«Marx, Engels, Lenin, per parecchi aspetti anche gli anarchici (mi riferisco a Bakunin più che a Proudhon) hanno dato lucidità e rigore al comunismo, e in ciò consiste la loro grandezza, e il molto che ancora dobbiamo da essi “imparare criticamente”. Ma essi sarebbero rimasti degli isolati, e non avrebbero nemmeno raggiunto la propria altezza teorica, se non vi fosse stata la ribellione di grandi masse proletarizzate e ridotte alla disperazione dal capitalismo. Tuttora, chi si ferma ad un socialismo sentimentale fa, non c’è dubbio, ben poca strada, tanto poca da non meritare considerazione. Ma chi non sente fin dall’inizio un forte sdegno verso l’iniquità, una forte solidarietà con gli oppressi, non arriverà neanche lui ad un vero socialismo scientifico: rimarrà un marxista professorale, e il professoralismo finirà col farlo regredire all’accettazione dell’esistente».
Sebastiano Timpanaro jr. (Vent’anni dopo, 1997)
Riflessioni sul volume di Kohei Saito Il capitale nell’Antropocene (Einaudi, Torino 2024).
Dalla quarta di copertina del volume:
«Il capitalismo non ci guiderà fuori dalla crisi. Qualsiasi ricetta economica basata su una crescita continua porta alla distruzione del pianeta. L’unica possibilità è tirare il freno. E Marx, al riguardo, ha qualcosa da insegnarci. Il manifesto politico-economico con cui tutte le sinistre del mondo devono confrontarsi. In un periodo di ecoansia, in cui fenomeni sempre più estremi ci costringono a fare i conti con l’abitabilità di alcune parti del globo e con la sostenibilità del nostro modo di vivere, Saito irrompe nel dibattito con proposte coraggiose, radicali e meditate. Il tecno-utopismo, il Green New Deal, l’ecologismo di facciata delle aziende non sono una soluzione. E i piccoli gesti quotidiani dei singoli non sono sufficienti. Se non accettiamo l’idea che le risorse sono limitate e non affrontiamo il problema delle disuguaglianze, siamo destinati alla rovina. Dobbiamo tornare all’essenziale, alle cose concrete, alla comunità. Riscoprire, insomma, quella che Marx definiva “la relazione metabolica tra uomo e natura”».
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Marx nell’Antropocene: anacronismo o attualità?
di Stefano Gallerini
Antropocene è un neologismo coniato dallo scienziato Paul Crutzen (1933-2021), premio Nobel per la chimica nel 1995. Nel 2000 Crutzen usò per la prima volta il termine per indicare il fatto che la nostra epoca è la prima era geologica in cui le attività dell’uomo appaiono capaci di incidere negativamente sull’atmosfera fino ad arrivare al punto di sconvolgere i suoi equilibri naturali. Il termine è stato ripreso più di recente dal filosofo giapponese Kohei Saito, che nel 2020 ha pubblicato un libro intitolato per l’appunto Capital in the Anthropocene. Saito era già salito agli onori della ribalta pubblicando nel 2017 l’opera Karl Marx’s Ecosocialism, che è la versione inglese del volume Natur gegen Kapital: Marx’ ökologie in seiner unvollendeten Kritik des Kapitalismus, figlio, a sua volta, delle ricerche svolte nell’ambito del dottorato di ricerca in filosofia. Se L’ecosocialismo di Karl Marx si richiama fin dal titolo alla corrente di pensiero che ha avuto i suoi precursori in esponenti di primo piano del marxismo anglosassone come James O’Connor, fondatore della rivista «Capitalism, nature, socialism», e John Bellamy Foster, con la sua seconda pubblicazione, tradotta in italiano dalla casa editrice Einaudi, Saito tenta un’operazione ancora più ambiziosa. Sull’onda della Marx renaissance cominciata in concomitanza con la grande crisi del 2008-2009, che ha indotto molti intellettuali a prendere atto della persistente vitalità del pensiero marxiano, Saito arriva a presentare il filosofo di Treviri come il primo teorico della decrescita. Dopo aver messo a fuoco nel primo capitolo la gravità della crisi ambientale, che – basti pensare soltanto ai cambiamenti climatici – rischia di minare le basi naturali della stessa esistenza del genere umano, Saito analizza le proposte messe in campo dall’establishment per fronteggiarla. Del tutto folle appare l’approccio alla questione degli apologeti del cosiddetto “libero mercato”, secondo cui la soluzione dei problemi ambientali dovrebbe essere affidata agli stessi automatismi di mercato, lasciati liberi di agire indisturbati. È la strada che vorrebbe percorrere l’amministrazione Trump, nell’ambito della quale non a caso figurano molti negazionisti dei cambiamenti climatici. Questa strategia è semplicemente una non strategia: la sola risposta che il mercato capitalistico è in grado di dare all’inquinamento e ai problemi da esso suscitati, come il riscaldamento globale del pianeta Terra, è quella di far diventare anche l’inquinamento una ulteriore opportunità di profitto per il mercato capitalistico attraverso il business dell’ecocapitalismo. Non a caso Saito, invece, spende l’intero secondo capitolo del suo libro ad analizzare i limiti del modello keynesiano applicato al clima, che ha nel cosiddetto Green New Deal il suo cavallo di battaglia. Il difetto di fondo di quest’ultima proposta, incardinata sul concetto di sviluppo sostenibile, consiste nel tentativo di coniugare crescita economica e sostenibilità ambientale. Secondo Saito, però, posto di fronte alla necessità di dover scegliere tra crescita economica e sviluppo sostenibile, il sistema capitalistico finirà inevitabilmente per privilegiare la prima sacrificando il secondo. Occorre allora far entrare in gioco un altro concetto e cioè quello di decrescita, abbandonando il primato della produzione per la produzione, a cui il capitalismo è costretto dalla legge fondamentale che regola la sua economia: la valorizzazione del capitale mediante l’estorsione dalla forza-lavoro salariata del plusvalore, che poi si trasforma in profitto grazie alla vendita delle merci prodotte.
Si giunge così a quello che possiamo considerare il cuore dell’opera di Saito: il quarto capitolo intitolato «Marx nell’antropocene». Saito è uno dei curatori della Marx Engels Gesamtausgabe, la cosiddetta MEGA 2, la nuova edizione critica delle opere complete di Marx ed Engels1. Una delle maggiori novità della MEGA 2 rispetto alla prima è la quarta sezione, che, articolata in trentadue volumi, comprende tutte le annotazioni e le citazioni estratte da Marx dai libri che andava leggendo e riportate nei suoi quaderni di lavoro. Facendo riferimento a questo materiale rimasto finora inedito, Saito propone Marx nelle vesti di un teorico della decrescita. Ha un fondamento sul piano filologico questa interpretazione ? Che Marx, scrivendo Il capitale, avesse già intuito la gravità della crisi ambientale e come questa, a suo giudizio, fosse intrinsecamente connessa all’affermazione del modo capitalistico di produzione, è ormai risaputo. Nel primo libro del Capitale Marx afferma che «ogni progresso dell’agricoltura capitalistica costituisce un progresso non soltanto nell’arte di rapinare l’operaio, ma anche nell’arte di rapinare il suolo; ogni progresso nell’accrescimento della sua fertilità per un dato periodo di tempo, costituisce insieme un progresso della rovina delle fonti durevoli di questa fertilità. Quanto più un paese, per es. gli Stati Uniti dell’America del nord, parte dalla grande industria come sfondo del proprio sviluppo, tanto più rapido è questo processo di distruzione. La produzione capitalistica sviluppa quindi la tecnica e la combinazione del processo di produzione sociale soltanto minando allo stesso tempo le fonti da cui sgorga ogni ricchezza: la terra e l’operaio»2. Tradizionalmente interpretato come un convinto sostenitore dello sviluppo delle forze produttive materiali e della crescita economica da questo veicolata, in realtà Marx aveva ben presente i costi in termini ambientali del modo capitalistico di produzione. Nel terzo libro del Capitale, parlando della grande proprietà fondiaria, scrive che «essa genera così le condizioni che provocano una insanabile frattura nel nesso del ricambio organico sociale prescritto dalle leggi naturali della vita, in seguito alla quale l’energia della terra viene dissipata e questo sperpero viene esportato mediante il commercio molto al di là dei confini del proprio paese (Liebig)»3. Il chimico tedesco Justus von Liebig, insieme all’agronomo Karl Fraas, è uno degli autori che, secondo Saito, più hanno contribuito a far nascere in Marx una spiccata sensibilità per le questioni ambientali. Nella ricostruzione di Saito, l’altro filone di studi che ha maggiormente contribuito a fare dell’ultimo Marx un teorico della decrescita è quello legato all’antropologia e allo studio delle società precapitalistiche. In questo ambito disciplinare gli autori fondamentali ai fini di quella che Saito chiama la «conversione teorica» di Marx sono lo storico del diritto Georg Ludwig Maurer e l’antropologo Lewis Morgan, autore de La società antica (1877). L’ipotesi di lavoro intorno a cui ruota il libro di Saito è che Marx, coltivando questi studi, «intendeva verificare gli effetti della frattura metabolica in vari campi. Lo scopo finale era quello di tentare di individuare nell’esistenza di tale frattura la contraddizione intrinseca del capitalismo»4. L’elemento di maggiore debolezza della sua strategia argomentativa consiste nel fatto che Saito, nel tentativo di dimostrare che Marx, negli ultimi quindici anni della sua vita (1868-1883), aveva progressivamente trasformato la critica dell’economia politica in una teoria della decrescita, utilizza come pezze di appoggio per le proprie argomentazioni, più che gli appunti di ricerca e le note di lettura che compongono la quarta sezione della MEGA 2, due testi ben conosciuti dagli studiosi di Marx quali la Critica del programma di Gotha (1875) e, soprattutto, la lettera a Vera Zasulič (1881), che, secondo Saito, «rappresenta un testamento indispensabile per la nostra stessa sopravvivenza nell’Antropocene»5.
Il 16 febbraio 1881 la rivoluzionaria russa Vera Zasulič aveva scritto una lettera a Marx per conoscere la sua opinione in merito al ruolo che la comune agricola diffusa nelle campagne russe (obščina) avrebbe potuto svolgere ai fini di una trasformazione in senso socialista dell’impero zarista. Marx impiegò ben tre settimane a rispondere alla Zasulič e la sua lettera risulta estremamente concisa rispetto alle tre bozze di risposta elaborate prima di giungere alla versione definitiva. Marx escluse che la Russia fosse fatalmente destinata a ripercorrere le tappe dello sviluppo capitalistico, imitando il percorso storico seguito dai paesi dell’Europa occidentale. Nella sua lettera di risposta Marx formulò così le proprie conclusioni: «L’analisi esposta nel Capitale non fornisce ragioni né a favore né contro la vitalità della comune rurale, ma lo studio speciale che ne ho fatto, e per il quale ho cercato i materiali nelle fonti originali, mi ha convinto che questa comune è il fulcro della rigenerazione sociale in Russia. Nondimeno, affinché essa possa funzionare come tale, occorrerebbe prima eliminare tutte le influenze deleterie che l’assalgono da ogni lato e assicurarle poi le condizioni normali per un suo sviluppo naturale»6. Nelle bozze preliminari della lettera a Vera Zasulič Marx aveva argomentato le sue riflessioni in modo più articolato e strutturato, sottolineando con forza che «la comune rurale russa può conservarsi sviluppando la sua base, la proprietà comune della terra, eliminando l’elemento di proprietà privata che è anche in essa presente. Essa può diventare il primo punto di partenza del sistema economico a cui tende la società moderna; può cambiare di pelle senza andare incontro al suicidio. Può assicurarsi i frutti con i quali la produzione capitalistica ha arricchito l’umanità, senza passare per il regime capitalistico». Alla fine della prima bozza di lettera – la più lunga delle tre scritte da Marx – il filosofo di Treviri avanzava la tesi che la crisi del capitalismo si sarebbe risolta nella sua eliminazione e nella sua sostituzione con un nuovo modello di sviluppo, in cui avremmo assistito al «ritorno nella società moderna di una forma superiore sul modello arcaico: la produzione e l’appropriazione collettive»7.
Ma queste ed altre citazioni sono sufficienti per affermare che Marx, negli ultimi anni della sua vita, era giunto ad elaborare una nuova concezione del comunismo che aveva il suo centro di gravità nel moderno principio della decrescita? Infatti, questa è la tesi principale esposta da Saito nel suo libro: «In breve, dopo aver abbandonato l’idea di progresso storico, Marx è riuscito a incorporare i principi comunitari di sostenibilità e di economia stazionaria nella sua teoria della rivoluzione. L’ideologia comunista è stata così trasformata in qualcosa di completamente diverso dal primato della produzione o dall’ecosocialismo. Si tratta del comunismo della decrescita, raggiunto nella fase più tarda del pensiero di Marx»8. È un fatto accertato che l’ultimo Marx abbia abbandonato il determinismo economico che, precedentemente, si era manifestato a più riprese in molte delle sue opere9, abbracciando una visione più dialettica e multilineare dei processi storici. La transizione al comunismo poteva essere innescata in paesi poco sviluppati dal punto di vista capitalistico, facendo leva, oltre che sui fattori economici, anche sulle lotte politiche e sociali che i movimenti rivoluzionari potevano organizzarvi. Non a caso, anche nella prefazione alla seconda edizione russa del Manifesto del partito comunista, redatta insieme ad Engels all’inizio del 1882, Marx era giunto a conclusioni simili a quelle espresse nella lettera a Vera Zasulič: «Se la rivoluzione russa servirà come segnale ad una rivoluzione proletaria in Occidente, in modo che entrambe si completino, allora l’odierna proprietà comune rurale russa potrà servire da punto di partenza per un’evoluzione comunista»10. È altrettanto noto, inoltre, che Marx, già al tempo della pubblicazione del primo libro del Capitale (1867), avesse dimostrato grande interesse per le scienze naturali e che gli studi di antropologia e di storia antica condotti successivamente lo abbiano messo in contatto con società precapitalistiche in cui erano presenti istituzioni agrarie, come la comunità di villaggio (Markgenossenschaft) dei popoli germanici in lotta contro l’impero romano, il cui modello di sviluppo, incentrato sulla proprietà comune della terra, era di gran lunga meno distruttivo delle risorse naturali, considerate il corpo inorganico dell’umanità, e più rispettoso degli equilibri ambientali. Addirittura, nel terzo libro del Capitale, che Marx lasciò incompiuto, si trova una straordinaria anticipazione del concetto di sviluppo sostenibile, che nella definizione ufficiale dell’ONU si configura come quello sviluppo capace di soddisfare i bisogni delle attuali generazioni senza compromettere il diritto di quelle future a soddisfare i propri: «Dal punto di vista di una più elevata formazione economica della società, la proprietà privata del globo terrestre da parte dei singoli individui apparirà così assurda come la proprietà di un uomo da parte di un altro uomo. Anche una intera società, una nazione e anche tutte le società di una stessa epoca, prese complessivamente, non sono proprietarie della terra. Sono soltanto i suoi possessori, i suoi usufruttuari e hanno il dovere di tramandarla migliorata, come boni patres familias, alle generazioni successive»11. Non c’è dubbio, quindi, che già a partire dal primo libro del Capitale fossero presenti nell’elaborazione di Marx corpose venature di stampo ecologista. Però, di qui a trasformare il filosofo di Treviri in un precursore della teoria della decrescita il passo è lungo. L’impressione tratta dalla lettura dell’opera di Saito è che, nell’intento di attualizzarne ad ogni costo il pensiero, il rischio che si corre è quello di fare di Marx un pensatore anacronistico, cioè collocato al di fuori del proprio contesto temporale: «Sostenibilità ed equità sono ciò che la società occidentale moderna deve consapevolmente recuperare per superare la crisi del capitalismo e la loro condizione materiale è un’economia stazionaria»12. Per quanto affascinante, l’operazione di Saito rischia così di trasformarsi in una proiezione su Marx, filosofo del XIX secolo, di istanze e problematiche specifiche del XXI secolo.
Non conoscendo i volumi della MEGA 2, in particolare quelli della quarta sezione, a cui fa riferimento la riflessione di Saito, rinvio a quanto detto da Roberto Fineschi, un altro dei curatori del progetto editoriale che dovrebbe fornire agli studiosi l’intero corpus delle opere di Marx ed Engels. In una intervista rilasciata alla rivista di critica sociale «L’anatra di Vaucanson», ad una specifica domanda rivoltagli dall’intervistatore, Fineschi, in merito al “fenomeno Saito”, risponde ammettendo di nutrire qualche dubbio «sull’uso disinvolto dei materiali tardi» ai quali si rischia di attribuire «un’importanza eccessiva». Inoltre, Fineschi rileva il mancato rispetto del «principio filologico della gerarchia delle fonti», dal momento che non appare del tutto corretto mettere sullo stesso piano le opere vere e proprie – sia edite che inedite durante la vita di Marx – e i suoi quaderni di lavoro, pieni di estratti e note di letture13. Detto questo, il grande merito di Saito è quello di impostare correttamente i termini della crisi ambientale, approccio che lo porta a dichiarare apertamente che l’unico sviluppo sostenibile è uno sviluppo non più capitalistico: «In un’epoca di cambiamenti climatici, è importante puntare a un sistema sociale che non sia il capitalismo. Il comunismo è l’unico futuro che conviene scegliere nell’epoca dell’Antropocene»14. Saito afferma chiaramente che non esiste la possibilità di una reale soluzione dei problemi ambientali, a partire da quelli legati ai cambiamenti climatici, e quindi una salvezza per il pianeta Terra, senza mettere in discussione le dinamiche distruttive del capitalismo globale. Non a caso cita esplicitamente Rosa Luxemburg e il suo famoso monito – «socialismo o barbarie» – per indicare la radicalità delle scelte a cui l’umanità si trova di fronte. Ma attribuire a Marx qualcosa di più rispetto a concetti come «ecosocialismo» e «sviluppo sostenibile» appare sinceramente una forzatura. Parafrasando quello che lo stesso Marx scrisse nella celebre lettera – peraltro mai inviata – alla redazione della rivista russa «Annali della patria» (1877), si corre il rischio di fargli, nello stesso tempo, «troppo onore e troppo torto»15.
12/01/2025
Stefano Gallerini
Note
1 La prima MEGA prese il via nel 1924 sotto la supervisione di David Borisovič Rjazanov (1870-1938), direttore dell’Istituto Marx – Engels di Mosca, e non andò oltre la pubblicazione di trentasei volumi. A progetto finito, invece, i volumi della seconda MEGA dovrebbero essere più di cento.
2 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro primo, Editori Riuniti, Roma 1980, pp. 552-553.
3 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro terzo, Editori Riuniti, Roma 1980, p. 926.
4 K. Saito, Il capitale nell’Antropocene, Einaudi, Torino 2024, p. 133.
5 K. Saito, Il capitale nell’Antropocene cit., p. 163.
6 M. Musto, L’ultimo Marx 1881-1883. Saggio di biografia intellettuale, Donzelli, Roma 2016, p. 72.
7 Per le citazioni, entrambe tratte dalla prima bozza della lettera a Vera Zasulič, cfr. M. Musto, L’ultimo Marx cit., p. 67 e p. 69.
8 K. Saito, Il capitale nell’Antropocene cit., pp. 157-158.
9 Nella celeberrima prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859) Marx aveva scritto: «A grandi linee, i modi di produzione asiatico, antico, feudale e borghese moderno possono essere designati come epoche che marcano il progresso della formazione economica della società». E, a riprova di quanto ancora il suo pensiero fosse ispirato ad un regime narrativo di stampo deterministico, nella prefazione al primo libro del Capitale si legge: «Il paese industrialmente più sviluppato non fa che mostrare a quello meno sviluppato l’immagine del suo avvenire».
10 K. Marx – F. Engels, Manifesto del partito comunista, Einaudi, Torino 1998, p. 105.
11 K. Marx, Il capitale. Critica dell’economia politica, libro terzo, Editori Riuniti 1980, pp. 886-887.
12 K. Saito, Il capitale nell’Antropocene cit., p. 156.
13 L’intervista, a cura di Afshin Kaveh, è reperibile con il titolo Leggere ancora Marx. Dialogo con Roberto Fineschi nel sito internet della rivista.
14 K. Saito, Il capitale nell’Antropocene cit., p. 165.
15 K. Marx – F. Engels, India Cina Russia, Il Saggiatore, Milano 2008, p. 245. Criticando quanto aveva scritto in rapporto al cap. XXIV del primo libro del Capitale uno dei redattori della rivista di orientamento populista «Annali della patria», Marx ribatté: «Egli sente l’irresistibile bisogno di metamorfosare il mio schizzo sulla genesi del capitalismo nell’Europa occidentale in una teoria storico-filosofica della marcia fatalmente imposta a tutti i popoli, in qualunque situazione essi si trovino, per giungere infine alla forma economica che, con la maggior somma di potere produttivo del lavoro sociale, assicura il più integrale sviluppo dell’uomo. Ma io gli chiedo scusa: è farmi insieme troppo onore e troppo torto».
Inserito il 13/01/2025.
Fonte dell’immagine: https://www.eunews.it/wp-content/uploads/2017/05/marx.jpg
Dalla rivista «Quaderni materialisti»
Il professor Mario Cingoli, recentemente scomparso, ha indagato per tutta la vita gli scritti di Karl Marx e Friedrich Engels. La sua opera di interpretazione e divulgazione del pensiero marxiano è stata estremamente preziosa: anche nel brano che qui presentiamo egli, con un linguaggio chiaro, spiega i passaggi dell’evoluzione del filosofo tedesco e indica le categorie fondamentali del suo pensiero, basato su un approccio scientifico, per la trasformazione della realtà.
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Marx e la scienza
di Mario Cingoli
Perché Marx chiama il suo socialismo «scientifico»? Egli usa questo termine soprattutto in opposizione a «utopistico» (o «dottrinario»): noi dobbiamo riferirci alla realtà che abbiamo davanti, non contrapporre ad essa un astratto dover-essere. In questo Marx segue la grande lezione di Hegel: «Intendere ciò che è è il compito della filosofia, poiché ciò che è, è la ragione». Intendere ciò che è: «Hic Rhodus, hic saltus»1.
Marx non ha sempre aderito a questa concezione: in una famosa lettera a suo padre del 1837 (aveva allora 19 anni) egli descrive la sua lotta contro la ‘rocciosa melodia’ della filosofia hegeliana: contro di essa — considerata troppo ‘realistica’ — aveva scritto e stracciato pagine e pagine, ci si era anche — letteralmente — ammalato, finché l’ultimo suo lavoro, per cui aveva speso nottate, lo aveva portato «come una sirena ingannatrice tra le braccia del nemico». «Se prima gli dei avevano abitato al di sopra della terra, ora ne erano divenuti il centro»: dal ribellismo romantico e dall’idealismo kant-fichtiano, cui si era ispirato in precedenza, egli era giunto a capire che «la ragione della cosa stessa deve svolgersi come qualcosa di in sé conflittuale e trovare in sé la sua unità»2.
A questo approdo, cui è giunto dopo tante lotte, Marx è rimasto fedele, ma, come vedremo, a modo suo: criticandolo, rifunzionalizzandolo, ‘rovesciandolo’. Ne sentiamo spesso nelle sue opere degli echi significativi, di cui portiamo qualche esempio. Subito dopo il dottorato in filosofia, non trovando sbocco nelle retrive Università tedesche, Marx decise di volgersi al giornalismo; in un abbozzo di articolo del 1842, che poi non pubblicò3, egli critica un lavoro di Moses Hess sul problema dell’accentramento, il problema cioè «se l’autorita dello Stato emani da un solo punto […] ovvero se ciascuna provincia ecc., debba amministrarsi da sé». Hess diceva che «questo problema, considerato da un punto di vista superiore, si dissolve in se stesso come inesistente» perché «se l’uomo è realmente come deve essere secondo la sua natura, allora la libertà individuale non è affatto distinta da quella universale». «Se presupponiamo dunque un popolo di giusti, allora la questione in parola non può assolutamente essere posta». «Il potere centrale vivrebbe in tutti i suoi membri, ecc. ecc.». «Possiamo rendere sorprendentemente facile la risoluzione dei più difficili problemi dello Stato, se da un punto di partenza filosofico elevato guardiamo giù verso la nostra vita sociale».
Marx risponde: «A ragione l’autore vanta la ‘sorprendente facilità’ con la quale da un tale punto di vista ci si può orientare, ma a torto definisce una simile soluzione del problema ‘teoricamente del tutto esatta, anzi la sola esatta’, a torto chiama ‘filosofico’ tale punto di vista. La filosofia deve protestare seriamente quando viene confusa con l’immaginazione. La finzione di un popolo di ‘giusti’ è estranea alla filosofia quanto lo è alla natura la finzione di ‘iene che pregano’. L’autore sostituisce alla filosofia le ‘sue astrazioni’».
Un anno dopo, nella Critica della filosofia del diritto di Hegel, compare la frase famosa, su cui torneremo fra poco, per cui si tratta di trovare «la logica specifica dell’oggetto specifico»4 che abbiamo davanti; e un anno dopo ancora (lo sviluppo di Marx è in questo periodo intensissimo e rapidissimo), uscito dalla Germania e iniziati gli studi di economia a Parigi, egli comincia una polemica, che doveva rimanere costante, contro le «robinsonate»: «Evitiamo di trasferirci, come l’economista politico quando vuole spiegarsi, in un inventato stato originario. Un tale stato originario non spiega niente. Sposta semplicemente la questione in una grigia nebulosa lontananza. L’economista presuppone nella forma di un fatto, di un accadimento, quel che deve dedurre … Così la teologia spiega l’origine del male con la caduta del primo uomo…»5.
Non occorre poi ricordare come ancora nel Capitale Marx «si professi apertamente scolaro» di Hegel («di quel grande pensatore», egli dice)6. Ma come si concilia tutto questo con l’altra frase famosa del 1845, per cui «I filosofi hanno soltanto diversamente interpretato il mondo; si tratta di trasformarlo»7? E in che consiste la critica di Marx a Hegel fin dal 1843, ovvero il «rovesciamento» di cui lo stesso Marx parla poche righe dopo il passo del Capitale che abbiamo appena citato?
Procediamo con ordine. Marx aderisce inizialmente al modello hegeliano per cui ciò che è è il risultato dell’autosviluppo di un’Essenza razionale vivente (in linguaggio hegeliano, di un Soggetto), che deve giungere a riconoscersi nell’effettualità (teniamo presente fin da ora che la logica dell’Essenza, e in particolare la coppia Essenza-Apparenza, resta fondamentale in Marx). Allora «ciò che è reale è razionale» significa che ciò che è reale è intelligibile, spiegabile come risultato necessario di quello sviluppo di quell’Essenza. Ma qui viene una prima differenza: per Hegel ormai il cammino è compiuto, e l’Essenza può autoriconoscersi; per Marx, il vedere il presente come risultato di un processo intelligibile non implica che il processo sia terminato, che non ci debba essere ulteriore sviluppo: il reale è ‘razionale’ (cioè spiegabile, intelligibile), ma non è detto che questo ‘razionale’ (che è una delle configurazioni dello sviluppo in un certo momento) debba permanere sempre. Questa differenza deriva da un più radicale cambiamento di base: mentre in Hegel l’Essenza-Soggetto è l’Idea (una Razionalità Vivente che compenetra tutta la realtà, agisce anche in noi e appunto in noi deve arrivare a riconoscersi come Assoluto), in Marx da un certo punto della sua evoluzione di pensatore, alla base non vi è neanche, propriamente, una Essenza, ma vi sono gli uomini concreti che per vivere entrano in relazione tra loro e costruiscono la storia (e quindi anche se stessi, secondo il detto di Pico della Mirandola: «l’uomo è l’essere che fa se stesso», cui, ripetiamo, va aggiunto il detto di Marx per cui non vi è l’Uomo: «l’uomo è il mondo dell’uomo»8, vi sono uomini concreti in concrete relazioni determinate). In questo consiste il famoso «rovesciamento»: non l’Idea fa la storia, ma gli uomini; alla base viene posto un molteplice, costituito da molti ‘punti attivi’ che danno luogo a relazioni; ed è cosa molto diversa dire che alla base vi è un molteplice vivente con una struttura (materialismo), ovvero che vi è una Struttura Razionale Vivente che pone il molteplice per riconoscersi come Assoluto (hegelismo) (cfr. il famoso passo della Sacra Famiglia9 per cui la filosofia speculativa, anziché dire che ci sono pere, mele, mandorle, susine e uva passa, dice che il Frutto si pone come pera, come mela, come mandorla, come susina e come uva passa). Di questo «rimettere le cose sui piedi», dopo che Hegel ha operato la celebre inversione soggetto-predicato, Marx è debitore a Feuerbach; ma al tempo stesso, contro il materialismo solo «contemplativo» (o che almeno così gli appare) di Feuerbach, Marx recupera la processualità di Hegel: «l’autogenerazione dialettica attraverso il proprio lavoro» diventa qualcosa di comprensibile se allo Spirito si sostituiscono gli uomini, se al lavoro astratto dello Spirito si sostituisce il lavoro concreto, la praxis, l’industria — il concetto centrale che, secondo Marx, manca a Feuerbach, e che permette di collegare natura e storia: gli uomini, per vivere, lavorano la natura (di cui sono parte) e, nel far ciò, entrano tra loro in relazioni storiche, costruiscono la storia; queste relazioni possono essere negative, ma come gli uomini le hanno costruite, così possono cambiarle. Anche la coppia alienazione-disalienazione, quindi, cambia completamente significato: non più astratta e funzionalmente positiva autoalienazione dell’Idea per realizzarsi come Spirito, ma concreta autoalienazione che gli uomini hanno generato nel loro processo di vita, che sperimentano concretamente in tutta la sua negatività e che possono, almeno in parte, eliminare (su questo torneremo). Marx quindi, come ha acutamente detto Del Noce10, prima ha usato Feuerbach contro Hegel e poi Hegel contro Feuerbach, pervenendo ad una sintesi originale: il materialismo storico. In questo senso (di completamento a Feuerbach) «materialismo storico», equivale a «materialismo dialettico»: ed è l’unica accezione, a mio avviso, in cui quest’ultima espressione, così mal usata e divenuta metafisica, può essere adoperata.
Fermiamoci un attimo sul termine «dialettica»: uno dei pochi usi ancor oggi accettabili, a mio avviso, è proprio questo: l’intendere il dato come un posto, come un risultato, nel senso, profondamente trasformato rispetto all’originario senso hegeliano, che le strutture (economiche, sociali, giuridiche, politiche) attuali, che sembrano così «naturali» e immutabili, sono il risultato del lavoro storico degli uomini; e — ripetiamo — come gli uomini le hanno costruite, così possono trasformarle. Ciò si collega, in Marx, ad una forte carica di demistificazione della concezione opposta, che egli chiama ideologia: il voler spacciare il dato (risultato della storia, e nella storia trasformabile) per naturale, eterno, immutabile, come fa appunto l’economia politica.
Rileggiamo, alla luce di quanto si è detto, alcuni passi famosi: «In lui [Hegel] la dialettica è capovolta. Bisogna rovesciarla [sostituire all’idea gli uomini] per scoprire il nocciolo razionale entro il guscio mistico. Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca, perché sembrava trasfigurare la stato di cose esistente [assolutizzandolo come incarnazione necessaria dell’Idea giunta al suo compimento]. Nella sua forma razionale, la dialettica è scandalo e orrore per la borghesia e pei suoi corifei dottrinari, perché nella comprensione positiva dello stato di cose esistente include simultaneamente anche la comprensione della negazione di esso, la comprensione del suo necessario [una parola eccessiva, a mio avviso: residui di necessitarismo hegeliano] tramonto, perché concepisce ogni forma divenuta nel fluire del movimento, quindi anche dal suo lato transeunte, perché nulla la può intimidire ed essa è critica e rivoluzionaria per essenza»11.
«Gli economisti hanno un singolare modo di procedere. Non esistono per essi che due tipi di istituzioni, quelle dell’arte e quelle della natura. Le istituzioni del feudalismo sono istituzioni artificiali, quelle della borghesia sono istituzioni naturali. E in questo gli economisti assomigliano ai teologi, i quali pure stabiliscono due sorte di religioni. Ogni religione che non sia la loro è un’invenzione degli uomini, mentre la loro è un’emanazione di Dio. Dicendo che i rapporti attuali — i rapporti della produzione borghese — sono naturali, gli economisti fanno intendere che si tratta di rapporti entro i quali si crea la ricchezza e si sviluppano le forze produttive conformemente alle leggi della natura. Per cui questi stessi rapporti sono leggi naturali indipendenti dall’influenza del tempo. Sono leggi eterne, sono quelle che debbono sempre regge- re la società. Così c’è stata storia, ma ormai non ce n’è più»12.
Molto bello mi sembra anche il passo che viene poco dopo l’ultimo citato: «Viene appresso la scuola umanitaria, che si prende a cuore il lato cattivo degli attuali rapporti di produzione. Questa scuola cerca, per scarico di coscienza, di trovare almeno dei palliativi ai contrasti reali: deplora sinceramente le miserevoli condizioni del proletariato, la concorrenza sfrenata dei borghesi fra loro; consiglia agli operai di essere sobri, di lavorare bene e di mettere al mondo pochi figli; raccomanda ai borghesi di mettere nella produzione un ardore ponderato. Tutta la teoria di questa scuola si basa su interminabili distinzioni fra la teoria e la pratica, fra i principi e i risultati, fra l’idea e l’attuazione, fra il contenuto e la forma, fra l’essenza e la realtà, fra il diritto e il fatto, fra il lato buono e il lato cattivo.
La scuola filantropica poi è la scuola umanitaria perfezionata. Essa nega la necessità dell’antagonismo, vuol fare di tutti gli uomini dei borghesi; vuole realizzare la teoria, per il fatto che essa si distingue dalla pratica e non racchiude antagonismi. È superfluo dire che, nella teoria, è facile fare astrazione dalle contraddizioni che si incontrano ad ogni istante nella realtà. La loro teoria sarebbe dunque la realtà idealizzata. I filantropi vogliono insomma conservare le categorie che esprimono i rapporti borghesi, senza l’antagonismo che li costituisce e che ne è inseparabile»13.
La carica ironica, antiideologica, demistificante, disoccultante, è uno dei lati più «belli» (anche letterariamente) di Marx: e anche per questo è un classico che va letto («e non possiamo non dirci marxisti»).
Vediamo ora un primo risultato: la concezione della storia, se si tolgono finalismi, provvidenzialismi, necessitä metafisiche, resta uno dei pochi strumenti (sottolineo strumenti) credibili per la costruzione della «ontologia della regione storia»14 ed è, tra l’altro, divenuta «senso comune» non solo degli storici, ma in genere degli uomini di cultura. Sono quindi d'accordo con Croce, che — ovviamente credendo di demolirlo — diceva che il materialismo storico non è niente di più (ma anche, aggiungiamo, niente di meno) di «un buon paio di occhiali»15: un ottimo strumento di lettura, di uso così comune che non ci rendiamo neanche più conto della sua importanza.
E veniamo, più da vicino, all’analisi della società attuale. Non si tratta, come abbiamo visto, di contrapporre alla sua negatività un astratto dover-essere; ma si tratta — ed è questa, a mio avviso, una delle intuizioni metodologiche più felici di Marx — di trovare «la logica specifica dell’oggetto specifico»: cioè di studiare e cercar di capire come si sia arrivati a questa struttura negativa, quali siano i suoi tratti specifici, quali le tendenze che agiscono in essa e quali, quindi, le possibilità reali in cui inserire, in modo che risulti incisiva, la nostra azione: perché il mondo non si cambia volontaristicamente solo in base ai nostri desideri (e in fondo il discorso di Marx può esser visto come un incitamento a sostituire ad una prassi politica immediata una prassi mediata da una precisa analisi).
La critica marxiana della struttura capitalistica ha al suo centro la teoria dello sfruttamento, che si configura come teoria del valore e del plusvalore. L’aspetto più criticabile dell’analisi marxiana è, a mio avviso, la teoria del valore-lavoro, che è purtroppo il centro a cui Marx vuol ricondurre tutto. Tra l’altro, per la teoria del plusvalore (ossia che ciò che la forza-lavoro riceve sia meno di quanto essa, se ben utilizzata, può produrre) non è necessaria (bensì eccessiva e controproducente) la teoria del valore-lavoro, per cui «valore» è solo ciò che deriva dal lavoro vivo e non, per esempio, ciò che è prodotto dalla natura: si tratta di una specie di supervalutazione dell’importanza dei soggetti umani, di una specie di «fichtianesimo economico». E tuttavia anche questa teoria, troppo rigida e, ripeto, non necessaria, può forse essere considerata un tentativo «scientifico» in quanto falsificabile. Ciò che resta, comunque, è l’indicazione metodologica: analisi della struttura reale e delle sue tendenze dinamiche per dare una base il più possibile precisa all’azione. Un piccolo esempio: nell’attuale situazione italiana — il nostro «oggetto specifico» — oggi gli sfruttati, anche per un sistema fiscale assolutamente iniquo, sono tutti i lavoratori dipendenti, privati e pubblici, destituiti tra l’altro in gran parte dalla possibilità di un reale controllo sulle decisioni che riguardano il proprio lavoro, il proprio tempo di vita. La riforma del sistema fiscale e lo sviluppo della democrazia reale mi sembrano oggi, nella nostra situazione, cose importanti: oggi, riforme serie sono rivoluzionarie.
Un’altra — finale — osservazione, che si riallaccia a quanto si diceva nelle ultime righe. Un concetto importante mi sembra ancora quello di alienazione (ovviamente, da non assolutizzare: ma se persino nella psicanalisi, che è quella roba da maghi che è, si trovano categorie utili a leggere la nostra realtà, figuriamoci in Marx!). Che le «forces propres» degli uomini si siano staccate da essi e li dominino e che si tratti di recuperarne un controllo razionale, mi sembra abbia una sua validità. Una gestione più razionale del sistema produttivo, cioè, in ultima analisi, del nostro ricambio con la natura, si impone anche, come è chiaro, per motivi di sopravvivenza del pianeta. Certo, una gestione totalmente razionale è probabilmente un’aspirazione idealistica (equivale, in fondo, all’assoluta autotrasparenza del Soggetto), e non tutti debbono e possono decidere tutto; ma almeno nelle «grandi scelte» ci debbono essere la massima trasparenza e partecipazione. Ancora una volta, lo sviluppo della democrazia e del controllo democratico — per cui oggi c’è una spinta forte — sembra assolutamente necessario per una possibile trasformazione in senso socialista.
Mario Cingoli
(Tratto da: Mario Cingoli, Marx e la scienza, in «Quaderni materialisti», n. 2, 2004).
Note
1 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, trad. di F. Messineo, Bari, Laterza, 1965, p. 15 («Prefazione»).
2 La «Lettera al padre» del 10 novembre 1837 è in K. Marx-F. Engels, Opere complete (d’ora innanzi MEOC), vol. I, a cura di M. Cingoli e N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1980, pp. 8-17; le citazioni rispettivamente dalle pp. 14, 15, 14, 10, la traduzione è mia.
3 K. Marx, «Il problema dell’accentramento», in MEOC, vol. I cit., pp. 183-184; trad. it. di Luigi Firpo, corretta da me.
4 K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in MEOC, vol. III a cura di N. Merker, trad. it. di G. Della Volpe, rivista da N. Merker, Roma, Editori Riuniti, 1976, p. 103.
5 K. Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, in MEOC, vol. III cit., p. 297.
6 K. Marx, Il Capitale, libro I, a cura di D. Cantimori, Roma, Edizioni Rinascita, 1956, tomo I, p. 28.
7 K Marx, Tesi su Feuerbach (tesi XI), in MEOC, vol. V, a cura di F. Codino, Roma, Editori Riuniti, 1972, p. 5.
8 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, in MEOC, vol. III cit., p. 190.
9 K. Marx, Il mistero della costruzione speculativa, in K. Marx-F. Engels, La sacra famiglia, a cura di A. Zanardo, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 71-75.
10 Cfr. la voce «Marx, Karl» in Enciclopedia filosofica, a cura del Centro di Studi Filosofici di Gallarate, vol. IV, Firenze, Sansoni, 1967.
11 K. Marx, Il Capitale cit., libro I, «Poscritto» alla seconda edizione, p. XXX.
12 K. Marx, Miseria della filosofia, a cura di F. Rodano, Roma, Editori Riuniti, 1969, p. 103, corsivo mio.
13 Ivi, p. 106. Il passo mi sembra molto appropriato per coloro che propongono i vari seminari su «Economia e Etica» oggi così di moda; il modo di procedere è proprio questo: ammissione dell’essere come necessario; ipotesi di un dover-essere del tutto staccato, ovvero proposte di correzioni del tutto astratte, che mettano a posto la coscienza e lascino le cose come sono. Da qui il grande successo di questi seminari tra giovani industriali che vogliono darsi un tocco di progressismo.
14 Cfr. G. Preti, Praxis ed empirismo, Torino, Einaudi, 1957, pp. 170-175; Id., Materialismo storico e teoria dell’evoluzione, in Saggi filosofici, a cura di M. Dal Pra, Firenze, La Nuova Italia, 1976, vol. I, pp. 377-412, in particolare pp. 377-383.
15 B. Croce, Materialismo storico ed economia marxista, Bari, Laterza, 1961, p. 15; cfr. pp. 81 e 303.
Inserito il 06/01/2025.
di Umberto Eco
Dalla sua raccolta di saggi Sulla letteratura (Bompiani), riportiamo un articolo di Umberto Eco dedicato al Manifesto del partito comunista di Karl Marx e Friedrich Engels.
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Sullo stile del Manifesto del partito comunista
di Umberto Eco
Non si può sostenere che alcune belle pagine possano da sole cambiare il mondo. L’intera opera di Dante non è servita a restituire un Sacro Romano Imperatore ai comuni italiani. Tuttavia, nel ricordare quel testo che fu il Manifesto del Partito Comunista del 1848, e che certamente ha largamente influito sulle vicende di due secoli, credo occorra rileggerlo dal punto di vista della sua qualità letteraria o almeno – anche a non leggerlo in tedesco – della sua straordinaria struttura retorico-argomentativa.
Nel 1971 era apparso il libretto di un autore venezuelano, Ludovico Silva, Lo stile letterario di Marx, poi tradotto da Bompiani nel 1973. Credo sia ormai introvabile e varrebbe la pena di ristamparlo. Rifacendo anche la storia della formazione letteraria di Marx (pochi sanno che aveva scritto anche delle poesie ancorché, a detta di chi le ha lette, bruttissime), Silva andava ad analizzare minutamente tutta l’opera marxiana. Curiosamente dedicava solo poche righe al Manifesto, forse perché non era opera strettamente personale. È un peccato: si tratta di un testo formidabile che sa alternare toni apocalittici e ironia, slogan efficaci e spiegazioni chiare e (se proprio la società capitalistica intende vendicarsi dei fastidi che queste non molte pagine le hanno procurato) dovrebbe essere religiosamente analizzato ancora oggi nelle scuole per pubblicitari.
Inizia con un formidabile colpo di timpano, come la Quinta di Beethoven: «Uno spettro si aggira per l’Europa» (e non dimentichiamo che siamo ancora vicini al fiorire preromantico e romantico del romanzo gotico, e gli spettri sono entità da prendere sul serio). Segue subito dopo una storia a volo d’aquila sulle lotte sociali dalla Roma antica alla nascita e sviluppo della borghesia, e le pagine dedicate alle conquiste di questa nuova classe «rivoluzionaria» ne costituiscono il poema fondatore – ancora buono oggi, per i sostenitori del liberismo. Si vede (voglio proprio dire «si vede», in modo quasi cinematografico) questa nuova inarrestabile forza che, spinta dal bisogno di nuovi sbocchi per le proprie merci, percorre tutto l’orbe terraqueo (e secondo me qui il Marx ebreo e messianico sta pensando all’inizio del Genesi), sconvolge e trasforma paesi remoti perché i bassi prezzi dei suoi prodotti sono l’artiglieria pesante con la quale abbatte ogni muraglia cinese e fa capitolare i barbari più induriti nell’odio per lo straniero, instaura e sviluppa le città come segno e fondamento del proprio potere, si multinazionalizza, si globalizza, inventa persino una letteratura non più nazionale bensì mondiale.
È impressionante come il Manifesto avesse visto nascere, con un anticipo di centocinquant’anni, l’era della globalizzazione, e le forze alternative che essa avrebbe scatenato. Come a suggerirci che la globalizzazione non è un incidente avvenuto durante il percorso dell’espansione capitalistica (solo perché è caduto il muro ed è arrivato internet) ma il disegno fatale che la nuova classe emergente non poteva evitare di tracciare, anche se allora, per l’espansione dei mercati, la via più comoda (anche se più sanguinosa) si chiamava colonizzazione. È anche da rimeditare (e va consigliato non ai borghesi ma alle tute di ogni colore) l’avvertimento che ogni forza alternativa alla marcia della globalizzazione, all’inizio, si presenta divisa e confusa, tende al puro luddismo, e può venire usata dall’avversario per combattere i propri nemici.
Alla fine di questo elogio (che conquista in quanto è sinceramente ammirato), ecco il capovolgimento drammatico: lo stregone si trova impotente a dominare le potenze sotterranee che ha evocato, il vincitore è soffocato dalla propria sovraproduzione, è obbligato a generare dal proprio seno, a far sbocciare dalle proprie viscere i suoi propri becchini, i proletari.
Entra ora in scena questa nuova forza che, dapprima divisa e confusa, si stempera nella distruzione delle macchine, viene usata dalla borghesia come massa d’urto costretta a combattere i nemici del proprio nemico (le monarchie assolute, la proprietà fondiaria, i piccoli borghesi), via via assorbe parte dei propri avversari che la grande borghesia proletarizza, come gli artigiani, i negozianti, i contadini proprietari, la sommossa diventa lotta organizzata, gli operai entrano in contatto reciproco a causa di un altro potere che i borghesi hanno sviluppato per il proprio tornaconto, le comunicazioni. E qui il Manifesto cita le vie ferrate, ma pensa anche alle nuove comunicazioni di massa (e non dimentichiamoci che Marx ed Engels nella Sacra famiglia avevano saputo usare la televisione dell’epoca, e cioè il romanzo di appendice, come modello dell’immaginario collettivo, e ne criticavano l’ideologia usando linguaggio e situazioni che esso aveva reso popolari).
A questo punto entrano in scena i comunisti. Prima di dire in modo programmatico che cosa essi sono e che cosa vogliono, il Manifesto (con mossa retorica superba) si pone dal punto di vista del borghese che li teme, e avanza alcune terrorizzate domande: ma voi volete abolire la proprietà? Volete la comunanza delle donne? Volete distruggere la religione, la patria, la famiglia?
Qui il gioco si fa sottile, perché il Manifesto a tutte queste domande sembra rispondere in modo rassicurante, come per blandire l’avversario – poi, con una mossa improvvisa, lo colpisce sotto il plesso solare, e ottiene l’applauso del pubblico proletario… Vogliamo abolire la proprietà? Ma no, i rapporti di proprietà sono sempre stati soggetto di trasformazioni, la Rivoluzione francese non ha forse abolito la proprietà feudale in favore di quella borghese? Vogliamo abolire la proprietà privata? Ma che sciocchezza, non esiste, perché è la proprietà di un decimo della popolazione a sfavore dei nove decimi. Ci rimproverate allora di volere abolire la «vostra» proprietà? Eh sì, è esattamente quello che vogliamo fare.
La comunanza delle donne? Ma suvvia, noi vogliamo piuttosto togliere alla donna il carattere di strumento di produzione. Ma ci vedete mettere in comune le donne? La comunanza delle donne l’avete inventata voi, che oltre a usare le vostre mogli approfittate di quelle degli operai e come massimo spasso praticate l’arte di sedurre quelle dei vostri pari. Distruggere la patria? Ma come si può togliere agli operai quello che non hanno? Noi vogliamo anzi che trionfando si costituiscano in nazione…
E così via, sino a quel capolavoro di reticenza che è la risposta sulla religione. Si intuisce che la risposta è «vogliamo distruggere questa religione», ma il testo non lo dice: mentre abborda un argomento così delicato sorvola, lascia capire che tutte le trasformazioni hanno un prezzo, ma insomma, non apriamo subito capitoli troppo scottanti.
Segue poi la parte più dottrinale, il programma del movimento, la critica dei vari socialismi, ma a questo punto il lettore è già sedotto dalle pagine precedenti. E se poi la parte programmatica fosse troppo difficile, ecco un colpo di coda finale, due slogan da levare il fiato, facili, memorizzabili, destinati (mi pare) a una fortuna strepitosa: «I proletari non hanno da perdere che le loro catene» e «Proletari di tutto il mondo unitevi».
A parte la capacità certamente poetica di inventare metafore memorabili, il Manifesto rimane un capolavoro di oratoria politica (e non solo) e dovrebbe essere studiato a scuola insieme alle Catilinarie e al discorso shakespeariano di Marco Antonio sul cadavere di Cesare. Anche perché, data la buona cultura classica di Marx, non è da escludere che proprio questi testi egli avesse presenti.
Umberto Eco
(Tratto da: http://www.rifondazione.it/primapagina/?p=21561#gsc.tab=0; fonti delle foto: https://www.elle.com/it/magazine/news/a1299406/morto-umberto-eco/; http://www.comunismoecomunita.org/?p=6594).
Inserito il 12/10/2024.
Dal sito «futurasocietà.com»
Ascanio Bernardeschi intervista Roberto Fineschi
È stata pubblicata nel giugno scorso una nuova edizione, nella prestigiosa collana I millenni di Einaudi, del libro I de Il capitale, l’opera più importante di Marx, con traduzioni di Stefano Breda, Gabriele Schimmenti, Giovanni Sgrò e Roberto Fineschi. L’uscita del capolavoro di Marx è di per sé un fatto da segnalare, ma in questo caso c’è un valore aggiunto in più in quanto si tratta della proposizione in Italia di inediti e varianti alle varie edizioni curate dallo stesso Marx, che aiuta a una migliore comprensione di un’opera a seguito della quale si è sviluppata un’immensa discussione, con divaricazioni significative.
Ne parliamo con il curatore Roberto Fineschi.
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L’attualità del Capitale, liberato dalle secche di interpretazioni superate
di Ascanio Bernardeschi
Intervista a Roberto Fineschi, curatore di un’importante nuova edizione del libro I de Il capitale. Perché il capolavoro marxiano è ancora attuale e perché è importante questa nuova impresa editoriale, augurandoci che possa essere portata a termine.
D. La prima domanda è d’obbligo. Perché Il capitale, per anni messo in soffitta o conservato come un reperto da museo da molti intellettuali italiani, è invece tornato di attualità e perché è utile a chi oggi si propone il superamento del capitalismo ma anche a chi vuole capire meglio questo modo di produzione?
R. Era stato messo in soffitta perché il modo di leggerlo era legato a una tradizione interpretativa molto importante, ma incapace di aggiornarsi di fronte all’evoluzione del modo di produzione capitalistico. Ponendo una grande enfasi su concetti come valore-lavoro oppure classe operaia sfruttava al massimo determinate caratteristiche che funzionavano molto bene in una fase del capitalismo, ma che, allo stesso tempo, non permettevano alcun adattamento agli sviluppi ulteriori. D’altro canto la crisi politica dei movimenti che quei concetti avevano adottato ha fatto mancare anche le premesse “materiali” affinché un ulteriore sviluppo fosse possibile. La forza in una determinata fase di certi concetti non ha consentito di coglierne la duttilità e capacità interpretativa più generale.
I motivi perché è utile riprenderlo sono alla fine assai semplici: a differenza delle teorie economiche, sociologiche, ecc. mainstream, Il capitale spiega le realtà. Queste teorie offrono dei modelli molto astratti che hanno poco o niente a che vedere con ciò che accade; pretendono invece che sia la realtà ad adattarsi alla teoria (ammettendo di fatto che quello che succede non è ciò che la teoria spiega). Sono in sostanza delle ideologie, al di là dei loro formalismi e delle loro complicazioni matematiche. Il capitale invece prende molto sul serio la realtà e quindi propone una teoria per esempio del conflitto di classe, della crisi, del progresso tecnologico, della disoccupazione e via dicendo. Esso ovviamente può essere discusso, criticato, approfondito, ecc., ma è la realtà che va spiegata con la teoria e non pretendere che la realtà, siccome non corrisponde a ciò che la teoria sostiene, venga cambiata per corrisponderle.
D. Mi scuso se la seconda domanda ti costringe a ripetere contenuti che hai hai illustrato più volte, ma serve fornire ai nostri lettori gli elementi che mostrino l’importanza dell’edizione critica delle opera di Marx ed Engels (Mega2) e quindi di un’edizione del Capitale che ne utilizzi alcuni canoni. Quali sono, secondo te, i contenuti del primo libro che possono essere meglio focalizzati se si accede al faticoso e non compiuto percorso di Marx verso un’edizione che lo soddisfacesse?
R. Ripercorrere il lungo processo di gestazione della teoria marxiana del Capitale permette di capire meglio quali fossero le sue intenzioni e quindi consente di interpretarle in maniera più corretta. Per esempio permette di concepire letture alternative anche di categorie fondamentali lette tradizionalmente in maniera univoca. L’esempio che in genere faccio riguarda la “teoria del valore-lavoro”. Essa è una drastica riduzione della complessa articolazione della dialettica di merce e denaro al mero concetto di sostanza e grandezza di valore per lo più letti in maniera naturalistico-fisiologica. Se già la versione canonica del Capitale è in realtà sufficiente ad escludere questa interpretazione, la stratificazione testuale conferma come la cosa veramente importante per Marx fosse: 1) inserire il concetto di sostanza, grandezza e forma di valore nell’articolazione del concetto di merce (quindi non del prodotto in generale), 2) che la parte che Marx riteneva davvero fondamentale era la forma di valore della quale redige ben sette varianti nell’arco di diversi anni. Nell’interpretazione tradizionale questa categoria semplicemente non viene neanche presa in considerazione. Vale poi la pena ricordare che l’espressione “valore-lavoro” non è di Marx ma un’invenzione del suo nemico più acerrimo, Böhm-Bawerk. Un po’ di testualità insomma non guasta. Anche perché la lettura tradizionale ha imboccato ormai da anni un vicolo cieco senza via di uscita. Vale dunque la pena di riprendere certi temi alla luce di una lettura più analitica.
Analogamente si può menzionare la questione del lavoratore/operaio. Il tedesco Arbeiter significa entrambe le cose allo stesso tempo. Se quindi è vero che l’operaio è antagonista del capitale, ciò non toglie che l’altro del capitale non sia solo l’operaio ma il lavoratore salariato, e che quindi per essere sussunti sotto il capitale non è necessario esclusivamente lavorare in una fabbrica, ma essere momento del processo di valorizzazione come attore cooperativo, parziale o appendicizzato. Le categorie di sfruttamento, disoccupazione, ecc. non si applicano solo all’operaio. Nelle traduzioni tradizionali, utilizzando la parola operaio, si è ristretto il campo di applicazione del concetto di Lohanarbeiter (che significa tanto operaio che lavoratore salariato) a una delle sue figure storiche a esclusione delle altre che invece sono altrettanto soggette alla dinamica di sfruttamento del capitale.
D. Tu sei stato anche il curatore di una precedente edizione, per la Città del Sole, la quale pure si rifaceva ai materiali della Mega2. Perché una nuova edizione? Quali sono le differenze più rilevanti fra le due?
R. L’edizione de La città del Sole per vari motivi editoriali non ha avuto grande diffusione. Allo stesso tempo era solo una ritraduzione parziale del testo (fino al capitolo settimo incluso). Questa nuova edizione è una traduzione integrale, include dunque anche tutte le parti successive al capitolo settimo. Si è inoltre rivista la parte già ritradotta: mentre nella vecchia edizione, per essere fin troppo fedeli al testo tedesco, talvolta la traduzione italiana risultava un po’ rigida, si è cercato questa volta di proporre un italiano più scorrevole, senza per questo rinunciare al rigore, ma concedendo un po’ di più alla leggibilità.
Da un punto di vista curatoriale la struttura è analoga: sono pubblicati tutti i testi che Marx ha redatto con l’esplicita intenzione di scrivere il primo libro del Capitale dal 1863 alla morte nel 1883. L’edizione di riferimento è la quarta tedesca (1890) curata da Engels, rispetto alla quale sono proposte tutte le varianti delle altre tre edizione tedesche curate da Marx o da Engels (1867, 1872/3, 1883) e dell’edizione francese (1872-5). Inoltre c’è una nuova traduzione del cosiddetto VI capitolo inedito e di un manoscritto redazionale che Marx scrisse in preparazione della seconda edizione tedesca e dell’edizione francese. In queste, rispetto all’edizione del 1867, i cambiamenti sono significativi, in particolare per quanto riguarda la teoria del feticismo; in questo manoscritto se ne può ripercorrere la gestazione passo passo.
Anche in questo caso è stata rivista la traduzione e si sono ampliate le note curatoriali che spiegano i molti rimandi impliciti nel testo di Marx.
D. Ricordo che la traduzione della precedente edizione era stata effettuata sulla base di un glossario in cui, per la massima trasparenza, indicavi come venivano tradotti alcuni termini tedeschi chiave e ne illustravi la motivazione. Nonostante che ora ci siano ben quattro traduttori, tutto questo è confermato in questa nuova avventura editoriale o vengono seguiti nuovi criteri? Nel secondo caso puoi dirci sinteticamente quali sono?
R. I criteri sono per lo più gli stessi e sono stati seguiti da tutti i traduttori. Come accennavo si è cercato di limare alcune asprezze dovute a una traduzione troppo rigida e di favorire la leggibilità. Una questione delicata è stata come tradurre Arbeiter. Come si diceva poc’anzi, può essere sia lavoratore che operaio. Nella vecchia edizione un po’ fiscalmente si era sempre tradotto con lavoratore. Era una rigidità inutile perché in alcuni contesti si parla chiaramente di operai e quindi si poteva usare il termine senza ambiguità di sorta. In tutti i casi però in cui questa traduzione avrebbe significato un’amputazione del significato complessivo del termine, si è mantenuto lavoratore.
Per altri termini in cui per limare l’italiano non era possibile attenersi strettamente ai criteri traduttivi che ci eravamo imposti, si sono adottate soluzioni più leggibili ponendo il tedesco tra parentesi, di modo che comunque non andasse perso il riferimento all’originale.
D. Passiamo ora alle prospettive. Il primo libro del Capitale, nonostante alcuni inediti a e alcune varianti delle edizioni curate da Marx e da Engels, di nessuna delle quali l’autore si considerò pienamente soddisfatto, è un’opera che può essere considerata di Marx e compiuta. Diverso è il discorso del secondo e terzo libro – soprattutto del terzo – che il Moro non ha potuto pubblicare direttamente e che risentono degli sforzi di Engels di dare un certo ordine alla miriade di manoscritti marxiani, a scapito della correttezza filologica. Per questo motivo sarebbe molto utile che uscissero in Italia anche i manoscritti per il secondo e terzo libro, curati secondo i canoni della Mega2. È possibile che si realizzi questo lavoro? In quali tempi?
R. Il secondo ed il terzo libro sono stati compilati da Engels sulla base di manoscritti marxiani che avevano diversi livelli di elaborazione. Ciò non giustifica, come alcuni sono arrivati a sostenere, che non ci sia una teoria del capitale ma solo una massa di appunti. Chiunque li legga, può scartare automaticamente questa ipotesi. Il punto chiave è invece capire la differenza tra manoscritto preparatorio e opera pubblicata: mentre la seconda è chiusa, il primo è aperto, vale a dire passibile di sviluppi e interpretazioni perché l’autore stesso non si è deciso in maniera definitiva sulle possibilità aperte. Ciò implica un grado di libertà (non a partire da generiche annotazioni, ma da una struttura che nella sua articolazione ha delle coordinate ben precise) per risolvere diversamente problemi che nel dibattito tradizionale si sono arenati in delle secche da cui non sono più usciti (si pensi per es. alla discussa questione della trasformazione dei valori in prezzi di produzione). Una nuova edizione di questi testi sulla base della MEGA2 è dunque quanto mai auspicabile e di rilevante importanza.
L’editore ha mostrato un chiaro interesse al proseguimento del progetto. Ciò dipenderà naturalmente anche dalla valutazione dei risultati di questo primo libro, il cui successo potrebbe fare da volano alla prosecuzione. I tempi non saranno brevi. Direi tre-quattro anni a volume.
Credo tuttavia che vada già riconosciuto un gran merito all’editore Einaudi che ha voluto, in maniera convinta, questa edizione, soddisfacendo tra l’altro, a distanza di decenni, il desiderio di Pavese di avere Il capitale nei Millenni. La pubblicazione de Il capitale in questa prestigiosa collana einaudiana è un importante segnale culturale.
Ascanio Bernardeschi
Inserito il 17/08/2024.
La nuova edizione del I libro del Capitale è l’occasione per rilanciare le discussioni sull’attualità o meno delle tesi di Marx ed Engels. Un inizio di dibattito si è avuto in questi giorni, dopo le pagine dedicate dalla «Lettura», inserto culturale domenicale del «Corriere della Sera», al libro di Karl Marx. Proponiamo di seguito il punto di vista critico di un intellettuale liberale, Maurizio Ferrera, e la replica di uno studioso marxista, Guido Liguori
La critica
Dal settimanale «La Lettura»
di Maurizio Ferrera
«Il capitale esercita ancora fascino proprio perché è associato a una visione emancipatoria del futuro. Il comunismo come redenzione o rettificazione dell'ingiustizia e delle sofferenze immeritate di tutti gli sfruttati. L’ascesa del paradigma neoliberista e della globalizzazione ha rinvigorito questa utopia. Il suo grande limite tuttavia è che tende a smarrire, per dirla con Norberto Bobbio, l’eredità liberal-democratica».
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L’enigma Marx
di Maurizio Ferrera
Il capitale di Karl Marx è ancora oggi una delle opere più citate dagli scienziati sociali. Ciò testimonia la sua enorme influenza come «classico» della storia del pensiero. Inoltre, a dispetto (è il caso di ricordarlo) della sua complessità, delle lunghe divagazioni, della incompletezza di alcuni suoi ragionamenti, quest’opera ha plasmato il modo di osservare il mondo per intere generazioni di militanti, in ogni parte del globo.
L’obiettivo di Marx era quello di «svelare la legge economica della società moderna», inaugurando un approccio del tutto nuovo: non l’impiego di concetti astratti volti a catturare la natura della realtà, ma la dimostrazione di nessi necessari fra le condizioni materiali dell’esistenza all’interno del modo di produzione capitalistico e l’evoluzione dello sviluppo storico. L’opera è suddivisa in tre libri, dei quali solo il primo è stato pubblicato da Marx, nel 1867. Gli altri sono usciti postumi a distanza di alcuni anni, a cura di Friedrich Engels (il secondo e il terzo; Karl Kautsky ha poi aggiunto un quarto volume).
Che cosa è, esattamente, il «саріtale» e perché esso è giunto a dominare il funzionamento dell’intera società ai tempi di Marx? Per «capitale» l’autore intende, semplicemente, un tipo particolare di denaro. Quest’ultimo funge da «equivalente generale» di tutte le altre merci ed è usato per facilitare i commerci. Ogni merce ha un valore d’uso (che dipende da quanto è utile) e un valore di scambio (che invece dipende dalla quantità di lavoro necessaria a produrla). Se chi vende ottiene più denaro di quello impiegato a produrre una data merce, si genera profitto, che diventa capitale se investito per produrre altra merce.
Per comprendere come funziona questo processo di «valorizzazione del valore» è necessario inserire nel quadro un’altra merce di natura particolare: il lavoro. Per produrre, il «capitalista» acquista dagli operai la loro forza-lavoro in cambio di un salario, essenzialmente determinato dal minimo fabbisogno materiale che assicuri la sopravvivenza. La quantità di lavoro che gli operai cedono a chi possiede i mezzi di produzione vale di più del salario ricevuto. Marx chiama questa differenza «plus-valore». Il fatto che di esso si appropri il capitalista è definito «sfruttamento», perché agli operai viene sottratta una parte del loro valore lavoro.
È partendo da questo nucleo teorico centrale che Marx arriva a svelare «la legge che governa la società». Il modo di produzione capitalistico funziona come una sorta di macchina capace di replicare in misura esponenziale la sequenza denaro-plusvalore-profitto, alimentata da quel «feticismo delle merci» che spinge a consumare sempre di più. Secondo Marx, il binomio sfruttamento-profitto produce però inesorabilmente delle contraddizioni. Fra queste la più seria è la caduta tendenziale del saggio di profitto. Per aumentare i loro guadagni, i capitalisti sono incentivati a incrementare la produttività della forza-lavoro (ad esempio tramite nuove tecnologie) in modo da produrre la stessa quantità di merci (o addirittura aumentarla) anche con meno lavoratori (dunque licenziando quelli in eccesso).
Il lavoro è però l’unica fonte da cui il capitalista trae plus-valore. Paradossalmente, dunque, più le macchine sostituiscono gli operai più diminuisce la base per estrarre profitto. Inoltre, l’impoverimento della massa di operai-consumatori conduce a crisi periodiche di sovraproduzione. A sua volta la crescita dello sfruttamento aliena la classe operaia, spingendola a ribellarsi per rovesciare il modo di produzione nel suo complesso. Si tratta di un processo necessario. La legge che domina l’economia capitalista è al tempo stesso anche la legge che governa l’intera società e le sue sovrastrutture, ossia l’insieme degli ambiti (politica, diritto, cultura e così via) che salvaguardano e garantiscono la sopravvivenza del capitalismo.
A un certo stadio del loro sviluppo, le forze produttive entrano in conflitto con gli esistenti rapporti di produzione. Si genera così la lotta di classe. Oltre una certa soglia, tale lotta dà il via a un cambiamento radicale, che riallinea l’immenso complesso di sovrastrutture alle nuove caratteristiche delle forze produttive, liberandole dalle catene. Sono dunque le forze produttive a trascinare il processo della storia (materialismo storico).
Sappiamo che ben poche delle previsioni del Capitale si sono effettivamente avverate. Il saggio di profitto non è caduto, la crescita economica ha portato vantaggi diffusi, anche per la classe operaia. Le rivoluzioni socialiste non si sono verificate nei Paesi dove il capitalismo era più avanzato ma, al contrario, in Paesi economicamente molto arretrati. Il limite principale della teoria di Marx è il suo determinismo: l’idea che lo sbocco necessario delle contraddizioni interne al capitalismo fosse la rivoluzione socialista, seguita dalla transizione al comunismo. Nel corso del Novecento, la macchina capitalista ha manifestato inaspettate capacità di adattamento per assorbire e persino prevenire le contraddizioni, promuovendo un generale miglioramento delle condizioni di vita.
Anche se la teoria di Marx è oggi largamente obsoleta, la lettura del Capitale restituisce un quadro dettagliato della realtà economica di metà Ottocento, la fase in cui, per dirla con lo storico Eric Hobsbawm, si verificò «la più fondamentale trasformazione della vita umana in tutta la storia», ossia la rivoluzione industriale. Marx osservò con acutezza analitica e indignazione morale l’intensificazione dello sfruttamento operaio e le sue brutali conseguenze sociali e umane. Ma sottovalutò (anzi, negò la stessa possibilità) che il «contro-movimento» da parte delle classi lavoratrici potesse imboccare direzioni diverse dalla rivoluzione. Come ha mostrato Karl Polanyi, la lotta di classe poté indirizzarsi verso esiti riformisti, cioè politiche economiche e sociali in grado di promuovere la «de-mercificazione» dei lavoratori. Altri autori novecenteschi hanno poi messo in luce la capacità del capitalismo di auto-correggersi o essere in qualche modo intenzionalmente riparato. Fu soprattutto John Maynard Keynes a spiegare come aprire il «cantiere delle riparazioni», mentre William Beveridge suggerì che la logica del profitto poteva essere trasformata da «padrona» del mercato a «servitrice» del welfare state.
Oltre che dai successi del socialismo riformista, la credibilità delle tesi di Marx è stata messa in crisi dalle atrocità dei regimi che si auto-dichiaravano comunisti e dalla loro incapacità di generare prosperità. Nel Capitale, Marx non spiegò nei dettagli in che cosa sarebbe consistito il modo di produzione comunista. Il suo tratto caratterizzante sarebbe però stato l’abolizione della proprietà privata. Il proletariato avrebbe cessato di esistere in quanto tale, mentre le politiche economiche socialiste avrebbero creato le condizioni per un regno dell’abbondanza. La struttura non avrebbe avuto più bisogno di una infrastruttura politica che la salvaguardasse tramite la coercizione. Così lo Stato si sarebbe estinto e sarebbe restata solo l'«amministrazione delle cose».
È fin troppo facile, col senno di poi e alla luce degli sviluppi sia dei socialismi reali sia dello stesso capitalismo novecentesco, accusare Marx di ingenuità e ottimismo nel modo in cui tratta la transizione rivoluzionaria verso il comunismo. Questa parte del pensiero marxiano aveva infatti intenti più filosofici che politici ed era intesa a ribaltare l'idealismo di Georg Wilhelm Friedrich Hegel. Nel resoconto materialista di Marx, il fine della storia non è la liberazione dello Spirito, ma la liberazione dal bisogno, che si realizza attraverso l’abolizione dello sfruttamento e della proprietà privata.
In una società caratterizzata da abbondanza materiale e libertà dal bisogno, la cooperazione sociale diventa spontanea, gratificante e perciò pacifica. L’uomo comunista acquista una natura cooperativa, orientata alla socialità, al rispetto dell’altro, alla reciprocità, alla benevolenza. Nasceranno, dice Marx, nuovi «organi sociali», che sostituiranno ogni forma di associazione borghese. Vi sarà un sistema d’istruzione universale e gratuito, il quale rafforzerà generazione dopo generazione il nuovo ethos individuale e collettivo.
Il capitale esercita ancora fascino proprio perché resta abbinato a una visione fortemente emancipatoria del futuro. Marx disprezzava gli utopisti, ma (usando un linguaggio weberiano) delineò una delle «teodicee della sfortuna» più convincenti del Novecento: il comunismo come redenzione o rettificazione dell'ingiustizia e delle sofferenze immeritate di tutti gli sfruttati.
Dopo la fase di reflusso innescata dalla caduta del Muro di Berlino, l’appeal dell’utopia comunista è tornata a crescere nell’ultimo ventennio. Non è difficile ca pirne le ragioni. L’ascesa del paradigma neo-liberista e della globalizzazione hanno coinciso con una intensa crescita delle diseguaglianze economiche e della precarietà sociale. Si è così creato un humus culturale fertile per un revival di dottrine «comunistiche» e per il pensiero del loro capostipite. Attingendo alle idee di Marx, è stato possibile avviare un nuovo «discorso» pubblico, riproponendo imponenti visioni alternative e perfezioniste su come organizzare diversamente economia e società.
Il grande limite di queste visioni è che esse tendono a perdere per strada l'eredità liberal-democratica. Come scrisse lucidamente Norberto Bobbio negli anni Settanta del secolo scorso (Quale socialismo?), diritti e democrazia formale sono strumenti indispensabili non solo per introdurre riforme d'ispirazione socialista, ma anche per rivedere e migliorare i fini del socialismo in quanto tale. Le premesse o aspettative ireniche sottese alle proposte di nuove pratiche come le associazioni cooperative, le decisioni deliberative, le forme di condivisione comunitaria e così via sottovalutano l’inevitabile persistenza delle dinamiche di potere e i loro rischi di sopraffazione. Tutti i progetti di democrazia sostantiva restano destinati al fallimento senza la garanzia dei diritti individuali e il governo della legge.
Maurizio Ferrera
(Tratto da: Maurizio Ferrera, L’enigma Marx, in «La Lettura», n. 663, suppl. al «Corriere della Sera», 11 agosto 2024).
Inserito il 17/08/2024.
La replica
Dal quotidiano «il manifesto»
di Guido Liguori
Le critiche alle idee di Marx mosse sull’inserto culturale del «Corriere della Sera» meritano una replica.
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Miseria capitalistica e comunismo democratico
di Guido Liguori
La nuova edizione Einaudi del Capitale ha dato lo spunto all’inserto culturale del «Corriere della Sera» per alcune critiche alle idee di Marx. Che meritano una risposta
L’ultima Lettura del Corriere della Sera apre con tre articoli che prendono spunto dalla nuova edizione del primo volume del Capitale di Marx curata per Einaudi da Roberto Fineschi. Oltre a un efficace scritto di Marcello Musto sulle differenze tra le prime cinque edizioni del libro, e a uno di Giuseppe Sarcina sulle diversità che connotano le sinistre nel mondo, un articolo di Maurizio Ferrera ricorda i temi del capolavoro marxiano, ne riconosce l’importanza storica e, soprattutto, sottolinea gli elementi che lo renderebbero obsoleto.
Non voglio qui difendere Marx o disquisire su questo o quell’aspetto della sua teoria. È inutile in questo ambito, anche perché è lo stesso Ferrera a ricordare come resti vero che il pensatore di Treviri e il suo libro esercitino oggi una rinnovata influenza, tanto più in quanto gli ultimi decenni di trionfo del liberismo, scrive lo studioso, «hanno coinciso con una intensa crescita delle diseguaglianze economiche e della precarietà sociale». Per questo motivo, prosegue, assistiamo a un revival del pensiero di Marx e dei comunismi: perché «attingendo alle idee di Marx, è stato possibile avviare un nuovo “discorso” pubblico», riproponendo visioni alternative di organizzazioni dell’economia e della società.
Non sono riconoscimenti da poco – come non lo è il fatto che il principale quotidiano italiano dedichi a Marx le prime cinque pagine del suo supplemento letterario, sia pure con giudizi largamente sfavorevoli. Anzi, andrebbe aggiunto che se è vero che il pungolo critico marxiano continua a essere utile contro il capitalismo, il punto debole delle teorie politico-sociali che si vogliono marxiste sta proprio nel non saper proporre una convincente idea di società socialista che si ponga su un terreno di reale alternativa al capitalismo.
Per Ferrera però il punto è soprattutto un altro. Ripetendo un noto mantra della critica liberal, egli scrive che «il grande limite» delle proposte neomarxiste starebbe nel fatto che esse «tendono a perdere per strada l’eredità liberal-democratica», a sottovalutare «diritti e democrazia formale», cioè «l’inevitabile persistenza delle dinamiche di potere e i loro rischi di sopraffazione».
Non credo che le cose stiano così. Credo anch’io che sia stata vera e drammatica la sottovalutazione del tema del potere e della democrazia formale da parte delle forze impegnate a realizzare una democrazia sostanziale, ovvero il socialismo. Ma ritengo anche, da una parte, che il tentativo guidato almeno inizialmente da Lenin abbia deviato dai suoi intenti originari a causa dall’aggressione (assai poco democratica) subita dagli Stati capitalistici e poi dai fascismi. E, dall’altra, che molti materiali per una costruttiva autocritica dei socialismi rivoluzionari siano presenti nella stessa cultura marxista – da Rosa Luxemburg ai consiliaristi, da Gramsci a Mariategui, a Lukács (solo per citarne alcuni), e a tante correnti di pensiero post-1956.
L’obiezione che questi comunisti democratici non sono tuttavia mai stati al potere è ingiusta. Sia perché non si può comunque negare a essi una sincera volontà di autocorrezione teorico-politica, sia perché le forze del capitale hanno spesso impedito loro in tutti i modi (di nuovo: anche in modi molto poco democratici) di misurarsi col governo.
Il caso dell’Italia è eclatante. La nostra tradizione comunista democratica, pur non senza contraddizioni, ha gradualmente compreso l’importanza della democrazia politica, muovendo dalla riflessione gramsciana sull’egemonia, passando per la partecipazione convinta alla scrittura della Costituzione, culminando nelle posizioni berlingueriane che furono alla base dell’eurocomunismo e della «terza via» o «terza fase». Ma è stata ostacolata in tutti i modi, anche non leciti dal punto di vista della stessa teoria liberaldemocratica, almeno per come viene conclamata.
Credo che oggi sia vivissima nei socialisti e comunisti di molte tendenze la consapevolezza della importanza delle libertà liberali (tranne l’assoluta libertà d’impresa, ovviamente) e della democrazia. Vi sono in Marx stesso buoni argomenti in questa direzione. Basti pensare al discorso di Amsterdam nel 1872 sulla possibilità di vie democratiche al socialismo: si era – lo si noti – all’indomani di quella Comune di Parigi di cui egli aveva colto alcuni insegnamenti rilevanti sul terreno dell’autogoverno, ma che aveva anche tentato di scongiurare fino all’ultimo e di cui non affermava il valore paradigmatico e universale per ciò che concerneva l’aspetto insurrezionale armato.
È ugualmente viva nella cultura e nella politica liberaldemocratiche la consapevolezza di dover combattere il capitalismo per porre fine alla «intensa crescita delle diseguaglianze economiche e della precarietà sociale» di cui parla Ferrera? Non credo. E inoltre: la profonda crisi delle istituzioni parlamentari e lo svuotamento odierno della democrazia rappresentativa non dovrebbe portare a riflettere sui lati positivi della democrazia deliberativa? L’intreccio tra democrazia parlamentare e democrazia di base – auspicato da diversi autori comunisti e socialisti fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta – non potrebbe oggi dare nuova linfa vitale alle stesse istituzioni rappresentative svuotate e in declino?
Nelle società avanzate il socialismo o comunismo del futuro sarà democratico o non sarà. Il pensiero liberaldemocratico o imparerà davvero a separarsi dal capitalismo e a combatterlo o, ugualmente, non avrà futuro.
Guido Liguori
(Tratto da: Guido Liguori, Miseria capitalistica e comunismo democratico, in «il manifesto», anno LIV, n. 196, 17 agosto 2024).
Inserito il 17/08/2024.
Può sembrare inverosimile, ma al funerale di Karl Marx nel cimitero londinese di Highgate, il 17 marzo 1883, presero parte solo undici persone. Fu l’amico fedele Friedrich Engels, compagno di lotta di una vita, a pronunciare l’orazione funebre che riportiamo integralmente qui sotto.
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Orazione funebre per K. Marx pronunciata il 17 marzo 1883 presso il cimitero di Highgate (Londra)
Il 14 marzo, alle due e quarantacinque pomeridiane, ha cessato di pensare la più grande mente della nostra epoca. L’avevamo lasciato solo da appena due minuti e al nostro ritorno l’abbiamo trovato tranquillamente addormentato nella sua poltrona, ma addormentato per sempre.
Non è possibile misurare la gravità della perdita che questa morte rappresenta per il proletariato militante d’Europa e d’America, nonché per la scienza storica. Non si tarderà a sentire il vuoto lasciato dalla scomparsa di questo titano.
Così come Darwin ha scoperto la legge dello sviluppo della natura organica, Marx ha scoperto la legge dello sviluppo della storia umana, cioè il fatto elementare, sinora nascosto sotto l’orpello ideologico, che gli uomini devono innanzi tutto mangiare, bere, avere un tetto e vestirsi, prima di occuparsi di politica, di scienza, d’arte, di religione, ecc.; e che, per conseguenza, la produzione dei mezzi materiali immediati di esistenza e, con essa, il grado di sviluppo economico di un popolo e di un’epoca in ogni momento determinato costituiscono la base dalla quale si sviluppano le istituzioni statali, le concezioni giuridiche, l’arte e anche le idee religiose degli uomini, e partendo dalla quale esse devono venir spiegate, e non inversamente, come si era fatto finora.
Ma non è tutto. Marx ha anche scoperto la legge peculiare dello sviluppo del moderno modo di produzione capitalistico e della società borghese da esso generata. La scoperta del plusvalore ha subitamente gettato un fascio di luce nell’oscurità in cui brancolavano prima, in tutte le loro ricerche, tanto gli economisti classici che i critici socialisti.
Due scoperte simili sarebbero più che sufficienti a riempire una vita. Fortunato chi avesse avuto la sorte di farne anche una sola. Ma in ognuno dei campi in cui ha svolto le sue ricerche — e questi campi furono molti e nessuno fu toccato da lui in modo superficiale — in ognuno di questi campi, compreso quello delle matematiche, egli ha fatto delle scoperte originali.
Tale era lo scienziato. Ma lo scienziato non era neppure la metà di Marx. Per lui la scienza era una forza motrice della storia, una forza rivoluzionaria. Per quanto grande fosse la gioia che gli dava ogni scoperta in una qualunque disciplina teorica, e di cui non si vedeva forse ancora l’applicazione pratica, una gioia ben diversa gli dava ogni innovazione che determinasse un cambiamento rivoluzionario immediato nell’industria e, in generale, nello sviluppo storico. Così egli seguiva in tutti i particolari le scoperte nel campo dell’elettricità e, ancora in questi ultimi tempi, quelle di Marcel Deprez.
Perché Marx era prima di tutto un rivoluzionario. Contribuire in un modo o nell'altro all’abbattimento della società capitalistica e delle istituzioni statali che essa ha creato, contribuire all’emancipazione del proletariato moderno al quale egli, per primo, aveva dato la coscienza delle condizioni della propria situazione e dei propri bisogni, la coscienza delle condizioni della propria liberazione: questa era la sua reale vocazione.
La lotta era il suo elemento. Ed ha combattuto con una passione, con una tenacia e con un successo come pochi hanno combattuto. La prima “Rheinische Zeitung” nel 1842, il “Vorwärts!” di Parigi nel 1844, la “Deutsche Brüsseler Zeitung” nel 1847, la “Neue Rheinische Zeitung” nel 1848-49, il “New York Tribune” dal 1852 al 1861 e, inoltre, i numerosi opuscoli di propaganda, il lavoro a Parigi, a Bruxelles, a Londra, il tutto coronato dalla grande Associazione internazionale degli operai: ecco un altro risultato di cui colui che lo ha raggiunto potrebbe esser fiero anche se non avesse fatto nient’altro.
Marx era perciò l’uomo più odiato e calunniato del suo tempo. I governi, assoluti e repubblicani, lo espulsero; i borghesi, conservatori e democratici radicali, fecero a gara nel coprirlo di calunnie. Egli sdegnò tutte queste miserie, non prestò loro nessuna attenzione, e non rispose se non in caso di estrema necessità. È morto venerato, amato, rimpianto da milioni di compagni di lavoro rivoluzionari in Europa e in America, dalle miniere siberiane sino alla California. E posso aggiungere, senza timore: poteva avere molti avversari, ma nessun nemico personale.
Il suo nome vivrà nei secoli, e così la sua opera!
Friedrich Engels
Foto tratta da Wikimedia Commons.
Inserito il 15/12/2022.
Dal sito «connessioniprecarie.org»
di Maurizio Ricciardi
Esiste ancora la classe? Perché oggi è difficile parlare in termini di classe? Come mai le classi sociali subalterne non riescono a darsi forme organizzative unitarie che possano rappresentarne gli interessi comuni? Da Marx a oggi, i cambiamenti di paradigmi e di prospettive. Un punto di vista, quello di Ricciardi, che parte dall’analisi e arriva a qualche interessante conclusione.
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Si può ancora dire classe? Appunti per una discussione
di Maurizio Ricciardi
Questo testo riprende e amplia l’intervento del 20 marzo 2023 al Laboratorio di teorie antagoniste, organizzato a Bologna presso l’Ex-Centrale di via Corticella 129.
1. Le classi e la classe
Poniamo direttamente la questione: esiste ancora la classe? Possiamo dare per scontato che esistano le classi. Esiste cioè una classificazione degli individui in base alla differente posizione occupata all’interno del processo di produzione e riproduzione della società. È difficile negare che queste differenze esistano. Il problema è caso mai se è ancora utile ragionare in termini di classe per sottrarsi e possibilmente cancellare questa classificazione. Storicamente l’affermazione e, per un certo periodo di tempo, il predominio del linguaggio di classe è stato il modo in cui milioni di uomini e di donne hanno cercato di farla finita con la classificazione che li collocava in una posizione subordinata all’interno della società. Questo è un primo punto che deve essere sottolineato. Il linguaggio di classe ha un doppio significato: esso è originariamente un linguaggio d’ordine e solo successivamente diviene la rivendicazione di una possibile rivolta contro l’ordine delle classi. Inizialmente esso serve a classificare una molteplicità di fenomeni prima nelle scienze naturali e poi anche in quelle sociali, assegnando a ciascuno e ciascuna il suo posto. Questa ossessione classificatoria del sociale deriva dall’altrettanto ossessiva paura per il caos prodotto dalla presenza simultanea di una moltitudine di individui formalmente uguali senza alcuno status ascritto. I loro movimenti, le loro azioni, le loro stesse parole vengono percepiti come la minaccia di un disordine potenzialmente ingovernabile. La presenza delle classi è in un primo tempo attribuita alla contrapposizione all’interno del popolo di due gruppi divisi dalla loro diversa origine. Al gruppo dei conquistatori viene opposta la rivolta dei conquistati che ristabilisce il giusto ordine. A questa origine mitica della divisione in classi del popolo si sostituisce ben presto quella delle scienze sociali che utilizza una molteplicità di classificazioni per governare quello spazio specifico e determinato che è la società.
Classificare significa due cose: mettere ordine e conoscere quali sono gli elementi di quell’ordine. Da questo punto di vista la classificazione è una necessità subita, ma praticata anche da chi vuole valorizzare l’azione e i desideri di chi non è ancora riconosciuto all’interno della classificazione consolidata. Nella società delle classificazioni il primo passo è rivendicare l’esistenza di un gruppo che fino ad allora è sfuggito a ogni giudizio, ovvero che è stato considerato letteralmente inclassificabile. Da questo punto di vista, celebre e notevole è il dialogo che si svolge nel 1832 in un tribunale tra Auguste Blanqui e il suo giudice:
«– Il presidente: Qual è la vostra professione?
– Blanqui: Proletario.
– Il presidente: Non è una professione.
– Blanqui: Come, non è una professione! È la professione di trenta milioni di francesi, che vivono del loro lavoro e che sono privi di diritti politici.
– Il presidente: Ebbene, sia. Cancelliere, scriva che l’accusato è proletario».
Proletario è il nome non previsto di una classe all’interno della classificazione delle classi della società. Quello stesso nome non rimane poi stabile nel tempo, perché gli stessi proletari si autodefiniscono a lungo come classe operaia, ponendo così evidentemente la questione sulla differenza tra le due autodefinizioni. Ritorneremo su questo punto, perché oggi classe operaia viene considerata come la descrizione di una categoria professionale. Quando non viene data per scomparsa, o viene bollata come politicamente improponibile, essa viene riferita esclusivamente agli operai di fabbrica. E siccome nessuno, almeno in Europa, vede più le fabbriche, allora non ci sono più nemmeno gli operai.
Alcuni considerano il linguaggio di classe un residuo del passato, un’espressione veteromarxista. Potrebbe anche essere vero, perché sono stati soprattutto i marxisti a insistere sulla centralità politica della classe (operaia). Bisogna perciò capire se c’è una differenza tra parlare di classe e parlare delle classi. Come abbiamo detto, le classi evidentemente ci sono. Sono empiricamente evidenti. Ma in che cosa si distingue la classe operaia o proletaria dalle altre classi? C’è solo una differenza economica o sociologica, oppure c’è qualcosa in più e di diverso? Classe si rivela un concetto politicamente instabile. Nella società capitalista le classi ci sono sempre, la classe deve essere costituita. Purtroppo, con grande rammarico dei marxisti, il III libro del Capitale di Marx si interrompe dopo solo un paio di pagine del capitolo intitolato “Le classi”. Marx però ha abbondantemente chiarito cosa intendesse per classe e ha altrettanto approfonditamente analizzato la dialettica tra classi differenti della società. Eppure, oggi il riferimento alla classe, quando non viene accuratamente evitato, finisce per segnalare, come nel linguaggio intersezionale, un’insufficienza più che una possibilità. Quando esso nomina la classe assieme al sesso e alla razza fa riferimento essenzialmente alla povertà, cioè a una condizione subita e non a un’azione collettiva in grado di andare oltre la propria classificazione nella società. Non è comunque un caso che la classe venga fatta coincidere con la povertà, perché quest’ultima è tornata a essere ovunque la precondizione del lavoro salariato. Si lavora perché si è poveri e, registrando la presenza generalizzata della povertà, il discorso intersezionale registra anche il fatto che sempre più uomini e donne lavorano e rimangono poveri. È evidente però che, nonostante questo dato di realtà, la classe viene considerata insufficiente per motivare e legittimare l’azione politica. La molteplicità delle differenze maturate nella società stabilisce una tensione più o meno profonda nei confronti della classe. Eppure, una differenza specifica continua a esistere: gli appartenenti a una classe non vogliono affermare la condizione in cui sono, ma la vogliono superare; chi rivendica il carattere politicamente determinante del genere e del colore della propria pelle non vuole sopprimere né il genere né la razza. Allo stesso tempo, tuttavia, viene affermata una tensione che non è un’alternativa assoluta, perché storicamente il sesso e la razza sono stati principi di classificazione che, anche se non sempre, sono coincisi con la collocazione all’interno di una specifica classe.
Dentro a questa tensione si è affermato anche il ricorso al termine subalterni che, almeno nell’uso iniziale che ne hanno fatto i Subaltern Studies, indicava coloro che hanno subito l’assoggettamento coloniale e lo sfruttamento capitalistico in modi e luoghi differenti da quanto avvenuto in Occidente. Anche se poi il termine è stato applicato a contesti e periodi differenti, esso ha continuato a indicare coloro che non avevano avuto o che non hanno la possibilità materiale di costituirsi in classe secondo quei processi che si sono sviluppati in Occidente e ai quali è stato a lungo attribuito un significato normativo. Classe ha finito così per essere criticato e rifiutato da destra e da sinistra. Da destra il neoliberalismo ha affermato che non esistono le classi, ma solo gli individui. Da sinistra perché la classe si riferiva a una storia esclusivamente occidentale, operaia e maschile.
2. Gli elementi sociologici di una figura non societaria
La crisi del concetto di classe è dovuta anche all’impossibilità politica di continuare a ragionare in termini di classi operaie nazionali, che poi dovrebbero unirsi in una struttura internazionale, così come proponeva l’internazionalismo classico. Le diverse classi operaie non si trovano solo di fronte padroni già ampiamente transnazionali, ma la loro stessa composizione è transnazionale e varia rapidamente nel tempo. La stessa classe operaia, nel senso di tutti coloro che in modi diversi contribuiscono all’autovalorizzazione del capitale, è una figura della società mondo e non delle singole società nazionali. Il dominio transnazionale del capitale è alla base anche della necessità di opporsi di volta in volta a ogni suo singolo comando locale e, d’altra parte, la stessa classe operaia ha sempre più una composizione transnazionale, dalla quale si deve inevitabilmente prendere le mosse se si vuole pensarla come classe.
La classe non è una figura spaziale, non implica la prossimità, ma piuttosto la sua rottura. La classe non organizza uno spazio che prima non c’era, ma ridefinisce lo spazio (sociale e non solo) a partire dalla trasformazione delle relazioni che negano il rapporto (di capitale).
Questa rottura costante dei vincoli spaziali e comunitari, della vicinanza, dell’assembramento, è il contrario dell’omogeneità. La classe si costituisce dentro a questa rottura, non è il risultato della lotta ma la sua pratica.
Il giovane Marx quando nel 1843 utilizza per la prima volta il termine proletariato parla di una «classe gravata da catene radicali; di una classe della società borghese, che in realtà non è una classe della società borghese; di un ceto che coincide con il decomporsi di tutti i ceti». Per Marx il proletariato è la «decomposizione della società». Quindi è una parte della società, ma ne è anche la negazione.
3. La società di classe e la sua neutralizzazione sociologica
Adorno annota giustamente che nonostante la critica necessaria di ogni neutralizzazione sociologica i «lavoratori vedono la società scissa in una parte superiore e in una parte inferiore». È empiricamente vero che i figli dei proletari fanno scuole diverse da quelle dei ricchi, che hanno possibilità minori di godimento dei beni sociali e che la conquista di maggiori possibilità pesa sulla loro vita e sui loro redditi in maniera diversa da ciò che è consentito ai ricchi. Mentre la società di classe è una specifica topologia, una partizione dello spazio sociale organizzato attraverso i suoi confini, l’esperienza quotidiana della disuguaglianza agisce «sull’esistenza dei singoli uomini in modo profondo, altrimenti il concetto di classe sarebbe certamente un feticcio». È a partire dallo scandalo quotidiano della disuguaglianza che la classe pratica la propria non spazialità contro le partizioni della società.
Risulta così evidente che dire classe significa anche descrivere la società in alcune sue articolazioni fondamentali. Allo stesso tempo il rischio è sempre quello di confermare la rappresentazione che ne deriva con le sue gerarchie. È anzi molto più di un rischio, perché è il modo in cui le scienze sociali si sono appropriate del discorso della classe per descrivere la società in maniera normativa. Esse non l’hanno solo descritta, ma hanno anche imposto il modo in cui essa doveva essere pensata e quindi quali politiche di classe si dovevano applicare, per mitigare gli effetti dirompenti della divisione in classi.
4. La classe e la sua organizzazione
Il risultato è stato una stabilizzazione delle classi che ha contribuito a rendere quello di classe un concetto politicamente instabile. Non è sempre stato così. La valorizzazione politica della classe è stata a lungo affidata alla sua organizzazione che per oltre un secolo si è chiamata partito. Classe e partito hanno definito a lungo un campo di tensione e lo hanno determinato. D’altra parte, se la classe era una parte differente da tutte le altre parti della società, era anche logico e conseguente che essa fosse organizzata in un partito diverso da tutti gli altri partiti. Diverso perché non puntava a governare la società, ma a rivoluzionarla. Il fatto che nella società esistano delle classi, cioè delle partizioni che assegnano a segmenti diversi della società possibilità differenti di accedere alla ricchezza prodotta, ha reso quasi autoevidente la necessità di un partito, di una partizione politica, specifica e particolare che si opponeva alle partizioni. Storicamente il discorso di classe ha due componenti che ritornano costantemente: la lotta sulla produzione della società e la sua organizzazione. Non si tratta tanto di affermare teoricamente la centralità esclusiva della lotta economica, ma di riconoscere praticamente che avere un salario più alto consente di accedere a prestazioni sociali altrimenti negate, così come era ed è assolutamente chiaro che ogni aumento del salario diretto o indiretto limitava e limita lo spazio di azione del profitto. Quindi ogni lotta per il salario era ed è una lotta per il potere. Il partito – un termine che oggi non a caso sembra subire lo stesso destino di classe – è stato lo strumento per organizzare questa lotta. Esso è stato una componente essenziale di quello che è stato il movimento operaio, ovvero della costellazione composta da classe, sindacato e appunto partito.
La crisi di questa costellazione organizzativa ha lasciato la classe senza organizzazione. Ovvero davanti a un problema ancora oggi sostanzialmente irrisolto. Non è stato risolto da nessuna delle esperienze che hanno reagito alla rottura di quella costellazione. Non lo hanno risolto i centri sociali, non lo hanno risolto i social forum o la proposta dell’assemblea come luogo di comunicazione di esperienze politiche diverse. Non lo hanno risolto tutte quelle forme organizzative che hanno cercato di connettere i movimenti del lavoro vivo con il territorio in cui si collocavano, mentre buona parte di quei movimenti dipendevano ormai dalla globalizzazione del capitale. Non lo risolvono nemmeno i mille collettivi orgogliosi e gelosi della loro specificità e autonomia che poi si trovano in lunghissime assemblee spesso difficili da decifrare. Eppure, è impossibile ragionare in termini di classe senza porsi il problema della sua organizzazione. La classe non è un sentimento e nemmeno una percezione. Con una semplificazione politica apparentemente brutale Lenin ha scritto: «Colui che si accontenta di riconoscere la lotta delle classi non è ancora un marxista, e può darsi benissimo che egli non esca dai limiti del pensiero borghese e dalla politica borghese. Ridurre il marxismo alla dottrina della lotta delle classi, vuol dire mutilare il marxismo, deformarlo, ridurlo a ciò che la borghesia può accettare». Secondo Lenin, dunque, non basta riconoscere la conflittualità che inevitabilmente esplode nella società capitalistica, bisogna osare pensare e praticare processi che vadano oltre il conflitto presente, che scelgano il terreno della lotta invece che subirlo. In altri termini si deve porre la questione di un potere in grado di modificare le condizioni presenti.
Forse però non si tratta di individuare un luogo su cui fondare quel potere, ma si deve pensare piuttosto a intensificare i processi che si esprimono nelle lotte.
D’altra parte, nemmeno la fabbrica è stato il luogo del potere operaio negli anni Sessanta e Settanta.
5. La fabbrica e la classe operaia
Quei decenni sono stati invece il momento di massima porosità del confine della fabbrica, la struttura che il capitale aveva utilizzato e utilizza per concentrare, sfruttare e controllare la forza lavoro. Gli anni Sessanta e Settanta sono stati il momento in cui il potere operaio è divenuto potere sociale imponendo la propria presenza politica contro le gerarchie che tanto in fabbrica quanto nella società si pretendevano indiscutibili. La politica della fabbrica non è mai stata limitata ai soli impianti produttivi. Ha investito il territorio circostante stabilendo connessioni che andavano bel oltre lo specifico sito produttivo. La fabbrica è stata un centro di potere che si irradiava in tutto lo spazio circostante, grazie al rapporto instaurato con lo spazio urbano. In questa lotta dispiegata per il potere sociale, la classe operaia è stata ed è molto più che l’insieme dei lavoratori impiegati in fabbrica. Ora non è che non esista più la classe operaia. Sociologicamente esiste sempre. Non esiste più il potere operaio capace di dare forma allo spazio circostante, a coinvolgere nella sua lotta una molteplicità di altre figure sociali. Quando questo accade ancora oggi essa sembra una lotta di pura resistenza e in qualche modo destinata alla sconfitta. Penso a quello che è successo nell’altra Porto Marghera, ovvero la fabbrica di elettrodomestici Electrolux nel trevigiano, che ha continuato a lottare negli ultimi decenni, ma è evidente che il nucleo di potere che essa ha rappresentato nel tempo si è progressivamente assottigliato. Eppure, grandi concentrazioni operaie continuano a esistere su scala globale. Basta pensare all’interporto di Bologna, che è senza dubbio una grande fabbrica, ma non è un nucleo di potere capace di espandersi sulla città. In parte ciò è dovuto al fatto che buona parte di quelli che ci lavorano sono migranti, ovvero una sezione di classe operaia che mette in scacco anche il discorso operaista sulla composizione di classe. In parte è dovuto al fatto che, nel momento in cui la fabbrica è diventata un problema politico, il capitale ha reagito frammentandola, in modo da rendere difficili se non impossibili i collegamenti autonomi di classe; l’ha dislocata in luoghi dove il potere politico democratico, socialista o postsocialista, ostacola quando non reprime i tentativi di organizzazione operaia. Questa cancellazione politica della fabbrica ha generato un sospetto diffuso e condiviso sugli stessi operai di fabbrica, che per decenni sono stati considerati i garantiti, i privilegiati e i rappresentati rispetto ai precari senza garanzie e senza rappresentanza. La classe operaia è diventata così una categoria di mestiere. Non un concetto politico, ma coloro che lavorano in fabbrica.
Questo imbarazzo è evidente nella nota che accompagna la traduzione del volume di Angela Davis Donne, razza, classe: «Infine per il termine class e in particolare il suo uso nell’espressione working class abbiamo deciso di conservare la versione inglese o usare in qualche caso l’espressione “classe lavoratrice”. Avessimo tradotto il saggio di Davis a caldo, nel 1981, avremmo potuto usare senza problemi “classe operaia”. La formula però indica troppo le blue collars che oggi incidono meno nella popolazione working class. L’espressione “classe operaia” è stata usata solo quando Angela Davis scrive esplicitamente di donne operaie che lavorano in fabbrica». La dichiarazione è un po’ buffa. Nel 1981 la classe operaia c’era (ed era una presenza politicamente rilevante), ma oggi evidentemente – a posteriori – non ci sarebbe più, con il risultato di farne un concetto nemmeno sociologico, ma solo professionale. Eppure, Davis lo utilizza mentre parla della storia statunitense dell’Ottocento quando le blue collars erano persino una minoranza professionale. Ne fa quindi un uso politico, come d’altra parte fa Marx quando parla di classe operaia o di operaio collettivo, indicando una linea di cesura contro le classificazioni e non tanto o non solo un processo di identificazione. Non l’evidenza di un’identità, ma la costituzione di un soggetto in movimento.
Angela Davis utilizza inoltre una semantica di classe che non rimanda solo all’identificazione di un suo segmento, ma punta direttamente allo scontro. Per lei la classe è una linea di confronto e di scontro che conserva il segno della schiavitù, non perché pensi che ogni oppressione sia schiavitù o che lo sfruttamento capitalistico sia meccanicamente la continuazione della schiavitù con altri mezzi. Angela Davis ha ovviamente una chiara consapevolezza della specificità della schiavitù e del suo contenuto razzista. Non usa però classe come un concetto prioritariamente inclusivo, ma attraverso di esso individua un avversario. Non a caso parla di «classe degli schiavisti» e «classe di proprietari di schiavi».
Allo stesso tempo sottolinea che il riferimento alla schiavitù si diffonde anche tra le donne bianche di classe media che lo utilizzano come metafora per indicare l’oppressione del lavoro domestico e del matrimonio. E bisogna anche ricordare che l’espressione “schiavitù del lavoro salariato” diviene importante e pericolosa, quando comincia a essere utilizzata dagli operai del nord degli Stati Uniti che minacciano così di collegare la propria situazione di sfruttamento a quella degli schiavi del sud. La necessità di rispondere a questa connessione imprevista è tra le cause della guerra civile americana.
Angela Davis mostra inoltre come può essere maneggiato un altro concetto complesso come quello di classe media, senza considerarlo una sorta di nucleo sociale autonomo che può essere alternativamente attirato nel pozzo gravitazionale del capitale o in quello della classe operaia. Scrive Davis: «Tra le donne lavoratrici e le donne provenienti da facoltose famiglie di classe media erano sicuramente le operaie quelle che avevano più diritto a fare confronti con lo schiavismo». Allo stesso tempo rileva che sono state soprattutto le donne di classe media a percepire una maggiore affinità con la condizione delle donne e degli uomini neri diventando agitatrici e sostenitrici nelle loro lotte. La classe media non le serve per indicare una condizione mediana nella sociologia della società, ma l’evidenza di una rottura e di una connessione possibile (e storicamente avvenuta) contro il dominio presente. Classe media indica qui la presenza di un discontento e l’attivo schieramento con altri oppressi. Queste donne di classe media sono politicamene rilevanti perché vogliono smettere di essere un elemento della riproduzione patriarcale e razzista della società. Davis dice che queste donne sono prese dentro un dilemma, lo descrive, ma le interessa la parte dalla quale viene sciolto. E questa soluzione non è stata quella di tutte le donne della classe media.
6. I movimenti sociali sono movimenti di classe
Anche in questo caso a essere centrale è la dissoluzione delle classificazioni. Non basta fermarsi alla loro identificazione, limitandosi al conflitto che le stabilisce e le caratterizza. Lo stesso vale per la dissoluzione della configurazione storica del movimento operaio che avviene a partire dal lungo Sessantotto. Nei decenni successivi alla istituzionalizzazione neoliberale della società corrisponde l’azione e la presenza di movimenti che la contestano, ma anche talvolta ne favoriscono il continuo adattamento. Con questo intendo dire che non solo parti di questi movimenti si istituzionalizzano (per esempio i verdi in Germania, che sono però solo l’esempio più eclatante), ma che l’espressione dei movimenti può rivelarsi funzionale alla dinamica stessa della società. Questa moltiplicazione di movimenti ci interessa nella stessa misura in cui ci interessa il riferimento alla classe.
Se la classe è rilevante nel momento in cui mette in discussione la società di classe e quindi anche se stessa, i movimenti divengono politicamente interessanti quando assumono un connotato di classe, cioè non esprimono solo la specifica rivendicazione che li fa sorgere, ma mettono in discussione la produzione e la riproduzione della società.
Fino a quando rimangono movimenti, essi inoltre mettono in tensione le modalità di istituzionalizzazione della società. Il rapporto tra classe e partito è venuto meno proprio per l’eccesso di istituzionalizzazione, perché si è sclerotizzato in formule che impedivano la discussione e la critica e che alla fine hanno prodotto la sterilizzazione della classe e l’obsolescenza della forma partito. Il complicato e finora irrisolto rapporto con l’istituzionalizzazione caratterizza invece i movimenti che politicizzano continuamente delle questioni sociali: ovvero, essi rendono evidente che c’è una cesura, un contrasto che richiede una mediazione o può portare a una lotta, pur essendo ancora lontani da immaginare una adeguata forma organizzativa che possa dare continuità a questi contrasti. Dal punto di vista di classe i diversi movimenti non sono indifferenti, ciò significa che non possono essere collocati uno di fianco all’altro senza antitesi. Sono cioè l’espressione di tensioni spesso contrapposte all’interno della società mondo.
Secondo Marx, il movimento sociale è già un movimento politico, proprio perché mette in discussione la forma della produzione e della riproduzione della società. In questo senso i movimenti sociali sono movimenti di classe. Essi, tuttavia, non possono essere sommati secondo una logica in definitiva parlamentare o, se si vuole, ecclesiastica. Una logica che appare in molte se non tutte le convocazioni delle nostre iniziative di movimento, nelle quali molto democraticamente tutte le rivendicazioni sono messe una accanto all’altra, secondo la logica che non si può e non si deve escludere nessuno e secondo la convinzione aritmetica che la somma delle parti produce immediatamente una forza collettiva. In questo modo la ricchezza politica della molteplicità delle rivendicazioni soggettive viene risolta attraverso il semplice calcolo delle parti. La moltitudine diviene un problema aritmetico, invece che l’evidenza della tensione di classe che la innerva. Un esempio pratico del carattere problematico della moltitudine è stata la manifestazione del 22 ottobre 2022 a Bologna. Una grande manifestazione, un sospiro di sollievo che ha suscitato grandi aspettative. Guardando dentro a quella manifestazione si vedeva un grande blocco di giovani e giovanissimi mobilitati intorno a tematiche soprattutto ecologiche e alla rivendicazione di una vita se non migliore almeno bella. Lo spezzone della GKN. Uno spezzone molto grande di sindacalismo di base composto soprattutto da operai migranti. Uno spezzone tutt’altro che insignificante composto anch’esso da giovani che riprendevano slogan e mimavano comportamenti di un passato quasi remoto. Nudm [“non una di meno”, ndr] ha scelto di non avere un suo spezzone, ma c’erano centinaia di donne con i pañuelos che mostravano chiaramente a cosa facevano riferimento.
Bisogna guardare dentro alla convergenza per capire se e come questi segmenti di classe possono produrre un’iniziativa comune, perché se non ci riescono non è perché esistono i ceti politici maligni e ambiziosi, ma perché le pretese soggettive di ognuno di quei segmenti parlano un linguaggio di classe che non comunica immediatamente con gli altri.
La moltiplicazione e la frammentazione dei linguaggi di classe producono certamente una ricchezza nuova, ma sono anche la causa per cui moltissimi uomini e donne che oggettivamente vivono in condizioni di assoggettamento e sfruttamento non riescono ad accedere all’azione comune e nemmeno si riconoscono come classe.
I movimenti ridefiniscono le pratiche della classe. La sua eventuale costituzione deve partire dalla moltitudine di figure che non devono semplicemente essere ridotte a unità, ma non possono nemmeno essere considerate come una pluralità indifferente. Se si vogliono considerare i movimenti da un punto di vista di classe non basta nominarli al plurale, in modo che tutte le loro rivendicazioni vengano messe su di un piano di parità formale, di fatto senza comunicazione. Le differenze devono essere prese sul serio e non semplicemente sommate. Devono essere prese sul serio perché non stabiliscono solo un campo di tensione verso l’esterno, verso quello che un tempo veniva definito il nemico di classe, ma anche verso l’interno. Il problema è se queste differenze si fissano in identità, se si risolvono in una indisponibilità pratica a mettere in discussione ciò che si è. Lo specifico politico della classe è proprio questo: chi ne è parte, chi parla e lotta dalla prospettiva di classe, lo fa perché vuole smettere di essere quello che è.
Riassumendo: i movimenti possono essere solo movimenti della società, ma possono essere anche processi in cui la sua produzione e riproduzione viene contestata materialmente. Da questo punto di vista, oggi, non è possibile alcuna definizione della classe e quindi della lotta di classe che non tenga conto della complessità dei movimenti del lavoro vivo che continuano a irritare la società. Movimenti dei e delle migranti che attraversano i confini degli Stati e delle leggi, mettendone in discussione la legalità politica, ma obbligando anche a ripensare le stesse categorie con cui la classe è stata finora intesa. Movimenti antirazzisti che operano nella stessa direzione anche all’interno di Stati che si pretendono omogenei. Movimenti contro le guerre, e oggi in particolare per contestare l’invasione russa dell’Ucraina, il nazionalismo di ogni tipo e il militarismo globale occidentale. Movimenti femministi e transfemministi che contestano la struttura patriarcale della società e la configurazione sessuale dei rapporti sui quali essa si regge. Movimenti ecologisti che lottano dentro al mutamento climatico, opponendosi alla distruzione mercificata della natura e alle diseguaglianze che essa riproduce. Movimenti della produzione immediata, ovvero i movimenti di tutti coloro che sono costantemente sottoposti ai processi di valorizzazione del capitale e vivono quindi delle molteplici forme del salario.
Ciò impone tuttavia di condividere l’assunto che il capitale è la potenza sociale che organizza l’esistenza di tutti coloro che partecipano direttamente o indirettamente alla sua valorizzazione. Se non si accetta questo presupposto è inutile parlare di classe e, anche se lo si fa, essa torna a essere una modalità di classificazione tra le altre.
Ciò non significa che l’unico luogo in cui il capitale deve essere contrastato è il posto di lavoro, derubricando ogni altra contestazione a una contraddizione secondaria che si risolverà in un futuro più o meno lontano. Nessuna organizzazione può collocare quelle differenze in una gerarchia funzionale per maneggiarle con comodo. Il lavoro vivo è attraversato da tensioni che devono essere assolutamente riconosciute come tali e assunte come terreno di incontro e di scontro altrettanto importante di quello contro il capitale. Da questo punto di vista la razza, il sesso, la giustizia climatica non sono condizioni ulteriori rispetto al lavoro vivo e alle sue rivolte, ma sono suoi movimenti interni e producono conseguenze e tensioni che lo definiscono nella sua complessità. Non sono movimenti sociali nel senso di movimenti della società, ma dinamiche interne al lavoro vivo che deve rompere praticamente le sue classificazioni interne così come deve rompere quelle imposte dalla tradizione e dal capitale.
7. L’autodissoluzione della classe
Questa pratica è una lotta che – scrive Marx nella Miseria della filosofia – è una vera e propria guerra civile, cioè uno scontro interno alla società della classificazione, portato avanti dall’associazione dei classificati. Qui tradizionalmente veniva posta l’annosa questione della coscienza di classe, che non è comunque un concetto psicologico. Non può cioè essere intesa come una consapevolezza superiore che viene acquisita e che prima mancava. Il passaggio avviene quando la massa dei classificati non lotta soltanto contro il suo avversario immediato, non si oppone solamente e non resiste soltanto, ma diventa una classe in se stessa, ovvero mettendo in gioco le sue stesse relazioni interne, determinando così il carattere specifico della sua azione. In altri termini:
la moltitudine di figure soggettive diviene classe non solo perché ha lo stesso nemico, ma attraverso le relazioni che sviluppa al suo interno. Se queste relazioni non mutano non c’è nemmeno la classe.
Se è vero quello che abbiamo detto sui movimenti sociali, ciò significa che la classe è il rifiuto pratico della posizione a cui sembra di essere destinati dall’organizzazione complessiva della società. La classe non è un’identità, ma un rischio. Non è la conferma di ciò che si è, ma il rischio di diventare qualcos’altro. Non basta nemmeno il presentarsi in massa: essere tanti contro i pochi che detengono il potere o che godono dei frutti dello sfruttamento. Non basta l’identificazione di un nemico comune. La classe non è una folla, nella quale ogni differenza perde la propria specificità o addirittura deve smettere di contare. La costituzione in classe è questo processo di trasformazione di chi vi prende parte. Più complesse sono le contraddizioni all’interno del lavoro vivo, più urgente diviene il dilemma organizzativo, che può essere risolto solo tenendo conto di questa composizione in movimento.
Le classi ci sono sempre. La classe no. Questo è il punto più complesso in un momento storico che fa del pluralismo la sua cifra. Cioè in un momento storico in cui affermare l’unicità di un processo sembra minacciare l’esclusione di altre manifestazioni della vita. La classe può esistere al singolare solo se non viene intesa come un processo di unificazione con la conseguente cancellazione delle differenze esistenti. È però altrettanto evidente che il processo che rende possibile la classe implica che chi vi partecipa metta in discussione la propria differenza e non la voglia vedere rappresentata come in un qualsiasi parlamento. Se infatti la classe non è una condizione sociale, non è nemmeno l’affermazione della propria identità differente, ma piuttosto il processo che si muove dentro e contro la condizione sociale e le sue classificazioni. Dentro alla lotta della classe devono modificarsi le relazioni, all’interno di un processo che non si muove verso una società diversa, ma è la pratica attuale di relazioni che sfuggono alle classificazioni. Da questo punto di vista dimostra tutta la sua importanza l’affermazione di Walter Benjamin: «Il soggetto della conoscenza storica è la classe stessa che lotta». Si tratta di un processo precario che impone di ritornare costantemente sui risultati che sembrano acquisiti. Ogni acquisizione è temporanea, così come la razionalità su cui si basa la lotta è provvisoria, ovvero né esclusiva né assoluta. La classe, in definitiva, non deve conquistare un potere collocato al suo esterno, ma può essere quel potere che muta alla radice le condizioni della sua stessa produzione fino a cancellarle.
16 aprile 2023
Maurizio Ricciardi
(Tratto da: Maurizio Ricciardi, Si può ancora dire classe? Appunti per una discussione, in https://www.connessioniprecarie.org/2023/04/16/si-puo-ancora-dire-classe-appunti-per-una-discussione/).
Inserito il 25/06/2024.
Dalla rivista «Jacobin Italia»
recensione di Sebastiano Taccola*
Roberto Fineschi riesce a tenere insieme complessità e divulgazione della teoria di Marx, disegnandola come una «cassetta degli attrezzi» per analizzare il modo di produzione capitalistico.
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Roberto Fineschi
Marx
(La Scuola SEI, 2021)
recensione di Sebastiano Taccola
Negli scorsi anni, anche grazie alle celebrazioni del bicentenario della nascita, in Italia (e nel mondo) si è assistito a un intensificarsi delle pubblicazioni su Karl Marx. Testi nuovi e di carattere diverso – divulgativo e scientifico, ammesso che sia possibile fare una distinzione netta tra questi due piani – hanno riportato Marx e il marxismo sugli scaffali delle novità delle nostre librerie e biblioteche. Una simile vitalità ha probabilmente un valore duplice: da un lato, ha rappresentato un’espressione dell’esigenza di un «ritorno a Marx» fortemente avvertita con la crisi economica del 2007-2008; dall’altro lato ha tentato di dare nuovi spunti critici in grado di entrare in sinergia con i fermenti del presente e dare loro nuova forza.
Se all’estero sono stati soprattutto studiosi come David Harvey o Michael Heinrich a tentare di riportare all’attenzione del grande pubblico la teoria dell’autore del Capitale, in Italia, invece, c’è stata più timidezza (con alcune eccezioni, come ad esempio il Karl Marx di Marcello Musto e la Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani). Del resto, gli addetti ai lavori conoscono bene la difficoltà di sciogliere e rendere comprensibili i nodi e i passaggi più complessi della teoria marxiana del Capitale, pur essendo altrettanto consapevoli della necessità di compiere questo lavoro. Non si tratta tanto di divulgare Il capitale di Marx, ma di operare nelle maglie della società e della cultura contemporanee per radunare un nuovo pubblico per quest’opera: un’opera di scienza, le cui categorie possono aiutarci a spiegare la riproduzione e l’ampliamento delle più diverse forme di sfruttamento oggi in atto. Le sfruttate e gli sfruttati non mancano. Si tratta di tentare di tessere i fili nella direzione giusta.
Se letto in questo orizzonte problematico, il libro di Roberto Fineschi, Marx, può stimolare qualche riflessione produttiva. Si tratta di un profilo introduttivo, che intende tenere la complessità delle questioni sopra evocate, senza perdere la specificità analitica caratteristica di ogni serio lavoro scientifico.
Quando abbiamo a che fare con la lettura del profilo di un autore il rischio è quello di perdere ciò che invece dovrebbe starci più a cuore, vale a dire la specificità del discorso che prendiamo a oggetto. Per quel che riguarda la filosofia, poi, si direbbe che questa specificità ha a che fare con un campo ben definito: la scienza e il pensiero che si vuole scientifico. L’intera storia della filosofia occidentale, infatti, nei suoi punti più alti (da Eraclito a Platone, da Aristotele a Hegel, da Kant a Spinoza e Marx) può considerarsi come uno sviluppo delle determinazioni di un pensiero, un logos assolutamente impersonale, il quale, proprio a partire da questa sua impersonalità e imparzialità, tende a definire le condizioni della propria scientificità. Si tratta di una prospettiva spesso relegata in secondo piano, e oggi assolutamente trascurata in forza di una tradizione, che ha dissolto l’unità di fondo della forma del discorso filosofico in una serie discreta di Weltanschauungen, di concezioni del mondo soggettive (e dunque, almeno potenzialmente, arbitrarie). Di qui a concepire l’intera storia della filosofia come un agone in cui si scontrano le personalità dei vari filosofi il passo è breve.
Se questa prima matrice «personalistica» e «agonistica» ha dissolto la logica specifica del pensiero filosofico, una seconda tradizione ha invece portato a perderne la storicità. Si allude qui a quella maniera «storicistica» di fare storia della filosofia, che si limita a resoconti cronachistici delle vicende biografiche di un determinato autore, costruendo nessi consequenziali immediati tra queste e l’elaborazione teorica secondo un ordine temporale cronologico e progressivo.
Si tratta di due matrici non necessariamente parallele; anzi, spesso capita che l’una si innesti sull’altra. È chiaro che cadere da una parte o dall’altra è un rischio effettivamente concreto quando si ha a che fare con la composizione del profilo di un filosofo. A maggior ragione, poi, se questo filosofo è Karl Marx: il pensatore dell’unione di teoria e prassi, la cui esperienza biografica è tanto ricca da intrecciarsi più volte con alcuni passaggi fondamentali dell’elaborazione teorica. Ecco, un primo tratto di originalità del libro di Fineschi è proprio il suo evitare di correre un rischio simile. Fineschi dà scacco ai resoconti storicisti, cronachistici e personalisti in un paio di mosse: la biografia (per ragioni editoriali) è ridotta a poche pagine iniziali e nettamente separata dal resto; questo «resto», poi, non è nient’altro che la scienza marxiana, e in particolare Il capitale. La parte centrale e più corposa del volume, infatti, è divisa in due sezioni: «Prima del Capitale» e «La costruzione della teoria del Capitale».
La ricostruzione del pensiero marxiano proposta da Fineschi è innanzitutto concettuale e non immediatamente storica. Essa cioè parte dal riconoscimento della forma matura assunta dal discorso scientifico di Marx (la costruzione del sistema della critica dell’economia politica, il cui precipitato principale, sebbene incompiuto, è Il capitale). Questa è la lente analitica attraverso la quale Fineschi fa filtrare il fascio continuo dell’opera omnia marxiana. Il filo conduttore dell’intera produzione di Marx può essere infatti riconosciuto nel concetto di «critica». Partire, dunque, dalla compiutezza della forma espositiva della critica permette poi di procedere nella direzione di una lettura morfologica e contrastiva del corpus marxiano. Un simile esercizio ermeneutico, come mostra bene Fineschi, non è fine a se stesso, ma permette di cogliere nessi di continuità e discontinuità assai profondi e articolati, non privi di spunti di riflessione per il nostro presente. Un tipo di interpretazione, dunque, scientificamente accurata e fortemente produttiva.
In questo senso, l’intera produzione di Marx può essere interpretata come un «one long argument» (secondo la nota espressione di Darwin), un lungo ragionamento di progressiva penetrazione nel campo della critica dell’economia politica. Nelle opere giovanili si possono ritrovare i primi germogli di questa scienza, e Fineschi mostra le linee di tendenza e controtendenza di questa maturazione: dalla critica a Hegel, passando per il giovanile avvicinamento al comunismo (La questione ebraica, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel. Introduzione, entrambi del 1843) e il primo approccio ai temi dell’economia politica (i celebri Manoscritti economico-filosofici del 1844), fino a un iniziale abbozzo di materialismo storico (La sacra famiglia, 1844). In tutti questi scritti, il più grande limite di fondo che grava sull’esposizione marxiana è il retroterra antropologico e feuerbachiano, che porta Marx a pensare le forme dell’emancipazione al di là di ogni storicità specifica, come ritorno a un’essenza originaria della specie umana (Gattungswesen). Il superamento di questo umanesimo radicale è portato avanti da Marx nel biennio 1845-1847 in opere come L’ideologia tedesca, le Tesi su Feuerbach, la Miseria della filosofia. Opere in cui, tuttavia, l’esposizione complessiva si muove su un piano espositivo ancora troppo dipendente dall’economia politica classica ed è ancora priva di quei lineamenti fondamentali che porteranno Marx ad affinare al meglio le sue armi della critica.
«Tutta la scienza sarebbe superflua se la forma fenomenica e la essenza delle cose coincidessero in maniera immediata». Questa citazione tratta dal terzo libro del Capitale esprime appieno il fondamento epistemologico della critica dell’economia politica, oltre che la sua differenza specifica rispetto a ciò che la precede. Nella prospettiva marxiana, infatti, la scienza, per essere effettivamente tale, deve avere un carattere anti-empirico, anti-naturalistico e controintuitivo. E ciò significa rimettere in discussione il dato, considerarlo sempre come il risultato di uno specifico processo di genesi e formazione. Ed è su questa strada che Marx si mette in cammino a partire dal 1857 (l’anno in cui inizia la stesura di quel primo abbozzo della teoria del Capitale successivamente noto come Grundrisse). Da qui in avanti la società, lo Stato, le classi, l’economia, ecc. non sono più entità che possono essere assunte acriticamente, per come si presentano alla superficie della società, quali statici presupposti del nostro agire (pratico o teorico che sia); al contrario, è proprio la loro costituzione, il loro processo genetico e riproduttivo, che devono essere oggetto di analisi critica.
La critica di Marx considera ogni dato sociale come un risultato di un rapporto, che essa aspira a spiegare su base sistematica. E a spiegare a partire da che cosa? Da un’astrazione determinata, che si fa struttura concreta in grado di governare i processi di riproduzione della società attuale tanto da orientarne, se pur con gradi di incidenza diversi, le forme espressive (istituzionali, politiche e giuridiche), l’azione dei soggetti e la maturazione delle soggettività, in base a quelle leggi coercitive che essa sovraimpone agli attori sociali. A questa struttura Marx dà un nome scientifico: modo di produzione capitalistico. È questo l’oggetto della critica dell’economia politica. A esso sono dedicati i tre libri del Capitale, che Fineschi riassume coraggiosamente, seguendo l’esposizione marxiana nei suoi diversi gradi di astrazione, senza lasciare da parte nessun passaggio cruciale.
Il volume si chiude con due sezioni almeno parzialmente collegate e intitolate, rispettivamente, «Concetti chiave» e «Storia della ricezione». Parzialmente intrecciate perché entrambe evocano la questione del rapporto tra Marx e il marxismo. In particolare, per quel che riguarda la prima delle due sezioni (che prende in esame concetti assai problematici come «materialismo storico», «materialismo dialettico», «lotta di classe», «rivoluzione», «comunismo», «metodo dialettico», «alienazione e feticismo della merce», «valore-lavoro e trasformazione»), Fineschi opera in maniera quasi chirurgica riportando a Marx ciò che è di Marx ed effettuando una lettura contrastiva tra le categorie effettivamente elaborate da Marx e quelle successivamente sviluppate, approfondite e divulgate dal marxismo. In queste pagine, Fineschi tocca temi che hanno avuto un peso assai rilevante nella storia del marxismo senza trarre conclusioni affrettate, ma mostrando bene la complessità teorica delle questioni dibattute.
Fineschi sottolinea come su molte di esse sia difficile trovare una risposta definitiva, anche perché Marx si è semplicemente limitato, per così dire, a lasciarci una «cassetta degli attrezzi», fra l’altro assemblata per uno scopo preciso: l’analisi del modo di produzione capitalistico. È cosa nota, infatti, che l’edificio teorico della critica dell’economia politica è rimasto qualcosa di sostanzialmente incompiuto (e ciò è vero non solo per i libri secondo e terzo, ma anche per il primo libro del Capitale). A ciò hanno contribuito, oltre che le vicende esistenziali (gli impegni politici, le difficoltà economiche, i problemi di salute), anche la forte sensibilità autocritica e la grande scrupolosità teorica di Marx. Comprendere a fondo i lineamenti e la maturazione della critica dell’economia politica di Marx, dunque, significa anche seguire il «filo conduttore» dei suoi studi, oltre che confrontarsi con un metodo di lavoro estremamente travagliato, sempre aperto al ripensamento e all’integrazione di nuovi spunti teorici. In questo senso, la nuova edizione storico-critica delle opere complete di Marx ed Engels (la seconda Marx-Engels-Gesamtausgabe, nota con l’acronimo di MEGA2, la cui pubblicazione, ancora in corso, è iniziata nel 1975), insieme a una serie di materiali precedentemente inediti, ha messo sul tavolo anche la necessità di una rinnovata interpretazione di Marx e della sua opera.
La MEGA2 rappresenta dunque uno strumento necessario per approntare nuove lenti analitiche in grado di indagare i lineamenti di fondo e il senso complessivo di quella che, a ragione, può essere considerata l’opera principale di Marx. E ciò è valido non soltanto per quel che riguarda gli studi di carattere storico-filologico (che rimangono un momento fondamentale), ma anche per quelle letture e interpretazioni che tornano a rivolgersi alla teoria marxiana per mostrarne l’attualità, il suo porsi all’altezza delle sfide teorico-pratiche del nostro presente. Ecco, Fineschi ha lavorato in questa direzione da molto tempo. Gli esiti delle sue ricerche sono raccolti in volumi come Ripartire da Marx (La città del sole, 2001), Marx e Hegel. Contributi a una rilettura (Carocci, 2006), Un nuovo Marx (Carocci, 2008), La logica del Capitale (Istituto Italiano degli Studi Filosofici, 2021), la sua nuova traduzione del primo libro del Capitale (La città del sole, 2011) a partire dall’edizione della MEGA2, più tutta una serie di pubblicazioni e articoli su volumi e riviste scientifiche. Certo, si tratta di pubblicazioni di natura spesso assai specialistica, ma che forniscono linee guida fondamentali per rinnovare il marxismo e impedire che Marx venga considerato alla stregua di un celebre «cane morto».
I risultati degli studi specialistici di Fineschi sono l’intelaiatura fondamentale di questo volume più divulgativo. Un libro che dunque riesce a tenere insieme piani diversi e a rivolgersi a un pubblico variegato (in particolare, a parere di chi scrive, questo profilo potrebbe rappresentare un ottimo strumento per chi si trova a spiegare Marx nelle nostre scuole superiori e che, magari, intenda farlo al di là del senso comune che si è stratificato su di lui). Oltre a essere un’ottima introduzione al pensiero di Marx, questo libro è anche una testimonianza di come la grande ricerca specialistica possa (e debba, magari) intrecciarsi con la divulgazione scientifica e la formazione della coscienza sociale, culturale e politica. E anche da questo punto di vista, verrebbe da dire che Fineschi ci dà (indirettamente) uno stimolo metodologico importante, su cui è urgente riflettere in tempi come i nostri. Talvolta tornare indietro ci permette di gettare uno sguardo più lucido in avanti. Si tratta di affinare le nostre lenti analitiche e di sincronizzare il respiro del pensiero. La teoria del Capitale di Marx richiede un serio sforzo di traduzione per i molti, perché non rimanga appannaggio di pochi.
Sebastiano Taccola*
* Sebastiano Taccola ha studiato filosofia presso l’Università di Pisa e la Scuola Normale Superiore di Pisa ed è docente di filosofia e storia nei Licei.
(Tratto da: Sebastiano Taccola, Il Capitale, per molti e non per pochi, in «Jacobin Italia», 21 gennaio 2022, https://jacobinitalia.it/il-capitale-per-molti-e-non-per-pochi/).
Inserito il 25/05/2024.
di Roberto Fineschi
Osservazioni in calce a dibattiti recenti su eurocentrismo, “occidente globale“, “giardini e giungle” (riprendendo alcuni passaggi da un articolo su «Orientamenti politici» e «Materialismo storico»).
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Eurocentrismo? Anticapitalismo?
di Roberto Fineschi
1. Nel gran parlare che si fa sul cosiddetto eurocentrismo regna a mio parere una discreta confusione nelle definizioni. In particolare quando, poi, si riferisce la questione a Marx.
Se con tale termine si intende considerare la storia del mondo universo in funzione delle prospettive ed esigenze europee, va da sé che si tratta di un pregiudizio da estirpare. Se però si entra più nel dettaglio, la questione diventa molto più scivolosa e in certi casi decisamente reazionaria.
La storia del mondo è diventata eurocentrica con lo sviluppo del modo di produzione capitalistico, nel senso che esso ha imposto dominio, regole, forme di sviluppo a una dinamica che prima aveva più elementi indipendenti non uniti a sistema se non per contatti marginali, mentre il capitalismo è diventata la variabile dominante che ha funzionalizzato a sé l’intero mondo. In questo senso eurocentrismo non è un mero pregiudizio intellettuale, è un processo reale di dominio e sfruttamento legato al modo di produzione capitalistico.
Tuttavia, il modo di produzione capitalistico è stato sin dall’inizio un processo contraddittorio che ha prodotto allo stesso tempo contenuti potenzialmente positivi pervertiti in forma reazionaria per la sua stessa interna dialettica. Quindi, insieme allo sfruttamento, produce anche la libertà potenziale che include produttività del lavoro, sapere razionale e scientifico, dignità universale dell’essere umano, ecc. Essere contro questi aspetti non è semplicemente insensato, è reazionario.
Ora, nel generico anti-eurocentrismo (e lo stesso nel generico anti-capitalismo) questo fondamentale distinguo tra contenuto materiale e forma sociale spesso non viene fatto e quindi si finisce per voler gettare il bambino con l’acqua sporca, ovvero non solo gli aspetti perversi della forma capitalistica, ma anche le potenzialità emancipative che il suo contenuto rende possibili. Si ricade, in breve, nel rozzo anticapitalismo romantico che pervade tante posizioni anche a sinistra in cui si invoca o il primitivismo, o un “altro” che non abbia niente a che fare con il capitalismo tout court (come se mai potesse esistere).
Lo stesso genericismo si applica a diversi discorsi su Marx che non sarebbe eurocentrico. Dipende da che cosa si intende. Se si intende per es. che la cultura nata con l’illuminismo e fiorita con l’idealismo tedesco, ecc. è superiore alle altre culture esistite al momento nella geografia e nella storia umana (c’è quindi una scala di merito e di giudizio), non c’è alcun dubbio sull’eurocentrismo di Marx (in quanto favorevole a emancipazione e progresso). Se si intende che il mondo debba essere piegato alla valorizzazione del capitale occidentale, certo Marx non era eurocentrico. Se non si specifica che cosa si intende si fa un gran pasticcio sia con Marx che con la realtà.
2. Questo è fondamentale nella prassi politica e nella sua interpretazione. Per es. valorizzare l’universalismo occidentale e le istituzioni rappresentative – che includono per es. la parità di diritti uomo-donna, le elezioni e le libertà borghesi in genere – in maniera strumentale per imporre in realtà il capitalismo, o meglio ancora il controllo imperiale, è evidentemente un uso ideologico del progressismo illuminista che, ovviamente, non ha niente a che vedere con l’effettiva generalizzazione di quei diritti, ma viene semplicemente usato come scusa per imporre in maniera violenta la dipendenza da quel sistema economico che in occidente quei diritti ha prodotto; oppure il razzismo a livello locale facendo leva sulla “inciviltà” dei migranti.
Qui però bisogna stare molto attenti a non far scattare il cortocircuito per cui non ci si oppone all’uso strumentale di quei valori, ma ai valori stessi. Ci si trova quindi a difendere comportamenti sociali tradizionalisti, in certi casi barbarici, che mai sarebbero tollerati qui in Europa se praticati da europei, in quanto immediatamente identificati con le forze più reazionarie; essi sarebbero tuttavia da accettare se compiuti da non europei perché considerati propri di altre culture. Guardando al concreto senza farsi abbagliare dalle fraseologie astratte, purtroppo i begli ideali della “tolleranza”, una volta che si arriva a confrontarsi su scelte precise, non possono che lasciare il posto a decisioni autoescludentesi, come per es. essere favorevoli o meno ai pari diritti fra uomini e donne. Come si è lottato in passato per la fine del patriarcato maschilista di matrice cattolica e si è considerato un successo il suo (parziale ahimè) superamento, non si capisce perché si dovrebbe accettare ad es. quello di matrice islamica o di qualunque altra matrice. L’eguaglianza di diritti tra uomo e donne è un principio che nasce contraddittoriamente in seno al capitalismo con l’illuminismo, come la dignità universale dell’essere umano. Vogliamo essere contro? Nazisti e fascisti ci hanno già provato, ma non so se sono prospettive auspicabili.
Insomma, questo tipo di multiculturalismo astratto rischia di diventare il cavallo di Troia di un regresso culturale che si accetta perché, di nuovo, lo si ritiene anticapitalista in quanto contrario all’«occidente imperialista»; si mescola nello stesso calderone – e quindi si fraintende – la giusta lotta contro lo sfruttamento capitalistico e quella assurda contro la cultura progressista che lo stesso capitalismo, contraddittoriamente, ha prodotto. Esso finisce per fare il paio con l’identitarismo locale che, di fronte alle tradizioni altrui, difende spada alla mano le proprie. Questo comune atteggiamento anti-universalista porta acqua al fascismo.
3. Quello menzionato è uno dei tanti temi propri del multiculturalismo astratto, del relativismo assoluto di valori e via dicendo; questo atteggiamento, presentandosi apparentemente come progressista, o “di sinistra”, diventa in realtà un’ideologia reazionaria tutte le volte che *esclude a priori* la possibilità di cambiare tradizioni e orientamenti una volta che si portino buone e ragionevoli argomentazioni per farlo. Se, insomma, il multiculturalismo, che di per sé è ovviamente una cosa positiva, diventa la scusa per non cambiare in virtù della semplice appartenenza a una certa tradizione di un certo comportamento, perché “intrinsecamente” legato a un certo contesto culturale e storico, si cade nell’identitarismo a prescindere, che è di nuovo l’anticamera del fascismo.
Le varie “identità” infatti, se si ritengono legittimate a pretendere di non cambiare in virtù di se stesse, non possono dialogare per trovare alcuna sintesi e il prevalere dell’una o dell’altra viene delegato, in ultima istanza, alla forza. In antitesi a ciò, contro il “relativismo etico” si genera consenso alla promozione della “nostra” tradizione che non avrebbe altra legittimità se non quella di essere storicamente vincente da questa parte del mondo. Il tentativo di far prevalere questa tradizione contro l’“attacco straniero” ovviamente è legittimato meramente in virtù della sua esistenza qui per molto tempo, non su argomentazioni razionali o convincimenti dimostrativi. È insomma l’imposizione di una di queste posizioni tradizionali in forza della sua, per adesso, posizione di dominio. Va da sé che il contenuto di questa tradizione “nostrana” rifiuta, guarda caso, l’universalismo razionalista e si rivolge in realtà a una “nostra” tradizione che è quella pre-borghese, vale a dire indirizzata contro gli aspetti sovrastrutturali progressisti del modo di produzione capitalistico, ma non contro il capitalismo stesso. È, di nuovo, il retroterra del fascismo.
4. Per concludere, metafore di lotta come “occidente globale”, oppure il “giardino”, ecc. rischiano di prestare involontariamente il fianco proprio a questo sbagliatissimo modo di pensare. Spostando la contraddizione su di una dinamica interno/esterno c’è il rischio da una parte che si occulti il carattere della contraddizione anche all’interno dell’occidente e del giardino stessi; dall’altra, di conseguenza, di considerare questo “occidente” e questo “giardino” come un monolite coeso e individuarlo come il soggetto contro cui si deve lottare, mentre all’interno di esso ci sono non solo le suddette contraddizioni ma anche potenzialità trasformative positive cui non ha senso rinunciare. Insomma, c’è il rischio di farsi egemonizzare inconsapevolmente dall’ideologia del capitale.
Il soggetto della devastazione mondiale non è l’occidente né il giardino, ma la dinamica di riproduzione in forma capitalistica; l’obiettivo è la trasformazione di quel sistema di riproduzione sociale e l’avversario di classe è chi gestisce quel processo e chi si oppone al suo cambiamento.
24 maggio 2024
Roberto Fineschi
PS. Il giardino e la giungla è il titolo degli atti del Forum della Rete dei comunisti. Proprio il volume, al quale io stesso ho partecipato, mostra in maniera chiara come la metafora non regga e come le contraddizioni siano fortissime all'interno del giardino stesso.
Pure gli amici di OttolinaTv, che utilizzano spesso l'espressione “Occidente globale”, secondo me mostrano ogni giorno con chiarezza che questo Occidente in realtà ha drammatiche contraddizioni al suo interno.
Dal mio punto di vista, proprio perché in entrambi i casi la sostanza è ottima, varrebbe la pena trovare uno slogan meno ambiguo. Perché tante volte lo slogan ha più efficacia della sostanza.
(Tratto dalla pagina Facebook di Roberto Fineschi).
Inserito il 25/05/2024.
Dal blog «socialismo del secolo XXI»
di Carlo Formenti
È uscito di recente in Italia L’ecosocialismo di Karl Marx (Castelvecchi Editore, 2023), del filosofo giapponese Kohei Saito. Lo studioso Carlo Formenti, autore di numerosi saggi su Marx, ce ne parla in questo articolo contestando in parte la tesi sostenuta da Saito secondo cui Karl Marx, nell’ultima parte della sua vita, sarebbe arrivato a considerare l’antagonismo fra capitalismo e ambiente come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico.
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Il Marx “verde” di Kohei Saito
di Carlo Formenti
Mi sono già occupato delle tesi del marxista giapponese Kohei Saito nella prima puntata dell’articolo La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione, uscito il 18 gennaio scorso su questo blog (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html). In quell’occasione avevo discusso un suo libro dal titolo Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022). Poco dopo, l’editore Fazi ha dato alle stampe l’edizione italiana di un testo precedente, L’ecosocialismo di Karl Marx (Karl Marx’s Ecosocialism), un saggio che ha avuto uno strepitoso successo in Giappone (mezzo milione di copie!) e che, grazie alle sue tesi provocatorie, presumo ne avrà altrettanto a livello mondiale. Ho quindi ritenuto opportuno dedicargli questo secondo intervento nel quale, da un lato, ribadisco le perplessità formulate nel primo, dall’altro tento di approfondire alcuni dei temi affrontati da Saito che mi sono parsi tutt’altro che privi di interesse.
Saito mette le mani avanti, riconoscendo che, se ci si limita a considerare la produzione marxiana “canonica”, sembrano più che fondate le critiche rivoltagli sia dagli ecologisti che da coloro che lo accusano di eurocentrismo1: il filosofo di Treviri, il che vale a maggior ragione per Engels, aveva ancora, infatti, una visione unilateralmente ottimistica della funzione storica del capitalismo, al quale riconosceva il merito di avere accelerato, non solo il progresso economico, ma anche quello civile dell’umanità, contribuendo a emanciparla dai vincoli sociali e ideologici che impastoiavano il mondo precapitalista.
Dalla lettura di opere come il Manifesto emerge un Marx “produttivista”, entusiasta dello sviluppo delle forze produttive innescato dalla crescita dell’economia capitalistica, persino disposto a perdonare i crimini del colonialismo nella misura in “risvegliavano” dal sonno millenario le statiche civiltà orientali. Un punto di vista sostanzialmente condiviso dal successivo movimento marxista.
Saito ha l’indubbio merito di avere messo in discussione questa lettura, dimostrando come nelle opere della maturità (soprattutto a partire dalla seconda metà degli anni 60 dell’Ottocento) la visione di Marx si sia progressivamente allontanata da questa concezione unilateralmente ottimistica del potenziale emancipatorio del capitalismo. Posto che il filosofo giapponese non è l’unico ad avere messo in luce come nel lavoro teorico di Marx si intreccino diversi “regimi narrativi”2, l’originalità (ma al tempo stesso l’azzardo) della sua tesi consiste nel rintracciare in un uno di questi regimi narrativi una vera e propria svolta, in ragione della quale Marx sarebbe arrivato a considerare le “crisi ecologiche” come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Il rischio di anacronismo è chiaro, non solo e non tanto perché il paradigma ecologico era a quei tempi di là da venire, ma anche perché i riferimenti in tal senso che possono essere rintracciati nel Capitale3 non sembrano svolgere un ruolo fondamentale nell’economia complessiva dell’opera maggiore. Eppure Saito nega che Marx abbia trattato il tema ecologico solo in modo sporadico e marginale. Vediamo su quali basi documentali.
La fonte primaria del suo ragionamento sono i quaderni di estratti, citazioni, commenti di lettura accumulati da Marx nel corso della sua esistenza. Non solo i già noti Quaderni di Parigi e Quaderni di Londra, ma l’enorme mole di inediti venuta via via alla luce con la pubblicazione (tuttora incompiuta) dei MEGA, un terzo dei quali sono stati redatti negli ultimi 15 anni di vita dell’autore. Questi estratti, sostiene Saito, non sono meno importanti dei testi “canonici”, in quanto documentano una serie di aspetti che nelle opere principali vengono accennati ma non approfonditi. Questa tesi poggia in particolare sul fatto che il secondo e il terzo volume del Capitale sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi, dopo che Engels ne aveva rivisto e assemblato le stesure provvisorie. Secondo Saito, il “ritardo” accumulato da Marx nella stesura definitiva dell’opera fondamentale, va messo in relazione con i ripensamenti maturati negli ultimi anni di vita, ripensamenti che si rispecchiano negli appunti dei quaderni, i quali ci aiutano a comprendere cosa avrebbe scritto Marx se fosse riuscito a portare a termine la versione definitiva del Capitale. È evidente che questo approccio sottende l’esistenza di una divaricazione fra l’intenzione originaria di Marx e l’interpretazione che ne diede Engels redigendo la versione “ufficiale” dell’opera. Tuttavia non è questo il tema che qui mi interessa per cui, prima di entrare nel merito degli aspetti del lavoro di Saito che ritengo più interessanti, preferisco richiamare l’attenzione su due punti: il primo è la sua rilettura dei Quaderni economico-filosofici, in quanto è un buon esempio dell’approccio che il nostro adotta laddove tenta di “mixare” un testo “ufficiale” con gli appunti coevi dei quaderni; il secondo riguarda le fonti scientifiche che avrebbero suo avviso influenzato la svolta “ecologista” dell’ultimo Marx.
I Manoscritti economico-filosofici, secondo Saito, non andrebbero letti come un’opera indipendente bensì come una parte degli appunti di studio di Marx raccolti nei Quaderni di Parigi. Questo approccio consente a suo avviso di superare la sterile contrapposizione fra marxisti “umanisti” e marxisti ”scientisti”. Com’è noto, i primi rivalutano il pensiero del “giovane Marx”, impegnato nella critica della sinistra hegeliana, per affermare la centralità del concetto di lavoro alienato4 in polemica con le interpretazioni materialistico-meccaniche del suo pensiero; i secondi (vedi, fra gli altri, Althusser) sostengono al contrario che, dopo L’ideologia tedesca, Marx avrebbe completamente abbandonato lo schema antropologico-hegeliano del 1844 per orientarsi verso una problematica “scientifica” (cioè verso la critica dell’economia politica, senza più indulgere a civetterie con la dialettica hegeliana). Ma in questo modo, argomenta Saito, i primi sottovalutano i successivi sviluppi del pensiero economico di Marx, mentre i secondi ignorano che è proprio la critica marxiana alla filosofia giovane-hegeliana che consente di cogliere il vero punto di partenza della sua critica dell’economia politica. Per superare il dualismo fra analisi sociologica e analisi filosofica, scrive Saito, occorre capire che, fin dall’inizio, Marx ha studiato l’economia politica analizzando le forme sociali delle categorie economiche e, nel contempo, ha studiato la filosofia e le scienze naturali per acquisire la base scientifica necessaria ad analizzare le qualità materiali della realtà. In tal senso non esiste dunque una sostanziale cesura fra il “giovane” Marx e il Marx “maturo”, e i quaderni (sia quelli giovanili che quelli dell’ultimo quindicennio di vita) vanno riletti in stretta connessione con la formazione della sua critica dell’economia politica e non come un grandioso progetto materialista di spiegazione dell’universo (il riferimento critico alla engelsiana dialettica della natura è qui implicito).
I quaderni dell’ultimo Marx, si riferiscono alle opere di studiosi come il chimico Justus von Liebig, l’economista Henry Carey e il fisico Carl Fraas, tutti impegnati, ancorché a partire da punti di vista diversi e a volte divergenti, a denunciare il rischio dell’esaurimento dei suoli provocato dall’agricoltura di rapina praticata da proprietari terrieri e imprenditori agricoli esclusivamente preoccupati di ottenere il massimo profitto nel più breve tempo possibile. Non ho qui lo spazio, né lo ritengo indispensabile, per descrivere nei dettagli le loro teorie. Basti ricordare che, per Liebig, la questione di fondo era la mancata reintegrazione delle sostanze nutritive dovuta al supersfruttamento dei suoli, laddove Fraas attribuiva maggior peso all’influenza del clima, in particolare alle mutazioni climatiche indotte dalla deforestazione selvaggia, ma giungeva alle stesse conclusioni. Ad attirare l’attenzione di Marx, sostiene Saito, fu soprattutto la settima edizione (1862) della “Chimica organica applicata all’agricoltura e alla fisiologia” di Justus von Liebig. Le tesi del chimico tedesco lo indussero infatti a riconsiderare la tesi (condivisa da Engels) secondo cui la fertilità del suolo può essere accresciuta all’infinito con il concorso del capitale, del lavoro e della scienza. Ma Saito insiste soprattutto sul fatto che l’interesse di Marx per questo lavoro, come per quelli di Carey e Fraas, non era meramente scientifico-naturalistico bensì di tipo squisitamente economico. Marx, ragionando sulle teorie di Ricardo sulla rendita fondiaria, ne condivideva l’analisi del meccanismo di tale categoria economica, ma ne rigettava la tesi sulla legge dei rendimenti decrescenti, nella misura in cui essa, da un lato avrebbe legittimato la teoria di Malthus, dall’altro avrebbe indotto ad ammettere che anche una futura società socialista sarebbe stata inevitabilmente minacciata dal problema dell’insufficienza dei mezzi di produzione.
Viceversa le opere dei tre autori appena citati consentivano, secondo Marx, di indagare le cause dei rendimenti decrescenti non come manifestazione “assoluta” (trans storica) dei limiti naturali all’aumento della produttività, bensì come causa specificamente moderna (capitalistica) del fenomeno. Le loro opere, che Marx definiva “inconsapevolmente socialiste”, mettevano infatti in luce che il miglioramento del suolo operato dal capitalismo non mira a una produzione sostenibile nel lungo periodo ma all’utile monetario immediato, per cui investe capitale e lavoro solo nelle terre più redditizie, che finiscono così per esaurirsi, mentre le altre vengono lasciate incolte. Inoltre Liebig puntava il dito contro lo squilibrio fra città e campagna generato dall’industrialismo moderno (squilibrio che interrompe il ciclo delle sostanze nutritive, nella misura in cui gli scarti organici della città non tornano alla terra sotto forma di concime ma vanno dispersi nell’ambiente). Senza contare che questo antagonismo fra centri e periferie si manifesta su scala mondiale sotto forma di rapina delle risorse naturali e della forza lavoro dei paesi periferici.
In poche parole, Marx usa le analisi scientifiche di autori come Liebig, Carey e Fraas, per dimostrare che un’economia di mercato è incapace di realizzare una gestione razionale della terra come condizione di esistenza e riproduzione delle generazioni umane che si susseguono, e per affermare la necessità di un’agricoltura non mediata dal valore. Basta tutto ciò per avvalorare la tesi di Saito sulla presunta svolta “ecologista” (pur mettendo fra parentesi l’anacronismo associato all’uso di tale termine) dell’ultimo Marx, svolta che non sarebbe stata incorporata negli ultimi due volumi del Capitale solo perché la morte gli avrebbe impedito di portarli a compimento? Gli ecologisti obietterebbero che Saito non riesce a dimostrare che Marx abbia preso seriamente in considerazione la questione della scarsità delle risorse naturali, dal momento che pensa che il problema esista solo nel capitalismo mentre verrà superato nel socialismo attraverso il ibero sviluppo della produttività. Per capire se, come e in che misura, Saito riesca a fronteggiare tale obiezione, nella seconda parte dell’articolo discuterò il modo in cui egli affronta due temi: la questione del processo lavorativo come ricambio organico uomo-natura, e la visione marxiana del rapporto uomo-natura nella società socialista.
* * * *
Saito parte dal presupposto che, per cogliere il contributo di Marx alla problematica ecologica, occorra partire dal rapporto fra quest’ultima e la categoria marxiana di reificazione, il che implica spostare l’attenzione della critica dell’economia politica dalle forme sociali ed economiche alle dimensioni materiali del mondo. Il concetto di materiale (stoff), argomenta, è una categoria centrale del progetto critico di Marx, tanto è vero che nel Capitale e altrove si ribadisce a più riprese 1) che la produzione umana non può ignorare la proprietà e le forze naturali; 2) che il lavoro non può creare sostanze naturali ma può solo modificarne la forma, il che implica; 3) che le forme economiche non possono esistere senza la base materiale. Le teorie postmoderniste che si concentrano su categorie quali “lavoratori della conoscenza”, “lavoro immateriale” ecc.5, e che descrivono la società tardo capitalista come un mondo economico, sociale e culturale disincarnato, integralmente riconducibile alle leggi dell’informazione, del linguaggio, della semiotica, non colgono il fatto che gli esseri umani non possono trascendere la natura, con la quale realizzano da sempre, e continueranno a realizzare finché esisteranno come specie, una unità mediata dal lavoro.
Tutto ciò emerge chiaramente nelle parti del Primo libro del Capitale in cui Marx analizza il lavoro in generale, cioè l’aspetto trans storico e universale della produzione umana. La specificità del lavoro umano è il suo carattere teleologico di attività che persegue un fine consapevole (vedi la nota metafora dell’ape e dell’architetto, con la quale Marx illustra la differenza fra l’attività umana e quelle di tutte le altre specie animali). Tale specificità, su cui l’ultimo Lukács ha costruito una parte significativa delle sue riflessioni6, non basta però a liquidare il sottostante carattere del lavoro come ricambio organico fra uomo natura. Marx, scrive Saito, analizza il processo lavorativo come ricambio con la natura, ossia come interazione metabolica materiale di tre momenti della produzione che hanno luogo all’interno della natura: materie prime, mezzi di produzione e attività lavorativa, il che dimostra, aggiunge, come egli conoscesse e utilizzasse il concetto di metabolismo ancor prima di avere letto i lavori di Liebig (prima cioè del 1851).
Tuttavia i marxisti ortodossi tendono a sorvolare su queste categorie, considerando le parti del Capitale che se ne occupano come una sorta di inciso storico-antropologico, sostanzialmente marginale rispetto all’analisi marxiana della produzione capitalistica. Viceversa Saito sostiene che si tratta di concetti che non permettono solo di comprendere le condizioni naturali universali (trans storiche) della produzione umana, ma anche di indagare le loro radicali trasformazioni storiche in seguito allo sviluppo del modo di produzione moderno e della crescita delle forze produttive.
È qui che nel ragionamento di Saito entrano in gioco i concetti marxiani di alienazione e reificazione. Nelle relazioni sociali precapitalistiche esiste una unità naturale del lavoro con i suoi presupposti materiali, mentre il processo di interscambio materiale uomo-natura assume una forma del tutto diversa non appena esso può avvenire solo sulla base della radicale scissione insita nel rapporto lavoro salariato-capitale. In precedenza, i lavori concreti divenivano immediatamente sociali malgrado la varietà dei rispettivi contenuti, nella misura in cui la loro allocazione era organizzata prima di svolgere il lavoro concreto, al contrario nelle società di mercato la distribuzione avviene a posteriori, dopo l’esecuzione del lavoro, così gli oggetti d’uso diventano merci in quanto si tratta di prodotti di lavori privati, eseguiti indipendentemente l’uno dall’altro, senza alcun accordo sociale, e il loro interscambio dev’essere mediato dal mercato, cioè dal valore di scambio. È a questo punto che si produce quel capovolgimento per cui i rapporti sociali fra lavori privati appaiono come rapporti fra cose, ma questa, scrive Saito, non è una “illusione”7 che nasconde l’essenza delle relazioni umane fondamentali, bensì un fenomeno oggettivo dal momento che i produttori non possono relazionarsi fra loro se non attraverso la mediazione del mercato. Detto altrimenti: il lavoro come ricambio organico uomo-natura è un’attività trans storica, masi trasforma quando riceve una specifica funzione capitalistica come processo di valorizzazione.
Ciò significa che il metabolismo uomo-natura regredisce a fenomeno secondario eclissato dalle “leggi” dell’economia capitalistica? No, risponde Saito, perché la sostanza presupposta (stoff), ancorché modificata dalle forme economiche, conserva una propria indipendenza nella realtà, l’indifferenza della determinazione economica formale non è del tutto svincolata dalle caratteristiche materiali dei suoi depositari, e le proprietà naturali materiali non possono essere integralmente sussunte sotto il capitale. E’ da questa irriducibilità della materia alla potenza manipolatoria del capitale che scaturisce la contraddizione antagonistica fra modo di produzione capitalistico e ambiente naturale, perché gli effetti distruttivi delle modifiche all’ambiente che la società capitalistica apporta a quest’ultimo, in modo consapevole e inconsapevole, non possono essere controllate. Ma soprattutto – e qui Saito si differenzia dalle posizioni dell’ecologismo ingenuo – è inutile sperare che una ipotetica “vendetta della natura” induca il capitalismo ad autoregolare i propri comportamenti. Infatti il capitale, spinto dal suo insopprimibile impulso all’accumulazione illimitata, può continuare a trarre profitto dallo sfruttamento delle ricchezze naturali a tempo indeterminato, rendendo gran parte della Terra un luogo inospitale per l’umanità, e ciò almeno finché non si verifichino condizioni tali da configurare la possibilità di una estinzione della vita umana. In altre parole, la contraddizione si risolve solo con il superamento del modo di produzione capitalistico. Vediamo ora come Saito cerca di attribuire a Marx l’idea che quella abbiamo appena descritta fosse la contraddizione fondamentale del capitalismo, e come descrive il presunto contenuto “ecologista” della visione marxiana della futura società socialista.
Come abbiamo visto, per sostenere la propria tesi, Saito fa riferimento agli appunti inediti di Marx venuti alla luce con la pubblicazione dell’edizione MEGA, ai quali attribuisce il carattere di abbozzi per una revisione del testo definitivo del Capitale, testo che avrebbe sancito un ribaltamento radicale del suo giudizio positivo in merito al potenziale emancipativo del modo di produzione capitalistico. Tuttavia il filosofo giapponese segue anche un’altra linea interpretativa, che potremmo definire come una sorta di linea rossa che, a suo avviso, congiungerebbe i testi giovanili con alcune riflessioni dell’ultimo Marx sollecitate dal dibattito fra socialdemocratici e populisti russi8 in merito alla possibilità di una transizione diretta al socialismo delle comunità contadine russe (obscina).
In buona sostanza, Saito sostiene che Marx non avrebbe mai abbandonato la sua intuizione del 44 relativa all’esistenza di una unità originaria tra uomo e natura nelle società precapitalistiche. Analizzando le relazioni sociali feudali, scrive Saito per esempio, Marx mette in luce come esse si fondassero sul dominio personale e politico, che dipendeva a sua volta dalla tradizione e dai costumi, e dal quale non era esente una certa quota di contenuto affettivo. Viceversa i moderni braccianti sono liberi dal dominio politico diretto, sono soggetti giuridici liberi ed eguali, il che non implica tuttavia che essi godano di una vita migliore dei servi della gleba. Dal matrimonio d’amore con la terra, commenta Saito, si passa al matrimonio d’interesse e tanto la terra quanto l’uomo decadono allo status di valori commerciali9. Il dominio non sparisce ma al posto del dominio personale subentra un dominio impersonale e reificato. Tutta la produzione non è più diretta alla soddisfazione di bisogni personali concreti bensì alla valorizzazione del capitale, per cui si potrebbe dire che l’alienazione moderna scaturisce dal totale annientamento del lato affettivo della produzione.
Al pari di molti marxisti “eretici” sudamericani10, Saito è convinto che certi interventi dell’ultimo Marx, come la Critica al programma di Gotha, la polemica con il traduttore russo del Capitale e la lettera alla Zasulic, oltre ai quaderni di appunti del suo ultimo decennio di vita, siano assai più vicini all’umanesimo delle opere giovanili che al Marx “produttivista” e ammiratore del progresso tecnologico, sociale e culturale associato allo sviluppo capitalistico delle forze produttive. Seguendo le tracce degli autori di scienze naturali citati in precedenza, e le loro argomentazioni in merito ai limiti naturali dell’aumento della produttività agricola, e sulla scorta di un intenso programma di ricerca antropologica basato sull’analisi delle società premoderne di autori come Morgan e altri, Marx avrebbe ripreso concetti risalenti alle sue ricerche giovanili, a partire dall’idea della necessità di ricostruire il rapporto morale dell’uomo con la terra, ancorché a un livello superiore rispetto a quello proprio delle società precapitalistiche, dopo la loro distruzione da parte del capitalismo. Del resto la presenza, nei suoi rari accenni alle caratteristiche della società post capitalista, di formule come “appropriazione dell’umana essenza da parte dell’uomo e per l’uomo” e come il permanere del regno della necessità, inteso come riconoscimento del fatto che la produzione di beni materiali è fondamentale in qualsiasi società, anche nel comunismo, dimostrerebbe, secondo Saito, il fatto che per Marx la società a venire non sarà altro che un’organizzazione e una regolazione collettiva e consapevole del rapporto fra uomo e natura.
Brevi note conclusive
A conclusione di quanto sin qui scritto, non posso che ribadire il giudizio che avevo espresso dopo la lettura di Marx in the Anthropocene: la pur imponente mole di indizi - non di prove: uso questa distinzione mutuata dalla terminologia giudiziaria per sottolineare che una tesi radicale come la sua avrebbe avuto bisogno di argomenti più inoppugnabili – esibiti da Saito non basta a sostanziare l’idea secondo cui Marx sarebbe arrivato, negli ultimi anni di vita, a considerare l’antagonismo fra capitalismo e ambiente come la contraddizione fondamentale del modo di produzione capitalistico. Intendiamoci: non è mia intenzione negare che nell’ultimo Marx si trovino elementi che contraddicono certe sue precedenti esternazioni nei confronti del ruolo progressivo del capitalismo (sviluppo delle forze produttive, emancipazione dai ristretti orizzonti civili e culturali delle società premoderne, ecc.), del resto ho sostenuto io stesso questa tesi in più occasioni (vedi i libri citati in nota 5) sulla scia di molti marxisti sudamericani (vedi nota 10). Ma ciò non giustifica l’ipotesi che la “questione ecologica” (sempre mettendo fra parentesi l’evidente anacronismo associato all’uso di questo termine) sarebbe divenuta per lui più importante di quella del conflitto capitale/lavoro. Il che non impedisce naturalmente di utilizzare le sue analisi relative ai danni devastanti arrecati agli esseri umani e alla natura dalla ricerca illimitata di profitto, interpretandole tuttavia più correttamente come intuizioni anticipatorie e non come atti fondativi della problematica ecologista.
Più complessa la questione relativa alla valorizzazione di certe caratteristiche delle società premoderne (assenza di proprietà privata, democrazia comunitaria, relazioni umane non alienate, ecc.) come “modello” (sia pure da replicare a un livello superiore) della futura società socialista. Anche qui non mancano a Saito alcune pezze di appoggio per sostenere la propria tesi, ma anche qui si espone al rischio di anacronismo, ma soprattutto al rischio di ignorare l’enorme mole di problemi accumulatisi in più di un secolo di tentativi concreti (non ideali!) di costruire una società socialista.
Personalmente condivido in toto la sua sensibilità nei confronti del tema del lavoro come dimensione trans-storica del ricambio organico uomo-natura, sensibilità che lo accomuna all’ultimo Lukács e gli consente di cogliere quello che è a mio avviso l’unico vero principio del materialismo radicale. Ciò detto, considero irrealistico immaginare che su tale principio si possa fondare l’ipotesi del socialismo come un “ritorno” a relazioni armoniche uomo-natura di tipo premoderno. L’armonia in questione, se e quando potrà essere raggiunta, sarà l’esito di un lungo percorso storico costellato di mediazioni e contraddizioni. Contraddizioni di cui l’esperienza cinese rappresenta un esempio significativo: per strappare centinaia di milioni di esseri umani alla miseria lo stato-partito cinese ha dovuto imboccare la via di una industrializzazione a tappe forzate che tutto era meno che ecologicamente sostenibile, tuttavia, dopo avere ottenuto risultati strabilianti sul fronte della crescita – inattingibili sia per una società ispirata al paradigma neoliberale sia per una società ispirata al paradigma della decrescita – il socialismo con caratteristiche cinesi sta ora rettificando il tiro e investe risorse ed energie sempre più ingenti per migliorare sia il benessere degli esseri umani che gli equilibri ambientali.
7 marzo 2024
Carlo Formenti
(Tratto da: Carlo Formenti, Il Marx “verde” di Kohei Saito, in https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/).
Note
1 Un autore che rimprovera a Marx, ma ancor più ad Engels, di avere una visione eurocentrica della storia è Hosea Jaffe (vedi, in particolare, Davanti al colonialismo, Jaka Book, Milano 1995 e Abbandonare l’imperialismo, Jaka Book, Milano 2008). Restando in campo marxista, si possono trovare accenti analoghi, anche se meno radicali, in alcune opere di Samir Amin. Personalmente mi sono occupato del tema in un post dedicato alla raccolta di scritti di Marx ed Engels India Cina Russia (il Saggiatore, Milano1960); vedi L’eurocentrismo ‘funzionale’ di Marx ed Engels https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2021/02/leurocentrismo-funzionale-di-marx-ed.html
2 Dobbiamo l’analisi più convincente e raffinata dell’esistenza di differenti regimi narrativi nell’opera di Marx a Costanzo Preve: cfr. La filosofia imperfetta. Una proposta di ricostruzione del marxismo contemporaneo, Franco Angeli, Milano 1984.
3 Saito esibisce numerose citazioni del Capitale a sostegno delle proprie tesi in Marx in the Anthropocene (Cambridge University Press, 2022), ne ho a mia volta rilanciate alcune nel post La cassetta degli attrezzi. Postille a Guerra e rivoluzione, uscito il 18 gennaio scorso su questo blog (https://socialismodelsecoloxxi.blogspot.com/2024/01/la-cassetta-degli-attrezzi-postille.html).
4 Nei testi giovanili, scrive Saito, Marx distingue quattro diversi tipi di alienazione: 1) il prodotto del lavoro si manifesta ai lavoratori come un oggetto estraneo con un potere indipendente dai produttori; 2) ciò avviene perché le attività dei produttori appartengono ad altri con conseguente perdita di sé (il lavoro si riduce a mero mezzo per la propria sussistenza); 3) da 1 e 2 deriva che il lavoro alienato aliena all’uomo il genere (nel senso cioè che nega la libera creatività umana che può produrre qualcosa di indipendente dai bisogni fisici); da 1, 2 e 3 deriva infine 4) dallo straniarsi dell’uomo dall’uomo emerge una antagonistica e atomistica competizione per la sopravvivenza. Evidentemente tutto ciò può essere superato solo superando la proprietà privata.
5 Cfr. A. Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003. La polemica contro la retorica dell’immateriale degli autori postmodernisti è stato uno dei leitmotiv di tutti i miei lavori recenti: cfr. in particolare, Felici e sfruttati, Egea, Milano 2011; Utopie letali, Jaka Book, Milano2013; Il socialismo è morto. Viva il socialismo, Meltemi, Milano 2019; Guerra e rivoluzione (2 voll.), Meltemi, Milano 2023.
6 Cito qui di seguito ampli stralci dal primo volume di Guerra e rivoluzione laddove discuto le riflessioni dell’ultimo Lukács (cfr. Ontologia dell’essere sociale - 4 voll. - Meltemi, Milano 2023) sulla categoria marxiana del lavoro: “Il contributo di Marx alla comprensione del fenomeno sociale, sostiene Lukács, può essere colto solo se si capisce che, per lui, il lavoro è la categoria centrale in cui tutte le altre determinazioni sono presenti in forma embrionale. Per Marx, il lavoro non è una delle tante forme fenomeniche dell’agire finalistico, ma è “l’unico punto in cui è ontologicamente dimostrabile la presenza di un vero porre teleologico come momento reale della realtà materiale”. È perciò che il lavoro è il modello di ogni prassi sociale, e solo tenendone conto si giustifica la definizione del marxismo come “filosofia della prassi”. Ragionando sui Manoscritti economico-filosofici, Lukács scrive che “in essi per la prima volta nella storia della filosofia le categorie dell’economia compaiono come quelle della produzione e riproduzione della vita umana e rendono così possibile una descrizione ontologica dell’essere sociale su base materialistica”, e subito dopo aggiunge: “ma la economia come centro dell’ontologia marxiana non significa affatto che la sua immagine del mondo sia fondata sull’‘economismo’”. Il lavoro, tuttavia, non può essere considerato isolatamente, perché, se è vero che la socialità, la prima divisione del lavoro, il linguaggio, ecc. sorgono dal lavoro, è altrettanto vero che tutte le categorie in questione non nascono “in una successione temporale che sia ben determinabile, ma invece, quanto alla loro essenza, simultaneamente”. Questo passaggio rispecchia l’impegno di Lukács nel separare il materialismo dialettico da quello meccanicistico. Infatti, se si assume che nel lavoro “la coscienza diviene qualcosa di diverso del semplice adattarsi animale all’ambiente, diviene cioè un’entità in grado di compiere trasformazioni nella natura che altrimenti, sarebbero impossibili, anzi inimmaginabili”, occorre parimenti ammettere che la coscienza non può essere considerata un epifenomeno. (...)
Per Lukács, mentre ogni avanzamento del processo di autonomizzazione della coscienza influisce profondamente sulle immagini che gli esseri umani si fanno di sé stessi, al tempo stesso non ne elimina mai la sovradeterminazione da parte del lavoro in quanto ricambio organico fra uomo e natura (…). Porre la centralità del lavoro come ricambio organico uomo-natura a fondamento di ogni visione materialistica dell’essere sociale, è una scelta che comporta conseguenze impegnative sul piano filosofico, politico e ideologico. In primo luogo, implica riconoscere la eccezionalità della società capitalistica rispetto a tutte le forme sociali che l’hanno preceduta, in quanto essa è l’unica che occulta il fondamento concreto-ontico del lavoro per poterlo ridurre, da un lato, a merce forza-lavoro, dall’altro lato, a fonte del valore di scambio. Ciò viene rimosso da quelle interpretazioni del pensiero marxiano che mirano a svalorizzarne gli elementi “metafisici”, contrapponendovi la “scientificità” delle categorie della critica dell’economia politica,sviluppate dal Marx “maturo”.
Come si vede, e come apparirà ancora più chiaro nel proseguo dell’articolo, l’approccio di Saito è chiaramente debitore del contributo filosofico di Lukács.
7 Qui Saito si allinea a Gramsci e Lukács nella misura in cui rifiuta la concezione dell’ideologia come “falsa coscienza”. L’incapacità di riconoscere la realtà materiale dei rapporti sociali dietro le “fantasmagorie” della merce non è frutto di “illusione”, ma è un fattore costituivo, materiale dell’egemonia delle classi dominanti.
8 In merito a tale dibattito vedi quanto ho scritto nel post citato alla nota 1. Vedi anche P. Poggio, L’Obscina. Comune contadina e rivoluzione in Russia, Jaka Book, Milano 1976.
9 Qui è riconoscibile il debito di Saito nei confronti di Karl Polanyi (La grande Trasformazione, Einaudi, Torino 1974), autore che Saito evoca più volte anche nel libro citato in nota 3.
10 Basti pensare ad autori come J.C. Mariategui, Sette saggi sulla realtà peruviana e altri scritti politici, Einaudi, Torino 1972; E. Dussel, L’ultimo Marx, Manifestolibri, Roma 2009; A.G. Linera, Forma valor y forma comunidad, Traficantes de Suenos, Quito 2015.
Inserito il 12/03/2024.
Dalla rivista «Sinistra Sindacale»
di Francesco Barbetta
Nell’approccio marxiano, l’esercito industriale di riserva e il tasso di accumulazione del capitale sono ciò che determina il salario.
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La determinazione del salario in Marx
Il più grande contributo di Marx alla teoria dell’occupazione e dei salari è stato quello di collegare la determinazione dei salari al processo di accumulazione del capitale. Anche se nei suoi lavori iniziali ammette che il prezzo del lavoro è determinato come qualunque altra merce, cioè dalla concorrenza tra compratori e venditori, nel suo saggio Salario, prezzo e profitto (1865) abbiamo una visione completa di come il salario si comporta durante tutto il processo di accumulazione capitalistica.
In termini concettuali, il salario è costituito dal tempo di lavoro necessario per mantenere e riprodurre la forza lavoro. Come altre merci in un’economia capitalista, la remunerazione della forza lavoro è determinata dalla quantità di lavoro socialmente necessario per produrla.
In realtà ci sono due componenti per determinare il prezzo del lavoro. La prima, di carattere fisico, stabilisce il livello minimo per la produzione e riproduzione della forza lavoro. La seconda, di carattere storico, dipende dal tenore di vita di ciascun Paese in un dato periodo di tempo. Questo approccio è vicino alla classica definizione di Ricardo di “prezzo naturale”.
Un altro aspetto di somiglianza tra Marx e i classici è la fissazione di limiti entro i quali il salario può variare a lungo termine, al fine di mantenere l’accumulazione di capitale. Tuttavia, la sostanza del modo in cui vengono raggiunti questi limiti salariali è completamente diversa. Mentre per i classici la piena occupazione e la teoria della popolazione sono elementi decisivi, nell’approccio marxista l’esercito industriale di riserva e il tasso di accumulazione del capitale sono ciò che determina il salario.
In sintesi, i movimenti tra questi limiti si verificano come segue. Nei periodi di espansione, quando la produzione e l’accumulazione di capitale crescono, la domanda di lavoro cresce più velocemente dell’offerta, quindi i salari tendono ad aumentare. Nei periodi di recessione, l’accumulazione di capitale si riduce, l’esercito industriale di riserva cresce, creando ostacoli alla lotta sindacale e provocando un calo dei livelli salariali. Il rispetto del limite inferiore (almeno per un lungo periodo di tempo) è garantito dal livello di sussistenza richiesto per mantenere la riproduzione della popolazione. Il superamento del limite superiore non avviene, poiché ciò comporterebbe un calo dei profitti e degli investimenti, portando l’economia alla stagnazione.
Marx sostiene che, attraverso l’accumulazione capitalista, le innovazioni tecniche nel processo di produzione tendono a sostituire il lavoro vivo con lavoro morto (o ad aumentare la composizione organica del capitale). Pertanto, man mano che gli uomini vengono sostituiti dalle macchine, riducendo la dipendenza dell’accumulazione dalla forza lavoro, l’esercito industriale di riserva cresce. Quindi, ci sono forze inerenti allo stesso processo di accumulazione del capitale che perpetuano l’esercito industriale di riserva, garantendo la scarsità di lavoro e mantenendo i salari entro livelli compatibili con la continuità dell’accumulazione.
Stabiliti i limiti entro i quali può variare il salario, possiamo esaminare come fluttua il livello di occupazione in relazione alle variazioni del salario. Gran parte di quella che potremmo chiamare la teoria dell’occupazione e dei salari di Marx deriva dal suo discorso all’Associazione internazionale dei lavoratori riguardo alle idee del “cittadino Weston”. Queste idee erano che i sindacati non avevano il potere di influenzare in modo decisivo i livelli dei salari reali, poiché i capitalisti potevano aumentare i prezzi in proporzione maggiore rispetto all’aumento dei salari nominali.
Marx si oppose a questa proposta. Se i capitalisti potessero effettivamente aumentare i prezzi, il limite ai salari dipenderebbe dalla semplice volontà del capitalista e le fluttuazioni dei prezzi di mercato rimarrebbero un enigma indecifrabile. Al contrario, Marx sostiene che la capacità di trasferire le variazioni dei salari ai prezzi dipende da determinate circostanze, legate alla domanda e all’offerta di mercato e al potere di mercato capitalista.
Senza il potere dei prezzi arbitrari, Marx dimostra quali sarebbero gli effetti di una variazione positiva del livello salariale. Poiché i lavoratori spendono il proprio reddito in beni essenziali, un aumento dei salari si traduce in un aumento complessivo della domanda di tali beni. Di conseguenza, secondo Marx, i prezzi di questi prodotti essenziali tenderebbero a salire, compensando i capitalisti che li producono dall’aumento dei salari. D’altro canto, le industrie che non producono beni essenziali non potrebbero beneficiare di un aumento dei prezzi, poiché il prezzo di questi prodotti non aumenta. Pertanto, l’aumento dei salari riduce i profitti di questi capitalisti, costringendoli a spendere una quota maggiore del loro reddito per consumare la stessa quantità di beni di prima necessità.
Un altro effetto negativo si avrebbe sulla domanda di beni non essenziali. Poiché il reddito dei capitalisti che producono beni di lusso si riduce, anche la domanda di questi beni si ridurrebbe. Pertanto, con la riduzione della domanda, i prezzi dei beni non essenziali diminuirebbero. Da ciò Marx conclude che l’aumento dei profitti dei capitalisti che producono beni di lusso non è solo proporzionale all’aumento dei salari, ma è un’azione congiunta dell’aumento generale dei salari, dell’aumento dei prezzi dei beni di prima necessità e della caduta dei prezzi degli articoli di lusso.
A lungo termine, questo squilibrio tra i tassi di profitto nei diversi settori comporterebbe uno spostamento di risorse da settori a basso profitto (industria dei beni di lusso) a settori ad alto profitto (industria dei beni essenziali), fino a quando la domanda più bassa nel primo e la domanda più alta del secondo non saranno state adeguate. Dato un livello costante del prodotto totale, si raggiunge l’equilibrio nel mercato dei beni di prima necessità e si ottiene un cambiamento nella composizione della produzione. In questa situazione di equilibrio, i prezzi dei beni essenziali tendono a tornare al livello precedente. Pertanto, la conclusione di Marx è che l’aumento generale dei salari porterà, dopo tutto, niente di meno che ad una caduta generale del tasso di profitto.
Per quanto riguarda il periodo a breve termine relativo all’aggiustamento tra domanda e offerta, i movimenti di capitale e lavoro avrebbero un effetto sulla produzione e sull’occupazione. In altre parole, l’aumento dei salari causerebbe una diminuzione dei profitti dei capitalisti che producono beni non essenziali e, quindi, avremmo un calo della domanda, della produzione e dell’occupazione in questo settore industriale. Al contrario, una riduzione del salario tenderebbe ad aumentare il livello generale di occupazione nel breve periodo. Tuttavia, queste variazioni del livello di occupazione e dei salari nel breve periodo sono assolutamente limitate entro i limiti determinati dall’evoluzione del processo di accumulazione del capitale. Pertanto, l’analisi marxista attribuisce scarsa rilevanza alla politica salariale come regolatore dei livelli di occupazione. Entrambi, l’occupazione e il salario, sono direttamente collegati al ritmo di accumulazione dell’attività economica.
Francesco Barbetta
(Tratto da: Francesco Barbetta, La determinazione del salario in Marx, in «Sinistra Sindacale, n. 16 - 2023; https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-16-2023/2903-la-determinazione-del-salario-in-marx-di-francesco-barbetta).
Inserito il 16/10/2023.
“Rheinische Zeitung”, il giornale in cui K. Marx scrisse i suoi articoli sulla legge sui fruti di legna.
Fonte della foto: http://www.nocierreslosojos.com/escritos-joven-karl-marx/.
Il giovane Marx.
Fonte della foto:
https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/3/33/Karl_Marx_giovane.jpg
di Jamila M.H. Mascat
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Marx e i furti di legna.
Dal diritto consuetudinario al diritto di classe
Prima parte
Nell’autunno del 1842 Marx pubblica sulla “Rheinische Zeitung” una serie di cinque articoli in cui procede a una disamina delle recenti delibere della Dieta renana riguardanti i «dibattiti relativi ai furti di legna»1. Questo scritto polemico nei confronti della nuova legislazione che sanziona la consuetudine dei contadini poveri d’Oltrereno di raccogliere, nelle foreste demaniali, ramoscelli e fronde morte, ha attirato a più riprese l’attenzione degli interpreti in ragione della funzione anticipatrice che riveste nella traiettoria teorico-politica di Marx. «Lavoro inaugurale di un’indagine sulla proprietà privata intesa come istituto politico-giuridico»2, «prima apparizione della lotta di classe in Marx sotto forma di crimine»3 – i furti di legna, appunto – e riflessione che dà avvio al «superamento di ciò che Louis Althusser ha definito “il momento liberal-razionalista” di Marx»4, l’articolo è, come riconosce l’autore stesso nella prefazione a Per la critica dell’economia politica (1859), l’occasione di una presa di coscienza degli «interessi materiali» che attraversano la società che lo condurrà, da quel momento in poi, a occuparsi in maniera più approfondita delle «questioni economiche»5.
Il presente contributo si propone di rivisitare gli articoli sui «furti di legna» interrogando la concezione del diritto che Marx mobilita nel corso della sua requisitoria contro le risoluzioni della Dieta renana. Il testo, peraltro, fornisce un punto di accesso privilegiato per osservare il rapporto di Marx con la sfera giuridica, nella misura in cui l’autore elabora in questa sede una critica eminentemente giuridica del diritto. In risposta alla contesa sui rami caduti dagli alberi che oppone i proprietari delle foreste ai contadini poveri, Marx non sviluppa una critica del diritto in quanto tale – in quanto istanza di formalizzazione dei rapporti di forza esistenti nella società borghese – come farà in seguito; al contrario, qui fa valere il diritto consuetudinario contro il diritto legislativo, la «natura delle cose» contro le leggi incapaci di esprimerla, e il diritto degli aventi diritto contro il diritto di proprietà6. Il diritto si delinea, perciò, come un campo conflittuale e contraddittorio in seno al quale la battaglia giuridica può essere condotta precisamente opponendo un diritto all’altro.
Nelle pagine che seguono, per prima cosa si tratterà di riflettere sulla presenza e lo statuto del diritto nel pensiero del giovane Marx – ex studente di diritto e di filosofia, poi giornalista politicamente impegnato – al fine di sottolineare, da un lato, le ambivalenze e, dall’altro, l’importanza, nient’affatto secondaria, che la sfera giuridica conserva finanche nel corso dell’evoluzione della critica marxiana dell’economia politica nelle opere della maturità. In secondo luogo, si procederà a esaminare il contesto socio-storico, ideologico e politico in cui Marx redige il testo sui furti di legna e poi all’analisi testuale dell’articolo, allo scopo di definire le nozioni di diritto consuetudinario e di diritto legale che figurano in esso. Infine risaliremo alle fonti, vale a dire le filosofie di F.C. Savigny e di E. Gans, figure cruciali nella formazione di Marx – giovane hegeliano anti-hegeliano – all’epoca dei suoi studi giuridici presso l’Università di Berlino. Tale genealogia ci permetterà di cogliere l’originalità dell’operazione marxiana rispetto all’impostazione dei suoi maestri e di precisare i fondamenti concettuali del diritto consuetudinario della povertà rivendicato da Marx, contro le astrazioni dell’economia moderna e le ingiustizie della società civile7.
Marx e il diritto. Ambivalenze dell’elemento giuridico
Gli articoli che Marx pubblica sulla “Rheinische Zeitung” nel corso degli anni 1842-1843 offrono una prospettiva privilegiata per comprendere tutta l’ambivalenza del suo rapporto con il diritto. Come scrive Nicos Poulantzas, «le opere della giovinezza di Marx sono quelle in cui egli si occupa sistematicamente dei problemi che coinvolgono la sfera giuridica», ricollegandosi in tal modo agli studi di diritto condotti dopo la redazione della sua tesi sulla filosofia di Epicuro8. Tuttavia, il diritto non è riducibile a un interesse marginale di gioventù destinato presto a svanire. Benché un’analisi esaustiva della teoria marxiana del diritto comprendente l’intero corpus della sua opera ecceda i limiti di questo articolo, la scelta di circoscrivere la nostra attenzione ai testi del giovane Marx non indica che il diritto scompaia dalla riflessione del Marx della maturità. Nella sua opera su Marx et la société juridique (1983), Jacques Michel mostra precisamente che negli anni successivi a Per la critica della filosofia del diritto di Hegel (1843), non è il diritto in quanto tale a venir espulso dalla produzione teorica marxiana, ma piuttosto la filosofia del diritto, abbandonata in nome di un’interpretazione materialista del fenomeno giuridico in seno alla società borghese. «Linguaggio del potere e dell’autorità», il diritto riveste nelle opere posteriori di Marx uno statuto ideologico e politico che si lascia comprendere soltanto a partire dalla sua iscrizione «nel cuore del processo produttivo», ovvero nel nucleo profondo dei rapporti capitalistici di produzione di cui è chiamato ad assicurare la riproduzione9.
In che misura, allora, il diritto gode di un’esistenza autonoma nella teoria di Marx? Se si prendesse alla lettera quanto riportato a più riprese nei suoi scritti, si potrebbe essere indotti a credere il contrario e concludere che il diritto in Marx non sia altro che parvenza sovrastrutturale del processo economico.
Per esempio, all’inizio del secondo capitolo («Il processo di scambio») del Libro I del Capitale, in cui Marx descrive la relazione cosale delle merci che «non possono andarsene da sole al mercato e non possono scambiarsi da sole», egli illustra anche la natura del rapporto giuridico tra volontà individuali che si riconoscono in quanto proprietari privati. «Questo rapporto giuridico, la cui forma è il contratto, sia o no svolto in forme legali», scrive Marx, «è un rapporto di volontà nel quale si rispecchia il rapporto economico. Il contenuto di tale rapporto giuridico […] è dato mediante il rapporto economico stesso». I proprietari, qui, non sono altro che rappresentanti delle merci e le «diverse maschere» che «indossano a seconda delle circostanze sono soltanto le personificazioni di quei rapporti economici, come depositari dei quali esse si trovano l’una di fronte all’altra»10. Riflesso della sfera economica, il diritto sembrerebbe così ridursi al rango di un mondo mistificato e mistificante, popolato di «maschere» e dominato dalla dittatura della proprietà.
Sottolineando l’importanza dello strumento giuridico nella formalizzazione del rapporto tra scambisti attraverso il contratto11, Michel suggerisce che, per il Marx della maturità, la sfera giuridica abbia la funzione di «impedire che la materialità del contenuto dello scambio venga a contestare la purezza della forma economica», ovvero di formalizzare il contenuto dello scambio facendo astrazione dalla sua particolarità empirica al fine di garantire «l’equivalenza nella diversità». Per far ciò, essa ricorre alla finzione (astratta) di proprietari indipendenti liberi e uguali, alle nozioni (astratte) di persona, di uguaglianza e di libertà, mobilitando una capacità di astrazione che costituisce la sua vera ragion d’essere. L’ambito giuridico avrebbe dunque il compito di preservare le forme (lo scambio e il contratto) di contro alla molteplicità dei contenuti. D’altra parte, la forma non sarebbe soltanto formale, come sottolinea Michel, trattandosi della forma di articolazione di rapporti determinati. Rispetto al sostrato economico, il diritto costituisce allora «la forma dominante della rappresentazione e della pratica dei rapporti sociali»12. Esso è «l’istanza dominante che rappresenta l’economia presso gli uomini13. E questa rappresentazione giuridica contribuisce alla realizzazione dello scambio e, di conseguenza, svolge un ruolo attivo in questo processo. In tal senso, il diritto è realmente «costitutivo della gerarchia sociale»14.
Si potrebbe pertanto concludere che, nella società capitalista, il diritto ha certamente uno statuto non autonomo e ideologico, dal momento che non è indipendente dalla sfera economica. Nondimeno, nella misura in cui «non esistono, da un lato, l’ideologia e, da un altro, il reale, [ma] i due momenti coesistono, l’economico esiste soltanto a condizione di presentarsi nel modo ideologico del giuridico»15. Perciò, l’ideologia opera sia come discorso sia come istituzione. Essa non è soltanto pura parvenza, ma anche dispositivo di articolazione dell’ordine sociale e principio di strutturazione dei rapporti economici, e questo proprio perché la sua attività consiste nel dissimulare e nel camuffare il loro modo di funzionamento, nel fare in modo «di restare alla superficie delle cose, di prendere il fenomeno per la realtà»16. La superficie delle cose, nella moderna società borghese, è quella in cui la libertà e l’uguaglianza dei soggetti si presentano come reali. Nel modo di produzione capitalista la circolazione appare, grazie al diritto, come immediata e naturale perché il diritto nasconde e naturalizza la produzione di merci. È dunque «al diritto che spetta di essere il guardiano segreto della produzione capitalista»17.
Se l’elemento giuridico è cronologicamente coestensivo all’elemento economico, lo statuto del primo nei riguardi del secondo rimane, proprio per questo, ambivalente: la funzione del diritto è infatti determinata dall’economico e però è anche determinante. Da un lato, essendo determinata in ultima istanza dai rapporti di produzione esistenti, la sfera del diritto può essere considerata come «la riaffermazione concreta e storica di ciò che è descritto in guisa di modello a livello economico»18. Dall’altro, la trama giuridica, nel suo potere di astrazione dai e di rappresentazione dei rapporti sociali, è anche condizione di esistenza del campo economico. Il suo ruolo specifico, che consiste nell’articolare la forma giuridificata dei rapporti economici, ha come risultato una distorsione – funzionale e necessaria alla conservazione del feticismo della forma merce: in altri termini, il diritto che riveste il rapporto tra individui al cuore del processo produttivo della parvenza di un rapporto tra cose, naturalizzando l’interscambiabilità quale proprietà intrinseca delle merci, partecipa alla fabbricazione dell’illusione feticista, essenziale al modo di produzione capitalista.
Questo contributo si propone, quindi, d’interrogare l’istanza del diritto domandandosi che cosa fa e che cosa può il diritto nel giovane Marx, invece di cercare di definire che cosa sia il diritto per lui. Concentrandosi sulla funzione posizionale del diritto nei testi marxiani di gioventù, si tratterà qui di seguito di comprendere l’ambivalenza del rapporto di Marx con il diritto, come pure l’ambivalenza – e l’ambiguità – dello statuto dell’elemento giuridico nei suoi primi scritti, nei quali il diritto acquista molteplici significati destinati a usi diversi.
All’origine dei «furti di legna». Crimini e misfatti forestali
Nel 1842 Marx inizia la sua attività giornalistica, che costituirà, per diversi anni, la sua principale fonte di reddito. Il suo primo articolo, «Osservazioni di un cittadino renano sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia», redatto nel febbraio del 1842 e pubblicato un anno più tardi negli “Anekdota” diretti da Arnold Ruge in Svizzera, si sofferma sull’ordinanza sulla censura adottata nel 1841 dal governo prussiano19. Nel maggio del 1842, su richiesta di Bruno Bauer, Marx inaugura la collaborazione con la “Rheinische Gazette” scrivendo con penna «superpolemica»20, tratto distintivo del suo stile di pubblicista, un testo sulla libertà di stampa – «Le deliberazioni della sesta Dieta renana. […] Dibattiti sulla libertà di stampa e la pubblicità delle deliberazioni degli stati provinciali», datato maggio 1842 – seguito, qualche mese più tardi, nel luglio del 1842, dall’articolo di fondo del numero 179 della “Kölnische Zeitung”, replica alle accuse del giornale di Colonia rivolte alla “Rheinische Zeitung”21. L’articolo sui furti di legna – Verhandlungen des 6. Rheinischen Landtags. Von einem Rheinländer. Dritter Artikel. Debatten über das Holzdiebstahlgesetz – è pertanto il terzo contributo che Marx pubblica sulla “Gazette”, se si eccettua il suo Manifesto filosofico della scuola storica del diritto, apparso nell’agosto del 1842.
La “Rheinische Zeitung”, lungi dall’essere un giornale minore fra le testate dell’epoca, funge da «stato maggiore intellettuale» o da «proto-partito» degli strati più progressisti della società civile renana22. D’altronde, la stampa locale e i dibattiti che ospita costituiscono il luogo privilegiato della lotta per l’egemonia ideologica fra settori liberali e conservatori. Persuaso dell’importanza politica del compito di formare e di allertare l’opinione pubblica, Marx è uno dei protagonisti più vivaci di questa battaglia23. Nella redazione della “Rheinische Gazette”, in cui entra nell’ottobre del 1842 per rimanervi fino alla chiusura su ordine di Berlino, il 31 marzo 1843, Marx s’impegna a dare impulso a un movimento di opinione liberale. Si tratta, allora, di contrastare l’offensiva prussiana contro le province annesse che puntava a restaurare, in Renania, un sistema assolutista e autoritario fondato sulla difesa dei privilegi e sulla restrizione delle libertà civili24. Nei suoi articoli per la “Gazette” Marx si interessa regolarmente alle leggi – la legge preventiva sulla censura, la legge sulla libertà di stampa, la legge sui delitti forestali – facendo del diritto il principale prisma di analisi dei rapporti sociali. Questa scelta riflette manifestamente lo spirito del tempo, in una fase in cui il sistema giuridico prussiano è il terreno di scontro principale tra il liberalismo renano e la monarchia prussiana.
La Renania del Vormärz (1814-1848) è una società in piena mutazione, destabilizzata da numerosi conflitti e tensioni sociali. La presenza francese dal 1795 al 1814 ha contribuito alla modernizzazione del paese favorendo l’economia di mercato e lo sviluppo industriale. La Francia, inoltre, ha introdotto, attraverso il Codice napoleonico, un nuovo sistema giuridico che valorizza le conquiste fondamentali della Rivoluzione del 1789 – dalla libertà di religione alla libertà di stampa, passando per la soppressione del maggiorascato; dal principio di uguaglianza davanti ai tribunali indipendentemente dal rango alla pubblicità della procedura penale; dalla partecipazione dei cittadini alla giustizia fino all’abolizione della tortura degli imputati e delle pene corporali per i condannati25. Dopo l’annessione alla Prussia nel 1814, questo processo di modernizzazione subisce una battuta d’arresto: Federico Guglielmo III adotta una politica repressiva nei confronti degli organi rappresentativi delle province, che relega a un ruolo puramente consultivo, inaugurando la «restaurazione giuridica» e reintroducendo per decreto il Landrecht prussiano del 1794. Nel corso degli anni 1820-1830, la «prussificazione» del diritto renano promossa dalla burocrazia reale e appoggiata dall’aristocrazia conduce alla reintroduzione del maggiorascato, all’imposizione di numerose restrizioni alla libertà di stampa, e al ripristino dei privilegi, dei titoli signorili e dei seggi ereditari per la nobiltà nelle assemblee di distretto, a dispetto dei tentativi dell’opinione pubblica liberale di difendere la conservazione del diritto francese. In Renania, la restaurazione che fa seguito al Congresso di Vienna incontra l’opposizione di buona parte della borghesia e della piccola borghesia locali che, durante il periodo napoleonico, avevano potuto beneficiare di una nuova prosperità economica, grazie, in particolare, al libero scambio con la Francia, ma anche al blocco continentale che assicurava la protezione contro la concorrenza del mercato inglese, e infine grazie all’acquisizione dei beni ecclesiastici. La riforma della legge relativa ai furti di legna si inserisce pienamente nella controversia sulla ridefinizione dello statuto della proprietà, che vede contrapposti, da un lato, lo stato prussiano e i suoi funzionari e, dall’altro, la società civile renana.
Pur parteggiando per la società civile contro lo stato prussiano, Marx evidenzia un certo numero di contraddizioni che ineriscono alle posizioni liberali. Composta dai deputati dei tre diversi Stände (della città, della campagna e della nobiltà) eletti su base censitaria, la Dieta renana è il luogo in cui si esprime la voce della società civile che si batte per salvaguardare le conquiste della Rivoluzione e del Codice napoleonico26. Ci si potrebbe dunque aspettare che l’assise si schieri contro il governo di Berlino. Tuttavia, gli interessi economici puntano in un’altra direzione. Come mostra Marx, la borghesia renana solidarizza con gli interessi degli aristocratici sulla questione della proprietà e di quella che si potrebbe definire la «privatizzazione dei beni comuni». Incapace di mediare i diversi interessi sociali in campo, la Dieta viene accusata da Marx di flagrante contraddizione, per aver «non solo spezzato braccia e gambe al diritto», ma per avergli anche «trapassato il cuore»27.
Il fenomeno massiccio dei furti di legna e l’ostilità della Dieta nei confronti di un antico diritto trasformato in crimine, si comprende soltanto alla luce delle trasformazioni economiche che si verificano in questo periodo: industrializzazione crescente della regione, aumento della parcellizzazione delle terre comunali, contrazione della produzione agricola locale e crisi della circolazione monetaria generata dalla politica fiscale prussiana, grandi mutamenti che hanno come conseguenza l’impoverimento della popolazione rurale. In effetti, come osserva Peter Linebaugh, «l’appropriazione illegale e di massa dei prodotti forestali rappresenta un momento importante dello sviluppo del capitalismo tedesco»28. Benché la controversia sui diritti consuetudinari sia di gran lunga anteriore, negli anni 1840 acquista sempre maggior rilievo, come dimostra la crescente criminalizzazione dei furti di legna in Renania. Seguendo la pista proposta da E.P. Thompson nel suo studio sull’origine delle enclosures in Inghilterra nei secoli XVIII e XIX, P. Lascoumes e H. Zander sottolineano giustamente che
l’importanza dei contenziosi in materia forestale attesta, da una parte, la messa in campo di un nuovo modo di definizione della proprietà e, più generalmente, l’imposizione di un sistema giuridico fondato su un individualismo (condizione dello scambio generalizzato) in rottura con i principi consuetudinari.29
È soprattutto questo processo di ridefinizione giuridica della proprietà che emerge sullo sfondo della lotta di classe a interessare Marx al momento della redazione della sua serie di articoli sui furti di legna. In maniera abbastanza sorprendente, Marx non si preoccupa di elaborare un quadro generale del contesto economico che spieghi l’esplosione dei furti di legna: nessuna analisi, in questo testo, delle cause della pauperizzazione, a partire dalla rarefazione monetaria diffusa fino all’aumento della domanda di legna da ardere nell’industria. Marx si accontenta di esaminare i dibattiti della Dieta renana relativi alla legge sui delitti forestali. Il suo obiettivo è anzitutto quello di dipanare le questioni giuridiche puntando il dito sulle contraddizioni che sorgono tra gli interessi della proprietà borghese e l’«interesse generale», allo scopo di sviluppare una critica politica delle frizioni presenti in seno allo stato. Pur cogliendo un momento fondamentale nell’evoluzione dei rapporti di classe e dell’accumulazione capitalistica, l’autore del Capitale qui ancora non dispone di concetti all’altezza della sua futura critica dell’economia politica. In mancanza dei concetti di classe e di accumulazione, Marx in questa fase ripone tutte le sue speranze e aspirazioni democratiche nel ruolo che uno stato e una legge realmente egualitari potrebbero svolgere per la difesa dei diritti dei senza-diritti30.
(1/2. Segue)
Jamila M.H. Mascat
(Tratto da: Jamila M.H. Mascat, Marx e i furti di legna. Dal diritto consuetudinario al diritto di classe, in Marco Gatto [a cura di], Marx e la critica del presente [Atti del convegno “Marx e la critica del presente (1818-2018)”, Roma, 27-29 novembre 2018], Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 143-164, reperibile al link: https://books.openedition.org/res/6022).
Note
1 I cinque articoli appaiono tra il 25 ottobre e il 3 novembre 1842. K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna [1842], in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. I, Roma, Editori Riuniti, 1980, p. 222. Nelle pagine che seguono, ci riferiremo puntualmente agli articoli o all’articolo in funzione del contesto.
2 J. Michel, Marx et la loi sur les vols des bois. Les leçons du droit coutumier, in C. Journès (a cura di), La coutume et la loi, Lyon, Presses Universitaires de Lyon, 1986, p. 114.
3 P. Linebaugh, Karl Marx, the theft of wood, and working-class composition: a contribution to the current debate, “Social Justice”, 40, 1/2, 2014, pp. 137-161.
4 D. Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni [2007], Verona, ombre corte, 2009, p. 12.
5 K. Marx, Per la critica dell’economia politica. Introduzione e prefazione [1857-1859], Firenze, Editrice Clinamen, 2011, p. 103.
6 Id., Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 228.
7 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto [1820], a cura di G. Marini, Roma-Bari, Laterza, 1999, p. 110.
8 N. Poulantzas, À propos de la théorie marxiste du droit, “Archives de philosophie du droit”, 12, 1967, p. 147.
9 J. Michel, Marx et la société juridique cit., p. 258.
10 K. Marx, Il Capitale, Libro i [1867], Roma, Editori Riuniti, 1973, t. i, pp. 98-99 [corsivo mio].
11 J. Michel, Marx et la société juridique cit., p. 158.
12 Ivi, p. 160.
13 Ivi, p. 169.
14 Ivi, p. 190.
15 Ivi, p. 169.
16 Ivi, p. 190 e p. 166.
17 Ivi, p. 165.
18 Ivi, p. 169.
19 K. Marx, Osservazioni di un cittadino renano sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. I cit., pp. 105-128.
20 F. Mehring, Vita di Marx. Una biografia rivoluzionaria [1918], Milano, ShaKe, 2012. Si veda anche V.T. Trinh, Marx, Engels et le journalisme révolutionnaire, Paris, Éditions Anthropos, 1978, 3 voll.
21 K. Marx, Articolo di fondo del n. 179 della “Kölnische Zeitung”, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. I cit., pp. 185-205.
22 P. Lascoumes, H. Zander, Marx: du «vol de bois» à la critique du droit, Paris, Puf, 1984, p. 54.
23 Ivi, p. 91.
24 Il diritto francese viene abrogato nel 1821 e nel 1824 il diritto prussiano viene ristabilito nella procedura criminale.
25 P. Lascoumes, H. Zander, Marx: du «vol de bois» à la critique du droit cit., pp. 78-90.
26 D. Bensaïd, Gli spossessati cit., p. 13.
27 K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 261.
28 P. Linebaugh, Karl Marx, the theft of wood, and working-class composition cit., p. 140.
29 P. Lascoumes, H. Zander, Marx: du «vol de bois» à la critique du droit cit., pp. 108-109. Si veda anche E.P. Thompson, Modes de domination et révolutions en Angleterre, “Actes de la recherche en sciences sociales”, 2-3, 1976, pp. 133-151.
30 P. Linebaugh, Karl Marx, the theft of wood, and working-class composition cit., p. 143.
Inserito il 9/5/2023.
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Marx e i furti di legna.
Dal diritto consuetudinario al diritto di classe
Seconda parte
Se la proprietà è un diritto
La questione della proprietà e, soprattutto, quella della proprietà fondiaria, acquista un rilievo centrale in Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, primo corpo a corpo di Marx con la Rechtsphilosophie hegeliana. Qui la difesa dell’istituzione statale – in quanto espressione potenzialmente democratica dell’interesse collettivo – sviluppata nell’articolo del 1842, cede il passo a una critica dello stato e della sua costitutiva incapacità di risolvere i conflitti che emergono in seno alla società civile. Lo stato hegeliano viene pertanto ridotto a un’astrazione della peggiore specie che, da un lato, non può essere realmente dedotto dai propri presupposti (la famiglia e la società civile), ma rimane al cospetto di questi ultimi un’idea a priori e, dall’altro, si presenta come il semplice riflesso speculativo di ciò che esiste fattualmente.
Commentando i §§ 305 e 306 dei Lineamenti di filosofia del diritto sullo stato dell’«eticità naturale» (lo Stand dei contadini), Marx sviluppa le proprie tesi sulla natura della proprietà privata e sul rapporto tra diritto, stato e interesse particolare31. Come segnala Hegel nei §§ 305 e 306, e come osserva Marx nel suo commento, nella concezione della monarchia ereditaria l’«elemento principesco» intrattiene una certa affinità di principio con la «classe contadina» – lo Stand dei proprietari terrieri e degli agricoltori – nella misura in cui quest’ultimo «ha per propria base la vita familiare e, riguardo alla sussistenza, il possesso fondiario». Grazie alla proprietà della terra, in quanto «fortuna indipendente» che gli permette di affrancarsi da ogni bisogno e da ogni attività, lo Stand sostanziale guadagna la propria «posizione e il proprio ruolo politico» all’interno dello stato, ed è così che «al posto del “senso dello stato”, del “possesso dello spirito pubblico”, appare la proprietà fondiaria», la quale diventa «la mediazione dello stato politico totale, del potere legislativo in sé»32.
«La proprietà fondiaria», sottolinea Marx, «è la proprietà privata per eccellenza, la proprietà privata nel senso proprio del termine», e il maggiorascato «non è altro che la manifestazione esteriore della natura intima della proprietà fondiaria» o «la proprietà privata sovrana». Hegel ha un bel descrivere il maggiorascato come «il potere dello stato politico sulla proprietà privata»; per Marx, in realtà, esso è semplicemente «una conseguenza della proprietà privata “esatta”, è la proprietà privata pietrificata, la proprietà privata […] pervenuta alla realtà del suo sviluppo e della sua autonomia». «Ciò che Hegel presenta come lo scopo […], aggiunge Marx ne è piuttosto una conseguenza […], il potere dell’astratta proprietà privata sullo stato politico». Analogamente, osserva, il maggiorascato non rappresenta, come suggerisce Hegel, «“un impaccio alla libertà del diritto privato”», quanto piuttosto «la libertà del diritto privato scioltosi di tutti gli impacci sociali e morali». Esso è «la proprietà privata divenuta religione di se stessa, […] incantata dalla sua autonomia e sovranità» o ancora «una determinazione della proprietà privata da parte dello stato politico»33.
Nel commento alla filosofia del diritto di Hegel, la critica della proprietà è correlata a una critica dello stato in quanto istituzione edificata sul fondamento della proprietà privata. Nell’articolo sui furti di legna, lo stato, o piuttosto l’idea di uno stato democratico concepito come difensore degli interessi di tutti e di ciascuno, come pure le sue leggi universali, costituiscono i principi in nome dei quali la proprietà privata e le ingiustizie che essa genera possono essere contestate. Tuttavia Marx evidenzia già qui che lo stato non è esente da contraddizioni: lo studio dei dibattiti della Dieta renana rivela che i fondamenti universali e razionalisti della forma statuale sono in realtà largamente determinati dalla predominanza degli interessi privati. A questo stadio, come nota Daniel Bensaïd, «la questione della proprietà è una cartina di tornasole rivelatrice delle contraddizioni all’opera tra società civile e stato» e delle astrazioni del diritto borghese moderno34.
L’articolo del 1842 ripercorre con tono sarcastico i dibattiti della sesta Dieta renana relativi alla legge forestale sui furti di legna, legge adottata dai deputati l’anno precedente, nel 1841. Come spiega Marx, il testo della proposta di legge non è disponibile; sono accessibili soltanto gli emendamenti e le delibere della Dieta del giugno 1842, che forniscono il materiale per la sua requisitoria.
L’argomento esposto da Marx consiste nel mostrare, da una parte, l’incoerenza della legislazione votata dalla Dieta e, dall’altra parte, l’incoerenza della Dieta stessa nella sua funzione legislatrice. Si tratta di esporre le contraddizioni immanenti al diritto positivo e al potere legislativo in relazione alla natura autentica delle leggi, e di far emergere le contraddizioni presenti nella forma statuale, nella pretesa funzione mediatrice dei ceti sociali, come pure nell’istituto medesimo della proprietà. Tutte queste contraddizioni, per dirlo alla maniera di Hegel, emergono nel rapporto di ogni elemento positivo (la legge, il diritto, lo stato) con il proprio concetto. Ne risulta la distorsione e la perversione di ogni cosa: i diritti degli uomini si trovano a essere calpestati in nome dei diritti degli alberi, autentico feticcio dei Renani; il diritto naturale alla proprietà privata si scontra con la natura delle cose appropriate; la legge fabbrica da sé il crimine che punisce, il popolo non distingue più tra diritto e delitto, gli antichi costumi perdono ogni legittimità e il diritto legale si fonda su un torto.
In prima istanza, è la definizione dei termini della legge sui furti di legna a essere passata al vaglio dell’analisi marxiana. Marx illustra le risoluzioni della Dieta, secondo cui la «raccolta di rami secchi» deve essere considerata «furto». Com’è possibile che la raccolta di legna morta venga equiparata all’appropriazione di legna verde? Per dimostrare l’aspetto discutibile della legislazione, Marx fa appello alla «natura giuridica delle cose» (die rechtliche Natur der Dinge), che la legge sui furti di legna viola e contraddice, mentre invece avrebbe dovuto conformarvisi. La naturalizzazione del diritto alla proprietà in quanto diritto inviolabile contrasta con la natura stessa del legno «rubato», nella misura in cui, come osserva Marx, i rami separati dall’albero sono già separati dalla proprietà. Marx evidenzia i pericoli che discendono da una simile perversione del diritto. Anzitutto, ammonendo i deputati, nota che «con l’applicare la qualifica di furto dove non va applicata, siete riusciti a invalidarla anche nei casi in cui andrebbe applicata»35. Inoltre, considerando come furto un atto che non corrisponde a tale delitto, la legge, che «non è sciolta dall’obbligo generale di dire la verità», si fa menzogna e finisce per corrompere i costumi del popolo: mentre un diritto d’uso diventa un crimine in ragione della parcellizzazione della proprietà fondiaria, il «furto» dei diritti consuetudinari commesso dall’assemblea provinciale al servizio dei proprietari delle foreste viene elevato al rango di atto legale.
Fra le critiche che Marx rivolge alla legge approvata dalla Dieta, tre in particolare meritano di essere menzionate. In primo luogo, come abbiamo visto, la legge non distingue tra legna raccolta a terra e legna tagliata. Così facendo, istituisce un crimine, a spese dei contadini poveri e a vantaggio dei proprietari forestali, laddove non si dà altro che l’esercizio di un diritto d’uso. In secondo luogo, poiché la legge assegna alle guardie forestali il compito di sorvegliare, denunciare e valutare l’importanza delle violazioni commesse dai «criminali», la giustizia pubblica dello stato finisce per dipendere dall’opinione di sorveglianti privati. In terzo luogo, la legge obbliga i «ladri» a pagare ammende e risarcimenti per l’attentato alla proprietà fondiaria e a lavorare gratuitamente al servizio dei proprietari danneggiati, sotto l’egida delle autorità locali. Marx si chiede: «Che ne consegue? Che, poiché la proprietà privata non ha i mezzi per elevarsi al punto di vista dello stato, lo stato ha l’obbligo di abbassarsi ai mezzi della proprietà privata contrari alla ragione e al diritto»36.
Alla luce di questi elementi, Marx punta il dito contro l’«interesse privato», che non soltanto «sa bene come dipingere a fosche tinte il diritto» e «come ammantare di candore l’ingiustizia per mezzo dei buoni motivi», ma è anche «abbastanza furbo» da impadronirsi del potere legislativo e delle leggi pubbliche viziando il concetto stesso di stato politico37.
L’articolo sui furti di legna ha così il merito di mostrare il carattere manifestamente parziale e partigiano della legislazione che, come Marx nota a proposito della legge sulla censura in un articolo precedente, «non è una legge dello stato per i cittadini, ma una legge di un partito contro un altro»38. Parallelamente si tratta, per Marx, di mettere in rilievo la natura altrettanto partigiana della Dieta che ha approvato questa legge, grazie alla quale «l’interesse si è imposto sul diritto». «La Dieta, scrive, ha adempiuto completamente il proprio compito. Essa ha fatto esattamente ciò a cui è chiamata: ha rappresentato un determinato interesse particolare e ne ha fatto il fine supremo»39.
Se la proprietà è un furto, come sostiene Marx riecheggiando Proudhon, il diritto di proprietà, per parte sua, non è che l’espressione di un rapporto di forza40. Il diritto legale moderno ammette dunque l’esistenza di un «diritto del più forte» – che, come osserva Marx nella sua Introduzione del 1857, non è eliminato una volta per tutte dall’istituzione dello stato, ma «continua a vivere, sotto altra forma» nello stato di diritto41. Analizzando la condotta della Dieta renana nella criminalizzazione dei furti di legna, Marx dimostra così l’ambivalenza, ovvero l’ambiguità, dell’elemento giuridico in seno al quale egli tenta di far valere e prevalere l’appello a un diritto di altra natura: il diritto consuetudinario dei non aventi diritto.
Dalla parte delle consuetudini? Marx tra Hegel e Savigny
Oltre alle critiche esposte fin qui, che puntano a dimostrare il carattere intrinsecamente viziato delle leggi e delle procedure legislative, come pure dello stato e degli organi che da esso emanano, l’articolo di Marx sui furti di legna esprime anche una dimensione propositiva che consiste nella rivendicazione politica di un diritto schierato, per così dire, dalla parte dei poveri e degli indigenti. Marx, infatti, non si accontenta di contestare i privilegi dei proprietari fondiari negando alla proprietà gli attributi di legittimità che le legislazioni moderne tradizionalmente gli riconoscono. Nel denunciare la legge che criminalizza i responsabili dei furti di legna, egli reclama, «in difesa della massa povera, politicamente e socialmente diseredata», un diritto d’uso delle foreste, che ricava dalla storia dei costumi:
Noi rivendichiamo alla povera gente il diritto consuetudinario, e non un diritto consuetudinario locale, ma un diritto consuetudinario che in tutti i paesi è il diritto consuetudinario della povera gente. Andiamo anche oltre e affermiamo che il diritto consuetudinario per sua natura può essere solo il diritto di quest’infima massa diseredata e primordiale».
A proposito del rapporto tra diritto consuetudinario e diritto di proprietà, Marx spiega che originariamente «i diritti consuetudinari della povera gente si basavano sul fatto che una certa proprietà possedeva un carattere equivoco, che non la definiva decisamente per proprietà privata e nemmeno come proprietà comune»42. Nella misura in cui permettono di sfruttare «il carattere equivoco» della proprietà così come esisteva nel Medioevo all’interno delle società feudali – con la sua «essenza incerta, dualistica e discorde», a metà strada tra «diritto privato» e «diritto pubblico» – i diritti consuetudinari dei poveri dimostrano l’origine storicamente e giuridicamente convenzionale del concetto di proprietà privata quale sussiste nel diritto borghese43.
Opponendo la consuetudine al diritto borghese, Marx contesta così la naturalizzazione della proprietà operata dalle legislazioni moderne che fanno di questa istituzione la manifestazione esteriore, l’incarnazione stessa della libertà individuale. Contestualmente, richiamandosi ai diritti consuetudinari della classe povera, egli revoca la validità dei «diritti consuetudinari nobiliari» in quanto privilegi che contraddicono il «diritto razionale».
Natura (Natur), consuetudine o diritto consuetudinario (Gewohnheit, Gewohnheitsrecht) e diritto razionale (vernünftigen Recht) sono nozioni che non si lasciano interpretare né impiegare in maniera univoca in Marx e meritano, di conseguenza, di essere chiarite. Le ragioni di una simile plurivocità sono da cercare nelle fonti principali del pensiero di Marx dell’epoca: la Rechtsphilosophie di Hegel e la jurisprudentia della Scuola storica, per le quali la proprietà costituisce un pilastro delle rispettive concezioni giuridiche.
A tal proposito Marx avrebbe contratto un doppio debito tanto sul versante della filosofia hegeliana del diritto, quanto sul versante della scienza del diritto di Friedrich Karl von Savigny44, operando al tempo stesso una doppia presa di distanza nel tentativo «di costituire una scienza filosofica (critica) del diritto storico, distinguendosi sia dalla Scuola filosofica che dalla Scuola storica»45.
Pur elaborando un’«argomentazione di fattura hegeliana» nella quale finalmente la «critica plebea di Hegel» servirebbe a correggere «il concetto non criticato di consuetudine in Savigny», Marx, secondo Mikhaïl Xifaras, sarebbe debitore «della propria critica della speculazione hegeliana al realismo della scuola storica e più precisamente alla sua concezione della positività giuridica e, pertanto, al suo modo di giustificazione della legge»46.
Allievo di Eduard Gans, rappresentante della Scuola filosofica del diritto di ispirazione hegeliana, e di Savigny, uno dei padri fondatori della Scuola storica, Marx assiste, durante i suoi studi di diritto all’Università di Berlino a partire dal 1836, al conflitto teorico e politico che coinvolge le due scuole, e tali problemi inevitabilmente sono fonte di ispirazione per la sua riflessione sul diritto. Si tratta piuttosto di stabilire in che misura l’elaborazione della Scuola storica eserciti un’influenza sul pensiero marxiano e fino a che punto sia possibile affermare, come Xifaras, che «Marx usa Savigny contro Hegel» pur apportandogli dei correttivi politici47.
Prima di tutto va ricordato che, in quanto giovane hegeliano, Marx non nasconde un certo disdegno verso l’«orda dotta e docile» degli epigoni della Scuola storica che «cercano […] la storia della nostra libertà al di là della nostra storia, nelle foreste vergini teutoniche»48.
A essi Marx dedica un Manifesto, consacrato in particolare al padre fondatore della Scuola, Gustav Hugo, che pubblica sulla “Rheinische Gazette” in occasione della nomina di Savigny a ministro della giustizia di Prussia nel febbraio del 184249. Perpetuando un «culto storicizzante delle reliquie», gli storici del diritto adottano secondo Marx un approccio acritico all’interno del quale «ogni esistenza ha valore di autorità» e «ogni autorità ha valore di fondamento» senza possibilità di identificare criteri universali. Un tale atteggiamento, che Marx qualifica di «insolente nei confronti delle idee» e «devotissimo verso le cose immediatamente tangibili», mira a liberarsi «di tutti gli intralci della ragione e della morale» allo scopo di dimostrare, contro Hegel, che il positivo non è razionale, che è piuttosto «malgrado la ragione» e che l’irrazionale è positivo50.
Marx, per parte sua, come abbiamo già osservato, mobilita la ragione in quanto criterio che gli permette di operare delle distinzioni nel campo delle consuetudini impiegando il concetto di «diritto razionale» (vernünftiges Recht). Si tratta in effetti di un concetto particolare che non bisogna confondere con il «diritto del razionale», di cui parla Hegel al §132 dei Lineamenti di filosofia del diritto in quanto «diritto di ciò che è oggettivo» contrapposto al diritto soggettivo formale, né con il diritto razionale universale di matrice kantiana.
In Marx il concetto di diritto razionale viene utilizzato invece per far valere una parte contro un’altra – ovvero il partito della classe povera contro «l’unilateralità con cui le legislazioni dell’età dei Lumi hanno trattato e hanno dovuto trattare i diritti consuetudinari dei poveri [Gewohnheitsrechte der Armut]»51. Opponendo la categoria parziale della povertà al principio universale della proprietà, il diritto razionale in Marx acquista uno statuto eminentemente politico, che gli permette di trasformare il diritto di una parte della società in diritto universale, diritto che tuttavia può essere rivendicato a nome dell’umanità intera e in vista di un mondo più giusto. Ci sembra perciò possibile affermare che la ragione, implicitamente considerata un criterio di giustizia e di legittimità, svolga qui un ruolo determinante nella giustificazione del diritto.
D’altronde, il concetto di diritto razionale politicizza l’atteggiamento di Marx nei riguardi delle consuetudini, permettendogli di distinguere i diritti consuetudinari (Gewohnheitsrechte) dalle imposture consuetudinarie (Gewohnheitsunrechte), cosa che non trova un antecedente in Savigny. Per Marx il diritto consuetudinario che precede, anticipa ed eccede il diritto legale non costituisce in sé un patrimonio storico che, da solo, esprimerebbe la vera essenza del diritto incarnando la sua principale fonte di validità. I diritti consuetudinari in quanto tali non beneficiano, in Marx, di alcun privilegio che li renderebbe più giusti della legge del diritto legale. Infatti quel che gli interessa, specialmente nel caso dell’articolo sui furti di legna, non è tanto la fondazione di una scienza universale del diritto e nemmeno «la valutazione dell’attualità delle istituzioni che il passato ci tramanda», bensì l’elaborazione di una critica polemica dell’attualità costruita puntualmente su un certo uso del passato52. Marx si richiama soltanto ad alcune consuetudini relative al diritto d’uso e di occupazione delle foreste al servizio dei contadini poveri e, se non tutte le consuetudini sono valide, la necessità di distinguere le buone dalle cattive resta fondamentale per discriminare tra le consuetudini da difendere e quelle da abolire. L’elemento che permette una tale distinzione è proprio il diritto razionale che, nel caso specifico dei conflitti legati ai furti di legna, si colloca dalla parte della classe povera o dei «diritti consuetudinari popolari» (volkstümliche Gewohnheitsrechte). Convocando il razionale a dirimere la contesa sulle consuetudini, Marx appare ancora più vicino a Hegel, per il quale la ragione filosofica è critica speculativa del diritto positivo che misura quest’ultimo alla luce del suo concetto. Al tempo stesso, Marx non manca di apportare correttivi importanti alla concezione hegeliana, che finiscono per ritorcerla contro se stessa. Al §211 dei Lineamenti, infatti, Hegel rigetta i diritti consuetudinari in quanto «oggetti di un sapere oggettivo, accidentale, oscuro, in opposizione a un vero codice». Inoltre, egli respinge risolutamente l’illusione secondo cui le consuetudini sarebbero principi vitali, di contro alle leggi positive istanze morte e pietrificate. Secondo Hegel, in realtà, è proprio la mancanza di «forma» e di compenetrazione da parte del razionale a rendere i diritti consuetudinari «più morti» e meno vitali.
Per altri versi, la rivendicazione marxiana dei diritti consuetudinari della povertà potrebbe essere accostata alla concezione hegeliana del Notrecht – o «diritto di necessità» – evocato nei §§127-128 degli stessi Lineamenti di filosofia del diritto in quanto limite al diritto di proprietà. In caso di collisione tra esistenza materiale particolare e proprietà giuridica, Hegel afferma che la vita ha un diritto da fare valere contro il diritto astratto: «un diritto di necessità, giacché da un lato sta l’infinita lesione dell’esserci e ivi la totale mancanza di diritto, dall’altro lato soltanto la lesione di un singolo limitato esserci della libertà, nel che in pari tempo viene riconosciuto il diritto come tale e la capacità giuridica di chi è leso soltanto in questa proprietà»53. È così che, secondo Hegel, «la necessità rivela tanto la finità e quindi l’accidentalità del diritto [di proprietà] quanto del benessere», ovvero dell’esistenza54.
Eppure, nonostante la prossimità manifesta tra i due filosofi, Marx opera una totale inversione della prospettiva hegeliana, difendendo in nome della necessità la giustizia dei «diritti consuetudinari» della povertà contro l’ingiustizia della legge e richiamando quest’ultima, a ispirarsi alle (buone) consuetudini per tradurle in una lingua giuridica appropriata. A proposito, invece, dei «diritti consuetudinari degli stati sociali privilegiati», che risalgono all’epoca feudale – «regno animale dello spirito» dominato dalla servitù e dalla disuguaglianza – Marx osserva che, all’occorrenza, si tratta di «non-diritti consuetudinari» che «si oppongono per il loro contenuto alla forma della legge generale», la quale per sua essenza è universale e necessaria55. Tuttavia, nemmeno la forma della legge in quanto tale è di per sé affidabile. Da un lato, è evidente per Marx che i «diritti consuetudinari dei nobili sono consuetudini contro il concetto del diritto razionale»56. D’altra parte, è altrettanto palese che i «diritti consuetudinari dei poveri sono diritti contro la consuetudine del diritto positivo», vale a dire contro la legge, che è essa stessa una cattiva consuetudine schierata dalla parte dei privilegiati e appiattita sul «riconoscimento delle loro prepotenze irrazionali»57. Se le consuetudini possono essere arbitrarie tanto nella forma quanto nel contenuto, Marx ci porta a riconoscere contro Hegel che nemmeno il diritto legale offre soluzioni incontestabili. La legge, infatti, non si riduce più alla forma pura dell’universalità, come Marx sembra ancora sostenere con convinzione nel suo articolo del 1842 sulla libertà di stampa58. Il conflitto sui furti di legna mostra che la legge, allontanandosi dal suo concetto, si presta alla ratifica contingente di contenuti parziali e non necessariamente razionali. Per sfuggire alla degenerazione della sua funzione e al degrado dei suoi contenuti, la legge dovrebbe perciò anzitutto attenersi alla natura giuridica delle cose (die Rechtliche Natur der Dinge), concetto fondamentale tra gli elementi di giustificazione che Marx fornisce, in maniera implicita, alla propria concezione del diritto razionale. E proprio sul versante di questo «vertiginoso concetto di natura giuridica delle cose» che Marx, secondo Xifaras, mobilita «per intimare alla legge l’obbligo tutto savigniano di esprimerla adeguatamente», potremmo essere indotti a cogliere ulteriori elementi di convergenza fra l’argomento marxiano e la dottrina della Scuola storica59.
La «natura» occupa una posizione non trascurabile nell’articolazione del discorso marxiano sui furti di legna. Marx osserva, anzitutto, che, nel caso della raccolta della legna morta, «nulla viene sottratto alla proprietà» e che «il raccoglitore di rami secchi si accontenta di eseguire un giudizio, […] che la natura stessa della proprietà ha emesso: […] l’albero non possiede più le fronde in questione». Quindi, egli fa appello alla «natura giuridica delle cose» per contestare il contenuto di una legge «che denomina furto di legna un’azione che è a malapena un delitto forestale». Marx ricorda in seguito la «natura elementare» e l’«esistenza fortuita» di alcuni oggetti, come le foreste, che non possono assumere il carattere cristallizzato della proprietà privata determinata. Parallelamente, egli attribuisce alla classe povera «il bisogno di soddisfare un istinto giuridico», bisogno che dipende da un «senso istintivo del diritto» e che è all’origine di consuetudini popolari che la giuridificazione della proprietà da parte della borghesia vuole fare scomparire. Infine, egli individua un legame di parentela ancora più immediato tra i poveri e la consuetudine di raccogliere i rami secchi, legame che assimila «l’opposizione tra fronde e rami morti» all’opposizione tra ricchezza e povertà. La buona consuetudine e il diritto razionale si collocano pertanto dalla parte della classe povera che sarebbe, a propria volta, per mezzo del suo istinto, «naturalmente» dalla parte di ciò che è giusto e legittimo.
Ma se Marx iscrive la «natura delle cose» nell’ambito delle consuetudini, non è per amore della tradizione, bensì per meglio contrapporre i diritti consuetudinari dei poveri al diritto positivo della proprietà privata. In questo senso, ci pare, ancora una volta, che in Marx non si possa rinvenire altro che una semplice eco del concetto di consuetudine in uso presso i giuristi della Scuola storica, dal momento che i «diritti consuetudinari popolari» à la Marx non hanno nulla a che vedere con le consuetudini del popolo che sono alla base della scienza giuridica di Savigny. Tale eco, peraltro, deforma il concetto di consuetudine e finisce per spezzare l’unità del popolo tanto cara a Savigny allo scopo di stabilire una universalità più importante. Come abbiamo già rilevato, l’operazione compiuta da Marx nella sua rivendicazione delle consuetudini della classe povera introduce simultaneamente una generalizzazione e una limitazione: il «diritto consuetudinario della povertà» diventa un diritto comune ai poveri di «tutti i paesi», un diritto senza frontiere, un diritto universale, pur rimanendo, al tempo stesso, particolare, in quanto diritto di classe, «il diritto di quest’infima massa diseredata e primordiale»60.
A dispetto della presenza di enunciati che rinviano alla «natura» l’origine e il carattere delle consuetudini, l’articolo di Marx si distanzia evidentemente dall’orientamento della giurisprudenza cara a Savigny. Per Marx, infatti, l’appello alla natura non è sufficiente a rivendicare i diritti consuetudinari della povertà che, in ultima istanza, necessitano di criteri di razionalità e di universalità per essere giustificati. Le consuetudini non hanno dunque lo stesso statuto in Marx e in Savigny e questo proprio grazie alla «funzione politica» che Marx accorda al concetto di «natura delle cose». È questa politicizzazione dell’appello alla consuetudine che permette a Marx di inscrivere la propria difesa dei diritti consuetudinari nel quadro di un discorso di contestazione dell’ordine borghese esistente61.
L’argomento sviluppato da Marx nell’articolo sui furti di legna non può, d’altra parte, essere assimilato a un tentativo di «riforma» dello statu quo giuridico. Si tratta piuttosto di un esercizio di metodo in cui si mobilitano, l’una contro l’altra, diverse accezioni del diritto che rinviano a epoche diverse e opposte prospettive di classe, per dimostrare la natura irrazionale del diritto razionale, il carattere parziale degli universali giuridici – le leggi –, dominati da interessi particolari, e le ripercussioni concrete del diritto astratto. Lo scopo di un simile esercizio attiene più alla volontà di revocare la necessità logica della forma borghese della proprietà che all’intenzione di riformarla.
(2/2. Fine)
Jamila M.H. Mascat
(Tratto da: Jamila M.H. Mascat, Marx e i furti di legna. Dal diritto consuetudinario al diritto di classe, in Marco Gatto [a cura di], Marx e la critica del presente [Atti del convegno “Marx e la critica del presente (1818-2018)”, Roma, 27-29 novembre 2018], Torino, Rosenberg & Sellier, 2020, pp. 143-164, reperibile al link: https://books.openedition.org/res/6022).
Note
31 Marx si impegna pure a definire il rapporto tra proprietà e diritto. Se la proprietà privata è un privilegio – ovvero «l’esistenza del privilegio come genere» –, essa incarna anche «il diritto in quanto eccezione» (K. Marx, Critica della filosofia hegeliana del diritto pubblico, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. III cit., p.123).
32 Ivi, pp. 105-111.
33 Ivi, pp. 112-115.
34 D. Bensaïd, Gli spossessati cit., p. 37.
35 K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 226.
36 Ivi, p. 240.
37 Ivi, p. 240, p. 248 e p. 260.
38 Id., Osservazioni di un cittadino renano sulle recenti istruzioni per la censura in Prussia cit., p. 117.
39 Id., Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 262.
40 Nel Capitale la recinzione delle terre demaniali viene definita come una «forma parlamentare di furto commessa sulle terre comuni» attraverso la quale i «proprietari fondiari regalano a se stessi, come proprietà privata, terra del popolo» (Id., Il Capitale, Libro I cit., t. 3, p. 183).
41 Id., Per la critica dell’economia politica cit., p. 70.
42 Id., Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 231.
43 Ivi, p. 232.
44 M. Xifaras, Marx, justice et jurisprudence. Une lecture des «vols de bois», in “Revue française d’histoire des idées politiques”, 1, 15, 2002, p. 105.
45 Ivi, p. 72.
46 Ivi, p. 100 e p. 105.
47 Ivi, p. 99.
48 K. Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel cit., p. 192.
49 Id., Il manifesto filosofico della scuola storica del diritto, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. I cit., pp. 206-209.
50 Ibidem.
51 Id., Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 231.
52 Ivi, p. 93.
53 G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto cit., p. 110.
54 Ibidem.
55 K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 229.
56 Ivi, p. 230.
57 Ibidem.
58 «Le leggi sono le norme positive, chiare e universali nelle quali la libertà ha acquistato un’esistenza impersonale, teoretica, indipendente dall’arbitrio del singolo» (K. Marx, Dibattiti sulla libertà di stampa, in K. Marx, F. Engels, Opere, vol. I cit., p. 161).
59 M. Xifaras, Marx, justice et jurisprudence cit., p. 101.
60 K. Marx, Dibattiti sulla legge contro i furti di legna cit., p. 228.
61 M. Xifaras, Marx, justice et jurisprudence cit., pp. 100 e 104.
Inserito il 9/5/2023.
di Vladimiro Giacché*
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Quattro priorità per rilanciare il marxismo in Occidente
1.
Credo che un buon punto di partenza per parlare della situazione e delle prospettive di rilancio del marxismo in Occidente sia partire dal suo momento di minore fortuna: l’anno 1991. Quell’anno significò la fine dell’Unione Sovietica, e molto altro ancora. Si parlò di fine del socialismo, si parlò di fine della storia (questo il titolo del famoso libro di propaganda di Francis Fukuyama1, che sarebbe stato pubblicato pochi mesi dopo). E ovviamente si parlò di fine del marxismo. Nel 1991 Włodzimierz Brus e Kazimierz Łaski, due economisti polacchi – sostenitori sin dai primi anni Sessanta di un indirizzo riformatore all’interno dei Paesi socialisti – pubblicarono l’edizione economica del loro libro From Marx to the market2 (Da Marx al mercato): titolo eloquente. «Lo scopo di questo libro – scrivevano gli autori nella loro prefazione a questa edizione – è quello di prendere in esame le radici del fallimento del sistema economico del socialismo ispirato alle teorie di Marx, e quindi le ragioni della ricerca di soluzioni orientate al mercato». In quegli anni Joseph Stiglitz fu tra i pochi, tra gli economisti non marxisti, a tentare di porre in qualche modo in discussione l’onda travolgente del pensiero economico neoliberale. Lo fece nelle sua Wicksell Lectures, poi raccolte in Whither Socialism?3, non per caso uno dei suoi libri meno noti. Ma proprio in quel libro egli scrisse: «il collasso del socialismo inteso come ideologia economica è stato per molti versi si importanza paragonabile al quasi contemporaneo collasso del blocco sovietico, che ha rappresentato il punto d’arrivo di un esperimento economico durato mezzo secolo»; e più avanti nel testo: «L’influenza che l’ideologia marxista ha esercitato sulle menti – e infine sulla vita – di così tante persone per oltre mezzo secolo dovrebbe farci riflettere: è sicuramente un esempio dell’importanza della fallibilità umana».
In breve: partita chiusa col marxismo.
2.
Nei trent’anni successivi sono accadute molte cose. Dopo i ruggenti anni Novanta, il decennio delle privatizzazioni (italiane e non solo), dopo i fasti del Washington Consensus, nel 2008-2009 il modello di sviluppo neocapitalistico fondato sul capitale produttivo d’interesse ha infine incontrato i propri limiti4. La crisi economica e finanziaria nata negli Stati Uniti e nota come “crisi dei subprime” è sembrata a tratti sfociare in una crisi di legittimazione del capitalismo.
Essa ha innescato una grave crisi anche in Europa: una crisi che ha messo a nudo i difetti strutturali dell’integrazione europea e in particolare della moneta unica. Questi problemi sono a tutt’oggi ben lungi dall’essere risolti. La storia dei Paesi occidentali negli ultimi decenni è riassumibile in poche parole: crescita stentata e crisi, asset inflation e aggravamento delle disuguaglianze. E da ultimo anche inflazione tout court.
Nello stesso periodo di tempo la Cina si è rifiutata di adottare la shock therapy consigliata dal Fondo Monetario Internazionale, ha rifiutato il Washington Consensus, e preferito invece seguire una strategia differente: crescente integrazione nel mercato mondiale, ma sulla base di un sistema di economia mista, in cui le linee guida dello sviluppo economico sono stabilite a livello macro dallo Stato. Col risultato che, smentendo regolarmente le ricorrenti narrazioni sull’imminente “collasso dell’economia cinese”, ha potuto beneficiare di una crescita a tasso accelerato, liberando centinaia di milioni di persone dalla povertà5. Come ha osservato Branko Milanovic, «i recenti risultati economici della Cina sono i migliori dell’intera storia dell’umanità»6.
In sintesi: la situazione economica attuale è ben lontana dal trionfo neoliberale dei primi anni Novanta. Ciò nonostante, nel mondo occidentale, l’ideologia neoliberale (in Europa nella variante ordoliberale di origine tedesca) è tuttora egemonica, mentre la ricerca marxista è più o meno confinata nell’ambito di ristrette cerchie accademiche e il marxismo politico è quasi ovunque irrilevante.
Credo che il marxismo occidentale oggi abbia due problemi principali: in primo luogo, il nesso tra teoria e prassi è andato perduto (questo è particolarmente evidente in Italia, Paese in cui il legame tra marxismo teorico e marxismo politico era stato molto forte per decenni); in secondo luogo, il concetto stesso di socialismo sembra aver seguito un percorso a ritroso dalla scienza all’utopia, venendo ormai concepito come un orizzonte utopico, dai contorni piuttosto confusi.
3.
Che fare? Vedo quattro priorità per una ripresa del marxismo in Occidente nel XXI secolo, e quindi altrettanti compiti per i marxisti.
3.1. Accorciare le distanze che separano marxismo occidentale e marxismo orientale
Questa distanza è evidente a tre riguardi:
Primo, un diverso approccio al pensiero di Marx e di Engels. Questo pensiero è considerato in Cina quale una organica visione del mondo e al tempo stesso un metodo utilizzato come guida per la prassi. Per contro, il marxismo occidentale si è ormai abituato a dissezionare il pensiero di Marx e di Engels per poi rivolgere la propria attenzione ad aspetti specifici, sovente molto particolari, di quel pensiero. Ciò viene fatto dando per scontato che non esista qualcosa come “il marxismo”, ma un pensiero di Marx – a sua volta articolato in diverse fasi – ben distinto da quello di Engels e dei successivi esponenti della tradizione che a Marx si richiama: e che ogni considerazione del marxismo quale corpus teoretico unitario sia pertanto un’operazione indebita e priva di valore sul piano scientifico.
Secondo, la diversità dei temi posti in primo piano, che in parte deriva da un diverso atteggiamento nei confronti del rapporto tra teoria e prassi (tuttora molto stretto in Cina, mentre, come ho già accennato, in Occidente è quasi ovunque venuto meno – ormai da decenni – un rapporto organico tra pensiero marxista e prassi politica).
Terzo, una differenza di contesto: il marxismo è adoperato nella Cina post-rivoluzionaria come una guida della società socialista, anziché, come accade in Occidente, come la base teorica per una analisi critica dei rapporti di produzione capitalistici.
Sarebbe sbagliato pensare di annullare queste distanze, e non è realistico ritenere che essere possano essere ridotte in tempi brevi. È invece importante che si sviluppi un confronto teorico (tanto sul piano della ricerca storica, quanto su quello metodologico), un dialogo continuo e approfondito ai fini di una migliore comprensione e di un apprendimento reciproco. La Cina si è guadagnata negli ultimi anni grandi meriti nel promuovere tale dialogo, di cui l’incontro odierno rappresenta un ottimo esempio.
3.2. Occorre conquistare un approccio olistico alla tradizione marxista
Cosa significa “approccio olistico”? Significa approfondire lo studio delle teorie di Marx, Engels e Lenin, ma anche di altri pensatori e rivoluzionari marxisti del Novecento. E significa, soprattutto, considerare le esperienze storiche del comunismo nel XX secolo sia come un processo di apprendimento in sé (secondo la proposta di interpretazione di Domenico Losurdo7) sia come un processo (o meglio: un insieme di processi) da cui noi dobbiamo imparare i percorsi da seguire e gli errori da evitare. Agli studiosi cinesi questo approccio può apparire cosa ovvia. Per un marxista occidentale non è così. Il motivo è semplice: molti di essi dopo il 1989 hanno imboccato una facile scorciatoia, che possiamo sintetizzare così: “Dobbiamo proteggere Marx dalla caduta del Muro di Berlino; a questo scopo la cosa migliore da fare è considerare i Paesi socialisti entrati in crisi come un esperimento fallimentare che non aveva niente a che fare con Marx e con le sue teorie”. Una scorciatoia facile e in apparenza profittevole. In realtà, si trattava di un errore sia sul piano storico e teorico che su quello politico. Più precisamente, un errore insostenibile sul piano storico e teorico, e gravido di conseguenze negative sul piano politico.
Come studiare, quindi, quei processi per imparare da essi? Tanto per cominciare, evitando di andare alla ricerca di un’astratta corrispondenza con i classici. Mi riferisco all’approccio per cui – nello studio delle società postrivoluzionarie e dei tentativi di costruzione di una società socialista – viene fissato uno standard astratto e assoluto di confronto, e su questa base viene criticata come “revisionista” qualsiasi posizione che non sia perfettamente coincidente con quello standard.
Abbiamo bisogno di un approccio radicalmente differente. Dobbiamo cercare l’innovazione nella tradizione: dobbiamo cioè cercare nella storia del movimento operaio, delle esperienze e degli esperimenti di società socialista, il potenziale innovativo che nasce dal confronto con una nuova realtà economica e sociale e con il conseguente emergere di nuove contraddizioni. Per chiarire il mio ragionamento citerò due esempi di questo genere di innovazione.
Primo, il concetto di socialismo inteso come una fase relativamente lunga: questa innovazione può essere rinvenuta sia nel concetto di “stadio primario” del socialismo, elaborato da Deng Xiaoping8, sia nel concetto, elaborato da Walter Ulbricht, del socialismo come “formazione economico-sociale relativamente indipendente”9.
Secondo, il concetto di socialismo di mercato. Questo concetto non deve essere considerato come un ossimoro, ma come un concetto che si riferisce a una forma (o una pluralità di forme) di socialismo.
3.3. Il terzo compito che abbiamo di fronte è quello di avviare un aperto confronto con la teoria economica dominante
Proprio la mancanza di una dialettica del genere ha rappresentato una delle maggiori sconfitte per il movimento progressista nei Paesi occidentali dopo la crisi del 2008-2009. Allora siamo riusciti, io credo, a usare con successo i potenti strumenti di analisi forniti dal marxismo per interpretare quella crisi. Ma questi risultati sono stati discussi in cerchie piuttosto ridotte e non hanno avuto un impatto diffuso: e quindi le nostre idee non sono diventate una “forza materiale”10. Naturalmente la colpa di tutto questo non ricade principalmente su di noi: per ballare il tango bisogna essere in due, e gli economisti mainstream – così come i grandi mezzi di comunicazione – non hanno alcun interesse a un confronto dialettico aperto con i marxisti.
Dobbiamo d’altra parte ammettere che talvolta anche una ridotta teorica può rappresentare una comfort zone: discutere in cerchie ristrette ha anche i suoi pregi, primo tra tutti quello di non costringere a mettersi in discussione.
Ma non si tratta solo di questo. Dobbiamo chiederci in quale misura questa assenza di confronto derivi anche da quella che altrove ho definito come «la riproposizione – da parte di non pochi marxisti – di un comunismo utopico, legato a condizioni e connotato da aspetti talmente improbabili da divenire un obiettivo puramente metafisico e fantastico»11.
In questo modo il marxismo cessa di rappresentare un pensiero legato a opzioni politiche reali – per quanto radicali – per divenire riflessione speculativa, o addirittura un esercizio letterario, su universi alternativi. Questo ci porta direttamente alla quarta priorità.
3.4. La quarta priorità è rappresentata dalla ricostruzione di un legame organico con i movimenti sociali e politici
Questo è oggi per noi il compito più difficile. Le condizioni per assolverlo sono più d’una. Ma vedo in particolare un presupposto indispensabile, che consiste nel corretto posizionamento su alcune questioni fondamentali:
- la riaffermazione della centralità della lotta di classe rispetto ad altre contraddizioni (quella ambientale, quelle inerenti ai diritti civili di minoranze, ecc.);
- la rivendicazione della centralità del terreno nazionale quale terreno su cui combattere in modo efficace quella lotta;
- la comprensione della centralità di un orizzonte multipolare a livello internazionale anche a tale riguardo;
- il rifiuto di ogni posizione idealistica e pseudo-internazionalistica, a cominciare dall’europeismo; purtroppo, nonostante il carattere sempre più chiaramente regressivo dell’Unione Europea, una parte considerevole della sinistra non riesce a pensarsi che entro tale orizzonte;
- la capacità di proporre un’idea di socialismo adeguata all’attuale fase storica facendo tesoro delle lezioni della storia.
Quest’ultimo aspetto, in particolare, si lega evidentemente alle tre priorità che ho esaminato in precedenza.
Credo che solo se saremo in grado di attribuire a queste quattro priorità la loro importanza, solo se riusciremo ad attuare questi quattro compiti potremo aprire la strada a una ripresa effettiva e non effimera del marxismo in Occidente.
Vladimiro Giacché
(Tratto da “MarxVentuno”, n. 3/2022).
* Filosofo ed economista, vicepresidente dell’Associazione Marx21.
Note
1 Francis Fukuyama, The End of History and the Last Man, MacMillan, New York, 1992.
2 Włodzimierz Brus, Kazimierz Łaski, From Marx to the Market. Socialism in search of an economic system, Clarendon Press, Oxford, 1991.
3 Joseph E. Stiglitz, Whither Socialism?, MIT Press, Cambridge (Mass.)-London, 1994, p. 2; p. 169.
4 Cfr. Vladimiro Giacché, Karl Marx e le crisi del XXI secolo, in K. Marx, Il capitalismo e la crisi. Scritti scelti, a cura di V. Giacché, DeriveApprodi, Roma, 2009, 2010², pp. 7-53; Id., Marx, the Falling Rate of Profit, Financialization, and the Current Crisis, in «International Journal of Political Economy», vol. 40, No. 3, Fall 2011, pp. 18-32; Id., Capitale produttivo di interesse e “finanziarizzazione” dagli anni Ottanta a oggi. Un’analisi a partire dai manoscritti 1963-1965 di Marx per il terzo libro del Capitale, in Marx in Italia: ricerche nel bicentenario della nascita di Karl Marx, a cura di C. Tuozzolo, Aracne editrice, Roma, 2020, pp. 445-470.
5 Cfr. Vladimiro Giacché, L’economia e la proprietà. Stato e mercato nella Cina contemporanea, in Più vicina. La Cina del XXI secolo, a cura di P. Ciofi, Bordeaux edizioni, Roma, 2020, pp. 11-71.
6 Branko Milanovic, Capitalism, Alone. The Future of the System That Rules the World, Belknap Press of Harvard University Press, Cambridge (Mass.)-London, 2019, p. 73.
7 Cfr. Domenico Losurdo, La questione comunista. Storia e futuro di un’idea, introduzione e cura di G. Grimaldi, Carocci, Roma, 2021.
8 Deng Xiaoping, Excerpts from talks given in Wuchang, Shenzhen, Zhuhai and Shanghai [1992], in Selected Works of Deng Xiaoping, vol. III (1982-1992), Foreign Languages Press, Beijing, 1994, pp. 358-370.
9 Walter Ulbricht, Die Bedeutung des Werkes ,,Das Kapital“ von Karl Marx für die Schaffung des entwickelten gesellschaftlichen Systems des Sozialismus in der DDR und den Kampf gegen das staatsmonopolistische Herrschaftssystem in Westdeutschland, 1967, in Id., Zum ökonomischen System des Sozialismus in der Deutschen Demokratischen Republik, Band 2, Dietz, Berlin, 1969, pp. 505-546.
10 Karl Marx, Per la critica della filosofia del diritto di Hegel, 1842/4, tr. it. in K. Marx, F. Engels, Opere complete, vol. 3, Editori Riuniti, Roma, 1977, pp. 190-204.
11 Vladimiro Giacché, Introduzione, in Lenin, Economia della rivoluzione, a cura di V. Giacché, Il Saggiatore, Milano, 2017, p. 93.
Inserito il 27/2/2023.
Il professor Luciano Canfora parla di come fu accolto e interpretato in Italia il Manifesto del partito comunista di K. Marx e F. Engels.