passaggio da una formazione economico-sociale a un’altra ad essa superiore, infatti, è sempre avvenuto principalmente attraverso un periodo di rivoluzione sociale, e di radicale e relativamente rapida sostituzione dei vecchi rapporti di produzione con dei nuovi più adeguati al grado di sviluppo delle forze produttive.
Le riforme, la loro natura e i loro limiti costituiscono uno degli argomenti centrali affrontati nell’elaborazione tattica e strategica (vedi Strategia e tattica), oltre che nell’analisi più strettamente teorica, del movimento operaio.
Nelle diverse e alterne fasi di sviluppo della lotta di classe nella società capitalistica, le riforme hanno costituito talvolta l’obiettivo essenziale delle rivendicazioni operaie; oppure, in altre situazioni, l’attenzione esclusiva all’ottenimento di alcune riforme parziali, è stata considerata come motivo di limitazione della coscienza rivoluzionaria della classe operaia. In generale ciò dipende, oltre che da considerazioni tattiche contingenti, soprattutto dal carattere stesso delle riforme, che come tali sono delle «concessioni» strappate alla classe dominante dalla lotta dei lavoratori (vedi Sindacato).
L’effettivo significato storico di questa o quella riforma deriva dalla valutazione dei rapporti di forza che si stabiliscono tra le classi in lotta nel momento della rivendicazione, della definizione e della concreta attuazione delle riforme stesse. Infatti, secondo la concezione marxista, le riforme sono in ogni caso obiettivi tattici e dipende precisamente dalla prospettiva strategica in cui sono inserite il ruolo e la funzione positiva che esse possono svolgere. Ad esempio nei governi di Fronte popolare (vedi) e nei periodi di transizione, come la Democrazia Progressiva (vedi), le riforme svolgono una funzione determinante per il raggiungimento dello stesso obiettivo strategico della costruzione della società socialista.
Riforme fondamentali come la riforma agraria o la nazionalizzazione delle grandi industrie e dei settori più importanti del commercio, costituiscono il presupposto stesso per ogni ulteriore sviluppo rivoluzionario.
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Riformismo
È l’atteggiamento politico consistente nel tendere a limitare la lotta della classe operaia alla richiesta di riforme (vedi).
Il riformismo, accompagnato sul piano teorico dall’affermazione della necessità di una revisione (vedi Revisionismo) dei principi del marxismo, si diffuse largamente nei partiti aderenti alla Seconda Internazionale (vedi), come espressione politica della formazione – all’interno della classe operaia – di uno strato privilegiato (vedi Aristocrazia operaia), disposto alla collaborazione con le classi dominanti. Secondo Lenin il riformismo costituisce la rinuncia alla lotta di classe: «Il riformismo consiste soltanto nelle concessioni della classe dirigente e non nel suo abbattimento, nelle concessioni della classe dirigente che conserva il potere nelle proprie mani».
Dalla considerazione dell’inadeguatezza del marxismo nei confronti delle nuove condizioni, caratterizzate da un progressivo sviluppo economico e delle istituzioni liberali, il riformismo traeva la conclusione dell’impossibilità dell’abbattimento del capitalismo e quindi della necessità di una sua progressiva trasformazione interna (vedi Evoluzionismo) nella quale, attraverso l’ampliamento della democrazia borghese e degli istituti parlamentari, sarebbero state soddisfatte le esigenze della classe operaia e superati gli antagonismi di classe. Ne conseguì l’accettazione delle compatibilità capitalistiche sia in politica interna, sia in campo internazionale, dove si avallavano l’espansione economica e le aspirazioni coloniali come rispondenti anche agli interessi del proletariato.
Così le nuove legislazioni sulle fabbriche, la democratizzazione delle istituzioni, il suffragio universale, ecc. sopprimevano per i riformisti le basi stesse della lotta di classe, mentre lo Stato, retto da una democrazia parlamentare, diventava non più uno strumento del dominio di classe, ma una istituzione plasmabile in senso democratico e capace, attraverso il raggiungimento dell’eguaglianza politica, di superare le stesse diseguaglianze economiche. In realtà come indicò Lenin «…la correzione riformista alle basi dell’imperialismo non è che un inganno, un pio desiderio».
Più che in una politica coerentemente riformatrice, storicamente il riformismo si risolse, proprio perché espressione e prodotto della penetrazione di concezioni borghesi e piccolo borghesi nella classe operaia, nell’inserimento di una sua parte in un sistema politico di forze conservatrici, portando alla divisione del proletariato, alla sua separazione dagli altri strati sociali oppressi e in particolar modo dai contadini.
L’analisi della natura di classe del riformismo e soprattutto lo sviluppo di una linea alternativa fu, per Lenin in particolare, il compito prioritario per una politica rivoluzionaria adeguata allo sviluppo imperialistico e monopolistico del capitalismo: se lo sviluppo di una strategia complessiva anticapitalistica è in ogni caso il compito principale, l’articolazione della tattica nei confronti del riformismo e del revisionismo è ciò che decide della sua reale capacità di unire su una linea politica rivoluzionaria la classe operaia e tutti i suoi alleati.
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Riproduzione
Secondo Marx:
«Come una società non può smettere di consumare, così non può smettere di produrre. Quindi ogni processo sociale di produzione, considerato in un nesso continuo e nel fluire costante del suo rinnovarsi, è insieme processo di riproduzione» (Marx, Il Capitale, libro I, p. 621).
La riproduzione può presentarsi in due forme distinte; la prima è la cosiddetta riproduzione semplice, che si ha quando la rotazione assicura una riproduzione del capitale senza alcuna variazione quantitativa. Perciò la sua funzione è limitata a reintegrare il capitale consumato (in mezzi di produzione, merci, mezzi di sussistenza e la forza-lavoro stessa) senza che si verifichi accumulazione. Appare dunque chiaro che il capitale riproduce se stesso in quanto capitale; con questo Marx vuole intendere che mentre i processi di riproduzione in generale sono necessari in qualsiasi tipo di società, in quella capitalistica sono costretti a ricreare costantemente le condizioni della produzione capitalistica.
La riproduzione semplice è un caso limite in quanto, se fosse l’unica forma di riproduzione, il totale dei prezzi delle merci comprendenti i mezzi di produzione, materie prime ecc., sarebbe uguale al totale dei prezzi delle merci destinate alla vendita e al consumo; il capitale costante in questo caso sarebbe uguale alla somma del capitale variabile e del plusvalore. In realtà si ha a che fare con la seconda forma di riproduzione, cioè la riproduzione allargata, nella quale non solo il capitale viene reintegrato ma ad esso si aggiunge un valore addizionale: si tratta dunque di una riproduzione con accumulazione (vedi). La possibilità di questo fenomeno è assicurata dall’uso di una certa aliquota del plusvalore prodotto in un ciclo di rotazione (vedi) per aumentare sia il capitale costante che il capitale variabile. Marx fa in proposito questo esempio. Supponendo che un capitale anticipato di 10 mila sterline abbia generato un plusvalore di 2 mila sterline, egli afferma:
«È sempre la vecchia storia: Abramo generò Isacco, Isacco generò Giacobbe, e così via. Il capitale originario di 10 mila sterline produce un plusvalore di 2 mila sterline che viene capitalizzato. Il nuovo capitale di 2 mila sterline produce un plusvalore di 400 sterline; questo, capitalizzato a sua volta, cioè trasformato in un secondo capitale addizionale, produce un nuovo plusvalore di 80 sterline e così via» (ivi, p. 637).
È chiara la differenza tra il processo di accumulazione e quello di riproduzione allargata: la riproduzione allargata potrebbe compiersi e concludersi con la destinazione del plusvalore a un uso diverso da quello del nuovo impiego nel processo di produzione, mentre l’accumulazione può compiersi solo con la riutilizzazione del plusvalore come nuovo capitale.
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Rivoluzione
È l’insurrezione che ha per scopo la trasformazione radicale di una società. Nel marxismo il termine acquista un significato più vasto ed è inteso come un processo che, muovendosi sulla base di condizioni storiche oggettive, si articola nel momento insurrezionale e nell’opera di costruzione della nuova società socialista, che segna la fine della «preistoria dell’uomo».
Perché si verifichi una rivoluzione è anzitutto necessario che siano maturate certe premesse nello sviluppo economico, vale a dire che sia sorto un conflitto tra le «forze» e le «forme» di produzione. Cosi il Manifesto individua le cause della rivoluzione borghese:
«…i mezzi di produzione e di scambio sulla cui base si eresse la borghesia furono generati in seno alla società feudale. A un certo grado dello sviluppo di questi mezzi di produzione e di scambio le condizioni nelle quali la società feudale produceva e scambiava, vale a dire l’organizzazione feudale dell’agricoltura e della manifattura, in una parola i rapporti feudali di proprietà, non corrisposero più alle forze produttive già sviluppate. Quelle condizioni, invece di favorire la produzione, la inceppavano. Esse si trasformavano in altrettante catene. Dovevano essere spezzate, e furono spezzate» (Manifesto, pp. 31-32).
Nello stesso modo la borghesia, generando all’interno del suo sistema di produzione il proletariato, ha creato le premesse per la rivoluzione proletaria il cui scopo è l’abolizione della proprietà privata dei mezzi di produzione, la fine della divisione in classi e della lotta che ne consegue, la realizzazione di una società di produttori nella quale sia scomparso lo sfruttamento dell’uomo sull’uomo, cioè l’affermazione di una forma sociale superiore. Dice Engels:
«Ed è precisamente mediante questa rivoluzione industriale che la capacità produttiva del lavoro umano ha raggiunto un livello talmente alto, che - per la prima volta da quando l’uomo esiste - la divisione razionale del lavoro fra tutti fornisce la possibilità di produrre non soltanto quanto basta per un consumo più che sufficiente da parte di tutti i membri della società e per la costituzione di un abbondante fondo di riserva, ma consente anche di lasciare a ciascun singolo agio sufficiente perché ciò che c’è di veramente di valore nelle civiltà storicamente tramandateci – scienza, arte, forme di rapporti personali – possa non soltanto venire conservato, ma sia trasformato da monopolio della classe dominante in bene comune di tutta la società, ed ulteriormente sviluppato» (La questione delle abitazioni, p. 35).
L’esperienza della Comune di Parigi, che fu il primo esempio di rivoluzione proletaria, e l’analisi della sua sconfitta portarono Marx a concludere che uno degli obiettivi fondamentali della rivoluzione doveva essere l’abbattimento dello Stato borghese in quanto strumento del dominio borghese, inutilizzabile quindi per i nuovi e diversi scopi del proletariato, il quale, anzi, doveva esso stesso costituirsi in «classe dominante» (vedi Dittatura del proletariato) per difendere le conquiste fatte e creare le condizioni per il passaggio alla società comunista (vedi Stato).
Questi principi furono ripresi da Lenin e posti a fondamento della sua teoria della rivoluzione, anche contro gli atteggiamenti riformistici che si erano diffusi tra i partiti socialdemocratici della II Internazionale. A questi partiti, infatti, il problema della rivoluzione si era posto anche nei termini di un corretto rapporto fra strategia e tattica (vedi), determinando due atteggiamenti contrastanti: uno rivoluzionario in quanto vedeva nelle riforme possibili all’interno della società borghese un modo per arrivare alla rivoluzione, l’altro riformista nel senso che le riforme, con le dovute garanzie di un livello di vita soddisfacente per la classe operaia, diventavano l’obiettivo ultimo della lotta; ciò veniva giustificato con l’assunto che mediante la trasformazione lenta e graduale dello Stato si sarebbe comunque pervenuti a un assetto socialista della società.
Lenin era consapevole dell’importanza delle riforme sia nel momento specifico della costruzione dello Stato socialista che per utilizzarle efficacemente nell’ambito della società borghese; egli si batté contro ogni forma di «rivoluzionarismo» astratto indicando nella democrazia borghese e nel parlamento gli strumenti della lotta e della propaganda di classe. Tuttavia insistette sul concetto di dittatura del proletariato come sbocco naturale della rivoluzione: «La dottrina della lotta di classe applicata da Marx allo Stato e alla rivoluzione socialista, porta necessariamente a riconoscere il dominio politico del proletariato, la sua Dittatura, il potere cioè che esso non divide con nessuno».
Il proletariato quindi, storicamente, non può essere se stesso se non è rivoluzionario. Concretamente il ruolo storico può essere svolto quando la classe operaia, almeno nella sua parte più avanzata e cosciente cioè il partito, saprà risvegliare le grandi masse e condurle a riconoscere e sostenere la lotta dell’avanguardia. Il partito allora dovrà organizzare e generalizzare quelle forme di lotta che nascono spontaneamente dallo «slancio rivoluzionario del popolo», perché forme e modi della lotta rivoluzionaria non possono essere inventati né imposti, né, d’altra parte, questa può aver luogo se manca l’appoggio e il consenso delle masse.
«La storia in generale, la storia delle rivoluzioni in particolare, è sempre più ricca di contenuto, più varia, più multilaterale, più viva, più astuta di quanto immaginino i migliori partititi, le più coscienti avanguardie delle classi più avanzate. E ciò si comprende, giacché le migliori avanguardie rappresentano la coscienza, la volontà, le passioni, la fantasia di decine di migliaia di uomini; ma la rivoluzione viene attuata in un momento di slancio eccezionale e di eccezionale tensione di tutte le facoltà umane, dalla coscienza, dalla volontà, dalle passioni, dalla fantasia di molte decine di milioni di uomini spronati dalla più aspra lotta di classe» (Lenin, L’estremismo malattia infantile del comunismo, pp. 94-95).
In questo contesto si colloca anche il momento della violenza (vedi), che in linea di principio può anche non verificarsi, ma che in pratica dipende dalle resistenze e opposizioni della classe che ha tutto da perdere dalla rivoluzione.
Da quanto detto risulta chiaro che i marxisti pongono attenzione tanto ai problemi inerenti la preparazione della rivoluzione quanto a quelli inerenti il modo e le condizioni del rafforzamento dello Stato socialista. Inoltre è da ricordare che la piena realizzazione della società comunista si avrà quando essa sia estesa al mondo intero, pertanto anche la rivoluzione in uno o pochi paesi non può che riflettere questo aspetto delimitante (vedi Socialismo).
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Rivoluzione industriale
Questa espressione indica il grande sviluppo industriale e commerciale che segnò il trionfo del capitalismo e della società borghese nella seconda metà del secolo XVIII e nei primi decenni del XIX, in primo luogo in Inghilterra. La rivoluzione industriale trovò il proprio presupposto nel processo della cosiddetta accumulazione originaria (vedi) che, liberando l’agricoltura dai vincoli di proprietà feudali e concentrando nelle città una grande massa di proletari, creò le condizioni materiali per l’inizio su vasta scala del processo di accumulazione capitalistica (vedi Accumulazione).
Contemporaneamente, lo sviluppo del commercio, specie coloniale, aveva assicurato la disponibilità di grandi quantità di materie prime per l’industria, consentendo la creazione di un mercato di sbocco per la produzione. In seguito a tutti questi fenomeni, si verificò, all’interno del sistema produttivo, una rapida trasformazione nel senso di un’intensa meccanizzazione e della creazione di grandi complessi industriali nelle città. Entrarono così in crisi il sistema manifatturiero e la produzione domestica (vedi Manifattura, Industria domestica); a ciò corrispose, in seguito al concomitante progresso tecnico e scientifico e in particolare all’utilizzazione del vapore come forza motrice, un grande sviluppo del settore dell’industria tessile e successivamente di quella meccanica e siderurgica. Queste ultime, a partire dai primi decenni dell’Ottocento, acquistarono una funzione primaria all’interno del ciclo produttivo, fornendo gli impianti per la meccanizzazione anche degli altri settori.
La rivoluzione industriale nacque ed ebbe la sua forma classica di sviluppo in Inghilterra, tuttavia si realizzò, in forme e in tempi diversi, anche negli altri paesi europei, costituendo una tappa necessaria per l’ascesa al potere della borghesia. Inoltre la formazione di una nuova classe di operai salariati e la presa di coscienza delle misere condizioni di vita e di lavoro, connaturate al sistema economico capitalistico, rappresentarono il punto di partenza per le prime lotte operaie (vedi Luddismo) e per nuove forme di associazionismo tra i lavoratori (vedi Sindacato).
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Rotazione del capitale
«È il periodo che va dal momento dell’anticipo del valore-capitale in una determinata forma al ritorno nella stessa forma del valore-capitale in processo».
In altri termini così come un corpo per vivere ha bisogno di un determinato ricambio, il capitale per vivere, vale a dire per produrre profitto, ha bisogno di un processo ciclico di ricambio. Sulla durata di tale ciclo Marx scriveva:
«Il ciclo del capitale, considerato non come fatto isolato ma come processo periodico, si chiama la sua rotazione. La durata di questa rotazione è data dalla somma del suo tempo di produzione e del suo tempo di circolazione. Questa somma di tempi costituisce il tempo di rotazione del capitale. Essa misura perciò l’intervallo tra un periodo ciclico del capitale complessivo e quello successivo, la periodicità nel processo di esistenza del capitale, ossia, se si vuole, il tempo di rinnovo, ripetizione del processo di valorizzazione, rispettivamente di produzione, dello stesso valore-capitale» (Il Capitale, libro II, p. 160).
Il tempo di rotazione viene misurato come numero delle rotazioni stesse che si verificano nel corso dell’anno, che resta l’unità di misura anche nei casi in cui una sola rotazione abbia una durata maggiore, ciò perché «i più importanti prodotti agricoli della zona temperata, che è la madrepatria della produzione capitalistica, sono annuali».
La durata della rotazione, prescindendo dai casi singoli, dipende dal settore produttivo in cui il capitale è impiegato, nel senso che una composizione organica più elevata comporta una rotazione più lenta.
Il tempo di rotazione è oggetto di un calcolo comunemente effettuato, in quanto corrisponde al tempo che occorre al capitalista per realizzare il profitto. Infatti è evidente che se questa ripetizione del ciclo si compie in termini eccessivamente lunghi o, si interrompe, il capitale «deperisce».
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Saggio del profitto
È il rapporto tra il plusvalore e la somma del capitale costante e del capitale variabile; viene normalmente indicato in termini percentuali. Si differenzia dal saggio del plusvalore in quanto quest’ultimo esprime il rapporto tra plusvalore e capitale variabile; ne deriva che il saggio del profitto è sempre minore del saggio del plusvalore, come appare evidente dalla maggior grandezza del denominatore.
Questa definizione è valida per il modo di produzione capitalistico in generale. Nelle singole imprese dipende da una serie di fattori tra i quali: lo stesso saggio del plusvalore e quindi il grado di sfruttamento della forza-lavoro, la velocità di rotazione del capitale e la sua composizione organica. Nella società capitalistica, considerata per un periodo di tempo abbastanza lungo e in una fase tecnicamente avanzata, la concorrenza tra i capitalisti fa sì che il profitto ottenibile, e quindi il suo saggio, impiegando capitali di uguale grandezza in settori produttivi diversi, tenda a oscillare intorno a una media. Questo fenomeno, che è noto come tendenza all’uguaglianza del saggio del profitto, permette di determinare il cosiddetto saggio medio del profitto o saggio del profitto medio. Si tratta di un calcolo estremamente concreto, in quanto permette ai capitalisti di valutare con sufficiente precisione le possibilità di guadagnare in un periodo relativamente lungo.
Su tali calcoli gravano evidentemente fattori derivanti, come si è detto, dal modo di produzione nel suo insieme; in altri termini, il saggio medio del profitto viene fissato all’interno di rapporti validi per il sistema nel suo complesso e quindi in gran parte indipendenti dalla volontà dei singoli imprenditori. Tra i fattori sopra citati è da tener presente quello connesso ai rapporti di forza tra la classe capitalistica e quella lavoratrice, che trova la sua effettiva manifestazione nella determinazione della grandezza del salario medio. L’analisi del processo complessivo della produzione capitalistica ha permesso a Marx di individuare e studiare le cause profonde delle crisi economiche, che erano fino allora inspiegabili in modo organico secondo i criteri dell’economia politica classica.
La caduta tendenziale del saggio medio del profitto, considerata da Marx come una legge economica fondamentale della produzione capitalistica, è una delle cause principali che, in tempi relativamente lunghi, determinano le crisi. Infatti il miglioramento delle tecniche produttive, inteso sia in senso stretto che nel senso più generale di messa a punto di nuovi impianti, comporta un relativo aumento del rapporto tra capitale costante e capitale variabile.
Così, per esempio, se la somma del capitale costante (50 milioni) e del capitale variabile (50 milioni) è di 100 milioni e il saggio del plusvalore è del 100%, pari cioè a 50 milioni, il saggio del profitto sarà del 50% (50 milioni); se ora la concorrenza costringe il capitalista a rinnovare i suoi impianti e ad aumentare la produttività del lavoro, fermo restando il grado di utilizzazione della forza-lavoro, si avrà una diminuzione relativa del capitale variabile che scenderà per esempio a 20 milioni, mentre il capitale costante salirà a 80 milioni. La somma sarà quindi ancora di 100 milioni, il saggio del plusvalore sarà ancora del 100%, calcolato però su un capitale variabile di 20 milioni, per cui il profitto sarà espresso dal saggio di 20/ (80+20) = 20%, evidentemente minore del saggio del 50% prima indicato sullo stesso capitale.
Se un capitalista vorrà ottenere, come è costretto a fare dalle condizioni oggettive determinate dalla società capitalistica, un profitto ancora di 50 milioni, oppure superiore, dovrà impiegare un capitale complessivo maggiore, cioè dovrà aumentare in qualche modo la produzione: questa è la causa delle crisi di sovrapproduzione e, nel contempo, una delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico. Ciò perché da ogni crisi il capitale «esce completamente rinnovato»; in concreto l’innovazione consiste, accanto ai molteplici effetti collaterali, in un aumento del capitale costante a spese del capitale variabile (vedi Crisi economica, Salario). Sulla questione della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, i cui riflessi, nell’ambito della lotta politica tra il movimento operaio organizzato e i capitalisti nel loro insieme, sono evidenti, sono sorte fin dalla prima enunciazione della sua «legge», numerose discussioni controverse alle quali Engels rispose nella prefazione al III libro de Il Capitale, pubblicato dopo la morte di Marx. Tali controversie sono ancora in atto, sia pure nelle mutate circostanze della presente epoca, alimentate in modo particolare sia da erronee interpretazioni del significato generale della legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto che dalle obiezioni degli economisti borghesi.
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Salario
È il prezzo della forza-lavoro, ovvero la quantità di denaro fornita dal capitalista per l’uso della forza-lavoro per un tempo determinato. Nella società capitalistica il salario è la forma di retribuzione prevalente; talvolta viene chiamato in altri modi, come per esempio stipendio. La sua grandezza è determinata, in generale, dal valore dei mezzi di sussistenza necessari per la vita e la riproduzione della forza-lavoro. Ovviamente tale necessità varia con le condizioni e i costumi di vita di ciascun paese, e comprende non solo il minimo indispensabile per il normale funzionamento della forza-lavoro stessa, ma deve tener conto di altri fattori, tra i quali le spese relative all’istruzione professionale.
Marx mette in rilievo come il salario non possa mai scendere al di sotto di certi limiti, pena la riduzione dell’efficienza lavorativa e conseguentemente la diminuzione della produttività. La somma dei salari permette di valutare in termini monetari la quota del capitale complessivo impiegato nella produzione, che viene chiamato capitale variabile. È questo un elemento di estrema importanza che differenzia la concezione marxista dell’economia da quella delle scuole borghesi, che prevalentemente distinguono solo tra capitale fisso e capitale circolante, comprendendo in quest’ultimo tutte le merci inclusa la forza-lavoro. Semplificazione che è alla base di una serie di incomprensioni, tra cui l’idea che il salario sia determinato esclusivamente dalle leggi della domanda e dell’offerta come tutte le altre merci; la situazione è perfettamente rappresentata dall’uso del termine «mercato del lavoro», che si affianca agli altri numerosi mercati, del cotone, dei cereali, del ferro, ecc. Invece per Marx la forza-lavoro non soltanto non è una merce come tutte le altre, ma diventa tale solo nel sistema capitalistico.
Di più, per l’economia borghese resta incomprensibile la natura stessa del salario che viene considerato come il «prezzo del lavoro». L’analisi marxista considera invece il salario come il prezzo della forza-lavoro.
«In realtà, sul mercato delle merci si presenta al possessore di denaro non il lavoro, ma il lavoratore. Ciò che vende quest’ultimo è la propria forza-lavoro. Appena il suo lavoro comincia realmente, esso ha già cessato di appartenergli, e quindi non può più essere venduto da lui» (Marx, Il Capitale, libro I, p. 587).
Occorre distinguere tra salario reale e salario nominale. Il primo è misurato dalla quantità reale di merci che si possono acquistare con il salario stesso. Un esempio molto diffuso del modo di valutare il salario reale è offerto dai calcoli con i quali si determinano in ore di lavoro i prezzi di alcune merci di uso corrente nei vari paesi. Il secondo è invece la quantità di denaro che costituisce l’espressione monetaria del salario, ed è indipendente dal suo potere d’acquisto.
Di regola, la soluzione delle crisi che travagliano il modo di produzione capitalistico è affidata alla riduzione del salario reale, mediante la quale si provoca una limitazione dei consumi e un conseguente abbassamento delle condizioni generali d’esistenza dei salariati.
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Scambio
È l’attività per mezzo della quale un prodotto passa da un proprietario all’altro.
Nelle varie epoche lo scambio è stato praticato in forme diverse, la più antica delle quali è il baratto (vedi), sempre però presupponendo un minimo di varietà nei prodotti del lavoro, in quanto se in una comunità tutti producessero la stessa cosa non avrebbero niente da scambiare tra loro.
Nell’attuale momento storico lo scambio di capitale variabile con forza-lavoro, cioè la compravendita di questa merce particolare, è la condizione stessa dell’esistenza del capitalismo; in assenza di tale scambio, infatti, i mezzi di produzione e i mezzi di sussistenza non potrebbero trasformarsi in capitale.
La nascita del capitalismo moderno ha come presupposto la diffusione generale dello scambio di merci, cioè del commercio, mentre la merce come forma sociale universalmente necessaria del prodotto è il risultato esclusivo del modo di produzione capitalistico (vedi Forza-lavoro, Merce, Salario).
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Schiavismo
Il termine indica la formazione economico-sociale in cui la base dei rapporti di produzione è costituita dalla proprietà privata sia dei mezzi di produzione sia del produttore stesso, che, in questo caso, appartiene di diritto al padrone. In questo modo di produzione (vedi) il lavoratore è del tutto identico agli strumenti di produzione, in quanto le sue caratteristiche di essere umano sono totalmente negate dai rapporti sociali in cui è costretto a vivere. Come ha osservato Marx, il lavoratore è distinto dai mezzi di produzione e dagli animali soltanto come strumento fornito di parola.
Lo schiavismo è caratterizzato dall’estorsione di plusvalore non retribuito al produttore immediato:
«Il capitale non ha inventato il pluslavoro. Ovunque una parte della società possegga il monopolio dei mezzi di produzione, il lavoratore, libero o schiavo, deve aggiungere al tempo di lavoro necessario al suo sostentamento tempo di lavoro eccedente per produrre i mezzi di sostentamento per il possessore dei mezzi di produzione … Nel lavoro degli schiavi persino la parte della giornata lavorativa, in cui lo schiavo non fa che reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, in cui dunque egli lavora in realtà per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone. Tutto il suo lavoro appare come lavoro non retribuito» (Il Capitale, libro I, pp. 269 e 590).
Il sistema della schiavitù rivelò a un certo momento, coincidente con una maggior richiesta di prodotti per il commercio, i propri limiti; di conseguenza cominciarono ad affermarsi altri modi di produzione. Per esempio per aumentare la produttività dei terreni agricoli i proprietari ricorsero al frazionamento e all’affitto dei fondi: si diffuse così la forma del colonato che può essere considerata come immediato precedente del modo di produzione capitalistico.
La figura sociale della schiavitù si è conservata molto a lungo in vari paesi anche nell’epoca del capitalismo, come nella società americana del sec. XIX. La sua estinzione, come osserva Marx, fu anche in questo caso dovuta all’insufficiente produttività.
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Scienza
In generale indica un insieme organico di conoscenze ottenute con criteri adatti a garantirne l’oggettività, vale a dire la corrispondenza con i fatti reali.
In questo senso si parla di scienza, anche nell’uso comune, per sottolineare le differenze tra questo tipo di conoscenza e altri tipi possibili ma non basati sugli stessi criteri; l’uso della parola al singolare ha pertanto questo significato generico, non è sinonimo di scienze naturali, ma comprende le conoscenze più diverse per contenuto e per metodo.
Nelle opere di Marx e di Engels scienza e il corrispondente aggettivo scientifico sono usati innanzitutto per indicare conoscenze diverse da quelle proprie dell’ideologia (vedi), cioè dalla rappresentazione distorta e unilaterale della realtà che maschera gli interessi di classe. Se si considera ad esempio la conoscenza ideologica della storia, si può osservare che essa ha «puramente e semplicemente ignorato» la base reale della storia stessa, si è inoltrata «sul terreno speculativo», ha deformato la realtà fino «al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente». Di conseguenza la storia è stata descritta e interpretata secondo criteri che le erano estranei lasciando fuori «la produzione reale della vita» sbrigativamente giudicata come un fatto precedente e non riguardante la storia stessa e attribuendo a tutto quello che era storico un carattere immateriale, «separato dalla vita comune». In questo modo «il rapporto dell’uomo con la natura è quindi escluso dalla storia, e con ciò è creato l’antagonismo tra natura e storia». La conoscenza scientifica della storia, se vuole essere davvero «scienza», non può invece escludere il rapporto uomo/natura, non può ignorare che la storia è indissolubilmente legata con «la produzione della vita materiale stessa», i cui modi e gradi di sviluppo procedono insieme ai rapporti tra gli uomini nella società costituendo così gli elementi stessi della storia (vedi Materialismo storico).
Ciò vuol dire, in primo luogo, rifiutare la tradizionale separazione tra mondo dell’uomo e mondo della natura e quindi tra le rispettive scienze; proprio questa scissione, frutto della divisione del lavoro nella società, ha permesso di isolare le idee dalla realtà e di assegnare loro una sfera apparentemente autonoma ma, di fatto, condizionata dalla concreta attività materiale degli uomini. Di conseguenza le asserzioni sull’uomo, la natura, ecc., vanno ricondotte alla loro base reale e verificate nella prassi (vedi); solo allora «cessa la speculazione» e ha inizio «la scienza reale e positiva, la rappresentazione dell’attività pratica», l’effettiva analisi del processo di produzione intorno a cui si muovono le vicende della storia; solo allora «cadono le frasi sulla coscienza ed al loro posto deve subentrare il sapere reale».
In secondo luogo le scienze naturali, delle cui ipotesi esiste costantemente una doppia verifica, provano in concreto che il pensiero è in grado di produrre conoscenze valide, conformi alla realtà. Ciò viene dimostrato appunto in due modi: le asserzioni di queste scienze subiscono un controllo sperimentale prima di essere accettate e vengono tradotte in elementi tecnici della produzione materiale mediante l’applicazione su vasta scala. Sono, in altri termini, verificate «nell’esperimento e nell’industria». Riconoscere questa capacità del pensiero organizzato nelle scienze naturali non significa assolutamente immaginare che i loro procedimenti specifici siano validi al di fuori del loro campo, ma semplicemente rilevare che esistono settori della realtà nei quali il pensiero è in grado di elaborare conoscenze oggettive; con tale riconoscimento vengono eliminate le controversie sulla conoscibilità del reale e le soluzioni negative che vi sono connesse: perciò Marx dirà che le scienze della natura «formano la base di ogni conoscenza» (vedi Materialismo dialettico).
A questo punto si può comprendere cosa intendono Marx e Engels quando parlano di scienza in contrapposizione a ideologia. «Scienza della storia», per esempio, vuol dire
«…spiegare il processo reale della produzione, e precisamente muovendo dalla produzione materiale della vita immediata, assumere come fondamento di tutta la storia la forma di relazioni che è connessa con quel modo di produzione e che da esso è generata, dunque la società civile nei suoi diversi stadi, e sia rappresentarla nella sua azione come Stato, sia spiegare partendo da essa tutte le varie creazioni teoriche e le forme della coscienza, religione, filosofia, morale, ecc. ecc. e seguire sulla base di queste il processo della sua origine, ciò che consente naturalmente anche di rappresentare la cosa nella sua totalità (e quindi anche la reciproca influenza di questi lati diversi l’uno sull’altro). Essa non deve cercare in ogni periodo una categoria, come la concezione idealistica della storia, ma resta salda costantemente sul terreno storico reale, non spiega la prassi partendo dall’idea, ma spiega la formazione di idee partendo dalla prassi materiale, e giunge di conseguenza al risultato che tutte le forme e prodotti della coscienza possono essere eliminati non mediante la critica intellettuale, risolvendoli nell’autocoscienza o trasformandoli in spiriti, fantasmi, spettri, ecc. ma solo mediante il rovesciamento pratico dei rapporti sociali esistenti …» (Marx, Ideologia tedesca, in Opere, V, p. 39).
Analogamente si comprende cosa significhi l’aggettivo «scientifico» che si accompagna al sostantivo socialismo; esso vuole sottolineare che le sue asserzioni poggiano sulla conoscenza scientifica della storia, che da questa ha potuto trarre le leggi generali dello sviluppo della società e quindi le linee di tendenza della storia futura (vedi Socialismo).
Nelle opere di Marx e di Engels la parola scienza viene anche usata per indicare le scienze naturali; i temi che affiorano in questo caso sono a loro volta di grandissima importanza: infatti «con la produzione capitalistica si ha la separazione della scienza dal lavoro. Contemporaneamente si ha l’impiego della scienza in quanto tale nella produzione materiale». Con queste parole Marx mette a punto una serie di problemi particolarmente sentiti nel presente momento storico. «La scienza come prodotto intellettuale generale dell’evoluzione sociale» si presenta come «direttamente incorporata al capitale», ben distinta nei processi di produzione «dal sapere e dalle capacità del singolo operaio»: frutto di un’avanzatissima divisione del lavoro essa gli appare come uno strumento nelle mani del capitale, ostile e incomprensibile. Di più, non solo il modo di produzione capitalistico ha creato per la prima volta i mezzi materiali di indagine, osservazione, sperimentazione «sui quali si fondano le scienze» ma queste hanno assunto il ruolo di «strumenti di arricchimento» sia per coloro che possiedono i mezzi di produzione sia per gli stessi scienziati che «entrano in concorrenza tra loro nell’intento di trovare un’applicazione pratica» alle varie scoperte scientifiche; così «l’invenzione diviene un mestiere particolare».
Ne sono derivati diffidenza o rifiuto della scienza (vedi) e della tecnica (vedi) e superficiali condanne dell’una o dell’altra, bollate come elementi costitutivi e inscindibili del capitale; ma questo per Marx è l’atteggiamento proprio delle forme di socialismo che ritenevano la piccola proprietà contadina e l’artigianato i modelli ai quali la società avrebbe dovuto tendere, e che coincidevano perciò con le nostalgie dei movimenti più reazionari.
Le scienze della natura si sviluppano prodigiosamente con l’affermarsi del modo di produzione capitalistico, ne ricevono un impulso senza precedenti, ma sono per così dire gestite in proprio dal capitalismo stesso, crescono nelle sue istituzioni e perseguono i suoi interessi per la parte che è di loro competenza. Eppure secondo Marx e Engels le scienze sono la base di ogni conoscenza, sono la prova che il pensiero riesce a rappresentare in modo corretto la realtà. Questa apparente contraddizione che ricompare oggi nelle discussioni sulla «neutralità della scienza» ha la sua ragion d’essere nel modo semplicistico di porre questo tema: se la scienza è asservita al capitale non può essere neutrale, è uno degli strumenti del suo dominio, va rifiutata. I termini della questione sono però ben altri e possono così essere sintetizzati: la scienza non è neutrale non a livello delle sue affermazioni su un certo fenomeno – «non conosco logaritmi gialli», diceva Marx – ma nella scelta dei problemi da risolvere; questi infatti non provengono, se non in misura marginale, dalle esigenze di sviluppo organico di una data disciplina scientifica, ma sono imposti dall’esterno in funzione delle necessità più o meno direttamente connesse con la produzione materiale, il cui fine nell’epoca del capitalismo è il profitto.
Questa dipendenza non si attua soltanto nelle forme dirette di finanziamento delle ricerche e dell’inclusione di istituti di ricerca nelle grandi imprese, ma anche in forme indirette quali il controllo degli orientamenti di studio, la creazione di una scala di importanza e di attualità nella quale classificare i vari problemi, ecc.
Tuttavia le scienze della natura restano «la base di ogni conoscenza», «il banco di prova della dialettica»; piegate agli interessi del capitale per quanto riguarda la selezione dei temi di ricerca e le applicazioni concrete, esse sviluppano forme di conoscenza che contrastano le ideologie del capitalismo e in quanto forza di produzione specifica entrano in contraddizione con i rapporti di produzione esistenti (vedi Dialettica della natura, Materialismo dialettico).
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Sciopero
Consiste essenzialmente nell’astensione collettiva dal lavoro ed è la principale forma di lotta che la classe operaia ha adottato per ottenere migliori condizioni sia per quanto riguarda il salario che per quanto riguarda la normativa generale del lavoro. È contemporaneamente la prima e più importante forma di organizzazione che, dal momento della comparsa generalizzata del lavoro salariato (vedi), ha consentito agli operai di intervenire direttamente nell’organizzazione del lavoro.
Infatti i primi scioperi avvenuti in Inghilterra nei primi anni dell’Ottocento, pur essendo una forma spesso spontanea di ribellione a condizioni di lavoro estremamente oppressive, costituivano un notevole passo avanti nei confronti del luddismo (vedi) e della ribellione individuale, in quanto presupponevano la coscienza da parte dei lavoratori del loro ruolo sociale e l’affermazione che il loro lavoro era essenziale per la produzione. Inoltre, come tra gli altri ha osservato Engels, la stessa organizzazione industriale del lavoro, «irreggimentando» grandi masse di uomini e sottoponendoli a una disciplina – qual è la vita di fabbrica – suscita negli operai la coscienza di appartenere a una classe e la disposizione a organizzarsi.
Ben presto lo sciopero richiese una certa preparazione e una definizione anticipata di tempi e modalità anche perché i capitalisti adottarono, fin dai primi anni dell’Ottocento, misure repressive e preventive. Ciò contribuì notevolmente al sorgere di una coscienza di classe e insegnò agli operai come costruire una struttura organizzativa capace di coordinare la loro lotta.
In seguito, soprattutto verso i primi anni del ’900, quando ormai in tutta l’Europa la produzione si effettuava principalmente in grandi complessi industriali e i lavoratori iniziavano a partecipare agli scioperi in numero crescente, si poterono effettuare degli scioperi «generali» che coinvolgevano i lavoratori di tutti i settori più importanti della produzione.
Questo tipo di sciopero divenne uno strumento molto efficace; in qualche caso, il blocco totale della produzione fu considerato come un’arma rivoluzionaria. Sorel, per esempio, aveva teorizzato lo sciopero generale come strumento rivoluzionario teso appunto al rovesciamento dello Stato tramite la paralisi economica.
Tuttavia il solo sciopero, cioè il blocco della produzione, si dimostrò ben presto insufficiente, senza un programma che proponesse una profonda trasformazione dei rapporti di produzione. Gli scioperi generali, quindi, in seguito alla critica condotta soprattutto da Lenin e Gramsci al cosiddetto sindacalismo rivoluzionario, restano uno dei più importanti e decisivi momenti di lotta della classe operaia, inseriti però in un programma politico che ne includa l’attuazione in una prospettiva complessiva.
L’evoluzione e la storia dell’utilizzazione dello sciopero da parte della classe operaia dimostra come esso non sia un fenomeno di «disaffezione al lavoro», ma al contrario venga talvolta utilizzato per mantenere e sviluppare l’occupazione e le capacità produttive dei lavoratori.
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Serrata
La chiusura temporanea di una fabbrica attuata per decisione unilaterale dal proprietario. I motivi che spingono alla serrata possono essere di carattere economico (vantaggi dovuti alla minore immissione di merci sul mercato) o, più spesso, di carattere politico.
Storicamente la serrata è nata come forma di ritorsione attuata per mettere in difficoltà gli operai, sia dal punto di vista delle loro condizioni di lavoro, sia per contrastare la loro organizzazione (vedi Sindacato) all’interno della fabbrica.
Le caratteristiche di manovra tipicamente speculativa hanno spinto il movimento operaio a contrastare il più possibile la serrata; inoltre le serrate costituiscono un danno per tutta la società, perché tendono alla distruzione delle forze produttive. Ciò è stato riconosciuto in Italia anche dal punto di vista legale: il codice penale (art. 502, 505) considera la serrata un reato contro l’economia pubblica.
Questo tipo di provvedimento inoltre incide sull’efficienza e sulla funzionalità delle forze produttive e tende a mutare i termini dei patti stabiliti con i lavoratori.
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Servizi
Secondo Marx «non sono che un altro modo di esprimere il particolare valore d’uso del lavoro in quanto utile non come cosa ma come attività».
Nell’acquisto di servizi resi da una singola persona non compare affatto lo specifico rapporto fra capitale e lavoro: perciò fu a suo tempo un fenomeno considerato con particolare entusiasmo dagli economisti borghesi ed elevato a modello di prestazione lavorativa. La falsità di simili considerazioni è piuttosto ovvia: anche il salariato acquista servizi con il proprio denaro e con ciò lo spende, non lo trasforma in capitale. «Nessuno acquista prestazioni mediche o legali come mezzo alla trasformazione del denaro così speso in capitale»; qui il lavoro è scambiato contro «denaro come denaro», è un lavoro improduttivo, fatto ben diverso dallo scambio di lavoro contro «denaro come capitale» che è proprio del lavoro produttivo (vedi Lavoro).
Con lo sviluppo della produzione capitalistica i servizi tendono a trasformarsi in lavoro salariato. Attualmente i servizi, vale a dire i valori d’uso costituiti da attività e non da oggetti materiali, hanno raggiunto dimensioni e complessità enormemente maggiori che ai tempi di Marx e buon parte di essi è alle dipendenze del capitale privato, mentre un’altra parte è gestita direttamente o indirettamente dallo Stato.
Una classificazione assai diffusa delle attività economiche include i servizi nel cosiddetto settore terziario, indicando come primario l’agricoltura e come secondario l’industria.
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Settarismo
Atteggiamento caratteristico di un partito o di un’organizzazione che fondino il proprio programma e la propria azione non sulla sua capacità di unire attorno alla classe operaia gli altri strati sociali potenzialmente suoi alleati, bensì proprio sulla negazione della validità o della stessa possibilità di stabilire un rapporto unitario con quelle forze sociali e politiche che, in una concreta situazione storica, si trovino a convergere su determinati punti col programma anticapitalistico dei comunisti. Nelle sue manifestazioni pratiche il settarismo finisce col far prevalere gli interessi politici del partito o del gruppo su quelli più generali del movimento, cogliendo della teoria e della linea rivoluzionaria non l’insieme, ma uno o più aspetti ai quali si rimane rigidamente ancorati, senza preoccuparsi delle connessioni interne, del legame tra la teoria e la pratica (vedi Dogmatismo).
Il risultato non è soltanto l’isolamento del partito dalla realtà sociale, ma anche il vanificare l’azione e l’agitazione rivoluzionaria all’interno della stessa classe operaia, di cui non si individua la funzione d’avanguardia nei confronti delle masse popolari. Il rifiuto di una politica di azione unitaria con tutte le forze politiche che possono essere unite su obiettivi concreti, è dovuta quindi al settarismo verso le masse, all’incapacità cioè di comprendere attraverso quali strumenti e obiettivi l’azione tattica può fare avanzare il disegno strategico. Dice Gramsci:
«…pensiero settario è quello per cui non si riesce a vedere come il partito politico non sia solo l’organizzazione tecnica del partito stesso, ma tutto il blocco sociale attivo di cui il partito è la guida perché l’espressione necessaria» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1818).
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Sfruttamento
Estorsione di pluslavoro (vedi Plusvalore) agli operai salariati da parte dei capitalisti. Nella concezione marxista, lo sfruttamento è inteso non soltanto in senso economico, ma serve a indicare le condizioni generali di vita e l’impoverimento culturale e morale in cui si trova la classe operaia nella società capitalistica.
Ne Il Capitale Marx sviluppò un’approfondita analisi delle cause dello sfruttamento, che dimostrò essere condizione essenziale per la stessa esistenza del modo di produzione capitalistico.
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Sindacalismo
È l’attività tendente a sviluppare una politica di associazionismo sindacale tra i lavoratori (vedi Sindacato).
Nella storia del movimento operaio questo termine assunse un significato particolare, in quanto si manifestarono soprattutto nei primi anni del ’900 tendenze all’accentuazione del ruolo del sindacato che giunsero fino al punto di negare la necessità e la funzione del partito politico rivoluzionario. Queste tendenze, che spesso si accompagnavano a quelle solo apparentemente opposte che limitavano il ruolo dell’azione sindacale alla semplice lotta economica (vedi Economicismo), ebbero in Sorel uno dei più importanti sostenitori e presero il nome di «sindacalismo rivoluzionario», che ebbe un notevole sviluppo negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale.
Questa concezione, che riteneva di potersi opporre alla guerra e di creare le premesse della rivoluzione attraverso la proclamazione dello «sciopero generale insurrezionale» con carattere internazionale, fu criticata dagli esponenti marxisti del movimento operaio in quanto privava la classe operaia del suo ruolo politico e della sua più esperta forma di organizzazione, il partito (vedi).
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Sindacato
L’organizzazione dei lavoratori che ne tutela gli interessi economici e normativi.
Sorto storicamente come movimento associativo per la difesa degli operai contro le forme più brutali dello sfruttamento nel periodo della nascita del capitalismo industriale moderno, il movimento sindacale ebbe una rapida diffusione nei paesi maggiormente industrializzati. In particolare in Inghilterra già nei primi anni del 1800, accanto a forme di lotta quali il luddismo (vedi), si costituirono associazioni che assunsero il nome di «Trade unions», e avevano come scopo quello di tutelare le condizioni di lavoro e di vita degli operai.
In Francia si formarono quasi contemporaneamente le Società di Mutuo Soccorso, che si proponevano di aiutare economicamente i lavoratori più danneggiati dallo sfruttamento o quelli che rimanevano senza lavoro a causa delle crisi economiche (vedi). Tali forme associative, represse e ostacolate al loro sorgere, andarono tuttavia sempre più estendendosi, conquistando diritti fondamentali per i lavoratori: limiti alla giornata lavorativa, tutela del lavoro minorile e femminile.
Inoltre la necessità di forme organizzative all’interno del movimento operaio favorì la partecipazione dei lavoratori alla lotta politica. Movimenti politici quali il cartismo in Inghilterra e il blanquismo in Francia ebbero infatti l’appoggio delle «coalizioni sindacali» dei rispettivi Paesi.
Tuttavia solo nella seconda metà del 1800 e agli inizi del 1900 si ebbe una grande espansione delle organizzazioni sindacali, che andarono assumendo però caratteristiche molto diverse nei vari paesi. Inoltre con il sorgere e il consolidarsi dei partiti marxisti, si pose il problema del rapporto tra forme organizzative e di lotta di carattere sindacale e partecipazione alle attività politiche dei partiti espressi dal movimento operaio.
In Inghilterra prevalse una visione del sindacato come strumento di difesa degli interessi economici degli operai, mediante forme rivendicative proprie delle forze sindacali quali lo sciopero (vedi), mentre l’attività politica venne demandata ai rappresentanti parlamentari del Labour Party, costituitosi nel 1906, organizzato e finanziato dalla Trade Union, che si era costituita a livello nazionale.
In Francia la presenza di forze sindacali di ispirazione diversa – i gruppi di orientamento mutualista, quelli egualitari (babeuviani), quelli anarchici, quelli marxisti e altri – rese estremamente complessa la formazione di una rappresentanza sindacale unitaria e portò, inoltre, a una separazione tra sindacato e partiti della classe operaia. All’inizio del 1900, infatti, si poteva constatare all’interno della Confederazione Generale del Lavoro, che raccoglieva i principali sindacati francesi, una scissione interna molto netta tra sindacalisti riformisti e sindacalisti rivoluzionari. Lo sviluppo di quest’ultima tendenza condusse alla rivendicazione di un ruolo del sindacato totalmente autonomo e indipendente dai partiti nella lotta politica.
In Germania si giunse invece a un’alleanza organica tra il sindacato e il partito socialdemocratico, fondata, tuttavia, sulla distinzione delle sfere d’azione dei due organismi: il primo finalizzato alla lotta propriamente economica e subordinato al secondo, che conduceva in Parlamento la lotta politica.
Dato il prevalere all’interno della Seconda Internazionale (vedi Internazionale) delle posizioni del Partito Socialdemocratico tedesco (SPD) e dei capi delle potenti organizzazioni sindacali operaie, sviluppatesi in Germania negli ultimi anni del 1800 e nei primi decenni del 1900, tale distinzione fu accettata da tutti i movimenti sindacali europei e si impose anche negli USA, nonostante le caratteristiche molto diverse della nascita e dello sviluppo di quelle organizzazioni sindacali.
La separazione tra i due ambiti, economico e politico, e quindi tra sindacato e partito, era già stata criticata da Marx all’interno della Prima Internazionale con la proposta, approvata negli Statuti generali del 1866, di fare dei sindacati dei «centri di organizzazione della classe operaia». Analogamente Lenin si contrappose alla posizione della Seconda Internazionale, affermando la necessità di un’azione complementare tra sindacato e partito. Infatti se da un lato egli riconosceva il compito fondamentale del sindacato nell’organizzazione dei lavoratori, dall’altro sottolineava la necessità di un’azione educativa e direttiva del partito:
«I sindacati, al principio dello sviluppo del capitalismo, furono un gigantesco progresso per la classe operaia, in quanto rappresentarono il passaggio dalla dispersione e dall’impotenza degli operai ai primi germi dell’unione di classe … il proletariato, in nessun paese del mondo non si è sviluppato, né poteva svilupparsi altrimenti che per mezzo dei sindacati, per mezzo dell’azione reciproca tra sindacati e partito della classe operaia» (Lenin, L’Estremismo malattia infantile del comunismo, p. 40).
In Italia in una prima fase nel movimento operaio si scontrarono due posizioni: quella dei «riformisti», che riproponevano la distinzione e la subordinazione del sindacato al partito nei termini in cui era stata formulata all’interno della Seconda Internazionale, e quella contrapposta di coloro che rivendicavano all’azione sindacale la soluzione di tutti i problemi della classe operaia (vedi Massimalismo).
Con la nascita del PCI nel 1921 e la critica gramsciana tanto delle posizioni riformiste, quanto di quelle del cosiddetto «sindacalismo rivoluzionario», il rapporto sindacato-partito venne ponendosi, anche in Italia, nei termini di un collegamento organico che permetta il realizzarsi dell’emancipazione della classe operaia.
La posizione di Gramsci e del PCI fu determinante, inoltre, per mantenere vivo il movimento sindacale durante il periodo delle repressioni fasciste (vedi Fascismo), che miravano a trasformare le organizzazioni sindacali in organismi corporativi (vedi Corporativismo), al fine di indebolirne l’opposizione al regime e alla classe che lo sosteneva.
Attualmente il sindacato italiano vede ancora aperto al suo interno il dibattito sul rapporto con i partiti, accanto a quello sui modi con cui ricostruire l’unità del movimento sindacale, sancita nel Patto di Roma il 3 giugno 1944, ma successivamente infranta col costituirsi, accanto alla CGIL, di altre organizzazioni – CISL, UIL – e rappresentanze di categoria dei lavoratori.
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Sinistra
Questo termine è divenuto corrente nel linguaggio politico da quando all’Assemblea legislativa costituitasi in Francia nel 1791 i deputati di orientamento progressista si sedettero nei banchi situati alla sinistra, mentre a destra stava il gruppo dei Monarchici Costituzionali, e al centro erano situati i cosiddetti deputati indipendenti, di orientamento politico incerto, che formavano il gruppo denominato «la palude».
Da allora alla sinistra, nello schieramento politico, si collocano le organizzazioni che rivendicano la necessità di una trasformazione della società e che si contrappongono, in diversa misura, ai progetti di conservazione. L’espressione sinistra storica contraddistinse, negli anni dal 1861 al 1876 in Italia, l’opposizione costituzionale di orientamento genericamente mazziniano che, pur accettando di partecipare al parlamento nonostante il permanere della monarchia, rivendicò il suffragio universale e l’unificazione di Roma e del Veneto all’Italia. Nel 1876 andò al governo con Depretis, senza tuttavia contrastare gli orientamenti politici generali che avevano caratterizzato il periodo precedente. Depretis fu anzi l’iniziatore della politica detta del trasformismo, in cui furono eliminate le distinzioni ideologiche tra i due schieramenti.
Attualmente si indica con il termine sinistra ufficiale o tradizionale, oppure usando ancora in modo improprio l’espressione sinistra storica, il Partito Comunista Italiano e il Partito Socialista Italiano, per sottolineare la lunga tradizione storica di questi partiti (il PSI è stato fondato nel 1892, il PCI nel 1921). L’uso di queste espressioni riflette anche, in un certo senso, il profondo legame che tali partiti hanno con la società italiana e con le sue istituzioni.
Negli ultimi anni questi termini sono stati spesso usati al fine di operare una distinzione con le forze politiche di sinistra recentemente formatesi. La cosiddetta sinistra rivoluzionaria è l’insieme delle formazioni politiche, prevalentemente giovanili, che sono nate con le grandi lotte operaie e studentesche della seconda metà degli anni ’60. Si definiscono rivoluzionarie perché una delle loro caratteristiche principali è di affermare la possibilità e la necessità di una rivoluzione sociale anche in Italia. Alcune di esse si richiamano ai principi del marxismo-leninismo, che vengono ritenuti trascurati o interpretati in modo inadeguato da parte delle altre organizzazioni della sinistra.
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Sinistra hegeliana
La concezione di Hegel fu diversamente interpretata nel periodo immediatamente successivo alla sua morte dai suoi continuatori. Tra questi si distinguono una sinistra hegeliana o Giovani hegeliani, e una destra hegeliana o Vecchi hegeliani: i primi accentuarono in particolar modo gli aspetti critici della concezione hegeliana, soprattutto nei confronti della religione e dell’assolutismo politico; i secondi, il lato sistematico e conservatore dell’opera di Hegel.
Alla sinistra appartennero tra gli altri F. Strauss, B. Bauer, M. Stirner (pseudonimo di J. Schmidt), M. Hess. Anche Feuerbach, il quale tuttavia viene spesso considerato come parzialmente autonomo e originale nei confronti del gruppo dei Giovani hegeliani in senso stretto, appartiene alla sinistra hegeliana. Sul piano più propriamente politico i Giovani hegeliani pubblicarono diverse riviste tra cui le più importanti furono, negli anni dal ’41 al ’43, i «Deutsche Jahrbücher» (Annali tedeschi) di A. Ruge e altri, e nel ’42 la «Rheinische Zeitung» (Gazzetta renana) di orientamento liberal-radicale, di cui Marx fu redattore capo.
Indipendentemente dalle differenze e dai contrasti tra i vari appartenenti alla sinistra hegeliana, che ben presto si frantumò nelle concezioni autonome dei singoli autori, il fermento culturale e politico di cui fu espressione ebbe un’importanza notevolissima nella formazione intellettuale di Marx, che dedicò molti dei suoi scritti giovanili alla critica di alcune concezioni di autori appartenenti alla sinistra hegeliana: tra i più famosi, La Sacra Famiglia in cui Marx criticò in particolare le concezioni di Bauer, Stirner e altri, e L’ideologia tedesca, scritto in collaborazione con Engels nel 1845.
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Sistema
Questo termine è solitamente usato dai classici per indicare la formazione economico-sociale (vedi) e il modo di produzione (vedi) nel suo complesso, cioè l’insieme della struttura e della sovrastruttura.
In alcune correnti del marxismo contemporaneo è usato per accentuare particolarmente il carattere di onnipresenza dell’attuale capitalismo, le cui leggi e i cui modi si spingono fino nella vita interiore degli uomini.
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Socialdemocrazia
Nel linguaggio politico si indicano con questo termine quelle correnti del socialismo che accettano e anzi fanno propri i principi della democrazia parlamentare e gli istituti liberali ad essa connessi, diversamente dalle correnti più radicali e in particolare dal pensiero comunista, che - denunciandone la natura di classe - ne rivendicano il superamento attraverso una radicale rottura degli apparati statali borghesi e dei rapporti di produzione capitalistici.
Storicamente all’interno del generale indirizzo socialdemocratico vanno distinti movimenti e partiti con caratterizzazioni ideologiche e politiche assai differenti, in relazione soprattutto alle diverse situazioni politiche ed economiche nazionali. Nel linguaggio comune, col termine socialdemocrazia ci si riferisce sia alle correnti più progressiste e democratiche del pensiero politico borghese, disposte a una politica di riforme sociali e di sviluppo democratico, sia a quei partiti che, sorti come espressione degli interessi della classe operaia e dei suoi obiettivi socialisti e comunisti, attraverso un’opera di revisione (vedi Revisionismo) integrale del marxismo, giunsero al riformismo (vedi) cioè alla rinuncia del superamento del sistema borghese, di cui accettavano sostanzialmente le leggi e le conseguenze.
Se per tutto il sec. XIX i partiti socialdemocratici erano stati i rappresentanti del proletariato e anzi il loro nascere e rafforzarsi, specie in Germania, aveva coinciso con lo sviluppo teorico e organizzativo della classe operaia, l’abbandono dei loro principi operato dai partiti della Seconda Internazionale (vedi) e dai teorici del revisionismo portò il riformismo socialdemocratico alla collaborazione con la borghesia e alla subordinazione degli interessi proletari al capitalismo. Ciò proprio nel momento in cui le trasformazioni della borghesia in senso monopolistico e imperialistico causavano il più violento attacco alle condizioni di vita, di lavoro e di lotta della classe operaia.
Mentre s’imponeva ai lavoratori una rinnovata e originale capacità di analisi degli sviluppi del capitalismo e l’elaborazione di una tattica (vedi) e di una strategia (vedi) adeguate, la politica socialdemocratica produceva non solo la rottura dell’unità della classe operaia e l’isolamento politico della sua avanguardia, ma soprattutto ostacolava quel processo di riformulazione teorica che soltanto con l’opera di Lenin e l’esperienza rivoluzionaria bolscevica avrebbe trovato la sua espressione (vedi Bolscevismo, Leninismo).
Fin dagli anni immediatamente successivi al primo dopoguerra i partiti socialdemocratici rifiutarono l’esperienza sovietica e parteciparono attivamente alla repressione dei movimenti comunisti, quando non la diressero apertamente, come accadde in Germania (vedi Spartachismo); inizia in quello stesso periodo l’abbandono programmatico dei principi del marxismo, giudicati ormai inadatti a comprendere i mutamenti delle condizioni economiche, sociali e politiche sopravvenuti nel frattempo.
A questo atteggiamento non fece seguito alcuna nuova elaborazione che, in qualche modo, fosse in grado di affrontare i problemi della società contemporanea dal punto di vista di classe. Questi partiti si limitarono o a riprendere concezioni premarxiste o ad accogliere quelle prodotte e diffuse in nome e per conto delle classi al potere o, più semplicemente, a esercitare un’attività politica non distinguibile da quella degli altri partiti borghesi. Tendenza che si è poi sviluppata fino ad essere ormai comune a tutti i partiti socialdemocratici contemporanei.
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Socialismo
È il periodo storico della transizione dal capitalismo al comunismo; viene definito da Marx anche come fase inferiore della società comunista.
La proprietà statale dei mezzi di produzione e la dittatura del proletariato possono essere considerate come le principali e più generali caratteristiche che distinguono il socialismo da tutte le altre epoche storiche.
Come il comunismo anche il socialismo è stato teorizzato più volte in diverse epoche. Le prime vere e proprie teorie socialiste, elaborate in modo relativamente organico e coerente, risalgono al secolo XVIII e soprattutto ai primi decenni del XIX. Infatti è solo a partire da questo periodo che il proletariato inizia ad assumere le caratteristiche di una classe autonoma, capace di elaborare, attraverso gli intellettuali organicamente legati ai suoi interessi una nuova concezione della società e una vera e propria dottrina del socialismo.
Marx ed Engels dedicarono un apposito capitolo del Manifesto del Partito Comunista all’analisi critica delle dottrine che, in diversa misura, si ispiravano al socialismo. L’importanza di questa analisi risulta evidente osservando che
«Il socialismo moderno, considerato nel suo contenuto, è anzitutto il risultato della visione, da una parte, degli antagonismi di classe, dominanti nella società moderna, tra possidenti e non possidenti, salariati e capitalisti; dall’altra, della anarchia dominante nella produzione. Considerato invece nella sua forma teorica, esso appare all’inizio come una continuazione più radicale, che vuol essere più conseguente, dei principi sostenuti dai grandi illuministi francesi del XVIII secolo. Come ogni nuova teoria, esso ha dovuto anzitutto ricollegarsi al materiale ideologico preesistente, per quanto avesse la sua radice nella realtà economica» (Engels, L’evoluzione del socialismo dall’utopia alla scienza, p. 67).
Marx ed Engels distinguono tra socialismo reazionario, socialismo conservatore borghese e socialismo e comunismo critico-utopistici.
Al socialismo reazionario appartennero in primo luogo quei settori dell’aristocrazia francese e inglese che, allo scopo di contrastare lo sviluppo della nascente società capitalistica, si appellarono demagogicamente alla denuncia delle condizioni di vita della classe operaia, mentre erano essi stessi rappresentanti dei privilegi della vecchia società feudale; questa corrente fu chiamata da Marx ed Engels del socialismo feudale. Al socialismo reazionario appartennero anche i sostenitori di una concezione piccolo-borghese che, in Francia e in Inghilterra, pur avendo colto alcune delle contraddizioni caratteristiche della società capitalistica, non furono poi in grado di proporre un’alternativa realmente progressiva. Il più importante esponente di questa corrente, che Marx ed Engels chiamarono del socialismo piccolo-borghese, fu l’economista svizzero Sismondi, il quale sostenne la necessità di un ritorno al corporativismo precapitalistico. Anche coloro che, in Germania, pretesero di essere giunti al «vero» socialismo semplicemente in seguito a un’esposizione puramente letteraria e filosofica di idee che non avevano alcun legame con la realtà tedesca, sono da considerarsi rappresentanti del socialismo reazionario. Esponenti di questa corrente furono tra gli altri: M. Hess, K. Grün e B. Bauer.
Il socialismo conservatore borghese, di cui Proudhon fu il più famoso esponente, sostenne in modo abbastanza sistematico che la lotta di classe nella società moderna doveva essere abolita, ma ciò non veniva concepito come il risultato dell’abolizione del modo di produzione capitalistico, bensì era presentato come conciliazione pura e semplice di interessi di classe in realtà opposti. Marx ed Engels denunciarono questi tentativi come oggettivamente coerenti con gli obiettivi della borghesia.
Il socialismo e comunismo critico-utopistici furono senz’altro i più importanti tra i movimenti precedenti al marxismo, sia storicamente che sotto il profilo teorico. Saint-Simon, Fourier, il comunista Cabet in Francia e Owen in Inghilterra possono essere considerati gli esponenti più rappresentativi di questa tendenza. Le loro teorie costituirono una prima critica radicale della società capitalistica, condotta tuttavia senza che ad essa corrispondesse un’adeguata analisi scientifica delle condizioni storiche e materiali che possono formare le premesse per la nascita di una vera e propria organizzazione socialista della produzione.
«Gli inventori di questi sistemi ravvisano bensì il contrasto tra le classi e l’azione degli elementi dissolventi nella stessa società dominante, ma non scorgono dalla parte del proletariato nessuna funzione storica autonoma, nessun movimento politico che gli sia proprio … Al posto dell’azione sociale deve subentrare la loro azione inventiva personale; al posto delle condizioni storiche dell’emancipazione, condizioni fantastiche; al posto del graduale organizzarsi del proletariato come classe, una organizzazione della società escogitata di sana pianta. La storia universale dell’avvenire si risolve per essi nella propaganda e nell’esecuzione pratica dei loro piani sociali» (Manifesto, p. 63).
Nell’esaminare le teorie dei socialisti utopistici, Marx ed Engels distinsero nettamente tra gli aspetti effettivamente critici e rivoluzionari delle loro concezioni e quelli più legati al periodo storico in cui ebbero luogo i loro «esperimenti» di costruzione di piccole comunità organizzate in modo comunitario, che fu contraddistinto dall’ancora oggettivamente scarso sviluppo materiale del proletariato. Inoltre se l’utopismo poteva essere compreso e giustificato storicamente negli anni precedenti al 1830, esso divenne nei seguaci dei primi socialisti critici un grave limite che li spinse a svolgere un ruolo negativo nei confronti della coscienza rivoluzionaria della classe operaia.
«L’importanza del socialismo e del comunismo critico-utopistici è in ragione inversa allo sviluppo storico. A misura che la lotta tra le classi si sviluppa e prende forma, questo fantastico elevarsi al di sopra di essa, questo fantastico combatterla perde ogni valore pratico, ogni giustificazione teorica. Perciò anche se gli autori di questi sistemi erano per molti aspetti rivoluzionari, i loro scolari formano sempre delle sette reazionarie. Essi tengono fermo alle vecchie opinioni dei maestri, in opposizione al progressivo sviluppo storico del proletariato» (ivi, p. 65).
Più coerentemente legato alla lotta della classe operaia fu, in Inghilterra, il Cartismo che divenne un vero e proprio movimento politico in seguito all’adesione di una parte consistente della classe operaia alle rivendicazioni proposte nella «Carta», in cui erano affermati i diritti fondamentali dei lavoratori. Il Cartismo può essere considerato come il diretto precursore del movimento socialista nel senso moderno della parola. Tuttavia, soprattutto per la mancanza di una teoria rivoluzionaria che ne guidasse l’azione, il suo sviluppo fu oggettivamente limitato al periodo precedente al 1848.
Se il socialismo utopistico criticava la società capitalistica e denunciava più o meno coerentemente lo sfruttamento degli operai perché «ingiusto», Marx ed Engels, attraverso l’elaborazione della concezione materialistica della storia (vedi Materialismo storico) e la scoperta del modo concreto in cui si sviluppa la produzione di plusvalore (vedi) e del ruolo fondamentale che esso svolge nella produzione capitalistica, hanno fondato il socialismo scientifico.
Sul significato che deve essere attribuito all’espressione «scientifico» sono sorte e sono attualmente in corso numerose discussioni e polemiche. Risulta immediatamente evidente, infatti, che la teoria proposta dal marxismo non può essere considerata una scienza in tutto e per tutto identica, in quanto all’oggetto studiato e al metodo di analisi, alle discipline scientifiche che vengono solitamente definite «naturali» ed «esatte». Tuttavia gli stessi Marx ed Engels si riferirono più volte alle loro concezioni definendole scientifiche (vedi Scienza). Una prima motivazione può essere ricercata nel fatto che con ciò intendevano sottolineare le differenze profonde che separano il materialismo storico dalle interpretazioni dei socialisti utopistici. Ma esiste anche un motivo inerente in modo diretto al contenuto e al metodo della loro analisi della società capitalistica.
Infatti l’affermazione della necessità di una trasformazione in senso socialista della produzione e della società non è, nel marxismo, fondata su considerazioni di carattere esclusivamente morale o ideologico, ma è, secondo l’espressione di Marx stesso, dimostrata sulla base dell’analisi delle contraddizioni fondamentali del modo di produzione capitalistico, condotta, appunto, in modo scientifico, principalmente grazie a una nuova concezione dell’economia politica e delle sue categorie. Per il marxismo le classi in lotta tra loro esistono, e sono storicamente esistite, soltanto in presenza di particolari condizioni storiche della produzione (vedi Divisione del lavoro); inoltre la fase capitalistica della lotta di classe può essere superata solo con la dittatura del proletariato; infine la soppressione delle classi e l’estinzione dello Stato potranno essere ottenute soltanto dopo che la produzione realizzata con mezzi di produzione di proprietà statale abbia determinato nella stessa società socialista le condizioni storiche per la nascita del comunismo.
Il proletariato, e in particolar modo la classe operaia, può, realizzando la sua egemonia o dittatura, porre le basi per il superamento della divisione in classi non solo e non principalmente perché, come giustamente affermavano i socialisti utopistici, è la classe che soffre più di tutte le altre, ma soprattutto perché è la sola parte della società che, per il posto che occupa nei rapporti di produzione, deve, per diventare classe dominante, abolire e distruggere la proprietà privata dei mezzi di produzione e con ciò stesso abolire «anche le condizioni di esistenza dell’antagonismo di classe e le classi in generale, e quindi anche il suo proprio dominio di classe».
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Socialismo in un solo paese
Il complesso dei problemi politici ed economici che si presentarono nel processo di edificazione del socialismo in URSS e l’andamento delle lotte rivoluzionarie nei paesi occidentali dopo la prima guerra mondiale posero immediatamente ai bolscevichi (vedi) la questione se fosse possibile l’instaurazione del socialismo anche in un solo paese, accerchiato politicamente, militarmente ed economicamente dalle nazioni capitalistiche, o se invece esso avesse come unica garanzia di sopravvivenza lo scoppio della rivoluzione in Europa.
La teoria della rivoluzione permanente di Trotskij (vedi Trotskismo) negava appunto la possibilità del socialismo in un solo paese, affermando invece la necessità che essa fosse preceduta dalla vittoria della rivoluzione proletaria nei principali paesi dell’Europa occidentale. Sottovalutando sia la funzione dei contadini, sia la capacità di egemonia della classe operaia sugli altri strati sociali, per Trotskij infatti la rivoluzione bolscevica sarebbe inevitabilmente venuta a scontrarsi con quelle masse contadine, col cui concorso i comunisti erano giunti al potere. Le contraddizioni di un governo operaio, in un paese economicamente arretrato e a maggioranza contadina, quindi potevano avere soluzione solo su scala internazionale, attraverso la «rivoluzione mondiale del proletariato».
Questa impostazione rovesciava integralmente quella di Lenin – che concepiva la dittatura del proletariato (vedi) come basata sull’alleanza fondamentale del proletariato coi contadini – e si risolveva in una visione mitica della rivoluzione in Europa e in una concezione sostanzialmente attendista per quanto riguarda la politica interna e i grandi compiti di trasformazione socialista nell’economia. Al contrario Lenin, pur tenendo presente l’importanza della rivoluzione in Occidente per lo stesso consolidamento della rivoluzione in Russia, non attribuiva ad essa un’importanza altrettanto decisiva e anzi in alcuni suoi scritti sembra dirigere la propria analisi verso la possibilità di una soluzione rivoluzionaria nei paesi orientali: egli si basava sullo studio dello sviluppo ineguale dell’imperialismo (vedi) e sul fatto che gli antagonismi nel sistema imperialistico mondiale determinano la sua rottura più probabile proprio in quei paesi dove la catena del fronte capitalistico è più debole. La vittoria del socialismo in un solo paese, anche se capitalisticamente meno sviluppato e continuando il capitalismo ad esistere in altri paesi, era dunque possibile e probabile.
«La parola d’ordine degli Stati Uniti del mondo, come parola d’ordine indipendente … potrebbe ingenerare l’opinione errata dell’impossibilità della vittoria del socialismo in un solo paese e una concezione errata dei rapporti di tale paese con gli altri. L’ineguaglianza dello sviluppo economico e politico è una legge assoluta del capitalismo. Ne risulta che è possibile il trionfo del socialismo all’inizio in alcuni paesi o anche in un solo paese capitalistico, preso separatamente» (Lenin, Sulla parola d’ordine degli Stati Uniti d’Europa, in Opere scelte, vol. unico, p. 152).
Stalin (vedi Stalinismo) riprese e teorizzò la questione del socialismo in un solo paese, all’interno della sua impostazione generale della costruzione del socialismo e della trasformazione dell’economia (vedi Pianificazione) nell’URSS. Nel 1924, partendo dall’analisi di Lenin, esaminò i motivi per cui il corso della rivoluzione aveva preso un andamento diverso da quello prevedibile nel 1917 (cioè lo scoppio della rivoluzione anzitutto nei paesi occidentali) e come invece procedesse in modo originale, attraverso il distacco di paesi coloniali e semicoloniali dall’imperialismo (come cioè la rivoluzione procedesse dalla «periferia»). Su questa base Stalin indicò nel consolidamento dell’economia socialista e dello Stato sovietico l’elemento principale per il rafforzamento della rivoluzione in tutto il mondo, denunciando l’illusorietà e l’avventurismo della linea trotskista dell’esportazione della rivoluzione in Occidente; operazione impossibile nel momento in cui l’Europa stava attraversando un periodo di relativa stabilizzazione capitalistica e mentre l’intera situazione internazionale non induceva a prevedere una rivoluzione mondiale.
Al contrario per Stalin esistevano le condizioni interne per l’edificazione economica in senso socialista, anche se, per l’accerchiamento capitalistico e la minaccia di un intervento armato straniero, la vittoria del socialismo nell’URSS non poteva essere considerata come definitiva, ma anzi il pericolo di una restaurazione capitalistica rendeva necessario l’appoggio del proletariato europeo, alla cui lotta un’Unione Sovietica rafforzata avrebbe a sua volta recato maggior sostegno. Così Stalin poneva la questione:
«La vittoria del socialismo in un solo paese non è fine a se stessa. La rivoluzione vittoriosa in un paese deve considerarsi non come entità a se stante, ma come un contributo, come mezzo per affrettare la vittoria del proletariato in tutti i paesi. Poiché la vittoria della rivoluzione in un solo paese, in Russia nel nostro caso, non è soltanto il risultato dello sviluppo ineguale e della disgregazione progressiva dell’imperialismo. Essa è in pari tempo l’inizio e la premessa della rivoluzione mondiale … Se è giusta la tesi che la vittoria definitiva del socialismo nel primo paese che si sia liberato è impossibile senza gli sforzi concordi del proletariato di più paesi, non è men vero che la rivoluzione mondiale si svilupperà tanto più rapidamente e profondamente quanto più sarà efficace l’aiuto del primo paese socialista alle masse operaie e lavoratrici di tutti gli altri paesi» (Stalin, La rivoluzione d’Ottobre e la tattica dei comunisti russi, in Opere scelte, vol. unico, p. 517).
Se la critica di Stalin alla rivoluzione permanente giustamente rilevava l’illusorietà della speranza di una rivoluzione mondiale, il rapporto tra rafforzamento dello stato sovietico e lotta dei comunisti europei, e non solo europei, storicamente si risolse in alcuni casi in una subordinazione degli interessi di quest’ultima a quelli dell’URSS, attraverso indicazioni e direttive che, se rispondevano alle esigenze di sviluppo e di lotta della società sovietica, scarsamente potevano avere una presa sulle realtà specifiche europee, costituendo anzi spesso un freno per un’elaborazione originale dei partiti comunisti.
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Società
Una definizione generica che non tenga conto delle forme concrete nelle quali la società si manifesta, è dubbio possa essere di qualche utilità. Definizioni elementari, come quella secondo cui la società è la totalità degli uomini in una certa epoca della storia, non sono significative dal punto di vista del marxismo in quanto trascurano un fatto di estrema importanza, e cioè che gli uomini costituiscono effettivamente la società, ma all’interno di questa dipendono dai rapporti sociali che essi stessi hanno creato nel corso della storia.
Per il marxismo l’analisi delle diverse forme di società parte da quella dell’organizzazione dei rapporti di produzione succedutisi nel corso della storia. Marx utilizza prevalentemente l’espressione società civile, ripresa criticamente da Hegel, per indicare la società moderna:
«La società civile comprende tutto il complesso delle relazioni materiali fra gli individui all’interno di un determinato grado di sviluppo delle forze produttive. Essa comprende tutto il complesso della vita commerciale e industriale di un grado di sviluppo e trascende quindi lo Stato e la nazione, benché, d’altra parte, debba nuovamente affermarsi verso l’esterno come nazionalità e organizzarsi verso l’interno come Stato. Il termine società civile sorse nel secolo diciottesimo, quando i rapporti di proprietà si erano già fatti strada fuori del tipo di comunità antico e medievale. La società civile come tale comincia a svilupparsi con la borghesia; tuttavia l’organizzazione sociale sviluppantesi immediatamente dalla produzione e dagli scambi, la quale forma in tutti i tempi la base dello Stato e di ogni altra sovrastruttura idealistica, continua ad essere chiamata con lo stesso nome» (Marx- Engels, L’ideologia tedesca, in Opere, V, pp. 74-75).
Occorre rilevare che espressioni come società antica, società feudale conservano il loro valore indicativo in quanto rinviano alle situazioni specifiche di carattere «storico-economico», ovvero si presentano nel loro aspetto complessivo di formazione economico-sociale propria delle rispettive epoche.
Da quanto detto si comprende la ricchezza delle implicazioni e dei rinvii presenti nel concetto di società; tra gli altri quello contenuto nella definizione marxiana dell’uomo come «l’insieme dei suoi rapporti sociali». Con ciò Marx vuole indicare l’infondatezza di quelle filosofie che immaginano l’uomo astratto, in quanto separato dalla realtà sociale in cui si situa (vedi Genere e specie).
Gli sviluppi ulteriori del marxismo hanno accentuato la distinzione marxiana tra società civile e Stato, analizzando i modi specifici attraverso cui lo Stato si sviluppa come occultamento e difesa dei rapporti di classe presenti nella società civile (vedi Stato, Struttura e sovrastruttura).
Tra i fenomeni che meglio evidenziano l’influenza esercitata dalla società nel suo insieme sugli individui, vi è quello della socializzazione, che è stato diversamente interpretato. Può essere definita da un lato come il processo attraverso il quale la stessa personalità del singolo individuo viene determinata dal «ruolo» che egli esercita nella società, e dall’altro come il fatto che ogni individuo partecipa, in diversa misura, a «funzioni sociali», come per esempio il lavoro, l’attività politica, ecc.
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Società per azioni
Per società (ragione sociale) si intende l’associazione contrattuale tra due o più persone che uniscono i mezzi di cui dispongono al fine di svolgere un’attività che porti un profitto; i mezzi possono essere di natura molto diversa ma sempre in forma di merce (vedi) , valutabili cioè nei termini quantitativi necessari a stabilire le quote di partecipazione individuale.
La società per azioni è un tipo particolare di società tra i molti possibili contemplati dalle leggi: la sua caratteristica consiste nel fatto che le quote di partecipazione individuale sono rappresentate da azioni, titoli o attestati di credito che certificano la condizione di socio e la grandezza della sua quota di capitale.
In origine le società per azioni raccoglievano i fondi necessari alle loro attività tra i possessori privati di somme di denaro, ne gestivano l’impiego attraverso l’opera di dirigenti ed erano soggette al controllo dei soci e azionisti che lo esercitavano secondo le norme giuridiche in vigore; successivamente le quote vennero fornite anche da altre società e, in molti paesi, dallo Stato che utilizzava in tal modo il denaro pubblico proveniente in gran parte dalla pressione fiscale sulle classi subalterne. In questo caso le vecchie norme sul controllo delle società per azioni non solo sono divenute inefficaci ma sono indifferenti agli interessi specifici di quelle classi – escluse da ogni controllo e da ogni decisione – a cui appartengono i fondi investiti.
Fin dal loro sorgere le società per azioni fornirono l’occasione di ipotizzare la fine della produzione capitalistica privata e con questa del marxismo che ne aveva sviluppato la critica. Non fu difficile a Engels mostrare l’inconsistenza di simili tesi che avevano trovato un’eco anche nei partiti della II Internazionale: «Io conosco – scriveva nel 1891 – una produzione capitalistica in quanto forma sociale, in quanto fase economica» e al suo interno modalità diverse, tra cui la produzione da parte del singolo imprenditore che «sta diventando ogni giorno di più un’eccezione»; di questo passo, continuava, i trust, «che dominano intere branche dell’industria» e per i quali si può parlare ancor meno di produzione privata in senso stretto, non sarebbero più elementi del modo capitalistico di produzione.
Le società per azioni sono alla base dei cambiamenti di cui si occupava Engels e che avrebbero ben presto portato ai grandi complessi monopolistici e alle società finanziarie internazionali sia nelle forme riprese da Lenin ne L’Imperialismo, sia in quelle attualmente operanti. Allora come oggi gli ideologi borghesi hanno tratto da queste varianti del modo di produzione capitalistico lo spunto per dichiarare ormai inapplicabile l’analisi marxista alla presente formazione economico-sociale (vedi) come se in essa fosse cessata la produzione per il profitto, lo sfruttamento della forza-lavoro (vedi), la sottomissione del lavoro al capitale (vedi Neocapitalismo).
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Sociologia
È la scienza che studia la società. Il termine venne introdotto intorno al 1830 da A. Comte (vedi Positivismo), il quale nella sua classificazione delle scienze la inserì al livello più elevato quanto a complessità, intendendola come la scienza che doveva fornire i criteri per l’organizzazione razionale della società. Tuttavia la sociologia cominciò ad assumere le caratteristiche di «scienza» autonoma, con propri metodi di ricerca, che sono prevalentemente fondati sull’indagine statistica, nella seconda metà del XIX secolo. Negli USA la sociologia ha avuto un grande sviluppo finalizzato alle esigenze produttivistiche (vedi Produttivismo) proprie della società capitalistica. Il marxismo ha spesso criticato gli stessi presupposti teorici su cui questa sociologia si è costituita come tentativo di scienza esatta, simile alle scienze naturali.
«La sociologia è … un tentativo di ricavare “sperimentalmente” le leggi di evoluzione della società umana in modo da "prevedere" l’avvenire con la stessa certezza con cui si prevede che da una ghianda si svilupperà una quercia. L’evoluzionismo volgare è alla base della sociologia che non può conoscere il principio dialettico col passaggio dalla quantità alla qualità; passaggio che turba ogni evoluzione e ogni legge di uniformità intesa in senso volgarmente evoluzionistico. In ogni caso ogni sociologia presuppone una filosofia, una concezione del mondo, di cui è un frammento subordinato» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 1532).
Secondo la concezione marxista infatti, l’analisi della società, delle classi e di tutti i problemi che normalmente vengono considerati oggetto della sociologia, non può essere separata dall’economia politica e, più in generale, dal materialismo storico (vedi).
Esiste una «sociologia marxista» nel senso di una scienza della società, colta in alcuni suoi aspetti specifici, che assume come orientamento generale la concezione marxista.
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Sociologismo
Indica la tendenza ad applicare a problemi che richiederebbero criteri interpretativi diversi, i metodi e gli strumenti di analisi propri della sociologia (vedi). In concreto si intende sottolineare con questo termine, che comporta una valutazione negativa, la tendenza a ridurre entro i limiti di una scienza puramente descrittiva i fenomeni sociali, senza alcuna preoccupazione per le loro cause. Fu denunciata come «filo-padronale» fin dagli anni Trenta da alcuni studiosi.
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Sottoproletariato
Termine tradotto impropriamente dal tedesco Lumpenproletariat che significa «proletariato straccione»: Marx e Engels lo usarono per indicare quella parte del proletariato che aveva perso la sua connotazione di classe. Era composto in primo luogo da coloro che a causa dell’eccedenza di mano d’opera erano disoccupati cronici o occupati irregolarmente, e si caratterizzava come una massa di persone che vivevano costantemente al di sotto delle condizioni medie della classe operaia, escluse dal processo produttivo e perciò stesso ai margini dei consueti rapporti sociali a ciò relativi.
Questa definizione di sottoproletariato non si applica però sempre all’uso che del termine fanno un po’ ovunque sia Marx che Engels: talvolta è comprensivo dei «declassati», i rifiuti cioè delle altre classi, i falliti sociali o, per dirla con la definizione di Marx la «schiuma della società», e i bohémiens intellettualoidi non sempre indigenti ma che comunque sono anch’ essi rifiuti di una particolare classe.
Il concetto di sottoproletariato è quindi abbastanza fluido e si riferisce oltre che a un gruppo sociale anche a una mentalità, secondo Marx rilevabile perfino a livello dell’aristocrazia finanziaria dove le inclinazioni sono la «riproduzione del sottoproletariato alla sommità della società borghese». In opposizione al proletariato si può dire che il sottoproletariato esiste al di fuori del lavoro sociale, è parassitario e possiede una mentalità antisociale, individualista, debole e pronta a ogni compromesso; esso costituisce uno strato sul quale la borghesia ha potuto contare nei momenti decisivi della lotta di classe. Marx e Engels si scagliarono contro di esso con particolare violenza in quanto erano stati testimoni di eventi storici che si erano conclusi nelle più crudeli repressioni dei primi moti operai. Nel 1848, per esempio, la borghesia per schiacciare gli insorti di Parigi raccolse le «guardie mobili» tra i sottoproletari opportunamente prezzolati. Questi
«…in tutte le grandi città [formano] una massa nettamente distinta dal proletariato industriale, nella quale si reclutano ladri e delinquenti di ogni genere, che vivono dei rifiuti della società – gente senza un mestiere definito, vagabondi, gens sans feu et sans aveu, diversi secondo il grado di civiltà della nazione cui appartengono, ma che non perdono mai il carattere di lazzaroni» (Marx, Le lotte di classe in Francia, p. 61).
Oggi non è possibile parlare di sottoproletariato in questi termini, in quanto la sua configurazione sociale è assai cambiata; ovviamente il presupposto rimane l’esistenza di una sovrappopolazione (vedi Sovrapproduzione) che, per Marx, non è solo un effetto dello sviluppo del capitalismo ma una delle condizioni stesse per la sua riproduzione. Trattandosi quindi di un fenomeno strutturale, solamente in una società i cui rapporti di produzione siano radicalmente cambiati potrà scomparire. Tuttavia la classe operaia deve assumere su di sé il problema non solo in quanto classe liberatrice della società ma anche per evitare di lasciar spazio a strumentalizzazioni da parte delle forze conservatrici e fasciste. Anzi proprio in una prospettiva di radicale mutamento sociale essa deve porsi come forza egemone in grado di sollecitare la partecipazione attiva e il potenziale di lotta di tutti coloro che, in un modo o nell’altro, sono da questo sistema oppressi o emarginati (vedi Egemonia).
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Soviet
È l’organismo costituito in Russia da operai, soldati e contadini a partire dal 1905 come strumento di potere statale alternativo all’apparato burocratico militare zarista (vedi Burocratismo).
I soviet in origine erano soltanto il tentativo di un effettivo controllo operaio sulla produzione e sulla ripartizione dei prodotti. Fin da principio si presentarono tuttavia non come organismi di partecipazione al potere statale, ma come l’espressione di un tipo di potere qualitativamente diverso, analogo a quello che già si era realizzato nella Comune di Parigi.
La repressione distrusse il soviet di Pietrogrado nel 1905. Dodici anni dopo i soviet si ripresentarono come formazioni in parte spontanee e in parte legate al Partito Operaio Socialdemocratico Russo e ben presto costituirono un tessuto di organismi di democrazia diretta, i cui funzionari erano eleggibili e revocabili secondo la volontà popolare e senza formalità burocratiche.
Nel breve spazio di tempo tra il febbraio e l’ottobre del 1917 la politica del partito bolscevico di «dare tutto il potere ai soviet» permise la costituzione di una salda organizzazione militare e rivoluzionaria, che fu determinante per il successo della rivoluzione.
I soviet diventarono pertanto la principale istituzione statale socialista che ha permesso la soluzione, per la prima volta nella storia, del problema della distruzione dell’apparato statale borghese e della sua sostituzione con il potere popolare:
«…esso (il soviet) permette di unire i vantaggi del parlamentarismo con quelli della democrazia diretta e immediata, cioè di riunire nella persona dei rappresentanti eletti dal popolo il potere legislativo e il potere esecutivo. Nel confronto del parlamentarismo borghese, questo è un progresso d’importanza storica mondiale nello sviluppo della democrazia» (Lenin, I bolscevichi conserveranno il potere statale?, in Opere scelte, vol. unico, p. 384).
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Sovrapproduzione
Fenomeno che si verifica quando il prodotto supera la quantità strettamente necessaria per la riproduzione semplice: «entro la società capitalistica è un elemento di anarchia».
Nella società capitalistica, la sovrapproduzione è soprattutto sovrapproduzione di capitale nelle sue varie forme, come mezzi di produzione, merci prodotte capitalisticamente, capitale monetario ecc., e diventa quindi un fenomeno molto complesso, collegato allo stesso processo di accumulazione del capitale:
«Sovrapproduzione di capitale, non delle merci individuali, – quantunque la sovrapproduzione di capitale determini sempre sovrapproduzione delle merci – significa semplicemente sovraccumulazione di capitale» (Il Capitale, libro III, p. 304).
Alla sovrapproduzione sono strettamente collegate le crisi economiche. Anche l’economia politica classica aveva analizzato il rapporto tra crisi e sovrapproduzione, individuando nella seconda una delle cause della prima. Secondo Marx, la sovrapproduzione non è però solo causa delle crisi, ma è essa stessa un risultato dell’organizzazione capitalistica della produzione, finalizzata alla realizzazione del profitto. In altri termini ogni nuovo capitale addizionale, per poter funzionare come capitale deve produrre profitto e produrne in una quantità adeguata ai crescenti costi della produzione, dovuti al miglioramento delle tecniche, al rinnovo dei macchinari e ad altri fattori. Il volume della produzione non è dunque determinato in base alle esigenze sociali, ma in base alle esigenze del profitto capitalistico. In una società capitalistica in fase di avanzata industrializzazione aumenta costantemente la quantità di capitale necessario per ottenere i profitti che precedentemente potevano essersi realizzati impiegando capitali inferiori Questo fenomeno si verifica a causa di numerosi fattori, tra i quali i principali sono il processo di concentrazione e centralizzazione del capitale e la tendenza alla diminuzione del saggio generale del profitto.
«Poiché il capitale non ha come fine la soddisfazione dei bisogni ma la produzione del profitto, e poiché può realizzare questo fine solo usando dei metodi che regolano la massa dei prodotti secondo la scala della produzione e non inversamente, si deve necessariamente venire a creare un continuo conflitto fra le dimensioni limitate del consumo su basi capitalistiche ed una produzione che tende continuamente a superare questo limite che le è assegnato. Inoltre il capitale si compone di merci e quindi la sovrapproduzione del capitale comporta una sovrapproduzione delle merci» (ivi, p. 310).
Il fenomeno della sovrapproduzione, secondo Marx, mette quindi in evidenza i limiti della produzione capitalistica, che «non costituisce un modo di produzione assoluto ma semplicemente storico, corrispondente ad una certa, limitata epoca di sviluppo delle condizioni materiali di produzione» (vedi Crisi economica).
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Spartachismo
Il movimento teorico e pratico della Lega di Spartaco, l’organizzazione rivoluzionaria costituita nel 1916 dai socialdemocratici tedeschi di sinistra guidati da K. Liebknecht, R. Luxemburg, F. Mehring, K. Zetkin.
Gli spartachisti si distinsero per la ferma opposizione alla guerra e per la lotta contro l’opportunismo e la collaborazione di classe praticata dal Partito Socialdemocratico Tedesco (SPD), dal quale si staccarono nel dicembre del 1918 per dar vita al Partito Comunista Tedesco (KPD) il cui organo ufficiale, «Die Rote Fahne» (La bandiera rossa), fu fin dai primi numeri il giornale più temuto e detestato dai circoli reazionari tedeschi e dallo stesso SPD.
Agli inizi del 1919 la situazione precipitava: il governo socialdemocratico espelleva i membri meno propensi a misure repressive, concentrava a Berlino e dintorni i reparti militari più fidati, riuscendo nel contempo ad allontanare dalla città quelli schierati dalla parte degli spartachisti; il 5 gennaio 1919, dopo una grande manifestazione di massa, vi furono tentativi insurrezionali che fornirono l’attesa occasione di scatenare le forze controrivoluzionarie, costituite non solo da truppe regolari ma anche dai cosiddetti Corpi franchi, bande armate di estrema destra, che il socialdemocratico Noske, ministro della Difesa e uomo forte del governo, non esitò a impiegare.
Il 12 gennaio ogni forma di lotta armata era finita ed ebbe inizio la caccia agli spartachisti (comunisti e membri del Partito Socialdemocratico Tedesco Indipendente o USPD), durante la quale Liebknecht e la Luxemburg furono arrestati e poi assassinati; con la «settimana di sangue» l’ordine «democratico» era ristabilito grazie alla collaborazione dei socialdemocratici, dei generali reazionari e dei futuri nazisti dei corpi franchi.
Tutto questo poté accadere anche in conseguenza degli errori degli spartachisti: le indecisioni del Comitato rivoluzionario, gli insufficienti e saltuari collegamenti con i gruppi rivoluzionari delle altre città, la mancanza di un seguito nelle campagne e, come è stato notato, l’incapacità di comprendere e quindi di far comprendere al popolo tedesco che la lotta degli spartachisti era rivolta oggettivamente anche contro l’imperialismo straniero e contro il suo piano di asservimento della Germania ed era quindi una lotta nazionale.
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Spontaneismo
Concezione che contrappone alla necessità dell’organizzazione consapevole, l’azione spontanea priva di una direzione politica, di una centralizzazione organizzativa, di una prospettiva complessiva verso cui indirizzare la lotta di classe.
Nel movimento operaio e nella tradizione comunista lo spontaneismo si è manifestato come la tendenza a individuare nell’istinto di ribellione degli strati sociali oppressi la garanzia sufficiente per la giustezza di una linea e di una pratica politica, sottovalutando l’importanza della direzione politica e in particolare negando la necessità di inserire le lotte operaie per le rivendicazioni economiche nel quadro di una strategia politica complessiva (vedi Economicismo). L’affermazione che le idee giuste provengono semplicemente dal crescere del «movimento spontaneo» porta alla sottovalutazione del ruolo della teoria rivoluzionaria come guida per la pratica e quindi alla negazione della funzione dirigente dell’avanguardia della classe operaia, cioè al rifiuto del partito.
In particolare lo spontaneismo si manifestò come una reazione all’immobilismo e alla politica di cedimento dei partiti socialdemocratici della Seconda Internazionale, cioè come «una risposta sbagliata per un problema reale»: infatti i suoi teorizzatori contribuirono a suscitare fermenti di ribellione tra le masse, senza tuttavia riuscire a definire con coerenza l’orientamento politico e un’organizzazione razionale (vedi Volontarismo).
Lenin, criticando lo spontaneismo, affermò ripetutamente la necessità di una salda organizzazione e di una direzione politica complessiva sul movimento rivoluzionario, attraverso il partito e le sue organizzazioni. Ciò non implica un giudizio negativo sui fenomeni spontanei di ribellione delle masse, indice delle manchevolezze e dei limiti dei partiti che rappresentano la classe operaia.
Secondo Gramsci lo spontaneismo è un fenomeno caratteristico di un’errata impostazione del problema della trasformazione della classe subalterna in egemone (vedi Egemonia): ai comunisti si pone il compito di trasformare l’elemento della spontaneità, «caratteristico della storia delle classi subalterne e anzi degli elementi più marginali e periferici di queste classi» in organizzazione e direzione politica consapevoli. In riferimento all’azione dei comunisti nell’esperienza dell’«Ordine Nuovo» così Gramsci si esprime:
«Questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna … Questa unità della “spontaneità” e della “direzione consapevole”, ossia della “disciplina” è appunto l’azione politica reale delle classi subalterne, in quanto politica di massa e non semplice avventura di gruppi che si richiamano alla massa … Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti “spontanei”, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento “spontaneo” delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della destra della classe dominante, per motivi concomitanti: una crisi economica, per esempio, determina malcontento nelle classi subalterne e movimenti spontanei di massa da una parte, e dall’altra determina complotti dei gruppi reazionari che approfittano dell’indebolimento obiettivo del governo per tentare dei colpi di Stato. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare una direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo» (Gramsci, Quaderni del Carcere, pp. 330-331).
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Stachanovismo
Movimento volontario per l’aumento della produttività del lavoro sviluppato nell’URSS a partire dal 1935; il nome deriva da un minatore del bacino del Donetz, Aleksej Stachanov, che nell’agosto del ’35 riorganizzò l’impiego delle macchine per il taglio del carbone in modo da assicurarne il massimo rendimento. Dalle miniere di carbone queste innovazioni, che erano poi processi di razionalizzazione tecnico-operativa del lavoro, si diffusero in altri settori produttivi. Sostituito o confuso con altre pratiche aventi gli stessi scopi, si dissolse nel dopoguerra.
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Stalinismo
In senso stretto il termine indica il contributo teorico e la prassi politica di Stalin nel periodo in cui fu segretario del Partito Comunista dell’URSS (PCUS) e cioè dal 1922 al 1953, anno della sua morte.
In senso ampio e concreto, tenuto conto del prestigio dell’Unione Sovietica in quanto primo Stato socialista e della conseguente influenza sul movimento operaio internazionale, lo stalinismo coinvolge l’esperienza politica e la produzione teorica dei vari partiti comunisti nel corso di un trentennio straordinariamente denso di avvenimenti, durante il quale il consolidamento della Rivoluzione vittoriosa e la sua difesa dall’accerchiamento imperialistico furono i compiti storici decisivi.
Si tratta dunque di un fenomeno estremamente complesso che va ben oltre il semplicistico e riduttivo riferimento alla persona di Stalin, e benché sia ovvio che le sue caratteristiche biografiche abbiano avuto un peso non trascurabile, è altrettanto ovvio che le cause, i modi, i limiti dello stalinismo vanno ricercati altrove e cioè nella sfera oggettiva dei problemi economici, politici e teorici sollevati dall’esistenza stessa dell’URSS.
Così, per esempio, Stalin fu l’unico tra i maggiori dirigenti rivoluzionari a non aver avuto un’esperienza effettiva del mondo occidentale; quando perciò parlava di democrazia, il suo sistema di riferimento era puramente astratto, sprovvisto di contenuti concreti o di modelli reali: era esattamente quello della grande massa dei militanti russi che non aveva conosciuto altro che il regime zarista. Sotto questo aspetto egli rappresentava le idee e le aspirazioni delle masse in modo più omogeneo e spontaneo di altri, ed è questa corrispondenza che gli permise di procedere alla realizzazione dei compiti posti all’URSS dalla situazione concreta.
Alla morte di Lenin, col quale aveva avuto non pochi né lievi contrasti, Stalin diede il via all’opera di mistica esaltazione del capo scomparso che rifletteva certamente il dolore del popolo russo, ma che aveva ben poco in comune con quanto Lenin nel corso della sua vita aveva insegnato. Questo fatto, apparentemente marginale, conferma la capacità di Stalin, istintiva o studiata che fosse, di muoversi in sintonia con le aspettative popolari più dirette e immediate; inoltre sottolinea un tratto essenziale dello stalinismo: la mitizzazione di Lenin, l’assolutizzazione della parola di chi aveva detto «quanto a me, sono anch’io in filosofia uno che cerca».
L’atteggiamento contradditorio di Stalin in proposito è ben noto: da una parte sosteneva che il marxismo «non conosce formule immutabili obbligatorie per tutte le epoche», che «è nemico di ogni dogmatismo», che la teoria marxista-leninista non può essere considerata «come una raccolta di dogmi, come un catechismo, come un credo»; dall’altra attaccava tutti coloro che volevano «trasformare la questione del bolscevismo di Lenin da assioma in problema che ha bisogno di uno studio ulteriore».
Lo stalinismo fu impregnato di simili contraddizioni e di altre ancora che rendono molto difficile isolare i suoi aspetti positivi da quelli negativi e darne conseguentemente un giudizio obiettivo. Numerosi studiosi hanno tentato di analizzarlo denunciandone, in sostanza, la concezione formalistica e la difesa «amministrativa» dei principi del materialismo dialettico (vedi) e storico (vedi), lo schematismo dogmatico nell’elaborazione culturale e nella politica nei confronti degli intellettuali e dello sviluppo scientifico e artistico.
Sulla base di un’oggettiva necessità di centralizzazione del sistema governativo e amministrativo, si accentuò sotto Stalin una forma di direzione dello Stato verticale e accentrata che si estese a tutti gli aspetti della vita del Paese, riducendo progressivamente il peso delle istituzioni democratiche di base e le forme di controllo popolare e di governo dal basso; il burocratismo, in altri termini, divenne dominante.
La mancanza di un dibattito e di una reale democrazia popolare fu la causa della mancata comprensione delle differenze tra le contraddizioni all’interno del partito e quelle all’esterno, determinando una confusa identificazione tra politica di partito e politica di Stato, particolarmente evidente a livello dei rapporti internazionali.
La tesi staliniana sull’inasprimento della lotta di classe durante la fase di costruzione del socialismo era esatta, come dimostrarono gli sconvolgimenti e i conflitti che accompagnarono la collettivizzazione delle campagne e il primo piano quinquennale, ma fu seguita dall’erronea valutazione dei successi ottenuti quando, nel 1936, venne data per estinta la lotta di classe che si riaffacciava in forme nuove in seno alla società sovietica.
Per quanto riguarda il movimento comunista internazionale, accanto ai meriti della III Internazionale nell’analisi dell’imperialismo (vedi) e della natura di classe del fascismo (vedi), che crearono le condizioni per combatterlo vittoriosamente e per l’avanzamento della lotta rivoluzionaria in tutto il mondo, vanno addebitate allo stalinismo direttive e misure che ebbero non poche conseguenze negative.
Nel 1956 al XX Congresso del PCUS, il rapporto segreto di Chruščëv fondava la destalinizzazione sulle due critiche fondamentali del culto della personalità e della «violazione della legalità socialista»: mancò invece l’analisi della base reale di quelle deviazioni e ciò ebbe conseguenze negative e involutive nella successiva storia dell’URSS e nell’esperienza di altri partiti comunisti. Di più, con un procedimento di condanna globale tanto astratto quanto lo era stato prima quello di plauso incondizionato, si disconoscevano gli indubbi meriti di Stalin nella guida della durissima e vittoriosa guerra contro l’aggressione nazifascista, il suo ruolo decisivo di grande dirigente che seppe chiamare a raccolta l’intero popolo russo nel momento in cui si giocavano le sorti del mondo civile.
Da quanto si è detto appare evidente che un giudizio non superficiale né propagandistico sullo stalinismo è tutt’altro che facile; la sua caratteristica principale fu, secondo alcuni studiosi, una «russificazione» del marxismo intesa nel senso più ampio possibile, vale a dire come appropriazione di un pensiero e di una pratica – concepiti altrove – nei termini delle qualità, positive e negative, di un popolo con una storia tanto diversa da quella dei popoli dell’Europa occidentale. In questa interpretazione potrebbe essere inclusa la tendenza a trovare a ogni costo giustificazioni teoriche, all’interno dei classici, per ogni genere di operazioni dettate dalla necessità e senza scelta, che è un altro dei caratteri salienti dello stalinismo.
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Stato
Nella concezione materialistica della storia è l’istituzione giuridico-politica sorta per il controllo degli antagonismi di classe, che si pone come strumento di potere della classe dominante di cui è l’espressione.
«Come lo Stato antico fu anzitutto lo Stato dei possessori di schiavi al fine di sottomettere gli schiavi, così lo Stato feudale fu l’organo della nobiltà per mantenere sottomessi i contadini, servi o vincolati, e lo Stato rappresentativo moderno è lo strumento per lo sfruttamento del lavoro salariato da parte del capitale» (Engels, L’origine della famiglia, p. 202).
Lo Stato non è dunque sempre esistito, la sua costituzione è legata alla comparsa della proprietà privata (vedi) e delle classi e la sua forma segue l’evoluzione dei rapporti di produzione: ma la sua sostanza, che è quella di stabilire un «ordine» per la legalizzazione e il consolidamento del dominio, non muta. Di conseguenza esso cesserà di esistere solo nella società comunista, quando sarà eliminata la struttura economico-sociale che ne è alla base.
Nella società capitalistica lo Stato tende sempre più ad affermarsi come un’entità distinta e sovrapposta alla società e ad accentuare il carattere di «macchina oppressiva»; ciò è dovuto al fatto che nello Stato moderno, così come si è andato formando dopo il periodo feudale, il potere ha assunto un carattere fortemente centralizzato, per il quale si è dovuta creare un’organizzazione burocratica e parassitaria di funzionari, che lo ha sempre più estraniato dalla società.
«La burocrazia è il formalismo di Stato della società civile. Essa è la coscienza dello Stato, la volontà dello Stato, la forza dello Stato in quanto è una corporazione (…) dunque una società particolare, chiusa, nello Stato» (Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto, in Opere, vol. III, p. 52).
Tuttavia la democrazia borghese presenta per il proletariato dei «grandi vantaggi»; essa infatti non solo afferma le libertà politiche che permettono lo sviluppo del proletariato stesso ma, nel farlo, scopre i propri limiti e le proprie contraddizioni. Infatti i concetti di sovranità popolare e di uguaglianza dei cittadini, che sono i cardini teorici su cui essa poggia, sono contraddetti dal permanere della proprietà privata dei mezzi di produzione: ne deriva che la libertà per la stragrande maggioranza dei cittadini è puramente formale.
«La situazione stessa della borghesia come classe genera inevitabilmente, nella società capitalistica la sua incongruenza nella rivoluzione democratica, il proletariato come classe, per la sua stessa situazione, è costretto ad essere conseguentemente democratico» (Lenin, Le due tattiche della socialdemocrazia, in Opere scelte, vol. unico, p. 73).
La democrazia reale e completa per tutti i cittadini si potrà avere nella società comunista, quando non esisteranno più lo sfruttamento e l’oppressione di classe con tutti gli effetti a ciò connessi; tra l’attuale democrazia borghese e quella comunista deve necessariamente intercorrere un periodo nel quale il proletariato, come classe dominante, esercita il potere in nome della maggioranza sulla minoranza, cioè la dittatura del proletariato (vedi).
«Il proletariato ha ancora bisogno dello Stato, ne ha bisogno non nell’interesse della libertà, ma nell’interesse dell’assoggettamento dei suoi avversari, e quando diventa possibile parlare di libertà, allora lo Stato come tale cessa di esistere» (Engels, Lettera a Bebel, in Lenin, La Comune di Parigi, p. 42).
Secondo Lenin questa fase è legata a condizioni specifiche: essa è ovunque necessaria per il passaggio al comunismo, ma non dappertutto assume le stesse forme e gli stessi modi di attuazione, i quali dipendono anche dall’atteggiamento della classe antagonista, la borghesia. Così ad esempio il problema della restrizione del voto non era per Lenin un «problema generale della dittatura», ma era connesso alle condizioni particolari di ogni singola rivoluzione.
Secondo Engels, ripreso in tutto da Lenin, la dittatura del proletariato non è più lo Stato nel senso proprio del termine: in essa sono già posti elementi di «autogoverno della società», per i quali lo Stato cessa di essere un corpo estraneo dando così inizio alla sua estinzione. In concreto le cose sono andate diversamente da come Lenin aveva previsto, ma va ricordato che nel periodo in cui egli si era occupato di questo argomento non era ancora prevedibile la costruzione del socialismo in un solo paese, né l’accerchiamento capitalistico dell’URSS, con le note conseguenze sul piano interno (vedi Socialismo). Da rilevare la lotta di Lenin al burocratismo (vedi) nel quale erano insite serie minacce alla democrazia socialista fondata soprattutto sulla partecipazione delle masse alla gestione politica.
La concezione marxista dello Stato ha dunque capovolto quella propria della storiografia (vedi Storia) precedente fino ad Hegel: laddove questa si dibatteva in una contraddizione insolubile tra uno Stato dotato di vita autonoma indipendente dalla base materiale su cui si fondava e gli individui in carne e ossa che agivano nella società, il materialismo storico rivela il nesso tra lotta di classe e Stato, tra classe dominante e Stato, tra rapporti di produzione e Stato e poiché questo nesso è mediato dal momento politico istituzionale (diritto, leggi, ecc.) ne deriva «l’illusione che la legge riposi sulla volontà e anzi sulla volontà strappata dalla sua base reale, sulla volontà libera».
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Storia
Termine usato per indicare tanto le vicende storiche quanto il loro racconto, vale a dire tanto i fatti che costituiscono la storia quanto il loro studio, la cui corretta denominazione è invece storiografia.
Per il marxismo la storia è il processo di appropriazione consapevole della natura da parte dell’uomo, realizzato per mezzo del lavoro. Il punto di partenza per una considerazione con- creta della storia è così descritto da Marx:
«…dobbiamo cominciare col constatare il primo presupposto di ogni esistenza umana e dunque di ogni storia, il presupposto cioè che per poter “fare storia” gli uomini devono essere in grado di vivere. Ma il vivere implica prima di tutto il mangiare e il bere, l’abitazione, il vestire e altro ancora. La prima azione storica è dunque la creazione dei mezzi per soddisfare questi bisogni, la produzione della vita materiale stessa, e questa è precisamente un’azione storica, una condizione fondamentale di qualsiasi storia, che ancora oggi, come millenni addietro, deve essere compiuta ogni giorno e ogni ora semplicemente per mantenere in vita gli uomini» (L’ideologia tedesca, in Opere, vol. V, p. 27).
La storia va dunque intesa come il succedersi delle generazioni che svolgono queste attività utilizzando le condizioni di produzione elaborate in precedenza in nuove forme e circostanze.
Questo modo di affrontare i problemi posti dall’interpretazione delle vicende storiche nel loro complesso costituisce il nucleo del materialismo storico; la conoscenza della storia, secondo Marx, può essere dunque scientifica (vedi Scienza) quando non ignora questa «base reale», quando non esclude dalla propria indagine il rapporto dell’uomo con la natura che è il presupposto dell’esistenza stessa della storia; si comprende quindi l’importanza dell’affermazione:
«Noi conosciamo un’unica scienza, la scienza della storia. La storia può essere considerata da due lati, distinta nella storia della natura e nella storia degli uomini. Tuttavia i due lati non possono essere separati; finché esistono uomini storia della natura e storia degli uomini si condizionano a vicenda. La storia della natura, la cosiddetta scienza naturale, qui non ci riguarda; dovremo invece soffermarci sulla storia degli uomini perché quasi tutta l’ideologia si riduce o a una concezione falsata di questa storia o a un’astrazione completa da essa» (ivi, p. 14).
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Storicismo
Questa parola è stata coniata alla fine del secolo scorso per definire l’interpretazione della storia elaborata da G. Vico; entrata nell’uso corrente molto più tardi, essa indica la tendenza a collocare qualsiasi problema o argomento all’interno del processo storico; in questo senso il termine storicismo è stato poi applicato anche a filosofie precedenti, come a quella hegeliana; ed è secondo alcuni applicabile al marxismo che in effetti ha ripreso criticamente la concezione dialettica dello sviluppo storico propria di Hegel.
Il materialismo storico, infatti, considera ogni epoca e ogni modo di produzione ad essa corrispondente come storicamente determinata, cioè come destinata ad essere sostituita, a un certo grado del suo sviluppo, da una società che la superi, fondandosi sulla radicale negazione dei rapporti di produzione precedenti. Inoltre per il marxismo lo sviluppo storico è determinato essenzialmente dalle contraddizioni che danno origine alla lotta di classe.
Engels, riassumendo i punti essenziali della concezione hegeliana che costituirono un momento fondamentale per l’elaborazione del materialismo storico, afferma che:
«…la vera importanza e il carattere rivoluzionario della filosofia hegeliana … consistevano appunto nel fatto che essa poneva termine una volta per sempre al carattere definitivo di tutti i risultati del pensiero e dell’attività umani … Allo stesso modo della conoscenza, la storia non può trovare una conclusione definitiva in uno stato ideale perfetto del genere umano; una società perfetta, uno “Stato” perfetto sono cose che possono esistere soltanto nella fantasia; al contrario, tutte le situazioni storiche che si sono succedute non sono altro che tappe transitorie nel corso infinito dello sviluppo della società umana da un grado più basso a un grado più elevato. Ogni tappa è necessaria, e quindi giustificata per il tempo e per le circostanze a cui deve la propria origine, ma diventa caduca e ingiustificata rispetto alle nuove condizioni, più elevate, che si sviluppano a poco a poco nel suo proprio seno; essa deve far posto a una tappa più elevata, che a sua volta entra nel ciclo della decadenza e della morte» (Engels, Ludwig Feuerbach e il punto di approdo della filosofia classica tedesca, p. 20).
Occorre tuttavia osservare che il marxismo contraddice lo storicismo qualora si presenti come relativismo storico, cioè come negazione della possibilità di esprimere giudizi validi sulla natura degli avvenimenti che si presentano nelle varie epoche. Infatti secondo la concezione materialistica della storia, nelle varie società si sviluppano delle tendenze che oggettivamente favoriscono o contrastano il progresso (vedi Scienza). Questa concezione rifiuta anche le forme di storicismo legate a filosofie di tipo idealistico o comunque tendenti a considerare la storia in modo astratto, indipendentemente dal suo supporto materiale. Gli sviluppi ulteriori del marxismo, in particolare nell’opera di Gramsci, approfondirono l’analisi storica condotta secondo i criteri di quello che viene definito storicismo dialettico. Gramsci giunse a definire il marxismo come «storicismo assoluto», che non solo si sforza di spiegare storicamente il passato, ma anche se stesso, che è cioè «il massimo “storicismo”, la liberazione totale da ogni “ideologismo” astratto, la reale conquista del mondo storico, l’inizio di una nuova civiltà».
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Strategia e Tattica
I due termini, desunti dal linguaggio militare, indicano le forme attraverso cui si realizza la direzione complessiva della lotta di classe:
«La capacità strategica e tattica del partito è la capacità di organizzare e unificare attorno all’avanguardia proletaria e alla classe operaia tutte le forze necessarie alla vittoria rivoluzionaria e di guidare di fatto verso la rivoluzione approfittando delle situazioni oggettive e degli spostamenti di forze che esse provocano sia tra la popolazione lavoratrice che tra i nemici della classe operaia. Con la sua strategia e con la sua tattica il partito dirige la classe operaia nei grandi movimenti storici e nelle sue lotte quotidiane. L’una direzione è legata all’altra ed è condizionata dall’altra» (Gramsci, Tesi di Lione, p. 50).
Sono dunque elementi vitali per la strategia e la tattica l’analisi delle condizioni storiche in tutti i loro aspetti e delle possibilità d’azione del proletariato di fronte ad esse, l’agitazione dei problemi e degli obiettivi e la propaganda della linea del partito con lo scopo di legare ad esso, attraverso la difesa e la lotta per le loro rivendicazioni, le masse lavoratrici.
In particolare la strategia determina, in una data fase storica, la direzione dell’obiettivo principale del proletariato, cioè fissa la prospettiva generale e il relativo piano complessivo della disposizione delle forze. Essa quindi è relativa a tutta un’epoca storica, di cui traccia la tendenza e gli sviluppi in senso rivoluzionario.
La tattica invece ha per oggetto la linea di azione nelle diverse situazioni concrete che si possono presentare: il compito della direzione tattica quindi è di mettere in primo piano quegli obiettivi intermedi di lotta, quelle formule organizzative, quella politica di alleanze che meglio rispondono alle condizioni concrete della lotta di classe, alle specificità con cui una tendenza generale si realizza nei diversi paesi, nei diversi periodi, all’interno dei differenti strati sociali. Essa ha il compito di trovare nella catena degli avvenimenti «quell’anello particolare aggrappandosi al quale sarà possibile reggere tutta la catena», quell’obiettivo parziale il cui raggiungimento prepara le condizioni e avvicina la soluzione dei compiti strategici. La tattica dunque dipende ed è parte della strategia, nella misura in cui non si svolge isolatamente, ma come episodio inserito in un contesto strategico, che ne fissa i presupposti e le prospettive.
Una concezione della tattica che la riduca a tatticismo (vedi) diplomatico, non ne comprenderebbe i caratteri di specificazione della strategia. Slegare la tattica dalla strategia oppure negare la prima e vedere solo la seconda, come è tipico del dottrinarismo e del dogmatismo (vedi), non vuol dire "salvare" i principi, ma anzi avere di essi una visione astratta, proprio in quanto non se ne individuano i passi politici reali che li concretizzano nelle diverse fasi storiche.
Concepire una strategia svuotata dai suoi contenuti tattici concreti significa riprodurre quel distacco tra obiettivo finale e pratica politica che fu tipico della Seconda Internazionale (vedi) e del revisionismo (vedi).
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Struttura e Sovrastruttura
La struttura economica è definita da Marx come l’insieme dei rapporti di produzione che corrispondono a un determinato grado di sviluppo delle forze produttive materiali della società. In altri termini ogni formazione economico-sociale ha una base reale, concreta, che la caratterizza come epoca storica e come modo di produzione, diverso in epoche storiche diverse. La struttura è l’elemento determinante, il fattore decisivo che imprime a una società il carattere generale di un modo di produzione: per esempio la società capitalistica è contraddistinta da una struttura economica dominata dai rapporti di produzione capitalistici e non potrebbe sussistere qualora questi rapporti fossero caratterizzati dalla proprietà collettiva dei mezzi di produzione.
A cominciare dal periodo in cui la divisione sociale del lavoro ha assunto un’importanza rilevante e ha condotto alle prime divisioni in classi, sulla struttura – secondo l’espressione di Marx – si «eleva una sovrastruttura giuridica e politica», e alla base reale «corrispondono forme determinate della coscienza sociale». La sovrastruttura è quindi in primo luogo tutto il complesso delle istituzioni, di cui la più importante è lo Stato: secondo Engels «Lo Stato ci si presenta come il primo potere ideologico sugli uomini».
In secondo luogo appartengono alla sovrastruttura tutte le manifestazioni culturali, artistiche, religiose, filosofiche, morali e in generale tutte le idee che gli uomini elaborano con la loro riflessione. Le sovrastrutture sono il riflesso mediato, cioè non meccanico, ma dialettico, dei rapporti reali che intervengono tra gli uomini nel momento della produzione materiale. Secondo l’espressione di Marx, una società non può essere giudicata per le idee che essa ha di se stessa, così come un uomo non deve essere giudicato per ciò che dice di essere, ma per ciò che fa. Ad esempio nella società capitalistica potrebbe essere dominante per una certa fase una produzione intellettuale improntata al razionalismo e un’organizzazione statale liberale o democratico-borghese, e per un altro periodo una produzione intellettuale sostanzialmente irrazionalista e un’organizzazione statale fascista: ma ciò non modificherebbe, in modo sostanziale, la natura effettiva dell’epoca storica in cui va inserita questa società. Tra struttura e sovrastruttura si verifica, secondo il marxismo, un continuo processo di azione reciproca. A questo proposito Marx ed Engels hanno più volte ribadito che il materialismo storico non dev’essere interpretato come una concezione che privilegia in senso assoluto e schematicamente l’analisi economica della struttura, trascurando lo studio del ruolo che le istituzioni, la cultura, le ideologie e tutti i fenomeni sovrastrutturali, possono esercitare, influenzando in modo talvolta decisivo il corso dello sviluppo storico.
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Subalternità
È la condizione di dipendenza e di sottomissione in cui si trovano le classi e i gruppi sociali che sono esclusi dalla direzione dello Stato. Secondo Gramsci, «i gruppi subalterni subiscono sempre l’iniziativa dei gruppi dominanti, anche quando si ribellano e insorgono: solo la vittoria “permanente” spezza, e non immediatamente, la subordinazione».
La condizione di subalternità è caratteristica di quei gruppi sociali che, per la funzione che svolgono nel mondo della produzione, non sono in grado di unificarsi e organizzarsi autonomamente e di contrastare il dominio e l’organizzazione del consenso che le classi dominanti realizzano nei loro confronti.
Gramsci affrontò, nei Quaderni del Carcere, lo studio della storia dei gruppi sociali subalterni, analizzando le caratteristiche che questi assunsero nelle varie epoche storiche, e la funzione che svolsero. A proposito della società industriale contemporanea, egli osservò che la classe operaia è in grado, per la posizione che occupa nel processo produttivo, di esercitare una funzione egemonica (vedi Egemonia), di «spezzare la subordinazione» in cui è mantenuta dalla borghesia e di costruire, attraverso il partito comunista, un nuovo tipo di Stato. Il termine «subalternità» acquistò così, in Gramsci, un significato polemico nei confronti di quelle concezioni, largamente diffuse nei partiti aderenti alla II Internazionale (vedi) e nel Partito Socialista Italiano, che rappresentavano una rinuncia all’autonomia culturale, politica e organizzativa della classe operaia, e in ultima analisi erano appunto dovute alla «subalternità» nei confronti delle classi dominanti (vedi Economicismo).
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Surplus
Nella teoria economica il termine indica l’eccedenza di prodotto e quindi di valore, la cui forma, volume e modo di appropriazione e di utilizzazione dipendono dal grado di sviluppo delle forze produttive e dal corrispondente carattere dei rapporti di produzione.
Analizzando il fatto che lo scambio (vedi) di un prodotto comporta per il suo proprietario qualcosa di più di ciò che egli aveva speso nella produzione della merce (vedi), si pone il problema dell’origine di questa eccedenza. Una prima spiegazione, che individuava nello scambio il motivo dell’incremento di valore, considerava l’eccedenza come dovuta al fatto di vendere una merce al di sopra del suo valore (vedi). Marx trasferì nella sfera della produzione il potere di creare ricchezza e il surplus utilizzabile per l’accumulazione e, per spiegare la differenza tra la quantità di lavoro (vedi) contenuta in una merce e il valore della forza-lavoro, introdusse la nozione di plusvalore (vedi).
All’interno di questo ordine di considerazioni, il surplus ha avuto nel pensiero economico, diverse e spesso anche opposte definizioni, soprattutto in relazione all’estensione del suo concetto nei confronti dei fenomeni economici: si è distinto, per esempio, tra surplus effettivo e potenziale, indicando con il primo termine la differenza tra la produzione effettiva e il consumo effettivo della società e, con il secondo, la differenza tra il prodotto che si potrebbe ottenere in un dato ambiente naturale e tecnologico e ciò che si potrebbe considerare come consumo indispensabile. Entrambe queste nozioni differiscono da quella di plusvalore: nel primo caso essendo unicamente quella parte del plusvalore che viene accumulata ed escludendo quindi il consumo della classe capitalistica, le spese amministrative, ecc.; nel secondo comprendendo, oltre a ciò, quella parte di prodotto perduto per la sottoutilizzazione degli impianti o per un impiego irrazionale delle risorse produttive.
Si è parlato anche di surplus economico pianificato, riferito al modo di produzione di una società socialista, come differenza tra la produzione ottimale che la società potrebbe ottenere attraverso l’utilizzazione pianificata (vedi Pianificazione) delle risorse e una determinata quota ottimale di consumo. In questo caso il volume del surplus prodotto non sarebbe determinato dai meccanismi del profitto (vedi), ma da un piano razionale di organizzazione dei consumi sociali. Dipendendo dal grado di sviluppo delle forze produttive (vedi)e dei bisogni umani, esso potrebbe risultare sia maggiore che minore del surplus realizzato in condizioni capitalistiche di produzione.
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Tatticismo
È la sopravvalutazione della necessità di accettare dei compromessi in determinate condizioni e di adeguare la strategia (vedi) e la prospettiva di ampio respiro alle condizioni concrete, dimenticando così la necessità della lotta per la realizzazione degli obiettivi rivoluzionari. È stato criticato dai principali esponenti del movimento comunista internazionale come espressione di opportunismo e della volontà di collaborazione con le classi dominanti.
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Tecnica
Con questo nome si comprendono forme diverse di attività pratiche; qui, il riferimento è limitato a quelle impegnate nella produzione materiale mediante l’uso organizzato degli elementi e delle forze naturali, derivante dalla conoscenza scientifica della natura.
L’interesse di Marx e Engels per la tecnica è continuo; essa è la forma concreta in cui si svolge «il ricambio organico» dell’uomo con la natura, il modo effettivo di essere dei processi di produzione, lo schema intorno al quale si organizza la fabbrica. I suoi progressi cambiano il mondo naturale, creano nuove fonti di ricchezza, determinano la qualità del lavoro.
In pari tempo le nuove invenzioni tecniche diventano strumenti di distruzione e di dominio nelle mani di coloro che controllano il potere attraverso la proprietà dei mezzi di produzione; questa contraddizione ha portato all’interno del marxismo a diverse valutazioni della tecnica, specialmente in tempi recenti di fronte al suo eccezionale sviluppo e alla sua presenza massiccia nella vita quotidiana.
Così hanno preso corpo ipotesi che guardano la tecnica come un elemento non separabile dal capitalismo; è il caso, per esempio, di certe correnti del marxismo occidentale (vedi Marxismo) che identificano la tecnica con la «logica del dominio»; l’uso della tecnica ai fini del dominio di classe non sarebbe infatti un provvedimento dall’esterno preso in un secondo tempo ma sarebbe già incluso negli scopi generali della tecnica stessa. Secondo Marcuse la tecnica contiene già come proprio scopo quello di organizzare gli uomini in modo da favorire gli interessi della classe dominante; donde il tramonto del concetto di rivoluzione com’era inteso da Marx, cioè come liberazione della scienza e della tecnica dal dominio di classe; infatti un simile concetto di rivoluzione presuppone una continuità dell’apparato tecnico che costituirebbe un «legame totale» tra il vecchio e il nuovo modo di produzione.
Ora è fuori di dubbio che la tecnica, al pari della scienza e di qualsiasi altra attività, sia condizionata dal o asservita al capitalismo e con ogni probabilità è anche vero, come sostengono taluni, che è stata sviluppata e utilizzata più per assicurare il massimo controllo della forza-lavoro dentro e fuori la fabbrica, che per portare a un livello ottimale i processi di produzione; ma è altrettanto sicuro che la semplicistica e meccanica identificazione tra tecnica e capitalismo non ha niente a che vedere col punto di vista del marxismo. Scriveva Marx in proposito:
«Poiché le macchine, considerate in sé, abbreviano il tempo del lavoro, mentre, adoperate capitalisticamente, prolungano la giornata lavorativa, poiché le macchine in sé alleviano il lavoro e adoperate capitalisticamente ne aumentano l’intensità, poiché in sé sono vittoria dell’uomo sulla forza della natura e adoperate capitalisticamente soggiogano l’uomo mediante la forza della natura, poiché in sé aumentano la ricchezza del produttore e usate capitalisticamente lo pauperizzano, ecc., l’economista borghese dichiara semplicemente che la considerazione delle macchine in sé dimostra con la massima precisione che tutte quelle tangibili contraddizioni sono una pura e semplice parvenza della ordinaria realtà, ma che in sé, e quindi nella teoria, non ci sono affatto. Così risparmia di doversi ulteriormente stillare il cervello, e per giunta addossa al suo avversario la sciocchezza di combattere non l’uso capitalistico delle macchine, ma le macchine stesse» (Il Capitale, libro I, p. 486).
Le macchine, prodotto materiale della tecnica, hanno dunque un valore (vedi) d’uso che non viene meno per il mutamento del modo di produzione; la tecnica e la scienza fanno parte del processo di intervento dell’uomo sulla natura, sono elementi costanti di questo processo, «recitano la loro parte … in tutti i tempi e in qualunque circostanza», sono condizioni dell’esistenza umana. Identificarle con la formazione economico-sociale che le amministra è un modo di spacciare il capitalismo come «elemento naturale immutabile»; infatti accanto alla versione critica di questa identificazione, sopra accennata, ne esistono altre di tendenza diametralmente opposta.
È il caso, per esempio, delle dottrine ispirate alla tecnostruttura, termine con il quale si indica in poche parole lo stato maggiore delle grandi imprese, provvisto di tutte le conoscenze scientifiche e tecniche necessarie per decidere delle attività dell’impresa non più in base al profitto immediato di un capitalista ma nel generale interesse della produzione intesa in senso astratto svincolata dalle vecchie formule del capitalismo, della classe, dello sfruttamento; cose del passato che la tecnologia, intesa come scienza che ha per oggetto le singole tecniche, avrebbe liquidato sostituendovi l’orientamento del mercato, l’assicurazione graduale degli operai alla tecnostruttura, la programmazione a lunga scadenza, la razionalizzazione della produttività. Tutto ciò forma la tipica ideologia del neocapitalismo (vedi).
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Teoria
All’avanzamento, al progresso e alla diffusione della teoria intesa come corpo organico di conoscenze dello sviluppo storico, sociale ed economico, i classici del marxismo hanno sempre attribuito un’importanza decisiva. E’ infatti alla qualità stessa del suo apparato teorico che il marxismo deve le sostanziali differenze con altre teorie ispirate a propositi di giustizia sociale ma unilaterali, lontane dalla realtà, incapaci di fornire spiegazioni convincenti e soprattutto senza la consapevolezza del rapporto esistente tra il momento teorico e la prassi. La critica più aspra della società borghese e delle sue ingiustizie non spiega ancora perché le cose stiano così e non altrimenti, non dice niente sul modo in cui funziona il capitalismo, non porta ad alcuna conoscenza dei motivi della sua riuscita e della sua affermazione; questo è accaduto nel socialismo premarxista che criticava
«…il vigente modo di produzione capitalistico e le sue conseguenze, ma non poteva darne una spiegazione, né quindi venirne a capo: non poteva che respingerlo semplicemente come un male. Quanto più esso inveiva contro lo sfruttamento della classe operaia, inseparabile dal modo di produzione capitalistico, tanto meno era in grado di spiegare chiaramente in che cosa consista e come sorga questo sfruttamento» (Engels, Antidühring, p. 33).
Solo una teoria saldamente ancorata alla realtà poteva togliere dalla confusione e dall’impotenza le forze che gravitavano intorno a questo «socialismo delle invettive»; una teoria, precisa Engels, che non si limitasse a guardare prevalentemente le conseguenze del capitalismo ma affrontasse il problema delle sue cause e dei suoi complessi meccanismi interni.
Si capisce allora l’importanza attribuita alla teoria nell’ambito del marxismo e appare chiara la necessità di svilupparla ulteriormente con nuove ricerche; è grazie al proprio rigore, all’efficacia nell’analisi della realtà, al suo affermarsi come costante punto di riferimento nelle questioni pratiche di ogni genere che la teoria del marxismo si definisce in modo così specifico da potersi costituire in espressione rivoluzionaria del proletariato.
L’abbandono, tacito o conclamato, dell’interesse teorico corre parallelo alla rinuncia dei principi essenziali del marxismo; nel 1899 la socialdemocrazia era in una fase di grave sbandamento teorico al quale facevano riscontro iniziative politiche assai poco convincenti per dei partiti operai; dietro le rispettabili parole d’ordine contro il dogmatismo, il «dottrinarismo», la «mummificazione del pensiero» si celavano – come Lenin doveva constatare un paio di anni dopo – «l’indifferenza e l’impotenza nei riguardi dello sviluppo del pensiero teorico» e ciò era connesso con il fatto «che la grande diffusione del marxismo è stata accompagnata da un certo abbassamento del livello teorico» dovuto all’adesione «di molta gente la cui preparazione teorica era infima e persino nulla», spinta a entrare nel movimento «in virtù della sua importanza pratica e dei suoi progressi pratici».
A questo insieme di cose risalivano le tendenze a mettere in secondo piano, se non a dimenticare o rifiutare, i principi essenziali del marxismo, in vista di effettivi o ipotetici risultati pratici; rifacendosi alla Critica del programma di Gotha, Lenin ricorda che Marx stesso aveva scritto ai capi del partito di cercare tutti gli accordi necessari ai fini pratici del movimento, ma di non fare mai «commercio dei principi», né concessioni sul piano teorico.
Tutta la questione è riducibile dunque a un punto centrale:
«Senza teoria rivoluzionaria non vi può essere movimento rivoluzionario. Non si insisterà mai troppo su questo concetto in un periodo in cui la predicazione opportunistica di moda è accompagnata dall’esaltazione delle forme più ristrette dell’azione pratica» (Che fare?, p. 55).
L’abbandono degli interessi teorici o il loro spostamento in sfere lontanissime dall’attività pratico-politica è dunque, come si è detto, uno dei modi per ignorare i principi essenziali del marxismo e il loro contenuto rivoluzionario; la rivendicazione del ruolo della teoria non vuol dire privilegiare il piano teorico rispetto agli altri sui quali si svolge la lotta di classe, ma semplicemente ricordare la loro stretta connessione. Né, d’altra parte, ha mai voluto dire attaccamento statico e astratto, in una parola, dogmatico, alle idee elaborate dai fondatori del marxismo.
«Noi non consideriamo affatto la teoria di Marx come qualcosa di finito e di intangibile; siamo convinti, al contrario, ch’essa ha posto soltanto le pietre angolari di quella scienza che i socialisti devono far progredire in tutte le direzioni se non vogliono farsi distanziare dalla vita» (Lenin, Il nostro programma, in Marx-Engels-Marxismo, pp. 100-101).
Accanto all’uso della parola teoria nel senso di base teorica del marxismo se ne trova al suo interno un altro il cui senso si può cogliere facilmente nell’opposizione a pratica o a prassi (vedi). In proposito sono da considerare almeno questi punti: Marx e Engels elaborarono per la prima volta una teoria comprensiva dell’intero campo della realtà, al cui interno è contenuta la richiesta di essere giudicata non per mezzo degli abituali strumenti teorici ma dal confronto con l’attività pratica degli uomini; una teoria cioè che affida il giudizio su se stessa, sulle sue asserzioni e sui suoi procedimenti, alla verifica dei fatti concreti.
La richiesta di questo giudizio proviene dalla convinzione scientifica che ogni teoria dipende dal grado di sviluppo della produzione materiale in un dato momento storico, vale a dire dal grado di sviluppo dell’attività pratica degli uomini che crea perciò anche le condizioni per il livello intellettuale del singolo; la situazione è sintetizzata da una celebre frase: «L’esistenza di idee rivoluzionarie in una determinata epoca presuppone già l’esistenza di una classe rivoluzionaria».
Una teoria è contemporaneamente una parte della scienza (vedi) in quanto insieme di conoscenze scientifiche e il risultato, il prodotto, della scienza in quanto attività di ricerca che ha per oggetto fenomeni reali. Si comprende allora come ogni teoria abbia la sua origine nella pratica o, meglio, come questa costituisca tra l’altro la sfera comune, il punto d’incontro tra il pensiero che produce la teoria e la realtà alla quale si riferisce.
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Teoria critica
L’espressione teoria critica (della società, del capitalismo) è un modo, diverso da altri, di indicare il marxismo in quanto analisi scientifica della realtà o di una sua parte; la differenza non è di solito puramente verbale ma ha alcune implicazioni.
Così in alcune opere «teoria critica» viene principalmente usata per sottolineare che il marxismo è una descrizione scientifica dei meccanismi di riproduzione del capitalismo e della società che questi esprime; essendo descritte anche le molteplici contraddizioni al loro interno, la teoria non può che risultare critica nei loro confronti. In tale contesto sono sviluppati alcuni temi e contenute certe premesse: per esempio che la teoria, coincidendo col punto di vista della classe operaia, assume il carattere storico di «ideologia» rivoluzionaria o anche, su un altro piano, che la teoria in quanto costruzione puramente scientifica lascia aperti i problemi della partecipazione personale nel senso di impegno politico (vedi Etica).
In altre opere l’espressione teoria critica intende piuttosto accennare al fatto che nel marxismo, teoria sviluppata a partire da altre teorie preesistenti, il sapere borghese, il pensiero di un’epoca, compie la propria autocritica.
Infine vi sono altri autori che usano la stessa espressione per segnarne il distacco dalla prassi; detto molto schematicamente, per ricondurre il marxismo allo stato di pura teoria indubbiamente critica nei confronti dell’attuale società, ma incapace ormai di realizzarsi in un movimento di lotta veramente rivoluzionario, a causa dello strapotere dell’attuale capitalismo (vedi Sistema). È questa, per esempio, la tesi di alcuni esponenti della Scuola di Francoforte come Adorno e Horkheimer.
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Terrorismo
Adozione di metodi violenti nella lotta politica. Il terrorismo è stato adottato sia nel corso di una rivoluzione dalla classe rivoluzionaria per mantenere il potere, sia come forma di ribellione individuale o di piccoli gruppi.
Nel corso della Rivoluzione francese il Comitato di salute pubblica presieduto da Robespierre, come il governo di ogni paese invaso da eserciti stranieri e dilaniato da congiure e sommosse, si affidò a una giustizia rapida e sommaria, tanto che il periodo fu chiamato Terrore e preso ad esempio di gestione «terroristica» del potere.
La classe operaia abbandonò il metodo del terrorismo individuale, che pure era stato una forma istintiva ancora primitiva e disorganizzata di lotta dei lavoratori, non appena fu in grado di realizzare forme superiori di organizzazione e di lotta, in seguito allo sviluppo della coscienza di classe e alla comprensione della necessità dell’organizzazione politica (cfr. Engels, La condizione della classe operaia in Inghilterra).
Tutti i più importanti partiti di ispirazione marxista criticarono duramente ed espulsero dalle proprie organizzazioni gli esponenti che teorizzavano o praticavano il terrorismo, poiché la loro attività forniva un pretesto per la repressione alle classi dominanti e finiva quindi per costituire un freno allo sviluppo dell’azione politica dei lavoratori.
Il terrorismo restò, così, prerogativa delle correnti anarchiche e fu teorizzato in particolare da Bakunin. Nella Russia zarista il settore «nichilista» del populismo (vedi) sviluppò negli ultimi decenni del 1800 un’intensa attività terroristica. Lenin affrontò il problema, distinguendo la necessità della repressione dei tentativi controrivoluzionari (vedi Controrivoluzione) da parte della classe operaia nella società socialista, dai fenomeni di terrorismo individuale.
Esiste un’altra forma più recente di terrorismo, che consiste nell’attività di gruppi o centrali eversive, organizzati con la complicità dell’apparato statale borghese, autori di stragi o di omicidi politici, allo scopo sia appunto di terrorizzare i cittadini e di rendere plausibile il ricorso a misure eccezionali di repressione, sia di decapitare i movimenti progressisti dei loro migliori dirigenti. Nell’ultimo dopoguerra sono state aperte inchieste per fatti del genere a carico della mafia, di organizzazioni fasciste, della CIA, ecc.
Nella terminologia marxista esiste anche il termine terrorismo economico che indica l’attività di indiscriminata distruzione delle forze produttive (vedi) messa in opera dalla borghesia quando si ritiene minacciata dalla crescita politica e organizzativa della classe operaia, oppure per piegare la resistenza della classe operaia stessa in occasione di importanti conflitti contrattuali. Attività di questo tipo sono, oltre alle speculazioni, le contraffazioni dei bilanci e dell’entità reale dei profitti, le serrate (vedi) e le esportazioni massicce di capitali.
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Terzo mondo
Nel linguaggio corrente indica genericamente i Paesi in via di sviluppo dell’Africa e dell’Asia. Il «primo mondo» sarebbe l’Europa, il «secondo» gli Stati Uniti. Questa distinzione assume un significato antropologico e cronologico in quanto l’Europa viene considerata come il primo insieme di nazioni che hanno determinato, con la loro civiltà e la loro cultura, lo sviluppo storico mondiale.
L’uso di distinguere in «mondi» i popoli dei vari continenti ha avuto origine probabilmente nella cultura europea dei primi anni del XIX secolo. Lo stesso concetto di «Terzo Mondo» sottosviluppato sembra essere il prodotto di un certo senso di superiorità (eurocentrismo), che la cultura borghese europea ha sempre manifestato nei confronti di Paesi «colonizzati».
I comunisti cinesi intendono per Terzo Mondo l’insieme dei «Paesi non allineati» alle grandi potenze che lottano per la realizzazione di un «fronte unito dei popoli del Mondo contro l’imperialismo» (vedi).
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Tesaurizzazione
È la sottrazione di denaro alla circolazione e la sua «cristallizzazione» come tesoro.
Secondo Marx, è un fenomeno che appare necessariamente con lo sviluppo dello scambio ed è parallelo alla stessa comparsa del denaro.
Nel processo di tesaurizzazione la merce viene venduta non per comprarne dell’altra, ma per sostituirla con denaro: viene cioè cambiata la forma di merce in forma di denaro e «questo cambiamento di forma diventa, da semplice intermediario del ricambio organico, fine a se stesso». Il denaro come tale non ha praticamente valore d’uso: l’oro non è ricercato che in misura trascurabile, allo scopo di farne strumenti o ornamenti. Viene ricercato e ammassato perché incorpora valore di scambio, perché è lavoro materializzato.
L’usura è una delle forme tipiche della tesaurizzazione e può essere considerata come una delle premesse storiche del sorgere del capitalismo, anche se non in senso strettamente cronologico:
«Soltanto dove e quando sussistono le altre condizioni del modo di produzione capitalistico, l’usura costituisce uno dei fattori che concorrono alla formazione del nuovo modo di produzione, rovinando da un lato i signori feudali e la piccola produzione, dall’altro lato centralizzando le condizioni del lavoro e trasformandole in capitale» (Marx, Il Capitale, libro III, p. 695).
Nella società capitalistica la tesaurizzazione non sussiste più in forma autonoma, come nel periodo precedente, ma diventa un momento del processo di accumulazione, precisamente quello della formazione del capitale monetario da impiegare nel processo produttivo. Può anche, naturalmente, rimanere un fine soggettivo del capitalista: ma anche in questo caso lo scopo determinante è quello dell’accumulazione.
«Mentre la tesaurizzazione, come forma autonoma di arricchimento, scompare col progredire della società borghese, essa cresce, viceversa, di pari passo con esso, nella forma di fondi di riserva dei mezzi di pagamento» (ivi, libro I, p. 174).
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Totalità
Indica la relazione tra le parti che costituiscono un’unità, un intero, e l’unità stessa: in altri termini si parla di totalità quando più parti sono riunite e ordinate in modo tale da costituire un intero.
Questa relazione è perciò diversa da quella che lega tra loro gli elementi di una semplice somma, per il fatto di considerare l’esistenza di un ordine tra le parti, grazie al quale esse formano una costruzione articolata. È la stessa differenza che passa tra i mattoni in quanto parti costitutive di un mucchio e i mattoni in quanto parti costitutive di un muro: non vi è dubbio che tutte e due sono costituiti da mattoni, ma questi nel muro hanno tra loro rapporti particolari dipendenti dalla comune appartenenza a quella costruzione articolata, quell’insieme ordinato, quell’intero che è appunto il muro; nel mucchio invece i mattoni appaiono ammassati disordinatamente, i loro rapporti sono lasciati al caso, tutto quel che si può dire, infine, è quanti sono (vedi Dialettica).
La consapevolezza della totalità, concetto che ha una lunga storia e che fu ampiamente trattato da Hegel, è uno degli aspetti caratteristici del pensiero di Marx e di Engels; nelle loro ricerche ogni argomento essenziale fu sempre considerato in relazione agli altri che nel loro insieme costituivano la realtà. La totalità è infatti una relazione di estrema importanza nello studio scientifico di qualsiasi fenomeno, studio che può essere condotto soltanto isolando il fenomeno stesso dal suo contesto, dalla complessa rete di interazioni e di rapporti di cui fa parte; questo processo di separazione o di astrazione è dunque necessario, va compiuto, ma coscientemente, senza cioè dimenticarne mai il carattere artificioso rispetto a quello che è una realtà.
La consapevolezza della totalità ha sempre un contenuto critico nei confronti del sapere come viene inteso dalla borghesia, il cui dominio si basa su una serie infinita di divisioni e di frammentazioni di ogni genere; l’ideale borghese della scienza prende corpo nella figura dello specialista, profondo conoscitore di un ristretto settore del reale secondo un’ottica precisa che esclude ogni riferimento all’insieme. Basti pensare a quello che accade intorno a un solo fenomeno: il lavoro. Una «specialità» lo analizza sotto l’aspetto dell’erogazione di uno sforzo fisico e mentale da parte dell’uomo in date condizioni, un’altra sotto l’aspetto di attività che trasforma la natura, un’altra sotto l’aspetto giuridico e contrattuale, un’altra ancora come mezzo per la formazione del valore delle merci e così via; ciascuna per proprio conto, indifferente per il fenomeno nel suo insieme e in sostanza docile alle esigenze del dominio di classe. Consapevolezza della totalità non vuol dire, evidentemente, che il singolo debba conoscere in dettaglio tutti gli aspetti di un fenomeno o gruppo di fenomeni né la complessa rete dei loro rapporti, ma semplicemente che deve essere sempre chiara l’astrazione operata per immaginare nel loro isolamento dal resto dei fenomeni quelli studiati
La totalità può essere considerata a livelli diversi nel senso che all’interno delle successive divisioni della realtà in settori ulteriormente divisibili si può assegnare il carattere di intero a un dato insieme di parti che è, a sua volta, parte di un altro insieme. Così il lavoro è stato considerato qui come un intero, un tutto diviso in più parti; è ovvio che il lavoro è esso stesso una parte di quell’insieme che è il modo di produzione e che d’altro canto ciascuna delle parti in cui si è diviso il lavoro può comparire come un intero di fronte ad altre possibili suddivisioni in parti.
Va infine considerato che in qualsiasi teoria, sia delle scienze della natura che di altri campi del reale, un esperimento o un’asserzione o un concetto trovano un senso e un significato solo nella totalità della teoria stessa, cioè nel loro confronto con le altre parti dell’intero e con l’intero nel suo complesso.
Marx ha parlato di «totalità concreta» affrontando il problema del rapporto tra astratto e concreto (vedi Concreto e astratto), Engels di «unità del mondo» a proposito di scienza, di filosofia e di realtà; ambedue erano convinti del ruolo della totalità nella ricostruzione teorica e pratica di tutto ciò che il capitalismo mantiene diviso.
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Tradeunionismo
Le «trade unions» furono associazioni di mestiere sorte in Inghilterra nel 1829, che raggiunsero nel ’34 carattere nazionale.
Storicamente furono il primo tentativo di associazione degli operai e dettero l’esempio di quale dovesse essere la via di superamento delle prime forme di ribellione della classe operaia (vedi Luddismo).
Ben presto l’unione nazionale dovette tuttavia soccombere alla controffensiva padronale, anche se l’organizzazione locale permise al proletariato inglese di costituire una rete stabile di associazioni che non avevano carattere puramente assistenziale, ma ottennero importanti risultati di carattere normativo ed economico, quali il principio della protezione del lavoro e una legislazione sociale che imponeva il limite di dieci ore lavorative giornaliere per i lavoratori adulti.
Da allora il tradeunionismo ha assunto caratteristiche alterne a seconda della direzione politica che ha prevalso nel movimento operaio inglese, e talvolta ha risentito di limiti corporativi che non ne hanno permesso uno sviluppo rivoluzionario.
Tuttavia l’importanza storica di questo movimento, che è la prima forma di sindacalismo, è senz’altro paragonabile a quella della nascita dei partiti operai.
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Trasformismo
È la politica di alleanza parlamentare realizzata in base non alla linea politica e al programma, ma in base all’accordo su singole questioni prescindendo dall’orientamento complessivo delle forze che vi aderiscono.
Nacque nel parlamento italiano ad opera di Depretis, che fu il presidente del Consiglio della cosiddetta Sinistra, che sostituì nel 1876 il quindicennale governo della Destra. Il trasformismo di Depretis consistette nell’attuazione dell’accordo parlamentare con gli esponenti della Destra, fondato sulla sostanziale comunanza degli interessi di classe espressi dai due schieramenti. Si trattò del tentativo di unificare le correnti risorgimentali che apparivano inconciliabili nella fase precedente, quando moderati e mazziniani erano sostenitori di due concezioni notevolmente diverse sulla realizzazione dell’unità italiana.
La politica trasformista fu possibile in quanto le pur deboli tendenze rinnovatrici presenti nel Partito d’Azione vennero definitivamente abbandonate in seguito alla pratica clientelistica, che fu caratteristica del parlamento italiano fin dai suoi primi anni di vita. Secondo Gramsci
«…il cosiddetto “trasformismo” non è che l’espressione parlamentare del fatto che il Partito d’Azione viene incorporato molecolarmente dai moderati e le masse popolari vengono decapitate, non assorbite nell’ambito del nuovo Stato» (Gramsci, Quaderni del Carcere, p. 2042).
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Trotskismo
Termine che indica sia le teorie politiche di L. Trotskij, sia il movimento politico internazionale che ad esse si richiama.
I motivi peculiari del trotskismo sono essenzialmente la questione della direzione del partito e il problema della rivoluzione.
Trotskij si oppose a Lenin su queste questioni, non aderendo alle tesi leniniane dello sviluppo ineguale dell’imperialismo (vedi), della necessità dell’alleanza del proletariato con le masse popolari oppresse e in modo particolare coi contadini, della costruzione del socialismo anche in un solo paese (vedi), della concezione di un partito di lotta fondato sul centralismo democratico (vedi). Egli fu quindi contrario all’idea che la rivoluzione russa potesse essere consolidata dall’alleanza degli operai e dei piccoli e medi contadini, contestando la formula di Lenin della «dittatura democratica del proletariato e dei contadini» e insistendo sull’azione direttiva del proletariato industriale cittadino. Questa posizione ne fece già un oppositore della NEP (vedi) che apriva una fase di necessaria intesa con i contadini. Divergendo in parte anche dalle indicazioni di Lenin sulla necessità dell’unità e dell’alleanza di tutte le classi oppresse, Trotskij sviluppò la sua teoria della «rivoluzione permanente» che vedeva nel potere raggiunto dal proletariato russo non l’occasione per consolidare intanto il socialismo in un paese, ma solo un mezzo per promuovere la rivoluzione internazionale: ossia la rivoluzione russa avrebbe evitato il pericolo di un riflusso controrivoluzionario e sarebbe andata fino in fondo solo con la «rivoluzione del proletariato europeo». Trotskij riteneva infatti che il socialismo potesse nascere solo nei paesi più industrializzati e che pertanto in un paese a prevalenza contadina come la Russia la rivoluzione fosse un parto prematuro, senza l’appoggio dei paesi dell’occidente.
Alla base di questa concezione vi era l’idea che il compimento della rivoluzione dipendesse meccanicamente dal raggiungimento della massima evoluzione possibile dei rapporti di produzione capitalistici in tutto il mondo. Nella realtà il concetto trotskista di «esportazione della rivoluzione» si risolse nell’attendismo in politica interna e nell’avventurismo in politica estera. Complessivamente quindi, nonostante l’innegabile preparazione teorica e vivacità intellettuale, il pensiero di Trotskij ha le caratteristiche di una concezione astratta della politica; non riuscì a rispondere con adeguato realismo ai grandi problemi posti dalla nascente società sovietica, e fu al tempo stesso la causa principale del proprio isolamento politico e della propria sconfitta.
Organizzatosi nella IV Internazionale, come alternativa alla politica della III Internazionale (vedi Internazionale), il movimento trotskista subì nel corso della sua storia numerose scissioni, ponendosi ai margini del movimento operaio e delle sue organizzazioni.
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Umanesimo
Questo termine indica tanto la nota corrente di pensiero che nel Rinascimento cambiò radicalmente l’ideologia medievale della persona umana, quanto, per estensione, ogni filosofia che consideri direttamente l’uomo come oggetto centrale della propria ricerca (vedi Antropologia). Da qui l’interpretazione del marxismo come forma contemporanea di umanesimo sviluppata da non pochi marxisti. A parte le differenze specifiche riscontrabili al suo interno, questa interpretazione si può riassumere nei due punti seguenti:
– il marxismo è in sostanza una nuova concezione della persona umana che si basa su premesse scientifiche e materialistiche; la critica dell’economia politica mette in luce i modi di dipendenza dell’uomo dalla formazione economico-sociale di cui è parte e che pure egli stesso ha creato e continua a far vivere; nel contempo svela i meccanismi attraverso i quali le formazioni cambiano e si dissolvono;
– il comunismo è la realizzazione più compiuta dell’umanesimo: perciò questo comprende come momento essenziale la lotta, la pratica necessaria alla sua affermazione; è, per usare le parole del filosofo polacco Adam Schaff, «umanesimo militante».
Da quanto detto si comprende che l’umanesimo marxista non intende certo porsi come generica filosofia dell’uomo né come forma di interesse per l’uomo in astratto: qui il lamento sulla sua condizione si arresta sempre prima di arrivare alle cause. Né d’altra parte può essere confuso con quelle tendenze vaghe, quando non apertamente ostili a ogni ipotesi di potere reale da parte del proletariato, che possono essere assimilate alla formula del «socialismo dal volto umano».
Detto questo, e riconosciuto all’umanesimo marxista il merito di aver denunciato certe forme di marxismo troppo inclini a chiudersi in un rigore scientifico separato dalla considerazione delle condizioni umane, è tuttavia necessario chiedersi se e quale senso reale abbia parlare di umanesimo marxista oltre i limiti di una certa genericità. Che Marx e Engels non abbiano mai avuto in mente di elaborare una teoria scientifica per il puro e semplice amore della scienza è un dato di fatto che emerge da tutte e da ciascuna delle loro opere (vedi Etica); da qui a registrare come specifico umanesimo questa caratteristica del marxismo vi è una notevole differenza che molti marxisti trovano, in sostanza, riduttiva.
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Utopia
Questo termine, che letteralmente vuol dire «che non è in nessun luogo», viene usato nel marxismo in due modi diversi, uno negativo e l’altro positivo.
Il primo è legato al rifiuto di una corrente di pensiero che riprendeva, più o meno consapevolmente, un tema illustrato da Tommaso Moro in una celebre opera dal titolo significativo Della migliore costituzione di uno Stato e della nuova isola di Utopia (1516); essa può essere considerata il prototipo di tutte le opere successive in cui si descrivevano, talvolta fin nel dettaglio, Stati o società ideali. Con la differenza che nella prima metà del secolo XVI la «nuova isola» era la manifestazione di un grande pensiero critico nei confronti della realtà di quel tempo; tre secoli dopo, quando vivevano ancora Fourier e Saint-Simon, era una nobile moda letteraria i cui seguaci si sarebbero ben presto appellati «alla filantropia dei cuori e dei portafogli borghesi». A questo «socialismo e comunismo critico-utopistici», senza mai disconoscerne i meriti, viene opposto il socialismo scientifico che non comporrà «romanzi» su una futura società ideale ma studierà il «movimento reale» che porta alla trasformazione della società. L’utopia come «ricetta per le cucine dell’avvenire» viene bandita da Marx e da Engels.
Il secondo modo di intendere l’utopia si fonda su questa considerazione: pur non contenendo specifiche anticipazioni sulla futura società, il marxismo implica più di un generico riferimento alla fine delle classi, dello sfruttamento, dello Stato; quest’epoca nuova dell’umanità è lo scopo del marxismo stesso. A meno di non catalogarlo come un’analisi della società presente senza altri fini che la sua corretta descrizione, senza alcuna richiesta di un qualsiasi impegno personale; in tal caso né il «partito» né l’azione avrebbero un senso. Da qui l’affermazione che l’utopia, intesa come risultato lontano ma non immaginario, come obiettivo storico generale indicato dalla conoscenza scientifica dello sviluppo della società, ha nel marxismo una funzione di stimolo all’attività rivoluzionaria. Ernst Bloch, per esempio, ha chiamato «utopia concreta» la forza latente ma operante «di una realtà ultima che influisce concretamente su quella attuale».
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Valore
Un oggetto costituisce un valore in conseguenza del lavoro in esso contenuto; la grandezza di tale valore viene infatti determinata per mezzo del tempo di lavoro socialmente necessario per la produzione dell’oggetto stesso.
Occorre distinguere tra valore d’uso e valore di scambio. Il primo si riferisce al fatto che i beni, o prodotti, possono essere scambiati soltanto in quanto utili a qualcuno, in quanto siano in grado di soddisfare una qualsiasi necessità dell’uomo. Secondo Marx,
«L’utilità di una cosa ne fa un valore d’uso. Ma questa utilità non aleggia nell’aria. È un portato delle qualità del corpo della merce e non esiste senza di esso. Il corpo della merce stesso, come il ferro, il grano, il diamante, ecc., è quindi un valore d’uso, ossia un bene» (Il Capitale, libro I, p. 68).
Il valore d’uso è determinato dalle differenze qualitative delle merci, esso è quindi soggettivo e perciò molto variabile in rapporto alle situazioni storiche concrete. Inoltre, per diventare merce, un bene dev’essere prodotto come valore d’uso per altri, cioè come valore d’uso sociale. L’insieme dei valori d’uso forma quindi il contenuto materiale della ricchezza di una società, qualunque essa sia. La nozione di valore d’uso non comprende solo gli oggetti che hanno un’utilità materiale, ma anche tutto ciò che può essere utile nel senso di essere richiesto, desiderato o che soddisfi necessità non materiali come, per esempio, i prodotti dell’attività artistica.
Per valore di scambio si intende, invece, il rapporto quantitativo in base al quale si scambiano valori d’uso di un certo tipo con quelli di ogni altro tipo. Nella società capitalistica «i valori d’uso costituiscono insieme i depositari materiali del valore di scambio».
La distinzione tra valore d’uso e valore di scambio e l’analisi della contraddizione, che si esprime in quello che Marx chiama «il duplice carattere del lavoro rappresentato nelle merci», sono il punto di partenza della critica marxista all’economia politica classica. Infatti, anche se quest’ultima aveva riconosciuto il ruolo del lavoro nella formazione del valore, e distinto talvolta tra valore d’uso e valore di scambio, confondeva però gli elementi generali del processo lavorativo, che sono costanti in ogni società, con la forma specifica che essi assumono nella società capitalistica.
Marx quando considera la formazione concreta, storica, del valore in rapporto al lavoro, si riferisce sempre al concetto preciso di forza-lavoro (vedi). In ciò la teoria del valore-lavoro di Marx differisce profondamente dalle concezioni precedenti, di cui la più famosa fu quella di Ricardo, che consideravano il lavoro come attività naturale indipendente dalle situazioni storiche concrete. A questo proposito Engels osserva che la questione del rapporto tra lavoro e misura del valore è insolubile se viene formulata prescindendo dall’analisi della forza-lavoro:
«Non è il lavoro ad avere un valore. In quanto attività creatrice di valore, esso non può avere un valore particolare così come la gravità non può avere un determinato peso, il calore una determinata temperatura, l’elettricità una determinata intensità di corrente. Non è il lavoro ad essere comprato e venduto come merce, ma la forza-lavoro. Non appena essa diviene merce, il suo valore si adegua al lavoro in essa incorporato, in quanto prodotto sociale, è pari al lavoro socialmente necessario per la sua produzione e riproduzione» (Prefazione di Engels al II libro de Il Capitale, p. 25).
L’espressione valore viene usata anche in senso molto generico per indicare un giudizio che implica una valutazione positiva o negativa di un determinato fatto o argomento. I cosiddetti giudizi di valore, che si distinguono dai giudizi di fatto, comportano secondo alcuni la rinuncia al «distacco», che è invece indispensabile per la costituzione di una scienza in senso stretto. In particolare, lo storicismo tedesco fece di questa distinzione il presupposto di una separazione tra scienze sociali, che esprimono giudizi di valore, e scienze della natura, che si limitano a giudizi di fatto (vedi Storicismo).
Il marxismo, invece, anche se naturalmente sottolinea le differenze metodologiche che esistono fra le varie scienze, ritiene possibile la realizzazione di una ricerca scientifica in cui siano presenti insieme i cosiddetti giudizi di fatto, cioè le analisi strettamente tecniche e i giudizi di valore. Un esempio è costituito dall’opera maggiore di Marx, Il Capitale, in cui a un’analisi scientifica si accompagnano coerentemente giudizi di valore (vedi Socialismo scientifico).
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Valorizzazione
È il processo di formazione di valore. Più precisamente è il fenomeno che avviene nella società capitalistica quando al valore di una merce viene aggiunto plusvalore.
Marx nell’analizzare il processo di produzione distingue tra il processo lavorativo e quello di valorizzazione. Il modo di produzione capitalistico è contraddistinto dal fatto che in esso il processo lavorativo, che è «condizione generale del ricambio organico tra uomo e natura, condizione naturale eterna della vita umana», assume la particolare caratteristica di essere «processo di creazione del valore». In altri termini il lavoro acquista una forma tipica in cui non è più semplicemente un’attività diretta alla soddisfazione di determinate necessità, ma diventa lavoro che produce merce.
Nella società capitalistica, infatti, i lavoratori non producono per se stessi, o meglio per soddisfare le proprie necessità fondamentali, e neppure dirigono e organizzano direttamente i tempi e le modalità della produzione. Ciò che invece regola e in ultima analisi determina la produzione è il capitale o, se si vuole, la classe capitalistica nel suo insieme. Il processo di valorizzazione riguarda precisamente il capitale, che infatti viene valorizzato, si «autovalorizza», cioè aumenta di valore al termine di un ciclo produttivo:
«L’autovalorizzazione del capitale – la creazione di plusvalore – è quindi lo scopo animatore, dominante e ossessivo del capitalista, il pungolo e il contenuto assoluto del suo operare; … un contenuto totalmente astratto e meschino che, da un lato, fa apparire il capitalista come sottomesso alla schiavitù del rapporto capitalistico, non meno che, dall’altro, al polo opposto, l’operaio» (Marx, Il Capitale, cap. VI inedito, p. 21).
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Violenza
Il problema della violenza si pone nel marxismo in relazione ai seguenti punti:
– la violenza come presenza costante nella storia nel duplice significato di elemento costitutivo della società classista e in particolare di quella borghese, e come forza generatrice di nuove società;
– la critica alla violenza nella sua forma di terrorismo di gruppo o individuale;
– la violenza come componente della rivoluzione nella sua fase insurrezionale e nella costruzione dello Stato socialista.
«La storia di ogni società sinora esistita è storia di lotte di classe»: in queste parole del Manifesto è già ravvisabile la concezione marx-engelsiana di violenza, che parte dalla constatazione della sua esistenza nella società e nella storia, e più precisamente nel rapporto economico. Essa non dipende da una scelta soggettiva o politica, ma dal fatto che la società divisa in classi e soprattutto la società borghese è fondata sull’antagonismo tra forze e mezzi di produzione, tra proprietà privata e produzione sociale. Ogni mutamento dei rapporti di produzione, in quanto lotta di una classe per la supremazia e il dominio, ha sempre comportato l’uso della violenza, come nel caso del passaggio dalla società feudale a quella borghese, e in questo senso può anche essere vista positivamente perché ha favorito l’affermazione di modi di produzione più evoluti; essa cioè è la «levatrice» della storia.
Ma l’esercizio del dominio comporta la costituzione di un organismo in grado di garantirne il mantenimento, cioè lo Stato. Questo sussiste in quanto si avvale anzitutto di una «forza pubblica» che non è formata solo di uomini armati, «ma anche di appendici reali, prigioni e istituti di pena di ogni genere» e si mantiene mediante il contributo dei cittadini, cioè le imposte. Lo Stato perciò non è l’espressione generica del dominio di una classe, ma ne è lo strumento: vale a dire che la violenza, occulta o palese a seconda delle circostanze, compare in esso non marginalmente o in seconda istanza, sebbene come caratteristica prima e determinante del suo modo di essere nella storia (vedi Stato). Solo quando vi sia un periodo di equilibrio tra le forze sociali lo Stato può attenuare questa violenza di base e presentarsi come «democratico»; non appena si avvicinano delle crisi gravi che rompono questo equilibrio esso mostra inequivocabilmente la sua vera natura.
«La civiltà e la giustizia dell’ordine borghese si mostrano nella loro luce sinistra ogni volta che gli schiavi e gli sfruttati di quest’ordine insorgono contro i loro padroni. Allora questa civiltà e questa giustizia si svelano come nuda barbarie e vendetta ex lege» (Marx, Le guerre civili In Francia, pp. 95-96).
Da qui il rifiuto marx-engelsiano di quelle concezioni che vedevano la rivoluzione come intervento armato di una minoranza «eroica» che avrebbe trascinato dietro a sé il popolo o come terrorismo individuale. Sono note le polemiche di Marx e Engels con Blanqui e Bakunin, i più autorevoli rappresentanti di queste tendenze, ai quali addebitavano di non tener conto del fatto che la rivoluzione può verificarsi solo in una determinata fase storica, quando cioè esplodano le contraddizioni tra forze e modo di produzione e che ogni fase storica può essere abbreviata, ma non eliminata. Infatti:
«Una formazione sociale non perisce finché non si siano sviluppate tutte le forze produttive a cui può dare corso; nuovi e superiori rapporti di produzione non subentrano mai, prima che siano maturate in seno alla vecchia società le condizioni materiali della loro esistenza» (Marx, Per la critica dell’economia politica, p. 5).
La teoria dell’imperialismo (vedi) sposta i termini entro i quali si collocava il problema della violenza e dei suoi rapporti con la rivoluzione: anzitutto qui la violenza è vista non più in senso positivo come «levatrice» della storia, ma solo negativamente come oppressione. Infatti il capitalismo nella sua fase ultima, cioè l’imperialismo, implica l’uso della forza per la spartizione del mercato mondiale e le conquiste coloniali: il che dimostra ancora una volta che la guerra e la violenza sono fatti costitutivi del modo di produzione capitalistico.
In secondo luogo, dev’essere considerata sia dal punto di vista dell’abbattimento dello Stato borghese, sia in relazione alla costruzione del nuovo Stato socialista. In quanto la rivoluzione è un fenomeno di massa guidato e organizzato dal proletariato, Lenin, almeno in una fase iniziale della rivoluzione russa, mira piuttosto al consenso che alla coercizione; ma il nuovo Stato socialista (vedi Dittatura del proletariato) nasce contro le resistenze della borghesia capitalistica, nei cui confronti non può che reagire con l’energia necessaria: ogni dominio di classe reca in sé il segno della violenza. Tuttavia nello Stato socialista questa è presente in una fase transitoria dettata da condizioni oggettive ed esterne: non è implicita nei rapporti economico-sociali come lo è nella società capitalistica. Quindi non solo è destinata a scomparire, ma è già essa stessa diversa in quanto imposizione della maggioranza sulla minoranza.
«Noi ci assegniamo come scopo finale la soppressione dello Stato, cioè di ogni violenza organizzata e sistematica, di ogni violenza esercitata contro gli uomini in generale. Noi non auspichiamo l’avvento di un ordinamento sociale in cui non venga osservato il principio della sottomissione della minoranza alla maggioranza. Ma, aspirando al socialismo, noi abbiamo la convinzione che esso si trasformerà in comunismo, e che scomparirà quindi ogni necessità di ricorrere in generale alla violenza contro gli uomini, alla sottomissione di un uomo all’altro, di una parte della popolazione all’altra, perché gli uomini si abitueranno a osservare le condizioni elementari della convivenza sociale, senza violenza e senza sottomissione» (Lenin, Stato e Rivoluzione, p. 92).
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Volontarismo
Indica la concezione, e la pratica politica ad essa corrispondente, che attribuisce alla volontà singola o di un gruppo il ruolo determinante nello sviluppo storico, sottovalutando le condizioni oggettive delle situazioni concrete.
Il volontarismo si distingue dalle altre manifestazioni del soggettivismo politico, quali per esempio lo spontaneismo, il settarismo e il dogmatismo, in quanto è legato in modo relativamente organico alle concezioni filosofiche che, nei primi anni del ’900, riflettevano le tendenze irrazionalistiche largamente presenti nella cultura europea.
Dal punto di vista storico, infatti, la sopravvalutazione del ruolo dell’intervento soggettivo nell’azione politica ha assunto i caratteri tipici di un movimento ispirato al volontarismo nella pratica e nella teorizzazione del sindacalismo rivoluzionario di Sorel. Questo movimento, che non assunse mai la caratteristica di un vero e proprio partito ma rimase come tendenza all’interno di altri partiti, fece appello alla violenza (il libro che rese famoso Sorel è Riflessioni sulla violenza) e ritenne che il principale strumento di lotta per la rivoluzione fosse lo sciopero generale insurrezionale, in quanto espressione di un atto di volontà immediata e spontanea. Il volontarismo aveva cioè una visione semplicistica del processo rivoluzionario e inoltre, nelle sue forme più esasperate, diffusesi anche in alcuni settori del massimalismo italiano, contrastava talvolta l’opera di preparazione e organizzazione della classe operaia, intesa a realizzare la propria egemonia sull’intera società.
Sotto questo profilo è stato criticato, tra gli altri, da Gramsci, il quale ha messo in luce la matrice sostanzialmente idealistica e individualistica di questa concezione della storia, e ha rilevato la contraddittorietà della sua attività pratica, che portava in definitiva agli stessi errori compiuti dai sostenitori della concezione apparentemente opposta: il determinismo.
Oltre che in Gramsci, anche dall’opera di Lenin, e in generale dalla storia dei partiti comunisti, risulta evidente che il problema del rapporto tra volontà e sviluppo della società è posto in maniera errata sia dalla concezione volontaristica che da quella deterministica. Infatti è la coscienza di classe, l’organizzazione politica rivoluzionaria – e quindi non il semplice istinto di ribellione, oppure la sola forza delle leggi economiche – ad essere indispensabile per il superamento delle contraddizioni esistenti nel capitalismo.