Fonte della foto: canale Telegram Коммунистический мир, t.me/kom_mir
Il 2 novembre 1937 le stelle di rubino si illuminarono sulle torri del Cremlino di Mosca.
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Il 2 novembre 1937 le stelle di rubino si illuminarono per la prima volta sulle torri del Cremlino di Mosca.
Le prime stelle a cinque punte, che sostituirono le aquile zariste sulle torri del Cremlino, erano apparse nel 1935. Erano realizzate in un lega d’acciaio inossidabile e rame rosso con l’emblema della falce e martello intarsiato con gemme degli Urali.
Tuttavia, le stelle semipreziose non decorarono a lungo le torri. Solo un anno dopo, a causa delle precipitazioni atmosferiche, le gemme degli Urali si sciolsero. Inoltre, viste le loro grandi dimensioni, non si adattavano completamente al complesso architettonico del Cremlino. Pertanto, nel maggio 1937, per il ventesimo anniversario della Rivoluzione d’Ottobre, si decise di installare delle nuove stelle – luminose, di rubino – su cinque torri del Cremlino.
I disegni delle nuove stelle furono preparati dall’artista del popolo dell’URSS F.F. Fëdorovskij: egli calcolò le dimensioni, determinò la forma e il design e suggerì il rubino per il vetro. All’industria fu affidato il compito di fondere vetro e rubino. L’ordine statale fu dato allo stabilimento Avtosteklo di Konstantinovka, nella regione di Doneck. La difficoltà non era solo che prima di allora in Unione Sovietica il vetro rubino non era mai stato prodotto in tali quantità. Secondo le specifiche tecniche, doveva avere densità diverse, trasmettere raggi rossi di una certa lunghezza d’onda ed essere resistente agli sbalzi di temperatura. Uno speciale vetro rubino che soddisfaceva i requisiti fu inventato da N.I. Kuročkin, che aveva realizzato il primo sarcofago per il mausoleo di Lenin. Per garantire un’illuminazione uniforme e brillante dell’intera superficie della stella furono realizzate lampade a incandescenza uniche con una potenza compresa tra 3700 e 5000 watt, e per proteggere le stelle dal surriscaldamento gli specialisti svilupparono uno speciale sistema di ventilazione.
Le stelle del Cremlino hanno i doppi vetri: vetro opale all’interno, vetro rubino all’esterno. Il peso di ogni stella è di circa una tonnellata. Le stelle hanno dimensioni diverse. Sulla torre Vodovzvodnaja l’ampiezza è di 3 m, sulla Borovickaja 3,2 m, sulla Troickaja 3,5 m, sulla Spasskaja e sulla Nikol’skaja 3,75 m.
Inserito il 05/11/2024.
Renato Guttuso, I funerali di Togliatti (1972).
Fonte della foto: https://blogdelviejotopo.blogspot.com/2016/04/arte-socialista-el-funeral-de-togliatti.html
Dal periodico dell’ANPI «Patria Indipendente»
di Francesca Gentili
«I funerali di Togliatti»: nell’opera un grande evento del tempo dell’autore, non una descrizione asettica ma la rappresentazione di desideri e speranze; nella folla, rigorosamente tracciata in bianco e nero, i grandi del comunismo internazionale.
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«I funerali di Togliatti» di Guttuso: quando il pennello racconta
di Francesca Gentili
È il 21 agosto 1964 quando l’agenzia di stampa Ansa diffonde la notizia: «Con profondo dolore la segreteria del Pci annuncia la morte del compagno Palmiro Togliatti (1893-1964), avvenuta oggi a Jalta alle ore 13.20». Il quotidiano «l’Unità», organo ufficiale del partito, esce in edizione straordinaria con la prima pagina listata a lutto e la scritta Togliatti è morto, descrivendolo come «un grande figlio del popolo italiano, un dirigente geniale del comunismo internazionale, un combattente che ha speso tutta intera la sua esistenza in una lotta dura e infaticabile per il socialismo, per la democrazia, per la pace». Quattro giorni dopo, Roma è invasa da oltre un milione di persone, accorse da tutta l’Italia e l’Europa a rendere omaggio al leader comunista. Una grande folla, commossa e in lacrime, assiste al passaggio del corteo che, per alcune ore, sfila da via delle Botteghe Oscure, dove è stata allestita la camera ardente, a piazza San Giovanni. Fra questi anche il pittore siciliano Renato Guttuso (1911-1987), che otto anni più tardi dedicherà a quella giornata una delle sue opere più conosciute, I funerali di Togliatti (1972), appunto, oggi conservato nelle sale del museo Mambo di Bologna.
La morte di Togliatti porta turbamento in chi non è preparato ad una simile notizia e scompiglio in chi, da sempre, è avverso alle sue idee politiche. La Chiesa, ad esempio, per tutta la durata delle esequie chiude la basilica di San Giovanni e le altre chiese disposte lungo il percorso del corteo, misura interpretata come una «muta disapprovazione per lo svolgersi di una solenne cerimonia funebre, non cristiana, in Roma cristiana, e proprio davanti alla sua cattedrale». Anche se piazza San Giovanni è la storica piazza della sinistra italiana da cui Togliatti tante volte aveva parlato al suo partito, alla sinistra e all’Italia tutta. Anche la Rai-Tv, quella del direttore generale Ettore Bernabei (DC), per l’occasione si fa silente, decidendo di non trasmettere la diretta delle onoranze funebri ma semplicemente una sintesi registrata dopo il telegiornale delle 23.
Guttuso sceglie di dedicare all’evento una imponente tela di quattro metri e quaranta per tre e quaranta. Si tratta di un racconto senza tempo dove convivono tante personalità che hanno fatto grande il movimento comunista, il sindacato, l’intellettualità e il Pci, a significare che le idee superano la morte e che, insieme, si può lottare per una società migliore. Il dipinto, divenuto il manifesto del Pci, racconta un’epoca e, con lirismo poetico, mostra, tutti insieme, i leader del Pci e il popolo dalle bandiere rosse, uniti nell’ultimo saluto a Togliatti, l’uomo che fece del Partito comunista un grande partito di massa, soggetto fondamentale della democrazia repubblicana. Un quadro, questo di Guttuso, profondamente corale dove a rendere omaggio alla salma di Togliatti, ci sono donne e uomini, contadini e operai, impiegati ed emigrati italiani, studenti e intellettuali, dirigenti di partito e rappresentanti delle istituzioni.
Fra la folla, rigorosamente tracciata in bianco e nero, spiccano i grandi del comunismo internazionale: molti Lenin, Antonio Gramsci ed Enrico Berlinguer che proprio nel 1972, anno in cui Guttuso realizza l’opera, viene eletto segretario del Pci; si riconoscono Luigi Longo, Giuseppe Di Vittorio, Giorgio Amendola, Giancarlo Pajetta, Pietro Ingrao, Alessandro Natta, Nilde Iotti, papà Cervi e molti altri, fra cui lo stesso artista; troviamo poi due importanti donne comuniste, Dolores Ibarruri e Angela Davis, che in epoche e continenti diversi hanno lottato contro il fascismo e la segregazione razziale; si intravedono infine anche Giuseppe Stalin e Leonid Brezhnev.
È lo stesso Guttuso che racconta la genesi dell’opera: «Cominciai – ricorda l’artista – col disegnare più volte il profilo di Togliatti. Qua il primo problema. Gli occhiali. Era difficile renderlo a tutti riconoscibile senza gli occhiali… Circondai il profilo con un collage di fiori ritagliati da alcune riviste di floricultura. Poi cominciai a mettere, attorno a quel punto focale, i ritratti dei suoi compagni, quelli con i quali aveva avuto i più stretti rapporti di lavoro, nell’esilio, in Spagna, in Unione Sovietica. Tenendo conto dei rapporti con Togliatti e non della loro presenza effettiva ai funerali». Il pittore racconta l’evento con minuzia di dettagli, regalando alla composizione tutta la commozione e l’emozione di un popolo che da tutto il Paese si raccoglie attorno al suo leader, padre della democrazia italiana, basata su una Costituzione antifascista e fondata sul lavoro. Un popolo che con la propria presenza partecipa da protagonista ad una storia più grande e, con pugno chiuso, bandiere rosse e testa alta, si ferma per un lungo istante di dolore.
Guttuso è un abile cronista: con il pennello racconta i grandi eventi del suo tempo, dai fenomeni di massa alle realtà sociali in trasformazione, non limitandosi a una descrizione asettica ma rappresentando i desideri e le speranze di una parte della società, composta dal mondo popolare del lavoro e della cultura progressista. Una scelta realista, la sua, nata fin da giovane e maturata sotto il fascismo, declinata sia nella partecipazione alla vita politica sia nella pittura: «L’arte – afferma l’artista – non si fa per “grazia” di Dio o per rivelazione. Dio non c’entra, né la grazia, ma solo la quantità di noi stessi come sangue, intelligenza, vita morale, che ci si butta dentro». Già nei primi anni Cinquanta del secolo scorso Guttuso realizza alcune tele dal forte contenuto sociale, come Occupazione delle terre incolte in Sicilia (1950), la Battaglia di Ponte dell’Ammiraglio (1952) o ancora La zolfara (1953). L’artista mostra la vita delle donne e degli uomini, divenendo di fatto il pittore della sua epoca.
Francesca Gentili*
* Critica d’arte.
(Tratto da: Francesca Gentili, Guttuso: quando il pennello racconta, in «Patria Indipendente», anno II, n. 19, 8 settembre 2016; disponibile su https://www.patriaindipendente.it/terza-pagina/forme/guttuso-quando-il-pennello-racconta/).
Inserito il 22/08/2024.
Il 30 dicembre 1922 il Primo Congresso dei Soviet di tutta l’Unione proclamò la formazione dell’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche, il primo stato socialista al mondo, che univa su base volontaria ed egualitaria le repubbliche sovietiche nate dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917.
Fonte della foto: https://dzen.ru/a/Yw2PvKK7Zh3rzLKS
Secondo una diffusa leggenda metropolitana, per le Olimpiadi del 1980 si dovevano costruire a Mosca delle “case rotonde”: una serie di cinque edifici circolari delle stesse dimensioni a simboleggiare i cinque anelli olimpici. Ma non si tratta d’altro che di una leggenda, appunto.
In effetti un progetto di villaggio olimpico con edifici ad anelli esisteva, ma per ragioni economiche fu respinto e per le abitazioni da assegnare provvisoriamente agli atleti prevalsero alternative meno costose.
Però due “case rotonde” ci sono davvero, a Mosca, e Google Maps può darcene una prova.
Quando, nei primi anni Settanta, si progettò il primo edificio circolare di edilizia residenziale alla periferia di Mosca, lo si intese come un esperimento: un tentativo di allontanarsi dalla monotonia dello sviluppo tipico delle aree residenziali di nuova costruzione, con file di edifici a nove piani montati come gli elementi della Lego, cioè giustapponendo pannelli prefabbricati. Si voleva costruire insomma qualcosa di nuovo e interessante.
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Le “case rotonde” di Mosca
La storia delle “ciambelle” di cemento
Negli anni ’70 a Mosca si iniziò a costruire attivamente alti edifici residenziali con pannelli standard prefabbricati (classificati con la sigla di serie I-515/9M), e così la maggior parte delle aree residenziali della capitale iniziarono ad assomigliarsi come i piselli in un baccello. Per scostarsi da questa regola, la GlavApu (Direzione Principale di Architettura e Pianificazione di Moskomarchitektura [nota di Moslenta.ru]) chiese agli architetti di pensare a qualcosa che rompesse la monotonia partendo da progetti standard.
Il progetto della prima casa ad anello nell’area di Očakovo-Matveevskoe venne sviluppato nel laboratorio n. 3 dell’Istituto Mosproekt-1 sotto la guida dell’architetto Evgenij Stamo con la collaborazione degli architetti N. Ullas, S. Karpova, N. Pelevina, nonché degli ingegneri A. Markelov, I. Kosova, N. Lavrov. Oltre all’obiettivo di aggiungere attrattiva all’area, gli autori si sono ispirati all’idea di ricreare un vero e proprio vecchio cortile abitativo sovietico, e per di più funzionale: tutte le infrastrutture necessarie erano previste a pochi passi.
Gli architetti, dopo aver valutato progetti di costruzioni standard, idearono una struttura originale: un edificio a pannelli prefabbricati perfettamente circolare. Gli esperti stabilirono che l’angolo massimo alla giunzione dei pannelli non potesse superare i 6 gradi. Posizionando i blocchi con una tale angolazione, fu possibile comprendere in un edificio ad anello un paio di dozzine di ingressi. Progetto originale e audace.
La prima “casa rotonda” fu costruita nel 1972 in via Nežinskaja. Ospita 913 appartamenti distribuiti in 26 ingressi; il diametro dell’edificio è di 155 metri. Il cortile rotondo ha quasi le dimensioni di un campo da calcio, vi si accede dalla strada tramite sei archi. Al piano terra dell’edificio ci sono negozi, una farmacia, un salone di bellezza e un parrucchiere, una lavanderia e un atelier, un centro ricreativo per bambini e una biblioteca.
La “casa rotonda” fu molto apprezzata dai moscoviti: ottenere un appartamento qui era considerato un grande successo. Sulla Nežinskaja all’inizio andarono ad abitare molti stranieri: ai dipendenti del Comecon (il Consiglio di mutua assistenza economica dei Paesi socialisti), tra cui cittadini della RDT, della Cecoslovacchia e della Jugoslavia, furono assegnati appartamenti di tre stanze; quando gli stranieri se ne andavano, toccava ai comuni moscoviti ricevere un alloggio in questo edificio.
Il risultato del primo edificio ad anello piacque alle autorità locali e si decise di continuare a sviluppare Mosca con gli “anelli”. Si pensò di costruirne cinque in vista delle Olimpiadi del 1980: cinque edifici che dovevano mostrare dal cielo gli anelli olimpici. Solo che… la seconda “casa rotonda” fu terminata solo sette anni dopo, nel 1979.
Fu costruita in via Dovženko e risultò e essere una copia perfetta della sorella, solo con due appartamenti in più. Il palazzo fu costruito e occupato in più fasi: mentre metà dell’edificio era ultimata e la gente viveva già negli appartamenti, la seconda parte dell’“anello” era appena nelle prime fasi di costruzione.
Grazie all’ubicazione a due passi dalla Mosfil’m, famosi artisti di teatro e di cinema vissero per qualche tempo in via Dovženko: Savelij Kramarov, Galina Beljaeva, Emil Loteanu. Diversi film sono stati girati tra le mura della “casa rotonda”, comprese le riprese panoramiche delle finestre illuminate nella scena finale del film Mosca non crede alle lacrime.
Le Olimpiadi passarono e qualsiasi progetto di “case rotonde” fu definitivamente abbandonato. I nuovi quartieri continuarono ad essere costruiti con edifici dalle forme più familiari.
L’architetto Sergei Borisovič Tkačenko, ex capo dell’Istituto di ricerca e sviluppo del Piano Generale di Mosca, ha raccontato a Moslenta.ru come furono costruite le “case rotonde”, perché la storia delle Olimpiadi è inverosimile e per quale motivo le autorità hanno abbandonato l’ulteriore costruzione di complessi residenziali così originali:
«Il motivo principale per cui si decise di costruire queste “case rotonde” era che, nonostante l’efficienza e l’economicità, la pur comoda ubicazione degli edifici tradizionali a nove piani negli isolati era un po’… non voglio dire la parola “noiosa”, ma aveva un po’ stancato. Su alcune persone questi pannelli standard prefabbricati esercitano addirittura una forma di oppressione morale.
Pertanto la GlavApu permise agli architetti di provare a realizzare un edificio dalla forma insolita partendo da progetti standard.
Ebbene, avrebbero potuto realizzare una specie di “serpente”, ma era un’idea piuttosto debole, quindi svilupparono un progetto per edifici rotondi così grandi. Avrebbero dovuto essere degli edifici esemplari, un fiore all’occhiello, sarebbero serviti a rivitalizzare la zona o una cosa del genere. Il partito e il governo presero la decisione e i lavori iniziarono. L’importante era la decisione politica, poi tutto sarebbe venuto da sé.
L’architetto era Evgenij Stamo. Lo trovai come responsabile dell’ufficio di progettazione quando iniziai a lavorare nel primo Mosproekt sotto la direzione di Belopolskij (Jakov Borisovič Belopolskij, architetto sovietico). Ricordo che ero invidioso di chi aveva progettato il “villaggio olimpico” di Stamo; anch’io volevo andare a lavorarci. Ma alla fine finii in un posto diverso. È stato giusto così.
In generale, questi edifici non hanno caratteristiche speciali. Prendi un edifico normale e piegalo a forma di ciambella: non verrà fuori nulla di radicalmente nuovo. Era un edificio a pannelli prefabbricati standard, in alcuni punti misero degli inserti monolitici.
Lo costruirono esclusivamente per ragioni… beh, per rendere la zona in qualche modo più interessante. Si è rivelato essere un grande cortile, secondo il progetto si prevedeva di costruire al suo interno un asilo nido. L’idea era quella di ricreare un vero e proprio cortile abitativo sovietico.
C’erano progetti per un villaggio olimpico a forma di anelli, ma alla fine ebbero la meglio altri sviluppi. Più economici. In generale, i villaggi olimpici non sono mai stati costosi, questo è un principio: ciò però significa che questo progetto non era adatto. Inizialmente, gli atleti vivono temporaneamente nelle case, dopodiché vengono utilizzate come alloggi economici. Bene, però allora tutte le nostre case erano economiche.
L’idea delle Olimpiadi era, ovviamente, inverosimile. Tutto è iniziato semplicemente con la costruzione di case rotonde per allontanarsi dalla disposizione tipica dei quartieri di periferia. Soloo in seguito pensarono a collegarli all’idea delle Olimpiadi. Ciò fu dovuto principalmente alla stampa: puoi far passare qualsiasi idea, se vuoi. Circola una leggenda, poi alla fine diventa verità.
C’erano diverse ragioni per rifiutare l’ulteriore costruzione di questi edifici. In primo luogo, l’uso antieconomico del territorio urbano: su una stessa superficie si possono disporre più edifici quadrangolari che rotondi.
In secondo luogo, in tali case ci sono problemi con l’insolazione. Ci sono appartamenti orientati a nord che ricevono poca luce solare. Secondo gli standard dovrebbero essere più grandi, ma in Unione Sovietica non si potevano dare appartamenti grandi a tutti, capisci. Adesso va bene: lo fanno tutti Dio sa come. E poi era impossibile violare queste norme. L’appartamento doveva ricevere una certa quantità di luce solare diretta, e basta.
In terzo luogo, sebbene tali edifici siano stati costruiti con pannelli prefabbricati ordinari, il progetto era tutt’altro che ordinario dall’inizio alla fine. Alla serie di pannelli standard si sono dovuti aggiungere degli inserti monolitici per chiudere l’edificio in un cerchio. Ciò ha allungato i tempi di costruzione. Così il costo, ovviamente, è aumentato. Anche questo ha avuto un ruolo.
Non posso dirlo con certezza, ma molto probabilmente a causa di questa forma e dimensione la casa rotonda crea disturbi d’aria. Risultati di turbolenza. Nel cortile, ad esempio, potrebbe formarsi un forte vento, con folate e fischi da più direzioni.
Alla fine si costruirono solo due “ciambelle” e lì ci si fermò».
Sono passati gli anni, oggi non sono più gli artisti a vivere in queste famose case, ma dei comuni moscoviti.
«Moslenta» ha parlato con i residenti delle case circolari e ha scoperto quali difficoltà causano loro gli alloggi non standard.
Gli appartamenti qui hanno dimensioni standard. Monolocale: 32 m², bilocale 45, trilocale 58. Le cucine sono piccole, 6 metri quadrati. Ma i soffitti sono più alti (non 250, ma 264 centimetri).
Gli appartamenti non hanno ambienti quadrati, hanno tutti forma trapezoidale. Questo perché l’esterno dell’edificio è più lungo dell’interno. I residenti dicono che questo è praticamente impercettibile, ma complica la disposizione dei mobili e crea problemi in fase di ristrutturazione.
“Lo noti quando rifai i soffitti e i pavimenti, ma va bene, gli angoli sono diversi, ma comunque angoli”, dice Nadežda che vive nella casa sulla Nežinskaja.
La ventilazione della casa è scarsa e in alcuni appartamenti appare la muffa. Se questo sia dovuto alla forma della casa o ad un uso improprio è difficile dirlo.
“O le prese d’aria sono progettate così, oppure sono semplicemente intasate, ma quando chiudi la porta del bagno l’aria umida non viene portata via dal sistema di ventilazione. Forse è così anche nelle case normali. Non lo so”, continua Nadežda.
Gli ospiti delle case rotonde spesso hanno difficoltà a trovare l’ingresso e l’appartamento giusti: non è così facile, anche tenendo conto dei numeri frontali scritti in grande. E i residenti devono affrontare il problema del parcheggio: ci sono troppe macchine per un cortile così piccolo.
“Ogni famiglia ha due auto, non c’è spazio nel cortile. Recentemente accanto a casa nostra sono stati costruiti degli uffici e ora parcheggiano qui anche i dipendenti”, racconta Valentina, abitante della casa in via Dovženko.
Un problema delle “ciambelle” è la vista dalla finestra. I balconi e le finestre che si affacciano sul cortile si trovano con un’angolazione l’uno rispetto all’altro, quindi dagli appartamenti puoi vedere chiaramente tutto ciò che sta accadendo con i tuoi vicini.
Un’altra caratteristica delle case rotonde è l’acustica:
“Se qualcuno starnutisce sul balcone lo sente tutta la casa, se qualcuno si siede in cortile e parla lo sentono tutti, ma ci si fa l’abitudine”, continua Valentina.
I residenti notano che gli “anelli” presentano anche molti vantaggi. Ad esempio, al pianoterra ci sono varie strutture sociali: negozi, farmacie, la casa in via Nežinskaya ha anche una propria biblioteca.
“Avere un negozio vicino è molto comodo. A volte non vado da nessuna parte, tutto è vicino. E tutti i residenti si conoscono, quasi tutti i bambini frequentano lo stesso asilo. Abbiamo la nostra mini-città nella città”, riassume Valentina dalla sua casa a Dovženko.
Tra gli abitanti delle case leggendarie circolano voci secondo cui la “ciambella” di via Dovženko sarà demolita. Ma al momento non esistono prove di ciò.
“Non ho sentito nulla della demolizione. Il fatto è che non è redditizio demolire e ricostruire edifici di nove piani. Penso che ora i residenti potranno dormire sonni assolutamente tranquilli finché non finiranno le temporanee difficoltà economiche nel paese”, rassicura i residenti l’architetto Sergej Tkačenko.
Evgenij Kostogorov
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da: Evgenij Kostogorov, Kto i začem postroil v Moskve kruglye doma. Istorija samych izvestnych “bublikov”, in https://moslenta.ru/city/round.htm e https://dzen.ru/a/Yw2PvKK7Zh3rzLKS).
Inserito il 16/12/2023.
Fonte della foto: https://dzen.ru/a/Yw2PvKK7Zh3rzLKS
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/c/c0/Dov_8.jpg
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L’edificio di via Nežinskaja in costruzione nel 1972.
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Un progetto (non realizzato) di villaggio olimpico per Mosca 1980.
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Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/it/7/79/Partigiani1.jpg
di Libera Capozucca
Come nasce quest’inno partigiano senza tempo, scritto sulle alture del Ponente ligure nei giorni di Natale, mentre il freddo rendeva ancora più dura ed eroica la Resistenza ai nazifascisti. E come, poi, la “lotta” si spostò sul riconoscimento dei diritti.
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«Fischia il vento»: storia di una canzone che ha fatto storia
Come nasce quest'inno partigiano senza tempo, scritto sulle alture del Ponente ligure nei giorni di Natale, mentre il freddo rendeva ancora più dura ed eroica la Resistenza ai nazifascisti. E come, poi, la “lotta” si spostò sul riconoscimento dei diritti
C’è la storia più nobile della Resistenza italiana dietro il nome di Felice Cascione, autore del celebre inno Fischia il vento. La canzone, simbolo della lotta partigiana nel nostro Paese, è uno dei pilastri su cui poggia la memoria popolare antifascista e ancora oggi attraversa il tempo come un ponte tra generazioni, riannodando il filo della storia.
Sono trascorsi ormai più di cento inverni dalla sera in cui Cascione scrisse i versi di un canto che racconta il freddo patito dai ribelli sulle montagne e la loro lotta per la libertà. Non ha ancora 25 anni e si è appena laureato in Medicina, quando sceglie la strada della rivolta contro il fascismo, assumendo il comando di una formazione armata sulle alture nei pressi di Imperia. I suoi uomini sono più giovani di lui, hanno le armi sempre pronte e il cuore vivo perché, se da un lato la guerra non risparmia nessuno, dall’altro consolida il legame con la vita in una tensione che fa, della vita stessa, una continua attesa della morte.
In quella freddissima sera di dicembre del ‘43, intorno al fuoco, il partigiano “Ivan” Giacomo Sibilla imbraccia la chitarra e intona una canzone popolare che ha imparato in Russia. Si tratta di Katiuscia, composta dal maestro Matvej Blanter sulle parole del poeta Michail Isakovskij, che racconta la nostalgia di una ragazza per il suo amato lontano, al fronte. Il motivo è orecchiabile e i partigiani la intonano, ma il testo non li rappresenta, in fondo è una canzone d’amore. A questo punto Cascione comincia a scrivere dei versi, spinto dal bisogno di raccontare una storia diversa, la storia nuda e cruda dei partigiani come loro, tutta azione e sacrificio, come testimonianza antiretorica di libertà.
La fame, il freddo che taglia la faccia, i piedi esposti alla neve, la commozione al ricordo delle donne lasciate in paese, le stelle di notte, la furia della vendetta, la libertà, la pace da conquistare: i versi prendono forma in uno stile netto e asciutto, severo e deciso, come l’anima di ogni vero partigiano. Alla Vigilia di Natale, dopo la messa di mezzanotte, Cascione e i suoi uomini scendono a Curenna per omaggiare la gente del posto, che l’indomani li riceverà nelle loro case per il pranzo natalizio. Intonano Fischia il vento, la prima esecuzione del brano davanti ad un pubblico attento e commosso; lo rifaranno ad Alto, il giorno dell’Epifania, ed entro poche settimane tutte le Brigate Garibaldi canteranno la stessa canzone di quel valoroso medico-comandante, ucciso dai tedeschi il 27 gennaio 1944.
A Liberazione avvenuta, un’altra battaglia ha inizio: la madre di Cascione rivendica a suo figlio la paternità del testo, dal momento che la canzone viene attribuita ad autori diversi e l’editrice musicale Metron vuole ottenerne i diritti. Dovranno passare ancora degli anni, ma nel 1951 la signora Maria vedrà accolta la sua domanda di iscrizione alla SIAE in qualità di erede dell’autore. Nel frattempo, Fischia il vento è ormai diventata patrimonio di tutti anche se Bella ciao, a partire dagli anni ’60, resta senz’altro più celebre e universalmente riconosciuto come il canto della Resistenza. Non si tratta, in verità, di una canzone partigiana ma rappresenta un chiaro esempio di canto popolare, diffuso dopo che la Resistenza è già finita.
La storia di Fischia il vento, invece, è la storia di chi giudica la guerra non da spettatore ma da protagonista, rappresentando quell’atmosfera e quel tempo con una volontà di chiarezza che è già, di per sé stessa, garanzia di verità. Scrisse Fenoglio in una pagina de Il Partigiano Johnny: “Essi hanno una loro canzone, noi ne abbiamo troppe e nessuna. Quella loro canzone è tremenda. È una vera e propria arma contro i fascisti, li fa impazzire a solo sentirla”. Fischia il vento era potente contro il nemico, perché potente è stato il coraggio di una giovinezza generosa di sé che tenacemente non si è risparmiata in nome della libertà.
Libera Capozucca
(Tratto da: https://www.rockit.it/articolo/fischia-vento-storia-canzone-che-ha-fatto-storia).
Inserito il 28/4/2023.
Giuseppe Pellizza da Volpedo, Il quarto stato, 1901, olio su tela, Milano, Galleria d’Arte Moderna.
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/2/29/Quarto_Stato.jpg
di E. Pasqualone
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Il quarto stato
Nel 1901 Giuseppe Pellizza (1868-1907) termina la sua opera più conosciuta, Il quarto stato. Il dipinto è considerato il manifesto dell’impegno sociale e umanitario del pittore, convinto che nella società del tempo l’artista avesse il compito di educare la popolazione, elevandola spiritualmente e culturalmente tramite l’arte. È anche interessante, per la coincidenza di date, il riferimento al celebre discorso che Giolitti tenne alla Camera nel 1901, proprio sulla questione dell’ascesa politica delle classi popolari.
L’opera, risultato di anni di duro lavoro, e preceduto da numerosi bozzetti e disegni preparatori, rappresenta una folla di contadini e lavoratori che avanza verso l’osservatore, emergendo dallo sfondo di un paesaggio indefinito dominato da tonalità cupe. In primo piano, dove si concentra una luce piena e calda, troviamo tre figure, due uomini e una donna con un bambino in braccio, che guidano il corteo. La scena è ambientata probabilmente nella piazza di Volpedo e i protagonisti del suo dipinto sono gli stessi abitanti che fungono da modello per l’artista.
Questo dipinto si distacca dalle precedenti versioni per quanto riguarda il significato: mentre prima ciò che Pellizza voleva comunicare era una sorta di protesta sociale, qui intende celebrare l’affermazione di una nuova classe sociale, il proletariato, che, consapevole della propria forza, inizia a rivendicare i propri diritti sulla classe dominante nella società industriale, la borghesia. Nella composizione notiamo quindi due blocchi differenti: le tre figure in primo piano e la massa di lavoratori alle loro spalle.
La donna con il bambino in braccio ha il volto della moglie di Pellizza, Teresa, e con il suo gesto sembra invitare la folla a seguirla; il movimento del corpo è sottolineato dalle pieghe svolazzanti della veste, che si avvolgono intorno alle gambe. Al centro domina la scena quello che probabilmente è il leader della massa, un uomo che avanza tranquillo, con una mano in tasca e la giacca buttata sulle spalle, ed attira la nostra attenzione per il vivido colore rosso del suo panciotto, in netto contrasto con il bianco candido della camicia. Alla sua destra un altro uomo, con la giacca appoggiata sulla spalla sinistra, procede silenzioso e concentrato.
I contadini sullo sfondo formano una specie di quinta teatrale, poiché sono disposti per la maggior parte sul piano frontale, ma ai lati sono leggermente avanzati; tutti i soggetti discutono tra di loro e e compiono gesti molto naturali, come proteggersi gli occhi dal sole, portare un bambino in braccio, o semplicemente volgere avanti lo sguardo: tutto ciò sta a dimostrare il grande studio dal vero che ha compiuto l’autore prima di realizzare quest’opera.
In questo dipinto la tecnica divisionista di Pellizza trova la sua più alta espressione. Nel tentativo di ottenere la massima luminosità possibile, egli concentra nel primo piano una gamma cromatica chiara, con una netta prevalenza di toni caldi, ocra e rosati, che rendono più vivo il riflesso della luce attraverso l’accostamento di colori, stesi attraverso i piccoli tocchi della tecnica divisionista.
In questo quadro tutto contribuisce a rendere l’idea di compattezza e di unione di questa nuova classe sociale, che attraverso numerose lotte per i suoi diritti, otterrà una posizione politica di importante peso nella società moderna.
Lo schieramento orizzontale delle figure, sviluppate secondo la composizione paratattica, rinvia da un lato, alla soluzione classica del fregio, dall’altro a una situazione molto realistica, che sembra ripresa direttamente da un episodio di protesta sociale. È una soluzione compositiva che associa il ricordo dei valori riferiti all’antica civiltà classica alla moderna consapevolezza dei propri diritti civili. La compattezza dei personaggi, gli atteggiamenti decisi e l’imponente procedere in avanti verso lo spettatore sono altri efficacissimi espedienti espressivi atti a creare l’effetto di una massa unica che avanza inesorabile, con chiare allusioni sia al valore di solidarietà sociale, sia alla presa di coscienza dalla propria forza politica da parte di tanti individui che si sentono sempre più una "classe sociale" capace di rivendicare i propri diritti.
Altro riferimento fondamentale già apparso in Fiumana, è l’evocazione della Scuola d’Atene di Raffaello, soprattutto per l’armonia d’insieme e per quella particolare ricerca di naturalezza e semplicità a cui l’artista si è tanto dedicato, evidente anche nei bellissimi disegni preparatori.
Anche se all’inizio Il quarto stato suscitò parecchie perplessità, sia nei critici che negli amici stessi di Pellizza, successivamente ha incontrato una enorme fortuna, grazie anche al messaggio sociale di cui è portatore.
E. Pasqualone
(Tratto da: https://www.geometriefluide.com/it/quartostato-pellizza/)
Bibliografia
- Anna Maria Damigella, Pellizza da Volpedo, Giunti editore, 1999
- Emma Bernini, Roberta Rota, Storia dell’arte. Il Settecento e l’Ottocento, Laterza editore, 2000
- Giulio Carlo Argan, L’arte moderna, Sansoni editore, 2002
- Giorgio Cricco, Francesco Paolo di Teodoro, Itinerario nell’arte, Zanichelli editore, 2008
Inserito il 6/4/2023.
Stalingrado, 1943. La fontana Barmalej fu costruita nel 1930; il gruppo di bambini in girotondo fu eseguito dalla scultrice Ol'ga Nikolaevna Kudrjavceva.
(Fonte della foto: https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=75487288)
Lev Trockij (1879-1940).
(Fonte della foto: Wikimedia Commons)
Presentiamo un articolo pubblicato sulla “Pravda” nel 1923 in cui il capo bolscevico Lev Davidovič Trockij, allora Commissario del Popolo per l’Esercito e la Marina nella Russia sovietica, si occupava di un tema che, in quell’epoca segnata da mille emergenze, poteva sembrare secondario: il linguaggio e la cultura che la classe operaia deve acquisire se vuole porsi all’altezza dei compiti che la Rivoluzione d’Ottobre le ha affidato.
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La lotta per un linguaggio educato e colto
«All’assemblea generale degli operai del calzaturificio “La Comune di Parigi” si è deciso di vietare le imprecazioni, di multare le persone per le espressioni volgari, ecc.».
Il fatto è piccolo nel vortice del nostro tempo e in rapporto all’enormità del numero delle “espressioni” usate da Lord Curzon1, per le quali egli non può ancora essere multato, ma è comunque un fatto significativo. La sua importanza, tuttavia, sarà determinata solo dai riscontri che questa iniziativa troverà.
Il linguaggio triviale è un’eredità della schiavitù, dell’umiliazione e del disprezzo per la dignità umana, propria e altrui; ciò vale in particolare per il popolo russo. Dovremmo chiedere a filologi, linguisti e studiosi di folklore se altri popoli sono così sfrenati come il nostro nell’abuso di un linguaggio così sguaiato, nell’uso di espressioni ingiuriose e volgari. Che io sappia quasi nessun popolo si abbassa al nostro livello. Il linguaggio triviale russo dei bassi strati sociali era frutto della disperazione, dell’amarezza e soprattutto della schiavitù senza speranza di riscatto e senza scampo. Dall’altra parte, le imprecazioni delle classi elevate, quelle che uscivano dalle bocche dei nobili, dei poliziotti, delle autorità, erano un’espressione di superiorità di classe, rappresentavano ilo vanto per il possesso di schiavi, la sicurezza dell’inviolabilità delle fondamenta del potere… Si dice che i proverbi siano espressione di saggezza popolare: tuttavia essi non esprimono solo saggezza, ma anche oscurantismo, pregiudizi, schiavitù. “L’insulto non si attacca al colletto”, dice un vecchio proverbio russo, ed esso non solo riflette la schiavitù come dato di fatto, ma anche l’umiliante accettazione di essa. Due flussi di imprecazioni russe – quello signorile, burocratico, poliziesco, ben nutrito, con il grasso alla gola, e l’altro, affamato, disperato, straziato – hanno dipinto l’intera vita russa con uno schema verbale disgustoso. E una tale eredità, tra molte altre, ha ricevuto la rivoluzione.
Ma una rivoluzione è, prima di tutto, il risveglio della personalità umana in quelle masse che prima dovevano essere impersonali. La rivoluzione, nonostante tutta la crudeltà e la spietatezza occasionalmente cruenta dei suoi metodi, è prima di tutto e soprattutto il risveglio dell’umanità, la sua marcia in avanti, l’affermazione del rispetto per la dignità propria e altrui, la crescita della partecipazione dei più deboli alla vita sociale. Una rivoluzione non è tale se non aiuta con tutte le sue forze la donna, oppressa il doppio e il triplo rispetto all’uomo, a imboccare la strada dello sviluppo personale e sociale. Una rivoluzione non è tale se non si assume la massima cura per i bambini: essi sono il futuro in nome del quale si fa la rivoluzione. E come si può creare giorno dopo giorno – anche se a piccoli passi – una nuova vita basata sul rispetto reciproco, sul rispetto di sé, sull’uguaglianza della donna come compagna a tutti gli effetti, sulla genuina cura di un bambino, se nell’atmosfera rimbombano, ruggiscono, squillano i sonagli delle imprecazioni da signori e da schiavi russi che non risparmiano niente e nessuno? La lotta contro le “espressioni triviali” è una condizione essenziale di igiene culturale, così come la lotta contro lo sporco e i pidocchi è una condizione essenziale per l’igiene fisica.
Sradicare il linguaggio volgare non è affatto semplice, perché le radici di tale sfrenatezza espressiva non sono nella lingua, ma nella psiche e nella quotidianità. L’iniziativa della fabbrica “La Comune di Parigi” deve, ovviamente, essere accolta con il massimo favore, ma serviranno soprattutto resistenza e perseveranza, poiché le abitudini psicologiche che si sono trasmesse fino ad oggi di generazione in generazione saturano l’intera atmosfera e non sono facili da sradicare; spesso ci precipitiamo in avanti, ci sforziamo troppo nella fase iniziale, e in seguito ci stanchiamo e ci arrendiamo lasciando tutto come prima.
C’è da sperare che le lavoratrici, e soprattutto le comuniste, sostengano l’iniziativa della fabbrica “La Comune di Parigi”. Si può dire che, come regola generale – ovviamente ci sono anche eccezioni –, l’uomo sboccato e volgare disprezza le donne e non si prende cura dei bambini; ciò non vale solo per le masse arretrate, ma spesso anche per gli elementi più progrediti e talvolta si verifica anche tra coloro che si reputano più “responsabili”. Del resto, non si può negare che l’antica fraseologia volgare russa prerivoluzionaria (Ščedrin la chiamava mitirognosia ‘lingua materna’) sia ancora, sei anni dopo l’Ottobre, molto diffusa nel nostro Paese, anche tra i cosiddetti “vertici”. Se sono fuori città, in particolare fuori Mosca, alcuni “dignitari” considerano addirittura loro dovere usare espressioni “colorite” a destra e a manca, vedendo in ciò un modo più diretto per avvicinarsi ai contadini…
La nostra vita russa è caratterizzata dalle più stridenti contraddizioni, sul piano economico come su quello delle forme culturali. Al centro del Paese, vicino a Mosca, ci sono chilometri e chilometri di zone paludose, ci sono strade impraticabili, e proprio nelle vicinanze di queste potete d’improvviso trovare una fabbrica che impressionerebbe un ingegnere europeo o americano per la sua attrezzatura tecnica. Contrasti del genere abbondano nella nostra vita nazionale. E non solo nel senso che accanto a un redivivo Kit Kityč2, che ha attraversato rivoluzioni, espropri, saccheggi, speculazioni clandestine, speculazioni legalizzate e ha conservato quasi intatta la sua volgare natura predatoria da suburbio, incontriamo il tipo migliore di operaio comunista, che dedica giorno dopo giorno la propria esistenza agli interessi del proletariato mondiale ed è pronto a battersi in qualsiasi momento per la causa della rivoluzione in qualsiasi Paese, anche in quelli che forse non sarebbe neanche in grado di individuare sulla carta geografica. Oltre a questi contrasti sociali – tra l’ottusa bestialità e il più elevato idealismo rivoluzionario – spesso assistiamo a contrasti psicologici in uno stesso individuo, in un’unica coscienza. Possiamo trovare un comunista leale e devoto alla causa per il quale le donne non sono che «femmine» (che parola vile!) da non prendere in seria considerazione. Oppure puoi trovare un apprezzabile comunista che, sulla questione delle minoranze nazionali, rutterà all’improvviso delle frasi così reazionarie che ti toccherà correre fuori dalla stanza. Tutto ciò dipende dal fatto che le diverse parti della coscienza umana non mutano e non si sviluppano simultaneamente e lungo linee parallele. C’è una certa economia nel processo. La psiche umana è molto conservatrice e i mutamenti dovuti alle esigenze e agli stimoli della vita investono, in primo luogo, i settori della mente che vi sono coinvolti direttamente. In Russia, lo sviluppo sociale e politico degli ultimi decenni ha proceduto in un modo del tutto inedito, e con salti e balzi sorprendenti. Per questo da noi sono così profondamente radicate le sorelle Rovina e Confusione. Sarebbe altresì errato ritenere che queste due sorelle si siano impadronite solo dei settori economico-produttivi e dell’apparato statale. No, non c’è nulla da nascondere, esse agiscono anche nelle menti, dando origine alle più incredibili combinazioni di convinzioni avanzate, sincere e premurose (qui abbiamo da insegnare qualcosa all’Europa e all’America!) con stati d’animo, abilità e punti di vista che scaturiscono direttamente da Domostroj3. Per reagire a ciò dobbiamo organizzare il fronte intellettuale, cioè dobbiamo sottoporre a verifica con metodi marxisti tutta la mentalità di un uomo; questo dovrebbe essere lo schema generale di educazione e autoeducazione, in primo luogo del nostro partito, a partire dai vertici. Ma anche stavolta questo compito è terribilmente complesso e non può essere risolto solo con la scuola e con i libri, perché le radici delle contraddizioni e delle incoerenze della psiche risiedono nella rovina e nella confusione della vita quotidiana. Dopo tutto, la coscienza è determinata dalla vita. Ma la dipendenza qui non è meccanica o automatica, ma è interattiva e reciproca. Pertanto, è necessario avvicinarsi alla soluzione del problema partendo da diverse direzioni, compresa quella da cui sono partiti gli operai della fabbrica “La Comune di Parigi”.
E noi auguriamo loro successo!
La lotta contro le espressioni volgari è parte integrante della lotta per la purezza, la chiarezza e la bellezza della lingua.
Gli ottusi reazionari affermano che la rivoluzione, se non ha già rovinato del tutto la lingua, la sta comunque devastando. Sono in effetti entrate nell’uso molte parole a caso, delle espressioni provinciali a volte superflue, a volte radicalmente ostili allo spirito della lingua, e via di seguito. Gli ottusi reazionari, tuttavia, si sbagliano sul destino della lingua russa, così come su tutto il resto. Il linguaggio emergerà dagli sconvolgimenti rivoluzionari rafforzato, ringiovanito, dotato di maggiore flessibilità e sensibilità. Il nostro linguaggio giornalistico prerivoluzionario, ovviamente fossilizzato, burocratizzato, influenzato dai clericali e dai liberali, si arricchirà – si è già arricchito in larga misura – di nuovi mezzi verbali e descrittivi, di nuove espressioni molto più precise e dinamiche. Ma non c’è dubbio che in questi anni turbolenti la lingua si sia sporcata non poco. Il progresso della nostra cultura dovrà manifestarsi, tra le altre cose, anche nella ripulitura dai nostri discorsi di tutte le parole e le espressioni inutili o estranee alla natura della nostra lingua, pur preservando le innegabili e inestimabili acquisizioni linguistiche dell’era rivoluzionaria.
La lingua è uno strumento del pensiero. L’accuratezza e la correttezza del linguaggio è una condizione necessaria per la correttezza e l’accuratezza del pensiero stesso. Per la prima volta nella storia, la classe operaia è salita al potere nel nostro Paese, portando con sé una ricca esperienza lavorativa, un linguaggio nato da questa esperienza. Ma ha anche portato con sé un’alfabetizzazione insufficiente, per non parlare dell’educazione letteraria. Ecco perché la classe operaia dominante, che per la sua natura sociale garantisce l’ulteriore potente sviluppo della lingua russa, non sempre respinge a dovere le parole e le espressioni inutili che si insinuano nel linguaggio quotidiano: superflue, errate e a volte anche disgustose. Da noi ora si dice – o addirittura si scrive! – “un paio di settimane”, “un paio di mesi” (invece di “due-tre settimane” o “qualche settimana” o “alcuni mesi”): è un modo di esprimersi sbagliato, ridicolo, non arricchisce la lingua ma la rende più povera, poiché la parola “paio” è privata del suo significato essenziale (nel senso di: un paio di stivali). Ora noi usiamo in modo distorto la parola “rivelare” al posto di una decina di parole più precise come “rilevare”, “mostrare”, “scoprire”, “portare alla luce”, “porre in evidenza”, “dimostrare”, “segnalare”, ecc. Usiamo parole di derivazione straniera come fiksirovat’ per “fissare” quando abbiamo tutta una serie di verbi come “accordarsi”, “concordare”, “mettersi d’accordo”, “stabilire”, ecc. Nel nostro linguaggio sono entrate in uso delle grossolane irregolarità, risultanti dall’alterazione di una parola straniera in una modalità sonora che si avvicina più o meno alla nostra lingua. Tra i nostri lavoratori ci sono ottimi oratori che dicono: “constantare” invece di “constatare”; “incindente” invece di “incidente”; o, viceversa, “instito” invece di “istinto”; “legolare” invece di “regolare”. Queste distorsioni erano presenti negli ambienti operai anche prima della rivoluzione. Ma ora sembrano voler acquisire diritto di cittadinanza. Tali e simili espressioni errate non vengono corrette da nessuno, ovviamente per motivi di falso orgoglio.
Ciò non va bene: la lotta per l’alfabetizzazione e la cultura deve significare per lo strato avanzato dei lavoratori una lotta per padroneggiare la lingua russa in tutta la sua ricchezza, in tutta la sua flessibilità e sottigliezza. La prima condizione per questo deve essere l’espunzione di parole ed espressioni errate e aliene dal linguaggio quotidiano. Anche la lingua ha bisogno di una sua igiene. E la classe operaia ha bisogno di un linguaggio sano non meno, ma più di tutte le altre classi, perché per la prima volta nella storia essa comincia a ragionare con il proprio pensiero, in modo indipendente, sulla natura, sulla vita e suoi suoi fondamenti: alla classe operaia, per quest’opera, occorre lo strumento di una parola chiara, pura, levigata.
Lev Trockij
(Traduzione di Leandro Casini)
(Articolo apparso sulla “Pravda” del 16 marzo 1923).
Note
1 Nell’anno di stesura di questo articolo di Trockij, Lord George Curzon (1859-1925) ricopriva la carica di ministro degli Affari Esteri del governo britannico. Esponente di spicco dell’ala reazionaria del Partito Conservatore britannico, egli aveva operato attivamente contro la rivoluzione bolscevica appoggiando le truppe bianche nella guerra civile degli anni 1918-1921; in politica interna si era opposto con decisione all’autodeterminazione dell’Irlanda e alla concessione del diritto di voto alle donne [ndt].
2 Prototipo del ricco mercante arrogante e rapace, profittatore di vecchio stampo: si tratta di un personaggio della commedia di A.N. Ostrovskij V čužom piru pochmel’e [L’altro banchetta e a te viene il mal di testa], del 1856 [ndt].
3 Il Domostroj è un trattato del XVI secolo che pretendeva di fornire insegnamenti morali e norme di comportamento «a ogni cristiano, a mariti, mogli, figli, servi e serve». La critica progressista russa vi vide la propaganda del culto della famiglia patriarcale russa, in cui la donna viene quasi considerata una “macchina” per la produzione dei figli e per la buona conduzione della casa [ndt].
Inserito il 28/12/2022.
L’operaio e la kolchoziana sul nuovo basamento che riproduce le proporzioni originali del padiglione sovietico del 1937.
(Fonte della foto: https://gamerwall.pro/uploads/posts/2022-09/thumbs/1662552636_1-gamerwall-pro-p-rabochii-i-kolkhoznitsa-pamyatnik-instagra-1.jpg)
L’operaio e la kolchoziana prima del restauro, sul basamento di poco più di 10 m (foto del 1997).
Archivio personale di Leandro Casini.
Il monumento L’operaio e la kolchoziana è uno dei simboli più conosciuti dell’Unione Sovietica, situato a Mosca nell’area esterna del “Centro Panrusso delle Esposizioni” (già “Esposizione delle realizzazioni dell'economia popolare dell’URSS”). Si tratta dell’opera più significativa della produzione artistica di una scultrice, Vera Ignat’evna Muchina (1889-1953), che ebbe grande fama in patria e all’estero.
La storia di questo monumento-simbolo è particolare.
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Il monumento L’operaio e la kolchoziana è uno dei simboli più conosciuti dell’Unione Sovietica, situato a Mosca nell’area esterna del “Centro Panrusso delle Esposizioni” (già “Esposizione delle realizzazioni dell'economia popolare dell’URSS”). Si tratta dell’opera più significativa della produzione artistica di una scultrice, Vera Ignat’evna Muchina (1889-1953), che ebbe grande fama in patria e all’estero.
La storia di questo monumento-simbolo è particolare.
Nel 1937 si tenne a Parigi l’Esposizione Internazionale “Arts et Techniques dans la Vie moderne”. Il progetto dell’Expo prevedeva un padiglione a sé stante per l’Unione Sovietica e uno per la Germania. La cosa che intrigò gli organizzatori fu di porre i due padiglioni l’uno di fronte all’altro, e fu così che già dall’anno precedente i due Paesi si ingegnarono di mostrare al mondo un’immagine che non li facesse sfigurare di fronte al nemico predestinato.
Una commissione governativa di studio accolse per il padiglione un progetto dell’architetto Boris Michajlovič Iofan (1891-1976): si trattava di edificare un edificio alto 30 m sovrastato da una scultura in acciaio che rappresentasse al meglio l’Unione Sovietica; del resto, il nome “Stalin” significa “d’acciaio”. Lo stesso Iofan aveva previsto che i soggetti della statua dovessero essere un operaio e una contadina, a rappresentare le classi che determinavano la nuova vita dello sterminato Paese. Per la realizzazione dell’opera Iofan si rivolse all’artista Vera Muchina, già allora famosa in patria per numerose opere monumentali.
La Muchina, nel realizzare la commissione affidatale, prese spunto dall’arte classica. A ispirarla fu un’opera conservata al Museo Archeologico di Napoli denominata Gruppo dei Tirannicidi: si tratta della copia romana di un gruppo scultoreo greco, andato perduto, che raffigura Armodio e Aristogitone, due ateniesi che nel 513 o 514 a.C. avevano tentato di uccidere il tiranno Pisistrato.
Un altro modello che servì da fonte ispiratrice per l’artista fu la celebre Nike di Samotracia, conservata al Louvre. Ricordava Iofan: «Dovevamo fare in modo che chiunque, al primo sguardo verso il nostro padiglione, sentisse che quello era il padiglione dell’Unione Sovietica... Immaginavo una scultura fatta di metallo leggero, e slanciata come se volasse in avanti, come l’inconfondibile Nike del Louvre, la vittoria alata».
Seguendo la tradizione greca, ben riscontrabile nel Gruppo dei Tirannicidi, la Muchina aveva inizialmente previsto che i due personaggi fossero nudi, ma l’idea venne scartata dal committente.
Lo scopo che doveva raggiungere la statua era chiaro, e la Muchina lo riassunse così: «Ricevuto il progetto del padiglione, sentii subito che il gruppo doveva esprimere, prima di tutto, non la solennità delle figure, ma la dinamica della nostra epoca, quello slancio creativo che vedo ovunque nel nostro Paese e che mi è così caro». Questa si chiama, senza tanti giri di parole, propaganda monumentale, e l’Unione Sovietica non fu la prima né l’ultima nazione ad avvalersi di un tale strumento per dimostrare la propria potenza e per diffondere i propri principi.
L’opera fu realizzata nell’inverno tra il 1936 e il 1937. Si trattava di uno scheletro d’acciaio che veniva ricoperto da fogli anch’essi in acciaio fino a completare i dettagli delle due figure. L’inverno era rigido, e i freddi venti che sferzavano gli operai al lavoro li costringevano a continue pause per andare a scaldarsi vicino a un fuoco o a ripararsi sotto la gonna della contadina in costruzione.
Per la realizzazione ci vollero tre mesi e mezzo: un arco di tempo troppo breve che lasciò alla Muchina un po’ di amaro in bocca, perché dovette semplificare molto rispetto al progetto iniziale, rinunciando a diversi dettagli.
Ad assemblaggio terminato, il gruppo pesava 75 tonnellate. Per il trasporto da Mosca a Parigi la statua fu divisa in 65 parti che vennero caricate su 28 vagoni.
Nel corso del montaggio delle statue sull’edificio accadde un incidente: il cavo della gru si spezzò facendo cadere uno dei pezzi, e fu solo per un caso fortuito se nessuno ne rimase vittima e se la scultura non subì danni. La polizia francese portò avanti una rapida inchiesta che concluse che si era trattato di un problema di natura tecnica, ma la delegazione sovietica ebbe il sospetto che qualcuno avesse manomesso il cavo della gru.
Il risultato fu grandioso, il successo d’immagine anche, come possiamo vedere anche dalle foto. L’operaio e la kolchoziana, che avanzano trionfanti e leggiadri da Est verso Ovest (questa era l’effettiva disposizione del padiglione dell’URSS), si contrapponevano all’altrettanto monumentale, neoclassica, struttura della Germania nazista, che si slanciava in alto con un edificio in cui le colonne formavano il numero romano III a ricordare il Terzo Reich, sormontato da quell’aquila che conosciamo bene e che, grazie in particolare all’eroico sforzo delle truppe dell’Armata Rossa, avrebbe fatto nel 1945 una brutta fine a Berlino.
Il progetto del padiglione tedesco era stato affidato al celebre Albert Speer (1905-1981), autore di opere monumentali per il regime nazista e futuro ministro per gli armamenti. Egli aveva avuto modo di visionare i piani segreti di Iofan per il padiglione sovietico antistante, e rimase impressionato dalle due alte figure che incedevano trionfanti verso il padiglione tedesco. Decise quindi di costruire un edificio alto 55 m sovrastato da un’aquila di 5,50 m che si ergeva su una svastica, in modo di dominare in altezza sul complesso sovietico. Ricordò in seguito Speer, forse confondendosi un po’ sulle misure: «I siti erano distribuiti in modo tale che il padiglione tedesco e il padiglione sovietico si trovassero l’uno di fronte all’altro, una scelta singolare, direi umoristica, della gestione francese dell’Esposizione. Per fortuna, durante una delle mie visite a Parigi entrai in una stanza dove si trovava il modello segreto del padiglione sovietico. Su un altissimo basamento, una scultura alta dieci metri (sic!) avanzava trionfante verso il padiglione tedesco. Vedendo ciò, disegnai un massiccio parallelepipedo, punteggiato da pesanti pilastri, che sembrava fermare questo assalto, mentre, dall'alto del cornicione della mia torre, un’aquila, la svastica tra gli artigli, fissava minacciosa la coppia sovietica».
Anche i tedeschi avevano collocato due gruppi scultorei di 5 m circa davanti al proprio padiglione intitolati Cameratismo e Famiglia, opere dell’artista austriaco Josef Thorak (1889-1952); era però evidente il contrasto tra la staticità delle opere germaniche e il dinamismo di quella sovietica.
I due Stati rivali vinsero ex aequo il gran premio come migliore padiglione dell’Expo 1937. Finita la kermesse internazionale, lo Stato francese chiese di poter acquistare l’opera della Muchina: l’Unione Sovietica non accettò, e fu deciso di riportarla a Mosca.
Non mancarono polemiche in patria sulla nuova destinazione del gruppo scultoreo. L’autrice avrebbe voluto piazzarla sulle colline Lenin che dominano la città, e invece fu deciso di metterla in basso, per di più su un piedistallo alto solo poco più di 10 metri, che non rendeva merito allo slancio in cui erano proiettati i due personaggi.
Così è stato fino agli anni Duemila, quando, dopo un lungo restauro, si è deciso di riprendere le proporzioni del padiglione del 1937: 34,5 m di altezza per l’edificio, che aggiunti ai 24,5 della statua portano a 59 metri dal suolo la punta della falce impugnata fieramente dalla kolchoziana.
Vera Muchina e Boris Iofan furono insigniti del Premio Stalin per il successo ottenuto all’Expo di Parigi, ma il monumento ebbe anche miglior fortuna di pubblico: la più grande casa di produzione cinematografica dell’Unione Sovietica, la “Mosfil’m”, adottò l’immagine del complesso L’operaio e la kolchoziana come proprio simbolo: con tale “icona” si aprono tutti i numerosissimi film da essa prodotti.
Leandro Casini
Inserito l’08/03/2023.
Gruppo dei Tirannicidi, Museo Archeologico di Napoli.
(Fonte della foto: https://musaget.ru/wp-content/uploads/2022/12/osnovnym-prototipom-dlya-skulptury-byla-ispolzovana-rimskaya-kopiya-grecheskoy-ranneklassicheskoy-bronzovoy-skulptury-tiranoborts.jpg)
Nike di Samotracia, Museo del Louvre, Parigi.
(Fonte della foto: https://arte-immagine.weebly.com/uploads/2/4/0/7/24071194/10e2e72ee95402085b5376723c403003.jpg)
La scultrice Vera Muchina (1889-1953).
L’operaio e la kolchoziana sul nuovo basamento che riproduce le proporzioni originali del padiglione sovietico del 1937.
Visione d’insieme del complesso monumentale dell’Expo 1937.
Visione d’insieme del complesso monumentale dell’Expo 1937.
Il padiglione tedesco.
Il padiglione tedesco.
Il padiglione sovietico.
Josef Thorak, il gruppo scultoreo del padiglione tedesco dal titolo Famiglia.
Josef Thorak, il gruppo scultoreo del padiglione tedesco dal titolo Cameratismo, di fronte al padiglione sovietico.
Il simbolo della casa di produzione cinematografica “Mosfil’m”.