4 (17) aprile 1917, Pietrogrado, Palazzo di Tauride. L’intervento in cui Lenin illustra le Tesi di aprile davanti al Soviet dei deputati degli operai e dei soldati di Pietrogrado.
Fonte della foto: canale Telegram Коммунистический мир.
Il 17 aprile 1917 V.I. Lenin intervenne a una riunione dei bolscevichi – partecipanti alla Conferenza panrussa dei Soviet dei deputati degli operai e dei soldati – con una relazione intitolata Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale, che in seguito passò alla storia col nome di Tesi di aprile.
Le Tesi di aprile fornirono risposte alle domande più importanti dell’epoca: sulle vie d’uscita dalla guerra imperialista, su una nuova forma di potere statale, sull’attuazione di misure economiche urgenti che rappresentassero i primi passi verso il socialismo, sulla lotta contro la fame e la devastazione, sulla tattica del partito sulla via della rivoluzione socialista.
Lenin delineò un piano concreto per la transizione dalla rivoluzione democratico-borghese alla rivoluzione socialista, che avrebbe dovuto trasferire il potere nelle mani della classe operaia e dei contadini poveri. Dopo aver assegnato tale compito, V.I. Lenin ha fondato teoricamente l’essenza della Repubblica dei Soviet come forma politica della dittatura del proletariato. Inoltre, Lenin formulò le piattaforme politiche ed economiche del partito bolscevico, i compiti del lavoro di agitazione e propaganda, la costruzione del partito, una decisa distinzione dai socialsciovinisti e la creazione dell’Internazionale comunista.
Vladimir Il’ič Lenin
(1917)
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Vladimir Il’ič Lenin
Sui compiti del proletariato nella rivoluzione attuale.
“Tesi di aprile”
(1917)
Giunto a Pietrogrado nella notte del 3 aprile, naturalmente solo a mio nome e con le riserve dovute alla mia insufficiente preparazione, potevo presentare alla riunione del 4 aprile un rapporto sui compiti del proletariato rivoluzionario.
Il solo mezzo che avevo per agevolare il mio lavoro – e quello degli oppositori in buona fede – era quello di preparare delle tesi scritte. Ne ho dato lettura e ne ho trasmesso il testo al compagno Tsereteli. Le ho lette molto lentamente due volte: prima alla riunione dei bolscevichi e poi a quella dei bolscevichi e dei menscevichi.
Pubblico ora queste mie tesi personali, corredate soltanto con brevissime note esplicative, che ho esplicato assai più minuziosamente nel mio rapporto.
T E S I
1. Nel nostro atteggiamento verso la guerra, che, da parte della Russia, anche sotto il nuovo governo di Lvov e soci, rimane incontestabilmente una guerra imperialistica di brigantaggio, in forza del carattere capitalistico di questo governo, non è ammissibile la benché minima concessione al “difensismo rivoluzionario”.
Il proletariato cosciente può dare il suo consenso ad una guerra rivoluzionaria che giustifichi realmente il difensismo rivoluzionario solo alle seguenti condizioni:
a) passaggio del potere al proletariato e agli strati più poveri dei contadini che si schierano dalla sua parte;
b) rinuncia effettiva, e non verbale, a qualsiasi annessione;
c) rottura completa ed effettiva con tutti gli interessi del capitale.
Data l’innegabile buona fede di larghi strati dei rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario, che accettano la guerra come una necessità e non per spirito di conquista, e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza, l’errore in cui cadono, svelando il capitale insolubile fra il capitale e la guerra imperialistica, dimostrando che è impossibile metter fine alla guerra con una pace veramente democratica, e non imposta con la forza, senza abbattere il capitale.
Organizzare la propaganda più ampia di questa posizione nell’esercito combattente.
Fraternizzare.
2. L’originalità dell’attuale momento in Russia consiste nel passaggio dalla prima fase della rivoluzione, che ha dato il potere alla borghesia a causa dell’insufficiente grado di coscienza e di organizzazione del proletariato, alla sua seconda fase, che deve dare il potere al proletariato e agli strati poveri dei contadini.
Questo passaggio è caratterizzato, anzitutto, dal massimo di possibilità legali (fra tutti i paesi belligeranti la Russia è oggi il paese più libero del mondo), inoltre, dall’assenza di violenza contro le masse, e infine, dall’inconsapevole fiducia delle masse nel governo dei capitalisti, che sono i peggiori nemici della pace, e del socialismo.
Questa situazione originale ci impone di saperci adattare alle condizioni particolari del lavoro di partito tra le grandi masse proletarie, che si sono appena ridestate alla vita politica.
3. Non appoggiare in alcun modo il Governo provvisorio, dimostrare la completa falsità di tutte le sue promesse, soprattutto di quelle concernenti la rinuncia alle annessioni. Smascherare questo governo, invece di “rivendicare” – ciò che è inammissibile e semina illusioni – che esso, governo di capitalisti, cessi di essere imperialistico.
4. Riconoscere che il nostro partito è in minoranza, e costituisce per ora un’esigua minoranza, nella maggior parte dei Soviet dei deputati operai, di fronte al blocco di tutti gli elementi opportunistici piccolo-borghesi, che sono soggetti all’influenza della borghesia e che estendono quest’influenza al proletariato: dai socialisti–popolari e dai socialisti-rivoluzionari fino al Comitato di organizzazione (Ckheidze, Tsereteli, ecc.), a Steklov, ecc. ecc.
Spiegare alle masse che i Soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e che, pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, agli errori della loro tattica.
Fino a che saremo in minoranza, svolgeremo un’opera di critica e di spiegazione degli errori, sostenendo in pari tempo la necessità del passaggio di tutto il potere statale ai Soviet dei deputati operai, perché le masse possano liberarsi dei loro errori sulla base dell’esperienza.
5. Niente repubblica parlamentare – ritornare ad essa dopo i Soviet dei deputati operai sarebbe un passo indietro – ma Repubblica dei Soviet di deputati degli operai, dei salariati agricoli e dei contadini in tutto il paese, dal basso in alto.
Sopprimere la polizia, l’esercito1 e il corpo dei funzionari.
Lo stipendio dei funzionari – tutti eleggibili e revocabili in qualsiasi momento – non deve superare il salario medio di un buon operaio.
6. Nel programma agrario spostare il centro di gravità sui Soviet dei deputati dei salariati agricoli.
Confiscare tutte le grandi proprietà fondiarie.
Nazionalizzare tutte le terre del paese e metterle a disposizione di Soviet locali di deputati dei salariati agricoli e dei contadini. Costituire i Soviet dei deputati dei contadini poveri. Fare di ogni grande tenuta (da 100 a 300 desiatine circa, secondo le condizioni locali, ecc. e su decisione degli organismi locali) un’azienda modello coltivata per conto della comunità e sottoposto al controllo dei Soviet dei deputati dei salariati agricoli.
7. Fusione immediata di tutte le banche del paese in un’unica banca nazionale, posta sotto il controllo dei Soviet dei deputati operai.
8. Il nostro compito immediato non è l’“instaurazione” del socialismo, ma, per ora, soltanto il passaggio al controllo della produzione sociale e della ripartizione dei prodotti da parte dei Soviet dei deputati operai.
9. Compiti del partito:
convocare immediatamente il congresso del partito;
modificare il programma del partito, principalmente:
sull’imperialismo e sulla guerra imperialistica;
sull’atteggiamento verso lo Stato e sulla nostra rivendicazione dello “Stato-Comune”2;
emendare il programma minimo, ormai invecchiato;
cambiare il nome del partito3.
10. Rinnovare l’Internazionale.
Prendere l’iniziativa della creazione di un’Internazionale rivoluzionaria contro i socialsciovinisti e contro il “centro”4.
Affinché il lettore capisca per quale motivo ho dovuto sottolineare come una rara eccezione il “caso” degli oppositori in buona fede, io invito a confrontare con queste tesi la seguente obiezione del signor Goldenberg: Lenin “ha issato la bandiera della guerra civile in seno alla socialdemcrazia rivoluzionaria” (citato nel n° 5 dell’«Edinstvo»5 del signor Plekhanov).
Non è una perla?
Scrivo, leggo, ribadisco: “Data l’innegabile buona fede di larghi strati dei rappresentanti delle masse favorevoli al difensismo rivoluzionario… e poiché essi sono ingannati dalla borghesia, bisogna spiegar loro con particolare cura, ostinazione e pazienza, l’errore in cui cadono…”.
Ma i signori della borghesia, che si dicono socialdemocratici e non sono né i larghi strati né i rappresentanti delle masse difensiste, riferiscono imperturbabili le mie opinioni in questa forma: “Ha issato (!) la bandiera (!) della guerra civile” (di cui non ho fatto parola nelle tesi o nel rapporto) “in seno (!!) alla socialdemocrazia rivoluzionaria…”.
Che cos’è questa roba? Che differenza c’è tra questo e l’istigazione dei pogrom, tra questo e la Russkaia Volia?
Scrivo, leggo, ribadisco: “i Soviet dei deputati operai sono l’unica forma possibile di governo rivoluzionario e che, pertanto, fino a che questo governo sarà sottomesso all’influenza della borghesia, il nostro compito potrà consistere soltanto nello spiegare alle masse in modo paziente, sistematico, perseverante, conforme ai loro bisogni pratici, agli errori della loro tattica”.
Ma gli oppositori di un certo tipo presentano le mie opinioni come un appello alla “guerra civile in seno alla socialdemocrazia rivoluzionaria”!!
Ho attaccato il Governo provvisorio perché non ha fissato un termine, né vicino né lontano, per la convocazione dell’Assemblea costituente, cavandosela con vuote promesse. Ho dimostrato che, senza i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati, la convocazione dell’Assemblea costituente non è garantita e il suo complesso è impossibile.
E si pretende che io sia contrario alla più sollecita convocazione dell’Assemblea costituente!!
Direi che queste affermazioni sono ”deliranti”, se decenni di lotta politica non mi avessero insegnato a considerare la buona fede degli oppositori come una rara eccezione.
Il signor Plekhanov ha scritto nel suo giornale che il mio discorso è “delirante”. Benissimo, signor Plekhanov! Ma guardate quanto siete malaccorto, maldestro e poco perspicace nella vostra polemica. Se per due ore ho detto cose deliranti, come mai centinaia di ascoltatori hanno tollerato il mio “delirio”? E poi perché il vostro giornale consacra un’intera colonna a questo delirio? Tutto questo zoppica, zoppica molto.
Certo, è molto più facile gridare, ingiurare, strepitare che tentar di esporre, chiarire, ricordare in che modo abbiano ragionato Marx ed Engels, nel 1871, nel 1872 e nel 1875, sull’esperienza della Comune di Parigi6 e sui caratteri dello Stato di cui il proletariato ha bisogno.
L’ex marxista signor Plekhanov, probabilmente, non vuole ricordarsi del marxismo.
Ho citato le parole di Rosa Luxemburg, che il 4 agosto 1914 definì la socialdemocrazia tedesca un “fetido cadavere”. I signori Plekhanov, Goldenberg e soci “si sono risentiti”… per conto di chi? Per conto degli sciovinisti tedeschi, che sono stati chiamati sciovinisti!
Eccoli in un bell’imbroglio, poveri socialsciovinisti russi, socialisti a parole e sciovinisti nei fatti!
Vladimir Il’ič Lenin
Note
1 Cioè sostituire l’esercito permanente con l’armamento generale del popolo [nota di Lenin].
2 Cioè di uno Stato di cui la Comune di Parigi ha fornito il primo modello [nota di Lenin].
3 Invece di “socialdemocrazia”, i cui capi ufficiali (“difensisti” e “kautskiani” tentennanti), hanno tradito il socialismo in tutto il mondo, passando alla borghesia, dobbiamo chiamarci Partito comunista [nota di Lenin].
4 Si chiama “centro” nella socialdemocrazia internazionale la corrente che oscilla tra gli sciovinisti (“difendisti”) e gli internazionalisti: ne fanno parte Kautsky e soci in Germania, Longuet e soci in Francia, Ckheidze e soci in Russia, Turati e soci in Italia, MacDonald e soci in Inghilterra, ecc. [nota di Lenin].
5 «Edinstvo» (L’Unità), giornale, organo dei difensisti, gruppo di estrema destra dei menscevichi con a capo G. Plekhanov, si pubblicò a Pietrogrado dal maggio 1914 al gennaio 1918. Invitando ad appoggiare il Governo provvisorio e pronunciandosi a favore della coalizione con la borghesia, il giornale lottava contro i bolscevichi, ricorrendo non di rado ai metodi della stampa gialla.
6 Si Veda K. Marx e F. Engels, Manifesto del partito comunista. Prefazione all’edizione tedesca (1872); K. Marx, La guerra civile in Francia. Indirizzo del Congresso generale dell’associazione Internazionale degli operai e Critica del programma di Gotha; la lettera di F. Engels a A. Bebel del 18–28 marzo 1875; le lettere di K. Marx a L. Kugelmann del 12 e del 17 aprile 1871.
Inserito il 19/04/2025.
Dalla rivista «Sotto la bandiera del marxismo» – 1922
di Vladimir Il’ič Lenin
Materialismo e ateismo sono alla base della nascita nel 1922 della rivista «Pod znamenem marksizma» («Sotto la bandiera del marxismo»). Sul secondo numero di tale rivista, il n. 3/1922, Vladimir Lenin pubblicò l’articolo Sul significato del materialismo militante (O značenii voinstvujuščego materializma), in cui definì il ruolo e il programma per lo sviluppo della filosofia marxista nell'era moderna e considerò il lavoro teorico del partito come parte integrante del piano di edificazione socialista. Questo scritto costituiva la continuazione e l'ulteriore sviluppo di opere di Lenin come Materialismo ed empiriocriticismo e Quaderni filosofici, e divenne, in sostanza, il suo testamento filosofico.
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Sul significato del materialismo militante
di Vladimir Il’ič Lenin
Per quanto riguarda gli obiettivi generali della rivista «Pod znamenem marksizma»1, il compagno Trotskij ha già detto l’essenziale nel n. 1-2, e lo ha fatto in modo magnifico. Io vorrei soffermarmi su alcune questioni che definiscono più da vicino il contenuto e il programma del lavoro annunciato dalla redazione della rivista nella sua dichiarazione introduttiva nel n. 1-2.
Nella dichiarazione si dice che coloro i quali si sono raggruppati attorno alla rivista «Pod znamenem marksizma» non sono tutti dei comunisti, ma che tutti sono dei materialisti conseguenti. Penso che questa unione dei comunisti con i non comunisti sia assolutamente necessaria e che definisca esattamente i compiti della rivista. Uno degli errori più grandi e più pericolosi che possano commettere i comunisti (e in generale i rivoluzionari che abbiano realizzato con successo l’inizio di una grande rivoluzione) è di immaginarsi che la rivoluzione possa essere attuata ad opera di soli rivoluzionari. Al contrario, per assicurare il successo di qualsiasi seria azione rivoluzionaria, bisogna comprendere e sapere applicare praticamente l’idea che i rivoluzionari possono svolgere soltanto il ruolo di avanguardia di una classe realmente avanzata e vitale. Ma l’avanguardia adempie i suoi compiti appunto di avanguardia soltanto quando è capace di non distaccarsi dalla massa da essa diretta, e di guidare lealmente in avanti tutta la massa. Senza l’alleanza con i non comunisti nei più vari campi di attività non si può neppure parlare di un qualsiasi successo nella edificazione comunista.
Ciò vale anche per quel lavoro di difesa del materialismo e del marxismo di cui si è incaricata la rivista «Pod znamenem marksizma». Le principali tendenze del pensiero sociale progressista russo vantano per fortuna una solida tradizione materialista. Senza parlare di G.V. Plechanov, basti ricordare Černyševskij, rispetto al quale i populisti contemporanei (socialisti populisti2, socialisti-rivoluzionari, ecc.) hanno fatto non di rado marcia indietro per seguire dottrine filosofiche reazionarie di moda, lasciandosi sedurre dall’orpello dell’«ultimo grido» della scienza europea, incapaci di discernere sotto questo orpello le varie forme di servilismo dinanzi alla borghesia, dinanzi ai suoi pregiudizi e al suo spirito reazionario.
In ogni caso, da noi in Russia vi sono ancora — e senza dubbio vi saranno per un tempo abbastanza lungo — materialisti del campo dei non comunisti; indubbiamente è nostro dovere attirare al lavoro comune tutti i partigiani del materialismo conseguente e militante nella lotta contro la reazione filosofica e i pregiudizi filosofici della cosiddetta «società colta». Dietzgen padre, che non si deve confondere con suo figlio, letterato tanto presuntuoso quanto mal riuscito, ha espresso in modo giusto, chiaro e preciso, il punto di vista fondamentale del marxismo sulle tendenze filosofiche che dominano nei paesi borghesi, dove godono dell’attenzione degli studiosi e dei pubblicisti, dicendo che i professori di filosofia nella società moderna non rappresentano in realtà, nella maggior parte dei casi, altro che «lacchè diplomati dell’oscurantismo clericale»3.
I nostri intellettuali russi, che amano considerarsi progressisti, come del resto anche i loro confratelli di tutti gli altri paesi, non amano affatto che la questione venga trasferita sul piano del giudizio dato da Dietzgen. Ma questo non piace loro perché la verità punge gli occhi. Basta meditare un po’ sulla dipendenza degli uomini colti di oggi dalla borghesia dominante, dal punto di vista politico, delle condizioni economiche generali, degli usi e costumi, ecc., per comprendere quanto sia assolutamente giusto il reciso giudizio di Dietzgen. Basta ricordare l’enorme maggioranza delle correnti filosofiche di moda, che tanto spesso sorgono nei paesi europei, a cominciare per esempio da quelle collegate con la scoperta del radio, per finire con quelle che adesso cercano di aggrapparsi ad Einstein, per capire il legame esistente tra gli interessi di classe e la posizione di classe della borghesia, il sostegno che questa accorda ad ogni forma di religione e il contenuto ideale delle correnti filosofiche di moda.
Da quanto ho detto appare evidente che una rivista desiderosa di essere l’organo del materialismo militante deve essere un organo combattivo, innanzi tutto nel senso che deve denunciare e perseguire instancabilmente gli attuali «lacchè dell’oscurantismo clericale», sia che agiscano in qualità di rappresentanti della scienza ufficiale o in qualità di franchi tiratori che si autodefiniscano pubblicisti «democratici di sinistra o di idee socialiste».
Questa rivista deve essere, in secondo luogo, l’organo dell’ateismo militante. Abbiamo degli uffici o almeno delle istituzioni statali che si occupano di questo lavoro. Ma lo fanno in modo estremamente fiacco, estremamente insoddisfacente, subendo evidentemente l’atmosfera soffocante delle condizioni generali della nostra burocrazia puramente russa (benché sovietica). È estremamente importante, perciò, che — per completare il lavoro delle competenti istituzioni statali, per correggerlo e rianimarlo — la rivista, dedicatasi al compito di divenire l’organo del materialismo militante, svolga una instancabile propaganda e azione ateistica. Bisogna seguire attentamente tutte le relative pubblicazioni in tutte le lingue, traducendo o almeno fornendo dei rendiconti su tutto ciò che presenti un certo valore in questo campo.
È passato molto tempo da quando Engels ha consigliato ai dirigenti del proletariato contemporaneo di tradurre — per diffonderla in massa nel popolo — la letteratura ateistica militante della fine del XVIII secolo4. Con nostra vergogna, finora noi non l’abbiamo fatto (questa è una delle tante prove del fatto che conquistare il potere in un’epoca rivoluzionaria è molto più facile che sapersene servire correttamente). Talvolta si giustifica questa nostra mollezza, inattività e incapacità con ogni genere di considerazioni «magniloquenti»: per esempio, dicendo che la vecchia letteratura ateistica del XVIII secolo è invecchiata, non scientifica, puerile, ecc. Non v’è nulla di peggio di questo genere di sofismi pseudoscientifici che mascherano o una pedanteria o una incomprensione totale del marxismo. Naturalmente, si possono trovare molte cose non scientifiche e puerili nelle opere ateistiche dei rivoluzionari del XVIII secolo, ma nessuno impedisce agli editori di queste opere di abbreviarle e di corredarle di brevi epiloghi con l’indicazione dei progressi realizzati dall’umanità nella critica scientifica delle religioni dopo la fine del XVIII secolo, menzionando le opere più recenti in questo campo, ecc. Il più grande e il peggiore degli errori che possa commettere un marxista sarebbe quello di credere che le masse popolari, composte di molti milioni di esseri umani (e soprattutto la massa dei contadini e degli artigiani) votati dalla società moderna alle tenebre, all’ignoranza e ai pregiudizi, non possano uscire da queste tenebre che attraverso la via diretta di una istruzione puramente marxista. È indispensabile fornire a queste masse i materiali più vari di propaganda ateistica, iniziarle ai fatti dei più vari campi della vita, avvicinarsi ad esse in vario modo per interessarle, risvegliarle dal loro sonno religioso, scuoterle in tutti i modi e da ogni parte, ecc.
La pubblicistica ardente, viva, ingegnosa, spiritosa dei vecchi ateisti del XVIII secolo, che attaccavano apertamente la pretaglia dominante, si rivelerà sempre mille volte più adatta a risvegliare la gente dal sonno religioso che non le noiose, aride rielaborazioni del marxismo, non illustrate quasi da nessun fatto abilmente scelto, che predominano nella nostra letteratura e che (non c’è bisogno di nasconderlo) deformano spesso il marxismo. Tutte le opere di qualche importanza di Marx e di Engels sono state tradotte nella nostra lingua. Non vi è decisamente nessuna ragione di temere che il vecchio ateismo e il vecchio materialismo non siano da noi completati dai correttivi apportativi da Marx e da Engels. La cosa più importante — proprio quella che più spesso viene dimenticata dai nostri cosiddetti marxisti, che in realtà invece sono dei comunisti che snaturano il marxismo — è saper interessare le masse ancora assolutamente incolte con un atteggiamento cosciente verso le questioni religiose e con una critica consapevole delle religioni.
D’altro canto, guardate i rappresentanti della critica scientifica moderna delle religioni. Quasi sempre questi rappresentanti della borghesia colta «completano» la propria confutazione dei pregiudizi religiosi con ragionamenti che li smascherano subito come schiavi ideologici della borghesia, come «lacchè diplomati dell’oscurantismo clericale».
Due esempi. Il professor R.Ju. Vipper ha pubblicato, nel 1918 un piccolo libro: La nascita del cristianesimo (edizioni Pharos, Mosca). Esponendo i principali risultati della scienza moderna, l’autore non soltanto non combatte i pregiudizi e l’inganno che costituiscono le armi della Chiesa in quanto organizzazione politica, non soltanto elude queste questioni, ma enuncia la pretesa veramente ridicola e reazionaria di elevarsi al di sopra delle due «estremità»: l’idealismo e il materialismo. Questo è servilismo dinanzi alla borghesia dominante, che in tutto il mondo spende centinaia di milioni di rubli, prelevati dai profitti estorti ai lavoratori, per sostenere la religione. Il noto studioso tedesco Arthur Drews, che nel suo libro Il mito di Cristo confuta i pregiudizi e le fantasie religiose dimostrando che nessun Cristo è mai esistito, alla fine del suo libro si pronuncia per la religione, purché rinnovata, espurgata, raffinata, capace di tener testa al «torrente naturalista che si va rafforzando, di giorno in giorno» (pag. 238 della IV edizione tedesca, 1910). Questi è un reazionario dichiarato, consapevole, che aiuta apertamente gli sfruttatori a sostituire i vecchi e marci pregiudizi religiosi con pregiudizi nuovi, ancor più ripugnanti e infami.
Ciò non significa che non bisogna tradurre Drews, ma che i comunisti e tutti i materialisti conseguenti, realizzando in una certa misura la loro alleanza con la parte progressista della borghesia, debbono denunciarla instancabilmente quando questa tende ad essere reazionaria. Disprezzare l’alleanza con i rappresentati della borghesia del XVIII secolo, vale a dire di quel periodo quando essa era rivoluzionaria, significherebbe tradire il marxismo e il materialismo, poiché l’«alleanza» con i Drews in questa o quella forma, in questo o quel grado, è per noi indispensabile nella lotta con gli oscurantisti religiosi dominanti.
La rivista «Pod znamenem marksizma», che vuole essere l’organo del materialismo militante, deve riservare molto spazio alla propaganda ateistica, alle rassegne delle pubblicazioni in questo campo e alla correzione degli enormi difetti del nostro lavoro statale a questo riguardo. Particolarmente importante è utilizzare quei libri e quegli opuscoli che contengono molti fatti concreti e confronti i quali mostrino il legame degli interessi di classe e delle organizzazioni di classe della borghesia moderna con le organizzazioni delle istituzioni religiose e della propaganda religiosa.
Estremamente importanti sono tutti i materiali relativi agli Stati Uniti dell’America del Nord, dove il legame ufficiale, amministrativo, statale tra religione e capitale è meno appariscente. In compenso, là vediamo tanto più chiaramente che la «democrazia moderna» (dinanzi alla quale i menscevichi, i socialisti-rivoluzionari e, in parte, gli anarchici, ecc., si prosternano tanto sconsideratamente) non è altro che la libertà di predicare ciò che conviene alla borghesia e cioè le idee più reazionarie, la religione, l’oscurantismo, la difesa degli sfruttatori, ecc.
Vogliamo sperare che una rivista che intende essere l’organo del materialismo militante darà ai nostri lettori rassegne di letteratura ateistica, indicando per quali circoli di lettori e sotto quale riguardo le varie opere possono essere adatte, e indicando anche ciò che è stato pubblicato da noi (considerando soltanto le traduzioni decenti, che non sono molte) e che cosa deve essere ancora pubblicato.
* * *
Oltre all’alleanza con i materialisti conseguenti che non appartengono al partito comunista, è non meno — se non più — importante per il lavoro che dovrà essere svolto dal materialismo militante l’alleanza con i rappresentanti delle moderne scienze naturali, che inclinano verso il materialismo e non temono di difenderlo e propagandarlo contro i tentennamenti filosofici in direzione dell’idealismo e dello scetticismo, di moda nella cosiddetta «società colta».
L’articolo di A. Timirjazev sulla teoria della relatività di Einstein, apparso nel n. 1-2 di «Pod znamenem marksizma», permette di sperare che questa rivista realizzerà anche questa seconda alleanza. Bisogna dedicarle una maggiore attenzione. Non si deve dimenticare che proprio dal processo di radicale rottura attualmente attraversato dalle scienze naturali moderne nascono continuamente scuole e correnti filosofiche reazionarie grandi e piccole. Perciò il compito di seguire i problemi posti dalla recente rivoluzione delle scienze naturali e di attirare gli studiosi a partecipare a questo lavoro su una rivista di filosofia ha tale importanza che, se non fosse risolto, il materialismo militante non potrebbe essere in nessun caso né militante né materialismo. Nel primo numero della rivista Timirjazev ha dovuto osservare che la teoria di Einstein, che personalmente — secondo Timirjazev — non conduce nessuna campagna attiva contro i principi del materialismo, è stata fatta propria già da un enorme numero di rappresentanti dell’intellettualità borghese di tutti i paesi; ebbene, questo vale non soltanto per Einstein, ma per molti, se non per la maggior parte, dei grandi trasformatori delle scienze naturali, a partire dalla fine del XIX secolo.
E per affrontare questo fenomeno con cognizione di causa dobbiamo comprendere che in mancanza di una base filosofica solida non vi sono scienze naturali né materialismo che possano resistere all’invadenza delle idee borghesi e alla rinascita della concezione borghese del mondo. Per sostenere questa lotta e condurla a buon fine lo studioso di scienze naturali deve essere un materialista moderno, un sostenitore cosciente del materialismo rappresentato da Marx, vale a dire che deve essere un materialista dialettico. Per raggiungere questo obiettivo i collaboratori della rivista «Pod znamenem marksizma» debbono organizzare uno studio sistematico della dialettica di Hegel dal punto di vista materialista, vale a dire della dialettica che Marx ha applicato praticamente nel suo Capitale e nei suoi scritti storici e politici con un successo tale che oggi, ogni giorno, il risveglio di nuove classi alla vita e alla lotta in Oriente (Giappone, India, Cina) — vale a dire il risveglio di centinaia di milioni di esseri umani che formano la maggioranza della popolazione del globo e che per la loro inattività e il loro sonno storico hanno condizionato finora il ristagno e la decomposizione in molti Stati avanzati dell’Europa —, il risveglio alla vita di nuovi popoli e nuove classi conferma sempre più il marxismo.
Naturalmente, il lavoro necessario per tale studio, per tale interpretazione e per tale propaganda della dialettica hegeliana è estremamente difficile, e indubbiamente le prime esperienze in questo campo comporteranno degli errori. Ma soltanto chi non fa nulla non sbaglia. Ispirandoci al modo in cui Marx applicò la dialettica di Hegel intesa in senso materialista, noi possiamo e dobbiamo sviluppare questa dialettica sotto ogni aspetto, riprodurre nella rivista brani delle principali opere di Hegel, interpretandole in uno spirito materialista e commentandole con esempi di applicazione marxista della dialettica, nonché con esempi di dialettica ripresi dal campo delle relazioni economiche, politiche, che la storia recente e particolarmente la moderna guerra imperialista e la rivoluzione forniscono in abbondanza. Il gruppo di redattori e di collaboratori della rivista «Pod znamenem marksizma» deve formare a mio avviso una specie di «società degli amici materialisti della dialettica hegeliana». Gli studiosi moderni di scienze naturali troveranno (se sapranno cercare e se noi impareremo ad aiutarli) nella interpretazione materialistica della dialettica di Hegel una serie di risposte a quelle domande filosofiche che vengono poste dalla rivoluzione avvenuta nelle scienze naturali e che spingono gli intellettuali ammiratori della moda borghese a «smarrirsi» nella reazione.
Senza porsi e assolvere sistematicamente questo compito, il materialismo non può essere un materialismo militante. Esso rimarrà, per impiegare l’espressione di Ščedrin, non tanto combattente quanto combattuto5. Senza di ciò i grandi studiosi di scienze naturali rimarranno, così come per il passato, impotenti nelle loro deduzioni e generalizzazioni filosofiche. Poiché le scienze naturali progrediscono con una tale rapidità, attraverso un periodo di rottura rivoluzionaria tanto profonda in tutti i campi da non poter fare a meno in nessun caso delle deduzioni filosofiche.
Per concludere citerò un esempio, non attinente al campo della filosofia, ma che comunque attiene al campo delle questioni sociali, alle quali la rivista «Pod znamenem marksizma» vuole ugualmente dedicare la sua attenzione.
È questo un esempio di come la pseudoscienza moderna serva in realtà da veicolo alle vedute reazionarie più grossolane e ripugnanti.
Recentemente mi è stata inviata la rivista «Ekonomist» n. 1 (1922), pubblicata dalla XI sezione della Società tecnica russa6. Il giovane comunista che me l’ha inviata (e che probabilmente non aveva avuto il tempo di prendere conoscenza del suo contenuto) ha espresso incautamente un giudizio di estrema simpatia per la rivista. In realtà la rivista è — non so quanto coscientemente — l’organo dei feudatari moderni, che ovviamente si coprono sotto il mantello della scienza, dello spirito democratico, ecc.
Un certo signor P.A. Sorokin pubblica su questa rivista una vasta ricerca con pretese «sociologiche» «sull’influsso della guerra». Questo articolo dottorale è pieno di riferimenti eruditi alle opere «sociologiche» dell’autore e dei suoi numerosi maestri e colleghi stranieri. Ecco un esempio della sua erudizione. A pag. 83 leggo:
«Su diecimila matrimoni a Pietrogrado si contano oggi 92,2 divorzi, una cifra fantastica; aggiungiamo che su cento matrimoni sciolti 51,1 sono durati meno di un anno; l’11% meno di un mese; il 22% meno di due mesi; il 41% meno di 3-6 mesi; e soltanto il 26% sono durati più di sei mesi. Queste cifre attestano che il matrimonio legale attuale è una forma che nasconde in sostanza dei rapporti sessuali extra-matrimoniali, e che permette agli amatori di ‘avventure galanti’ di soddisfare ‘legalmente’ i propri appetiti.» («Ekonomist», n. 1, pag. 83)
Non v’è dubbio che questo signore, come anche la Società tecnica russa che pubblica la rivista in questione e vi accoglie simili ragionamenti, si considerano nel novero dei sostenitori della democrazia e si riterrebbero profondamente offesi se li si chiamasse con il loro nome, vale a dire feudatari, reazionari, «lacchè diplomati dell’oscurantismo clericale».
Una conoscenza sia pure sommaria della legislazione dei paesi borghesi sul matrimonio, sul divorzio e sui figli illegittimi, come anche della situazione di fatto in questo campo, mostrerà, a chiunque si interessi della questione, che la democrazia borghese dei nostri giorni, anche nelle repubbliche borghesi più democratiche, rivela a questo riguardo un atteggiamento veramente feudale verso la donna e i figli naturali.
Ciò non impedisce, naturalmente, ai menscevichi, ai socialisti-rivoluzionari e a una parte degli anarchici e a tutti i corrispondenti partiti dell’Occidente di continuare a gridare alla democrazia e alla sua violazione da parte dei bolscevichi. In realtà, proprio la rivoluzione bolscevica è l’unica rivoluzione conseguentemente democratica nei riguardi di questioni come il matrimonio, il divorzio e la situazione dei figli illegittimi. Ebbene, questa questione tocca nel modo più diretto gli interessi di più della metà della popolazione di qualsiasi paese. Soltanto la rivoluzione bolscevica, nonostante l’enorme numero di rivoluzioni borghesi che l’hanno preceduta e che pretendevano di essere democratiche, ha per la prima volta combattuto risolutamente a questo riguardo sia la reazione e il feudalesimo, sia l’abituale ipocrisia delle classi dirigenti e abbienti.
Se 92 divorzi su diecimila matrimoni sembrano al signor Sorokin una cifra fantastica, resta da supporre che l’autore abbia vissuto e sia stato educato in un monastero talmente separato dalla vita che difficilmente qualcuno potrà credere all’esistenza di tale monastero; oppure che questo autore alteri la verità a vantaggio della reazione e della borghesia. Chiunque conosca in qualche modo le condizioni sociali dei paesi borghesi sa che il numero reale dei divorzi di fatto (non sanzionati evidentemente dalla chiesa e dalla legge) è dappertutto infinitamente maggiore. A questo riguardo la Russia si differenzia dagli altri paesi soltanto perché le sue leggi non consacrano l’ipocrisia e l’assenza di diritti della donna e del suo bambino, ma dichiarano apertamente e a nome del potere statale una lotta sistematica contro qualsiasi ipocrisia e qualsiasi assenza di diritti.
La rivista marxista dovrà condurre una lotta anche contro tali moderni feudatari «colti». Probabilmente non pochi di essi percepiscono persino denaro dallo Stato e prestano servizio nel campo dell’istruzione dei giovani, sebbene a tale scopo essi siano adatti non più di quanto un notorio corruttore di bambini sia adatto al ruolo di sorvegliante nelle scuole elementari.
La classe operaia in Russia ha saputo conquistare il potere, ma ancora non ha imparato a servirsene, poiché altrimenti già da molto tempo avrebbe gentilmente spedito simili insegnanti e membri di associazioni di studiosi nei paesi di «democrazia» borghese. È lì che tali feudatari hanno il loro vero posto.
Ma la classe operaia imparerà, purché lo voglia.
12 marzo 1922
Vladimir Il’ič Lenin
(Tratto da: V.I. Lenin, Sul significato del materialismo militante, in V. Lenin, Opere scelte in sei volumi, vol. V, Editori Riuniti-Edizioni Progress, Roma-Mosca, 1975, pp. 625-632).
Note
1 «Pod znamenem marksizma» («Sotto la bandiera del marxismo»), rivista di filosofia, economia e scienze sociali; fu fondata per la propaganda del materialismo militante e dell’ateismo. Si pubblicò a Mosca dal gennaio 1922 al giugno 1944 ogni mese (negli anni 1933-1935 ogni due mesi).
2 Socialisti popolari, membri del partito piccolo-borghese denominato Partito socialista popolare del lavoro, sorto nel 1906 in seguito alla scissione dell’ala destra del Partito socialista-rivoluzionario. Sostenevano l’idea di un blocco con i cadetti.
Dopo la Rivoluzione democratico-borghese di febbraio del 1917, il partito dei socialisti popolari si fuse con un altro gruppo di socialisti-rivoluzionari, i trudoviki, appoggiò attivamente il Governo provvisorio borghese, delegandovi propri rappresentanti. Dopo la Rivoluzione socialista d’Ottobre, i socialisti popolari presero parte ai complotti controrivoluzionari e alla lotta armata contro il potere sovietico.
3 Lenin ha in vista le seguenti parole di J. Dietzgen: «Fin nel profondo dell’anima noi disprezziamo la frase pomposa della “cultura e scienza”, discorsi sui “beni ideali” pronunciati dai lacchè diplomati, che oggi rimbecilliscono il popolo con un idealismo lambiccato, allo stesso modo in cui un tempo i sacerdoti pagani si prendevano gioco del popolo con le prime nozioni sulla natura di cui essi soltanto disponevano».
4 Si veda F. Engels, Letteratura degli emigrati.
5 Questa espressione fu presa da Lenin dall’opera dello scrittore satirico russo M. Saltykov-Ščedrin La storia di una città.
6 «Ekonomist» («L’economista»), rivista della sezione economico-industriale della Società tecnica russa, di cui facevano parte ingegneri e tecnici borghesi ostili al potere sovietico e ex proprietari di imprese. Si pubblicò a Pietrogrado dal dicembre 1921 al giugno 1922 (sulla copertina del n. 1 è indicato l’anno 1922). Lenin qualificò questa rivista come «centro palese delle guardie bianche».
Inserito il 14/03/2025.
Il 24 dicembre 1900 fu pubblicato il primo numero del giornale illegale marxista russo «Iskra» («La scintilla»), fondato da V.I. Lenin.
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Il 24 dicembre 1900 fu pubblicato il primo numero del giornale illegale marxista russo «Iskra» («La scintilla»), fondato da V.I. Lenin.
Secondo il piano elaborato da Lenin in esilio (nel villaggio di Šušenskoe) nel 1899-1900, il giornale avrebbe dovuto contribuire a superare la confusione ideologica, la frammentazione politica e l’approssimazione organizzativa che regnavano nelle attività della socialdemocrazia russa in quegli anni, e a liberare la socialdemocrazia dal predominio degli elementi opportunisti (“economisti”, ecc.), offrire una sponda e un obiettivo al movimento operaio spontaneo, unire le organizzazioni e i gruppi socialdemocratici locali sui principi del marxismo rivoluzionario. Lenin aveva in mente di fare dell’«Iskra» il principale strumento organizzativo del partito rivoluzionario marxista della classe operaia russa.
Della redazione dell’Iskra facevano parte: V.I. Lenin, G.V. Plechanov, L. Martov, P.B. Aksel’rod, V.I. Zasulič, A.N. Potresov. Lenin scrisse sull’«Iskra» articoli sui temi più importanti della costruzione del partito e del movimento rivoluzionario (tra il 1900 e il 1903 più di 50 dei suoi articoli furono pubblicati su questo giornale). Lenin determinò la direzione ideologica e politica del giornale, sviluppò un piano per ogni numero, curò articoli, trovò autori e organizzò il trasporto del giornale in Russia.
Il primo numero del giornale fu pubblicato a Lipsia il 24 dicembre 1900. Dalla metà del 1901 l’«Iskra» fu pubblicato mensilmente e dal 1902 ogni 2 settimane. La tiratura media fu di 8.000 copie e alcuni numeri raggiunsero le 10.000.
L’«Iskra» fu un valido strumento per i compiti rivoluzionari di una nuova era storica. Sul giornale come epigrafe vennero usate le parole tratte da una risposta dei Decabristi ad A.S. Puškin: «Da una scintilla scaturirà la fiamma».
L’«Iskra» influenzò la vita interna della Russia in vari modi. Il giornale aiutò gli operai, i contadini e l’intellighenzia progressista a comprendere correttamente gli eventi che si svolgevano nel paese e promosse lo spirito combattivo e rivoluzionario; divenne una piattaforma per le denunce a livello nazionale del sistema autocratico. Difese la teoria marxista rivoluzionaria dall’opportunismo (bernsteinismo, “economicismo”), introdusse con tenacia e coerenza la coscienza socialista nelle masse del proletariato e condusse una lotta di principio contro il liberalismo borghese e l’ideologia piccolo-borghese dei socialisti rivoluzionari. Tutte le attività dell’«Iskra» erano finalizzate alla lotta per la creazione di un partito rivoluzionario del proletariato. I redattori dell’«Iskra», dopo un acceso dibattito tra Lenin e Plechanov, elaborarono un programma marxista (pubblicato nel giugno 1902) e un regolamento del partito. Attorno al giornale si formò una rete di agenti che distribuirono il giornale in tutto il paese, inviarono la corrispondenza al direttore e organizzarono gruppi dell’«Iskra». Proprio gli agenti distributori clandestini dell’«Iskra» avrebbero in seguito costituito il nucleo del partito bolscevico.
(Tratto dal canale Telegram «Kommunističeskij mir»).
Inserito il 29/12/2024.
120 anni fa, il 4 gennaio 1905, veniva pubblicato a Ginevra il primo numero del settimanale bolscevico «Vperëd» («Avanti»).
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120 anni fa, il 4 gennaio 1905, veniva pubblicato a Ginevra il primo numero del settimanale bolscevico «Vperëd» («Avanti»). Esso fu fondato dopo che i menscevichi si erano impadroniti del controllo dell’organo centrale del POSDR, il giornale «Iskra».
La decisione di creare un nuovo giornale fu presa in una riunione dei bolscevichi il 12 dicembre 1904; il nome fu proposto da Lenin. Ne furono pubblicati complessivamente 18 numeri. Il comitato editoriale del giornale comprendeva V.I. Lenin, V.V. Vorovskij, A.V. Lunačarskij, M.S. Ol’minskij; la segretaria editoriale responsabile di tutta la corrispondenza con la Russia era Nadežda Krupskaja, moglie di Lenin.
Il giornale «Vperëd» ravvivò le tradizioni rivoluzionarie dell’«Iskra» di Lenin e guidò la lotta contro l’opportunismo e per il rafforzamento del partito rivoluzionario del proletariato. Lenin pubblicò sul giornale diversi articoli polemici nei confronti dei menscevichi e un gran numero di note varie, svolgendo anche un lavoro editoriale diretto.
(Tratto dal canale Telegram «Kommunističeskij mir»).
Inserito il 08/01/2025.
Il 30 marzo 1918 veniva pubblicata la prima edizione del libro di V.I. Lenin Stato e rivoluzione.
«È più piacevole e utile fare “l’esperienza della rivoluzione” che scriverne!».
Stato e rivoluzione fu scritto da Lenin in clandestinità, in una capanna a Razliv, poco fuori Pietrogrado, nell’agosto-settembre 1917, quando la questione dello Stato e dell’atteggiamento del proletariato nei suoi confronti acquistò particolare importanza in termini teorici e pratico-politici. In esso, Vladimir Il’ič sviluppa la teoria marxista dello Stato. L’opera affronta questioni relative all’essenza dello Stato, alla dittatura del proletariato, alla rivoluzione socialista, al socialismo e al comunismo.
Il libro ebbe un ruolo enorme nel patrimonio teorico e ideologico del partito bolscevico e acquisì lo status di una delle opere fondamentali di Lenin.
Michail Sokolov, Lenin a Razliv (1947).
Fonte dell’immagine: https://dergachev-va.livejournal.com/364862.html
«Libertà, indipendenza! Abbasso il colonialismo!»
Fonte della foto: https://www.facebook.com/RussianEmbassyOssetia/photos/a.471686742974112/1564817003661075/?type=3
Dalla rivista «Sinistra Sindacale»
di Gianni Fresu
«La Rivoluzione russa ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia mondiale, in primo luogo, per il suo contenuto e impegno anticoloniale, ed esattamente su questo snodo si colloca il discrimine tra il marxismo “orientale” e marxismo “occidentale” successivo a Marx».
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Lenin e il contenuto anticoloniale della Rivoluzione russa
di Gianni Fresu
Il centenario della morte di Lenin cade in un clima culturale e politico non certo favorevole al libero confronto intellettuale e ben poco incline a valutare ragioni ed eredità di un evento che, qualunque possa essere il nostro giudizio, ha segnato un radicale cambio di passo nella storia dell’umanità, dal quale non si può prescindere.
In un quadro nel quale comunismo e nazismo sono presentati come fratelli gemelli, generati dalla stessa degenerazione totalitaria, il principale protagonista della Rivoluzione russa è generalmente considerato l’origine di ogni moderno fanatismo ideologico. Se il Novecento è stato archiviato come il secolo degli orrori, delle dittature e dei totalitarismi, secondo l’opinione oggi prevalente, Lenin è l’arcidiavolo cui vanno imputate tutte le calamità e gli orrori di un secolo insanguinato.
Che la storia apertasi con l’assalto al cielo nell’ottobre del ‘17 abbia vissuto contraddizioni e limiti è fuori discussione, altrimenti i nostri ragionamenti sarebbero diversi e tratterebbero altre problematiche, senza dover partire da un dato di fatto ineludibile: la sconfitta storica del socialismo. Anche tenendo conto di questo epilogo con le sue molteplici concause, tuttavia, una maggiore storicizzazione tanto del socialismo in generale quanto dei processi rivoluzionari che hanno infiammato l’Occidente nel Novecento aiuterebbe a comprendere meglio questo secolo segnato da grandi drammi, ma anche da conquiste epocali nella storia della lotta per l’emancipazione dell’umanità.
Il primo presupposto concettuale della rivoluzione di Lenin è che ogni Paese avrebbe raggiunto il socialismo a modo suo, secondo le proprie peculiarità economiche, storiche e culturali. Coerentemente con questa prospettiva, Lenin giunge alla conclusione che il percorso verso il socialismo del suo Paese avrebbe dovuto essere estremamente diverso da quello intrapreso, o immaginato, dai Paesi occidentali.
Alla base di una simile concezione dei processi di trasformazione troviamo il rifiuto dello schema fisso, unico, di modernizzazione e transizione del socialismo positivista, che prescindeva totalmente dalla realtà storico-territoriale del processo in atto e dal protagonismo del soggetto sociale dell’emancipazione. In altri termini il socialismo si sarebbe affermato non per l’azione concreta degli sfruttati con le loro lotte sociali e politiche, ma per il fatale andare delle cose, al termine di un processo il cui epilogo era già scritto nelle leggi dell’economia e nel quale, prima o poi, sarebbe arrivata la crisi finale del capitalismo.
Secondo gli schemi positivistici della II Internazionale, un Paese arretrato come la Russia non avrebbe nemmeno potuto pensare a un processo rivoluzionario socialista senza prima aver vissuto tutte le tappe della “via crucis del capitalismo” e gli stadi evolutivi della società borghese. Alla stessa maniera, si riteneva che l’europeizzazione forzata dei domini coloniali avrebbe accelerato i processi evolutivi di quei Paesi schiodandoli da strutture socioeconomiche arcaiche, da istituzioni dispotiche e feudali. In sostanza l’imperialismo avrebbe avvicinato il socialismo, così le ragioni dell’espansione coloniale, nella letteratura del tempo, erano legittimate con il dovere di tutela dei popoli “primitivi”, con la missione civilizzatrice dell’Occidente.
Ecco, di fronte a questo panorama, che secondo Gramsci trovò in Italia un suo corrispondente nell’approccio errato con cui il socialismo nostrano si rapportò alla questione meridionale, Domenico Losurdo ha segnalato un aspetto di particolare importanza: tra i suoi tanti significati, la Rivoluzione russa ha rappresentato un punto di non ritorno nella storia mondiale, in primo luogo, per il suo contenuto e impegno anticoloniale, ed esattamente su questo snodo si colloca il discrimine tra il marxismo “orientale” e marxismo “occidentale” successivo a Marx.
Grazie a questa pulsione anticoloniale del comunismo di Lenin, il marxismo ha varcato i rigidi confini dell’Occidente divenendo in Asia, Africa, America Latina dottrina di liberazione per Paesi arretrati e periferici, in cui a prevalere era la questione agraria e non quella del proletariato. Proprio l’incomprensione, la sottovalutazione o il paternalismo verso la questione coloniale, e al suo interno il disinteresse verso la centralità della questione agraria, hanno prodotto letture contraddittorie che spiegano buona parte della subalternità ideologica, dell’inconcludenza e marginalità della sinistra nei Paesi a capitalismo avanzato.
Gianni Fresu
(Tratto da: Gianni Fresu, Lenin e il contenuto anticoloniale della Rivoluzione russa, in «Sinistra Sindacale», n. 2/2024; disponibile al link: https://www.sinistrasindacale.it/index.php/periodico-sinistra-sindacale/numero-2-2024/3043-lenin-e-il-contenuto-anticoloniale-della-rivoluzione-russa-di-gianni-fresu).
Inserito il 04/02/2024.
Dal sito del periodico «Left»
Maurizio Brotini recensisce il volume
Lenin, il rivoluzionario assoluto
(1870-1924)
di Guido Carpi
(Roma, Carocci Editore, 2023)
Il 21 gennaio di cento anni fa moriva il rivoluzionario russo. In un nuovo libro Guido Carpi ne rilegge la figura e il pensiero, mettendone in luce i tratti originali, fuori dalla vulgata che lo ha liquidato come “anticipatore di Stalin”.
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La carica utopistica di Lenin
di Maurizio Brotini
Il crollo dell’Unione Sovietica, se per un verso ha permesso l’accesso agli archivi ed al materiale censurato dell’esperienza nata dalla Rivoluzione d’Ottobre, dall’altro ha visto un crollo vertiginoso nelle capacità e profondità di lettura e interpretazione di una storia grande anche nella tragedia, si senta o meno di appartenere od essere appartenuti ad essa.
Una collezione di figurine dai tratti caratteriali che vanno dal caricaturale al demoniaco, estranei antropologicamente non solo alla tradizione occidentale per i tratti “asiatici” che li caratterizzerebbero ma allo stesso corso della storia come autoaffermazione della libertà basata sulla proprietà: questo quel che ci consegna la retorica dei vincitori e degli apologeti della “fine della Storia”.
La realtà storica e storiografica è ovviamente molto più viva e complessa, le vicende degli uomini e delle donne nella e della Rivoluzione molto più vive e grandiose, la costruzione di uno Stato socialista sulle macerie dell’Impero zarista un compito prometeico, ed il moto di liberazione scaturito dall’Ottobre non si è affatto arrestato se smettiamo di guardare al mondo con occhi eurocentrici. Il leninismo ebbe infatti una portata dirompente nel modo nuovo di considerare il sistema-mondo e la questione coloniale, nonostante l’insufficiente attenzione mostrata a questo tema dal marxismo “occidentale”, come già segnalato da Domenico Losurdo e ben colto precedentemente dallo stesso Antonio Gramsci.
È dunque un atto di coraggio ed onestà intellettuale – non scisso da una passione politica mai sopita – quello che Guido Carpi, professore di Letteratura russa presso l’Orientale di Napoli, sta producendo da tempo. Ci riferiamo ai suoi contributi su Il marxismo russo e sovietico fino a Stalin, apparso nel primo volume della Storia del marxismo curata da Stefano Petrucciani per Carocci del 2015, la monografia Russia 1917. Un anno rivoluzionario sempre per Carocci nel 2017, i due volumi sul Lenin prerivoluzionario usciti nel 2020 e 2021 per Stilo Editrice fino a Lenin, il rivoluzionario assoluto (1870-1924) uscito ora per Carocci. Se per un verso sistematizza quanto già affrontato in precedenza – e i lunghi anni di studio e di riflessione sul tema riescono a tradurre passaggi ed interpretazioni di grande complessità in una prosa densa ma accessibile ed intrigante non solo per gli addetti ai lavori o ai cultori della materia –, per l’altro affronta per la prima volta in un avvincente corpo a corpo i pochi anni – ma che segnano passaggi d’epoca – che vanno dalla Rivoluzione vittoriosa alla morte di Lenin. Mesi nei quali nel corpo e nella mente del capo bolscevico precipitano tutti gli immani sforzi di edificare uno Stato e di dare risposte alla questione delle Nazionalità dell’ex-impero zarista, senza ricadere nello sciovinismo grande-russo e mantenendo quella «carica utopistica senza confini» che per Carpi rappresenta la cifra del «rivoluzionario assoluto».
Epiteto e sintesi del proprio essere nel mondo che Lenin (22 aprile 1870 – 21 gennaio 1924) aveva forse presagito per se stesso nel mentre così definiva gli amati Marx e Cernyševskiij, figura di spicco del populismo russo e autore del romanzo Che fare? (composto durante l’imprigionamento a San Pietroburgo nel 1862-63 e sottoposto a censura fino al 1905).
E proprio la mancanza di una teoria dello Stato viene individuata come il limite maggiore, seppur storicamente comprensibile, del marxismo dell’epoca e dello stesso leninismo che se per un verso aveva fatto compiere un salto epocale nella lettura globale dei processi storici attraverso la categoria dell’imperialismo, per l’altro rimaneva confinato nella definizione dello Stato come puro esercizio della forza. Una acquisizione “teorica” derivante dalla natura reale e concreta dello Stato zarista: convincimento fortificato dalle vicende del padre e del fratello, il primo morto di crepacuore dopo esser stato anticipatamente pensionato a dimostrazione di quanto fossero impossibili le pur minime forme di riformismo seppur moderato, dall’altra la brutale morte per impiccagione dell’amato fratello come segno inscalfibile dell’esercizio brutale del potere zarista e della vigliaccheria della società civile “democratica”.
Ne esce un ritratto di quegli anni – e soprattutto dei protagonisti – assai più mosso di quanto la tradizione avesse tramandato, realizzato da Carpi attraverso il vaglio del molteplice materiale coevo in lingua originale. Il Lenin che per troppo tempo abbiamo conosciuto e tramandato, apprezzato o aspramente criticato, era spesso e per molti tratti l’anticipazione di Stalin e della rilettura delle vicende del gruppo bolscevico e rivoluzionario codificata dallo stalinismo, piuttosto che il Lenin “autentico” (questo vale per la versione “bacchettona” della sua vita giovanile per quanto riguarda sessualità e costumi, per la messa in sordina delle frequentazioni con la canaglia ancora da politicizzare nella stagione delle rapine di autofinanziamento e soprattutto per i rapporti molto più mossi e fluidi con gran parte della galassia menscevica e con lo stesso Trockij).
Fatta la rivoluzione, i compiti fondamentali che Lenin aveva di fronte a sé sono sostanzialmente due: mantenere il potere nella dissoluzione dello Stato zarista e nella guerra interna con le Armate bianche e iniziare quella marcia verso il socialismo mentre le previste rivoluzioni in Occidente tardano a manifestarsi o vengono sconfitte. Al Lenin di Stato e rivoluzione soccorrono le letture hegeliane del periodo bellico, valorizzate da Carpi così come lo studio giovanile su Lo sviluppo del capitalismo in Russia (mentre viene decisamente stroncato Materialismo ed empiriocriticismo). Se la pace di Brest-Litovsk e la NEP sono dei colpi di genio che salvano la Rivoluzione lasciando aperte le prospettive dell’edificazione del Socialismo – e la fondazione dell’Internazionale comunista costituisce il tentativo fecondo di tradurre il bolscevismo nelle altre lingue europee e mondiali facendo sintesi tra l’eccezionalismo dell’Ottobre ed il suo universalismo –, molto più complesso venir fuori dalla questione concretissima di come riconfigurare tutto lo spazio ex-zarista e come leggere le trasformazioni sociali e di cultura politica del nuovo gruppo dirigente del Partito (che era l’unico soggetto realmente in grado di garantire la tenuta delle istituende repubbliche socialiste e della loro unione). Su questo sono di grandissimo interesse i verbali delle sette riunioni della Conferenza sulla questione nazionale indetta nel giugno del 1923 dal Comitato centrale del partito, tenuti segreti fino al collasso dell’Urss, e messi a disposizione del lettore italiano.
Nell’ultimo Lenin è sempre più presente la consapevolezza della complessità dei problemi concreti che si pongono al rivoluzionario che diventa uomo di Stato. Si veda l’intreccio tra socialismo e democrazia che ruotava intorno ai rapporti tra soviet, Partito e Stato.
Il tentativo di porre i soviet alla base della nuova struttura statale non sopravvive alla cacciata degli esèry di sinistra (esponenti del Partito Socialista Rivoluzionario, espressione soprattutto del mondo agrario e contadino) e al consolidarsi di un regime strettamente monopartitico; l’embrione del nuovo potere statale nei territori è da subito formato dai comitati locali del Partito comunista, partito che vede i membri del Comitato centrale impegnati nelle più disparate attività di governo subendo esso stesso un processo di verticalizzazione ed accentramento.
Si veda soprattutto la riflessione sulla burocrazia di partito e sul ruolo dell’Apparato.
È questa una chiave di lettura suggerita da Carpi che viene ripresa dai lavori di Moshe Lewin, non ossessionato dalla personalità di Stalin e attento alla storia sociale di quella peculiare formazione economica e sociale che fu l’Urss come ricordato dalla professoressa Maria Grazia Meriggi, che a noi pare ancora assolutamente centrata (ci riferiamo sia a L’ultima battaglia di Lenin uscita in Italia nel 1968 sia e soprattutto alla Storia sociale dello stalinismo uscita nel 1988 per Einaudi). La trasformazione ed ampliamento dei quadri dirigenti bolscevichi – e quindi del nuovo Stato – operata dalla guerra sia esterna che civile era stato colto in maniera incipiente dall’antico sodale Bogdanov, che aveva sottolineato il clima intimidatorio all’interno del partito e il carattere soldatesco della nuova cultura politica da caserma che si andava manifestando, «caratterizzata da una comprensione di ogni compito come questione di forza d’assalto», a differenza della logica di fabbrica permeata di intelligenza collettiva volta all’organizzazione: «Distruggiamo la borghesia, ed ecco il socialismo. Prendiamo il potere, ed ecco che possiamo tutto». Lenin mostra fastidio nei confronti del ritualismo burocratico e delle avvisaglie del culto della personalità e si lancia in intemerate contro i neppisti e gli inetti quadri comunisti, spie delle modalità concrete con le quali si sta costruendo un apparato sempre più vischioso, autoritario, servile e sempre più schiacciato sulle logiche interne, perdendo quella carica emancipativa che aveva sempre caratterizzato il precedente gruppo bolscevico fin nelle più dure battaglie interne e nelle ardite mutazioni di linea. È questo il limite maggiore dell’ultimo Lenin per Guido Carpi: «Nel fenomeno nuovo e modernissimo dell’accentramento burocratico come forma di organizzazione delle masse egli vede solo un’eredità zarista pronta a riemergere secondo la profezia di Le Bon (si fa riferimento alla citazione di Gustave le Bon tratta da La psicologia del socialismo riportata nelle memorie dell’ex comandante supremo dell’Armata bianca e sottolineato da Lenin)».
Un limite analitico che non ha tuttavia impedito al capo bolscevico, pur segnato dal duplice ictus, di combattere la sua ultima battaglia contro Stalin alleandosi con Trockij – direttamente o nell’impossibilità attraverso gli uffici della Krupskaja (e su questo si leggono interessanti, inediti o non valorizzati momenti).
Lasciando al lettore di seguire direttamente la ricostruzione di questi passaggi, molto più rilevanti della discussione sulle modificazioni ed autenticità del cosiddetto testamento di Lenin, ci piace chiudere su due episodi che a nostro avviso segnano uno stacco rilevante e suggeriscono una chiave di lettura di molta parte dell’esperienza rivoluzionaria e delle trasformazioni dei gruppi dirigenti.
Dopo il primo ictus del 25 maggio 1922 Lenin passa la convalescenza a Gorki. Venuto a sapere che l’antico compagno di lotta Julij Martov (era stato assieme a Lenin nell’esilio di Monaco di Baviera, redattore dell’«Iskra», capo menscevico in Russia ed in esilio, fondatore di riviste e giornali in lingua ebraica e yiddish) è malato e in miseria in un sanatorio, chiede a Stalin d’inviargli un contributo economico, ricevendone un diniego accompagnato da siffatte parole: «Figuriamoci se mi metto a spendere soldi per un nemico della causa operaia!». E proprio ancora di Martov cercherà di avere notizie negli ultimi durissimi mesi di vita, nelle poche pause di lucidità: «chiede di Martov, esule in Germania e malato da tempo, e Krupskaja finge di non aver sentito, ma letta su un quotidiano dell’emigrazione che l’amico e compagno di gioventù è morto, l’uomo scuote la testa, guardando la moglie con riprovazione».
Buona lettura e buona discussione.
Maurizio Brotini
(Tratto da: Maurizio Brotini, La carica utopistica di Lenin, in: https://left.it/2024/01/19/la-carica-utopistica-di-lenin/?fbclid=IwAR3I5vm2p_yVYjcrLEXTne8-lmyWIA6vUcZtVSu9MING3E5xxawqLRps5HY del 19 gennaio 2024).
Inserito il 21/01/2024.
In tempi come questi, in cui le destre imperano in Europa e in Italia, i nazionalismi accecano i popoli, la parola “Nazione” domina nei discorsi di Giorgia Meloni, dei ministri reazionari e dei giornalisti assoggettati alla propaganda e alla retorica di Stato, può essere utile a sinistra leggere o rileggere l’articolo di V.I. Lenin Dell’orgoglio nazionale dei grandi-russi (O nacional'noj gordosti velikorossov), pubblicato il 12 dicembre 1914 sul numero 35 del giornale «Social-Demokrat» («Il socialdemocratico»), organo del Partito Operaio Socialdemocratico Russo (bolscevico). In esso si delineavano le posizioni di principio del programma nazionale bolscevico: completa uguaglianza tra le nazionalità; il diritto delle nazioni all’autodeterminazione; unità dei lavoratori di tutte le nazioni.
Allo scoppio della Prima guerra mondiale i partiti socialisti di Francia, Inghilterra, Germania e Austria decisero di votare nei rispettivi parlamenti a favore dei crediti di guerra, e quindi il sostegno alla rispettiva nazione in alleanza con le borghesie nazionali, determinando così la fine della Seconda Internazionale.
In Russia menscevichi e bolscevichi avevano sostanzialmente una comune posizione contraria alla guerra, ma tra i menscevichi non tardò a sorgere una posizione cosiddetta “difensivista”, capeggiata dal padre del marxismo russo, G.V. Plechanov, che vedeva la guerra da parte russa come difensiva e considerava una sconfitta della Russia come una tragedia sia per la nazione che per il movimento operaio. Lo stesso Plechanov si schierò quindi per il voto a favore dei crediti di guerra.
Questa fazione menscevica mosse ai bolscevichi l’accusa di essere antipatrioti e traditori, rimproverando loro l’indifferenza verso gli interessi della patria.
Con l’articolo che presentiamo V.I. Lenin intendeva rispondere ai suoi accusatori. Il leader bolscevico spiegava come intendere il patriottismo e come combinarlo con l’internazionalismo proletario. Patriota non è colui che sostiene una guerra di rapina in nome degli interessi dei proprietari terrieri e della borghesia, per la conservazione dei privilegi delle classi dominanti, ma colui che lotta per gli interessi del popolo, che vuole una «una Grande Russia libera e indipendente, autonoma, democratica, repubblicana, una fiera Grande Russia che stabilisca coi suoi vicini relazioni basate sul principio umano dell’uguaglianza, e non sul principio feudale dei privilegi, umiliante per una grande nazione».
L.C.
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Dell’orgoglio nazionale dei grandi-russi
di V.I. Lenin
Quanto si parla, si discute e si grida oggi a proposito di nazionalità e di patria! I ministri liberali e radicali inglesi, una moltitudine di pubblicisti «avanzati» francesi (che, a quanto risulta, sono perfettamente d’accordo con i pubblicisti della reazione), una turba di scribacchini ufficiali, cadetti e progressisti russi (e perfino alcuni populisti e «marxisti»), tutti esaltano in mille modi la libertà e l’indipendenza della «patria», la grandezza del principio dell’indipendenza nazionale. Non si riesce a discernere dove finisce il panegirista venale del boia Nikolaj Romanov, o dei carnefici dei negri e degli abitanti dell’India, e dove comincia il volgare filisteo, che segue «la corrente» per ottusità, se non per mancanza di carattere. Del resto, poco importa saperlo. Noi ci troviamo dinanzi ad una corrente ideologica larga e molto profonda, le cui origini sono in stretto rapporto con gli interessi dei signori proprietari fondiari e capitalisti delle nazioni dominanti. Per la propaganda delle idee utili a queste classi si spendono ogni anno decine e centinaia di milioni: il mulino è di buone dimensioni, riceve acqua da ogni parte, a cominciare da Men’šikov, lo sciovinista convinto, per finire cogli sciovinisti per opportunismo o per mancanza di carattere, Plechanov e Maslov, Rubanovič e Smirnov, Kropotkin e Burcev.
Proviamoci dunque anche noi, socialdemocratici grandi-russi, a definire il nostro atteggiamento nei riguardi di questa corrente ideologica. Per noi, rappresentanti della nazione dominante nell’estremo oriente dell’Europa e di una buona parte dell’Asia, sarebbe cosa sconveniente dimenticare l’enorme importanza della questione nazionale, soprattutto in un paese che giustamente vien chiamato «prigione di popoli», e in un momento in cui, nell’estremo oriente d’Europa e in Asia, il capitalismo risveglia alla vita e alla coscienza molte nazioni «nuove», piccole e grandi; in un momento in cui la monarchia degli zar ha chiamato sotto le armi milioni di grandi-russi e di «allogeni», al fine di «risolvere» varie questioni nazionali secondo gli interessi del Consiglio della nobiltà unificata e dei Gučkov con i Krestovnikov, i Dolgorukov, i Kutler, i Rodičev.
Siamo noi, proletari grandi-russi coscienti, estranei all’orgoglio nazionale? Certo che no. Noi amiamo la nostra lingua e la nostra patria. Noi lavoriamo soprattutto per elevare le masse lavoratrici della nostra patria (cioè i nove decimi della sua popolazione) alla vita cosciente di democratici e di socialisti. Per noi il più penoso è vedere di quali violenze, di quale oppressione, di quali umiliazioni è fatta segno la nostra bella patria da parte dei carnefici imperiali, dei nobili e dei capitalisti. Noi siamo fieri del fatto che queste violenze hanno suscitato resistenza nel nostro ambiente, tra i grandi-russi: siamo fieri che da questo ambiente siano usciti i Radiščev, i decabristi, i rivoluzionari-plebei del 1870-1880; siamo fieri del fatto che la classe operaia grande-russa ha costituito, nel 1905, un possente partito rivoluzionario di massa, e che il mugik grande-russo ha cominciato, verso la stessa epoca, a diventare un democratico, ad abbattere il pope e il proprietario fondiario.
Noi ricordiamo che mezzo secolo fa il democratico grande-russo Černyševskij, che votò la sua vita alla causa della rivoluzione, diceva: «Nazione miserabile, nazione di schiavi; dall’alto al basso, tutti schiavi»1. Gli schiavi grandi-russi (schiavi in rapporto alla monarchia zarista), aperti o mascherati, non amano ricordare queste parole. E, secondo noi, questo era il linguaggio del vero amor di patria, di un amore che soffre dell’assenza di spirito rivoluzionario tra le masse della popolazione grande- russa. Questo spirito non esisteva allora. Oggi è ancora debole, ma esiste. Noi siamo invasi da un sentimento di fierezza nazionale: la nazione grande-russa ha anch’essa creato una classe rivoluzionaria, ha anch’essa provato di esser capace di dare all’umanità dei grandi esempi di lotta per la libertà e per il socialismo, e non soltanto grandi pogrom, forche allineate, segrete, grandi carestie e un servilismo dinanzi ai pope, agli zar, ai proprietari fondiari e ai capitalisti.
Noi siamo invasi da un sentimento di fierezza nazionale. Ed è proprio per questo che noi odiamo particolarmente il nostro passato di schiavitù (l’epoca in cui i signori terrieri conducevano i mugik alla guerra per strangolar la libertà dell’Ungheria, della Polonia, della Persia, della Cina) e il nostro presente di schiavi, in cui questi signori terrieri, secondati dai capitalisti, ci conducono alla guerra per strangolar la Polonia e l’Ucraina, per soffocate il movimento democratico in Persia in Cina, per accrescere la potenza della banda dei Romanov, dei Bobrinskij, dei Puriškevič, che disonora la dignità nazionale di noi grandi-russi, Nessuno è colpevole di essere nato schiavo. Ma lo schiavo a cui non solo sono estrance le aspirazioni alla libertà, ma che giustifica e dipinge a colori rosei la sua schiavitù (che chiama, per esempio, «difesa della patria» dei grandi russi lo strangolamento della Polonia e dell’Ucraina), un tale schiavo è un lacché e un impudente che desta un senso legittimo di sdegno, di disprezzo e di disgusto.
«Un popolo che ne opprime altri non può essere libero», dicevano Marx e Engels, i più grandi rappresentanti della democrazia conseguente del secolo decimonono, divenuti gli educatori del proletariato rivoluzionario. E noi, operai grandi-russi, invasi da un senso di fierezza nazionale, vogliamo ad ogni costo una Grande Russia libera e indipendente, autonoma, democratica, repubblicana, – una fiera Grande Russia che stabilisca coi suoi vicini relazioni basate sul principio umano dell’uguaglianza, e non sul principio feudale dei privilegi, umiliante per una grande nazione. Ed appunto perché lo vogliamo tale, noi diciamo, non si può, nel secolo ventesimo, in Europa (anche se nell’estremo oriente d’Europa), «difendere la patria» se non mettendo in opera tutti i mezzi rivoluzionari contro la monarchia, i proprietari fondiari e i capitalisti della propria patria, cioè contro i peggiori nemici del nostro paese. I grandi-russi non possono «difendere la patria» se non augurando in ogni guerra la disfatta dello zarismo, in quanto questa costituisce il minor male per i nove decimi della popolazione della Grande Russia. Poiché lo zarismo non solo opprime economicamente e politicamente questi nove decimi della popolazione, ma la demoralizza, l’umilia, la disonora, la prostituisce, abituandola ad opprimere altri popoli, abituandola a celar il suo obbrobrio sotto una retorica ipocrita, falsamente patriottica.
Ci si obietterà forse che, oltre lo zarismo, e sotto la sua ala, è sorta e si è già affermata un’altra forza storica, il capitalismo grande-russo, che compie un’opera progressiva centralizzando e cementando economicamente vaste regioni. Ma questa obiezione, lungi dal giustificare, accusa ancor piú i nostri socialisti sciovinisti, che bisognerebbe chiamare: socialisti dello zar e di Puriškevič (come Marx chiamava i lassalliani: socialisti del re di Prussia). Ammettiamo persino che la storia dia ragione al capitalismo imperialista grande-russo contro cento e una piccole nazioni. Ciò non è impossibile, poiché tutta la storia del capitale è fatta di violenza e di rapine, è una storia scritta col sangue e col fango. Noi non siamo del resto niente affatto partigiani assoluti delle piccole nazioni. Noi siamo indiscutibilmente, a parità di tutte le altre condizioni, per la centralizzazione, contro l’ideale piccolo-borghese dei rapporti federativi. Tuttavia, anche in questo caso, non è affar nostro, non è affare dei democratici – senza parlare dei socialisti – aiutare i Romanov-Bobrinskij-Puriškevič a schiacciar l’Ucraina, ecc. Bismarck ha compiuto, a modo suo, coi suoi metodi junkeriani, un’opera storica progressiva; ma sarebbe stato bello il «marxista» a cui fosse perciò venuto in mente di giustificare un aiuto dei socialisti a Bismarck! E Bismarck, inoltre, contribuì allo sviluppo economico unificando i tedeschi dispersi e oppressi da altri popoli. Mentre la prosperità economica ed il rapido sviluppo della Grande Russia esigono che essa si liberi dalla violenza esercitata dai grandi-russi sugli altri popoli. Questa differenza, i nostri ammiratori dei Bismarck «veri russi» in sedicesimo la dimenticano.
In secondo luogo, se la storia decide la questione in favore del capitalismo imperialista grande-russo, ne risulterà che i compiti socialisti del proletariato grande-russo, motore principale della rivoluzione comunista generata dal capitalismo, saranno tanto più grandi. Ora, per la rivoluzione proletaria è necessaria una lunga opera di educazione degli operai nello spirito della più completa uguaglianza e della più completa fratellanza nazionali. Dal punto di vista degli interessi appunto del proletariato grande-russo s’impone dunque una lunga opera di educazione delle masse, nel senso della rivendicazione più energica, più conseguente, più ardita, più rivoluzionaria dell’eguaglianza completa delle nazionalità e del diritto all’autodecisione di tutte le nazioni oppresse dai grandi-russi. La soddisfazione del giusto orgoglio nazionale dei grandi-russi (non intesa in senso servile) coincide con l’interesse socialista dei proletari grandi-russi (e di tutti gli altri). Marx rimane il nostro modello. Dopo aver vissuto decine d’anni in Inghilterra, divenuto a metà inglese, Marx rivendicava la libertà e l’indipendenza nazionale dell’Irlanda, in nome degli interessi del movimento socialista degli operai inglesi.
In quanto ai socialisti sciovinisti nostrani, Plechanov, ecc., essi si riveleranno, nell’ipotesi da noi ultimamente esaminata, dei traditori non solamente della loro patria, la Grande Russia libera e democratica, ma anche dei traditori della fratellanza proletaria di tutti i popoli della Russia, cioè della causa del socialismo.
V.I. Lenin
(Tratto, con alcuni interventi redazionali, da: V.I. Lenin, Della fierezza nazionale dei grandi-russi, in V.I. Lenin, Le opere, Roma, Editori Riuniti, 1970 [II ed. 1976], pp. 549-552).
Note
1 Citazione dal romanzo Prologo di N.G. Černyševskij.
Inserito il 14/12/2023.
di Antonio Gramsci
Un articolo di Antonio Gramsci, allora redattore dell’«Avanti!» e del settimanale torinese «Il Grido del Popolo», sull’attentato che il capo della giovane repubblica dei Soviet subì ad opera della socialista-rivoluzionaria Fanja Kaplan il 30 agosto 1918.
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L’opera di Lenin
di Antonio Gramsci1
La stampa borghese di tutti i paesi e specialmente quella francese (la speciale distinzione dipende da ragioni intuitive) non ha nascosto la sua immensa gioia per l’attentato contro Lenin2. I sinistri beccamorti dell’antisocialismo hanno sconciamente tripudiato sul presunto cadavere sanguinoso (o destino crudele, quanti pii desideri, quanti soavi ideali tu hai infranti), hanno esaltato la gloriosa omicida, hanno rinverdito la tattica, squisitamente borghese, del terrorismo e del delitto politico.
I beccamorti sono stati defraudati: Lenin vive e noi auguriamo, per il bene e la fortuna del proletariato, che egli riacquisti presto il vigore fisico e riprenda il suo posto di milite del socialismo internazionale.
Il baccanale giornalistico avrà avuto anch’esso la sua efficacia storica: i proletari ne hanno solo colto la significazione sociale. Lenin è l’uomo più odiato nel mondo, così come un giorno lo fu Carlo Marx
[dodici righe censurate]
Lenin ha consacrato tutta la sua vita alla causa del proletariato: il contributo che egli ha dato allo sviluppo dell’organizzazione e alla diffusione delle idee socialiste in Russia è immenso. Uomo di pensiero e di azione trova la sua forza nel carattere morale; la popolarità che gode tra le masse operaie è spontaneo omaggio alla sua rigida intransigenza verso il regime capitalista: egli non si è mai lasciato abbacinare dalle apparenze superficiali della società moderna, che altri hanno scambiato con la realtà, precipitando quindi di errore in errore.
Lenin, applicando il metodo foggiato da Marx, trova che la realtà è il profondo e incolmabile abisso che il capitalismo ha scavato fra il proletariato e la borghesia, ed il sempre crescente antagonismo delle due classi. Nello spiegare i fenomeni sociali e politici e nel fissare al partito la via da seguire in tutti i momenti della sua vita, non perdette mai di vista la molla più potente di tutta l’attività economica e politica: la lotta di classe. Egli appartiene alla schiera dei più fervidi e più convinti assertori dell’internazionalismo del movimento operaio. Ogni azione proletaria deve essere subordinata o coordinata all’internazionalismo, deve poter avere carattere internazionalista. Qualunque iniziativa, in qualunque momento, sia pure transitoriamente, viene in conflitto con questo ideale supremo, deve essere combattuta inesorabilmente: perché ogni deviamento, per piccolo che sia, dalla strada che conduce direttamente al trionfo del socialismo internazionale è contrario agli interessi del proletariato, interessi lontani o immediati, e serve solo a inacerbire la lotta e a prolungare la dominazione della classe borghese.
Egli, il «fanatico», l’«utopista», sostanzia il suo pensiero e la sua azione, e quella del partito, unicamente su questa profonda e incoercibile realtà della vita moderna, non sui fenomeni superficialmente vistosi, che conducono sempre i socialisti, che se ne lasciano abbacinare, verso illusioni ed errori che mettono a repentaglio la compagine del movimento.
Perciò Lenin ha sempre visto trionfare le sue tesi, mentre quelli che gli rimproveravano il suo «utopismo» ed esaltavano il proprio «realismo», venivano miseramente travolti dai grandi avvenimenti storici.
Subito dopo lo scoppio della rivoluzione e prima di partire per la Russia, Lenin aveva inviato ai compagni il monito: «Diffidate di Kerenski3»; gli avvenimenti che si sono poi svolti gli hanno dato piena ragione. Nell’entusiasmo della prima ora per la caduta dello zarismo, la maggioranza della classe operaia e molti dei suoi condottieri si erano lasciati convincere dalla fraseologia di questo uomo, il quale, colla sua mentalità piccolo-borghese, per la mancanza di qualsiasi programma e di ogni visione socialista della società, poteva condurre la rivoluzione allo sfacelo e trascinare il proletariato russo su una via pericolosa per l’avvenire del nostro movimento.
[tre righe censurate]
Arrivato in Russia, Lenin si mise subito a svolgere la sua azione essenzialmente socialista, e che potrebbe sintetizzarsi nel motto di Lassalle «Dire ciò che è»: una critica stringente e implacabile dell’imperialismo dei cadetti (partito costituzionale-democratico, il più grande partito liberale della Russia), della fraseologia di Kerenski e del collaborazionismo dei mescevichi.
Basandosi sullo studio critico approfondito delle condizioni economiche e politiche della Russia, dei caratteri della borghesia russa e della missione storica del proletariato russo, Lenin fin dal 1905 era venuto alla conclusione che per l’alto grado di coscienza di classe del proletariato, e dato lo sviluppo della lotta di classe, ogni lotta politica si sarebbe trasformata in Russia necessariamente in lotta sociale contro l’ordinamento borghese. Questa posizione speciale in cui si trovava la società russa era dimostrata anche dalla incapacità della classe capitalista a condurre una seria lotta contro lo zarismo per sostituirgli il suo dominio politico. Dopo la rivoluzione del 1905, in cui sperimentalmente si dimostrò la enorme forza del proletariato, la borghesia ebbe paura di ogni movimento politico al quale il proletariato avrebbe partecipato, e per necessità storica di conservazione divenne sostanzialmente controrivoluzionaria. L’espressione fedele di questo stato d’animo fu data dallo stesso Miliucoff in uno dei suoi discorsi alla Duma: il Miliucoff affermò che preferiva la sconfitta militare alla rivoluzione.
La caduta dell’autocrazia non mutò per nulla i sentimenti e le direttive della borghesia russa, anzi la sua sostanza reazionaria andò aumentando a mano a mano che la forza e la coscienza del proletariato si concretava. La tesi storica di Lenin si avverò: il proletariato divenne il gigantesco protagonista della storia, ma era un gigante ingenuo, entusiasta, pieno di fede in sé e negli altri. La lotta di classe, esercitata in un ambiente di dispotismo feudale, gli aveva dato la coscienza della sua unità sociale, della sua potenza storica, ma non l’aveva educato al metodo freddo e realistico, non gli aveva formato una volontà concreta. La borghesia si rimpicciolì furbescamente, nascose i suoi caratteri essenziali con frasi altisonanti: per la sua opera illusionistica si servì del Kerenski, l’uomo più popolare fra le masse al principio della rivoluzione; i menscevichi e i socialisti-rivoluzionari (non marxisti, eredi del partito terroristico, intellettuali piccolo-borghesi) la aiutarono inconsciamente, con il loro collaborazionismo, a nascondere le sue intenzioni reazionarie e imperialiste.
Contro questo inganno si levò vigorosamente il partito bolscevico con a capo Lenin, implacabilmente smascherando le vere intenzioni della borghesia russa, combattendo la tattica nefasta dei menscevichi che consegnava il proletariato mani e piedi legati alla borghesia. I bolscevichi rivendicavano ai Soviet tutti i poteri, perché ciò solo poteva costituire una garanzia contro le mene reazionarie delle classi abbienti.
All’inizio gli stessi Soviet, sotto l’influsso dei menscevichi e dei socialisti-rivoluzionari, si opponevano a questa soluzione e preferivano dividere il potere con i diversi elementi della borghesia liberale; anche la massa, eccettuata una minoranza più avanzata, lasciava fare, non vedendo chiaro nella realtà delle cose, mistificata da Kerenski e dai menscevichi al governo.
[diciassette righe censurate]
Gli eventi si sviluppavano in modo da dare completa ragione alla critica serrata e stringente di Lenin e dei bolscevichi, che avevano sostenuto non avere la borghesia né il desiderio né la capacità di dare una soluzione democratica agli obiettivi della rivoluzione, ma che essa, aiutata inconsciamente dai socialisti collaborazionisti, avrebbe condotto il paese alla dittatura militare, strumento politico necessario per il conseguimento dei fini imperialisti e reazionari. Le masse operaie e contadine, attraverso la propaganda dei bolscevichi, cominciarono a rendersi conto di quanto avveniva, acquistarono una capacità e una sensibilità politica sempre maggiore: la loro esasperazione proruppe la prima volta nel luglio con la sollevazione di Pietrogrado facilmente repressa dal Kerenski. Questa sollevazione, quantunque giustificata dalla funesta politica di Kerenski, non aveva però l’adesione dei bolscevichi e di Lenin, perché i Soviet rimanevano ancora contrari ad assumere tutto il potere nelle loro mani e per conseguenza ogni sollevazione virtualmente si dirigeva contro i Soviet, che, bene o male, rappresentavano la classe.
Bisognava quindi continuare ancora la propaganda classista e persuadere gli operai a mandare nei Soviet delegati convinti della necessità che i Soviet assumessero tutto il potere del paese. Appare anche da ciò evidente il carattere essenzialmente democratico dell’azione bolscevica, rivolta a dare capacità e coscienza politica alle masse, perché la dittatura del proletariato si instaurasse in modo organico e risultasse forma matura di regime sociale economico-politico.
Ad affrettare lo svolgersi degli avvenimenti contribuì, oltre che l’atteggiamento sempre più provocante della borghesia, il tentativo militare, fatto da Korniloff, di marciare su Pietrogrado per impossessarsi del potere, e poi Kerenski con i suoi gesti napoleonici, con la formazione di un gabinetto composto di noti reazionari, col suo pre-parlamento non eletto col suffragio universale, e finalmente col divieto del Congresso panrusso dei Soviet, vero colpo di Stato contro il popolo, inizio del tradimento borghese verso la rivoluzione.
Le tesi di Lenin e dei bolscevichi, sostenute, ribadite, propagate con lavoro perseverante e tenace fin dall’inizio della rivoluzione, avevano nella realtà una riprova assoluta: il proletariato, tutto il proletariato delle città e delle campagne si schierò risolutamente attorno ai bolscevichi, rovesciò la dittatura personale di Kerenski consegnando il potere ai Congresso dei Soviet di tutta la Russia.
Come era naturale, il Congresso panrusso dei Soviet, che si era convocato nonostante il divieto di Kerenski, affidò, fra l’entusiasmo generale, la carica di presidente del Consiglio dei commissari del popolo a Lenin che aveva dimostrato tanta abnegazione per la causa del proletariato e tanta chiaroveggenza nel giudicare i fatti e nel tracciare il programma d’azione della classe operaia.
[trentacinque righe censurate]
La stampa borghese di tutti i paesi ha sempre rappresentato Lenin come un «dittatore» che si è imposto con la violenza ad un popolo sterminato e lo opprime ferocemente. I borghesi non riescono a concepire la società che inquadra nei loro schemi dottrinari: la dittatura per loro è Napoleone, o sia pure Clemenceau, è il dispotismo accentratore di tutto il potere politico nelle mani di uno solo, ed esercitato attraverso una gerarchia di servi armati di schioppo o emarginatori di pratiche burocratiche. Perciò la borghesia ha tripudiato alla notizia dell’attentato al nostro compagno, e ne ha decretato la morte: sparito il «dittatore» insostituibile, tutto il regime nuovo, secondo la loro concezione, dovrebbe miseramente crollare.
[sessantatré righe censurate]
Egli è stato aggredito mentre usciva da una officina, dove aveva tenuto una conferenza agli operai: il «feroce dittatore» continua dunque la sua missione di propagandista, è sempre a contatto coi proletari, ai quali porta la parola della fede socialista, l’incitamento all’opera tenace di resistenza rivoluzionaria, per costruire, per migliorare, per progredire attraverso il lavoro, il disinteresse, il sacrifizio. Fu colpito dal revolver di una donna, di una socialista-rivoluzionaria, di una vecchia militante del sovversivismo terroristico. Nell’episodio è tutto il dramma della rivoluzione russa. Lenin è il freddo studioso della realtà storica, che tende organicamente a costruire una società nuova su basi solide e permanenti, secondo i dettami della concezione marxista: è il rivoluzionario che costruisce senza farsi illusioni frenetiche, ubbidendo alla ragione e alla saggezza. Dora Kaplan era una umanitaria, una utopista, una figlia spirituale del giacobinismo francese, che non riesce a comprendere la funzione storica dell’organizzazione e della lotta di classe, che crede socialismo significhi immediata pace fra gli uomini, paradiso idillico di gaudio e di amore. Che non comprende quanto complessa sia la società e come difficile il compito dei rivoluzionari appena divenuti gestori della responsabilità sociale. Ella era certo in buona fede, e credeva poter far raggiungere all’umanità russa la felicità liberandola dal «mostro». Non certo in buona fede sono i suoi glorificatori borghesi, i beccamorti schifosi della stampa capitalistica. Essi hanno esaltato il socialista-rivoluzionario Ciaicovski che ad Arcangelo aveva accettato di porsi a capo del movimento antibolscevico e aveva rovesciato il potere dei Soviet: ora, che egli ha compiuto la sua missione antisocialista ed è stato mandato in esilio dai borghesi russi capeggiati dal colonnello Sciaplin, irridono al vecchio pazzo, al sognatore.
La giustizia rivoluzionaria ha punito Dora Kaplan: il vecchio Ciaicovski sconta in un’isola di ghiaccio il suo delitto d’essersi fatto strumento della borghesia, e sono i borghesi che lo hanno punito e si ridono di lui.
(Tratto da: Antonio Gramsci, Scritti politici, a cura di Paolo Spriano, Roma, Editori Riuniti, 1967, III ediz. 1979, pp. 159-164).
Note
1 Non firmato, «Il Grido del Popolo», 14 settembre 1918.
2 Il 30 agosto 1918, all’uscita dall’officina Michelson, dove aveva tenuto un comizio, Lenin fu ferito dalla socialista-rivoluzionaria Fanja (e non Dora come è scritto nell’articolo) Kaplan.
3 Nel testo manteniamo la grafia usata da Gramsci per i nomi stranieri. Aleksandr Kerenskij (1881-1970), dopo la caduta dello zarismo in seguito alla Rivoluzione del febbraio 1917, fu membro del primo governo provvisorio come ministro della Giustizia e ministro della Guerra; dal luglio alla rivoluzione bolscevica fu invece primo ministro del secondo e del terzo governo provvisorio; con la presa del potere da parte dei bolscevichi, dopo un tentativo fallito di rivolta militare, andò in esilio negli Stati Uniti [ndr].
Inserito il 7/2/2023.
di Valentino Gerratana
Stato e rivoluzione, che nell’edizione originaria riportava come sottotitolo La dottrina marxista dello Stato e i compiti del proletariato nella rivoluzione, fu scritto da Lenin dall’agosto al settembre 1917 e pubblicato nel maggio del 1918.
Già da un anno Lenin intendeva scrivere uno studio sulla questione dello Stato, e aveva raccolto in un quaderno la documentazione necessaria, composta di citazioni tratte da scritti di Marx, Engels, Kautsky, Bernstein, Pannekoek e altri. Iniziò la stesura di Stato e rivoluzione nel villaggio di Razliv, presso la frontiera finlandese, proseguendola poi in Finlandia, dove si era nascosto per sfuggire al mandato di cattura spiccato contro di lui dal governo provvisorio di Kerenskij. Il saggio doveva essere pubblicato sotto lo pseudonimo di F.F. Ivanovskij, per evitarne il sequestro, ma il successo della rivoluzione d’ottobre rese inutile tale precauzione.
Lenin in questo saggio intendeva stabilire l’autentica concezione marxista dello Stato, inteso quale strumento dell'oppressione di classe, contro le deformazioni della dottrina operate dagli «opportunisti», i socialisti che intendevano conciliare gli opposti interessi di classe, il cui più autorevole rappresentante era il tedesco Karl Kautsky.
Prima parte
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Valentino Gerratana
Introduzione a: V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1970 (III ed. 1981)
Prima parte
[…]1 Se è impossibile capire il significato di Stato e rivoluzione misurandolo con il metro pseudo-storicistico del metodo staliniano, non per questo è giustificabile la tendenza, alimentata da comprensibili impulsi di ribellismo giovanile, a ripudiare ogni criterio storicistico e a porsi di fronte a questo libro come se fosse un testo di «pura» teoria, al di fuori del tempo e dello spazio, da penetrare senz’altra mediazione critica che non sia quella fornita dalle proprie convinzioni già acquisite. L’esigenza storicistica di chiarire quale posto occupi Stato e rivoluzione nello sviluppo del pensiero di Lenin appare tanto più necessaria quando si scopre che tale sviluppo non ha affatto quel carattere lineare che certa storiografia ufficiale ha voluto attribuirgli. A differenza di ciò che si può dire per Stalin, il rigore del metodo scientifico di Lenin non ha nulla di «geometrico»: è un rigore che si nutre non del gusto di perfette costruzioni formali, ma di un’intima coerenza sempre presente anche nei risultati approssimativi o imperfetti. La passione del rivoluzionario e il rigore dello scienziato tendono in Lenin a coincidere, ma tale coincidenza non è mai automatica: è il difficile approdo di una forte tensione intellettuale e morale che sola permette di superare di volta in volta i limiti che la ricerca concreta non può non incontrare nello sforzo di individuare in ogni situazione, insieme alle tendenze vitali dello sviluppo, gli ostacoli che le frenano e possono deviarle. Stato e rivoluzione nasce in uno dei momenti più impegnativi di questa tensione.
Sebbene sia stata scritta nell’immediata vigilia della rivoluzione d’Ottobre, tra l’agosto e il settembre del 1917, quest’opera non ha la sua origine solo in una riflessione sui problemi specifici della rivoluzione russa e tanto meno sulle condizioni particolari dello Stato russo trascinato in quei mesi in una crisi risolutiva. Ciò risulta chiaramente da una semplice lettura dello stesso testo. Già nella prefazione alla prima edizione, scritta al principio d’agosto, Lenin motiva l’importanza del problema trattato con il maturare della «rivoluzione proletaria internazionale», e della rivoluzione russa in corso dice che «non può essere concepita se non come un anello della catena delle rivoluzioni proletarie socialiste provocate dalla guerra imperialista». Nel concreto dell’analisi le esperienze della rivoluzione russa sono ricordate solo incidentalmente, come esemplificazione di tesi generali, e l’ultimo capitolo, che doveva essere dedicato a un bilancio di tali esperienze, non fu mai scritto. Ciò non toglie che nella sua struttura l’opera risulti […] perfettamente compiuta. È ben noto d’altra parte che il progetto di Stato e rivoluzione e le principali conclusioni che vi si trovano erano già maturati nella mente di Lenin assai prima di iniziare la stesura del libro: che è scritto utilizzando il materiale raccolto nel quaderno Il marxismo nello Stato, a cui Lenin lavorò tra la fine del 1916 e i primi mesi del 1917, prima dell’inizio della rivoluzione di febbraio. È a questo periodo quindi che bisogna riportarsi per cogliere la genesi di Stato e rivoluzione.
Può sembrare casuale, ma non è del tutto secondario – e appare comunque indicativo di un metodo di indagine che esclude ogni tentazione strumentalistica – il fatto che, ad approfondire l’analisi della teoria marxista dello Stato, Lenin sia stato spinto da un’occasione polemica che lo aveva orientato inizialmente in una direzione diversa da quella presa poi concretamente nello sviluppo della ricerca. Si tratta precisamente del fatto che, partendo dall’esigenza di combattere alcune posizione estremistiche, Lenin, dopo aver approfondito teoricamente la questione dello Stato, arriva alla conclusione che in quel momento e su quel problema le posizioni più pericolose sono altre, nelle deformazioni opportunistiche del marxismo prevalenti in tutti i partiti socialisti europei. Sarà utile tener presenti tutti i dati che rendono evidente il processo di questa ricerca. L’esigenza di approfondire i problemi della teoria marxista dello Stato si era posta per la prima volta a Lenin nell’estate del 1916 quando aveva rifiutato di pubblicare nella rivista illegale «Sbornik Social-Demokrata» un articolo inviatogli da Bucharin con il titolo Contributo alla teoria dello Stato imperialistico. La tesi principale sostenuta da Bucharin in quest’articolo – che limitava il contrasto teorico tra marxisti e anarchici all’analisi dello sviluppo economico, annullando invece ogni differenza sostanziale rispetto al problema dello Stato, dove gli uni e gli altri venivano ravvicinati in una comune «ostilità di principio al potere statale» – doveva essere respinta da Lenin non solo per la sua infondatezza teorica ma anche per le sue immediate implicazioni politiche.
Il significato di tali implicazioni appare chiaro se si collega questa posizione di Bucharin a una divergenza più generale che lo aveva contrapposto a Lenin fin dall’anno precedente. Alla Conferenza di Berna, nella primavera del 1915, Bucharin aveva presentato delle «tesi» particolari che Lenin aveva respinto come «semianarchiche» e che più tardi doveva qualificare con il termine di «economismo imperialistico». In quell’occasione Bucharin era rimasto isolato, ma dopo qualche mese alcune sue tesi erano state accettate e fatte proprie da Pjatakov2 e dalla Boš3, i quali avevano preso ad agitarsi per esse organizzando un nuovo gruppo che, con collegamenti e diramazioni internazionali, non mancava di esercitare una certa influenza nel partito.
Quando ricevette l’articolo di Bucharin sullo Stato, Lenin era appunto impegnato a criticare queste posizioni dell’«economismo imperialistico», e si accingeva a sviluppare questa critica in una polemica che avrebbe dovuto essere pubblica ma fu poi sospesa dal corso degli avvenimenti4. I temi di questa polemica riguardavano in particolare la possibilità di guerre nazionali nell’epoca dell’imperialismo e la legittimità di sostenere, nella nuova situazione, il diritto all’autodecisione delle nazioni oppresse. Ma la portata della discussione andava molto al di là dell’ambito circoscritto di questi temi specifici. Oltre a riecheggiare alcuni dei motivi che erano stati illustrati da Rosa Luxemburg e da altri gruppi di sinistra – e che Lenin aveva già contestato in modo analitico – la nuova corrente tendeva chiaramente a considerare superata, di fronte ai nuovi obiettivi della rivoluzione socialista posti su scala mondiale dalla guerra imperialistica, tutta l’impostazione leniniana che riconosceva l’importanza rivoluzionaria, in quello stesso quadro, della lotta e delle conquiste politiche di carattere democratico e non ancora socialista. È in sostanza la fondamentale concezione leniniana dei rapporti tra democrazia e socialismo che viene qui in discussione.
Con la definizione di «economismo imperialistico» Lenin sottolineava soprattutto la continuità della propria posizione su questo problema centrale della strategia rivoluzionaria. Non vi era certo un rapporto di discendenza diretta tra la vecchia corrente dell’«economismo» – che, alla fine del secolo XIX e all’inizio del XX, incitava la classe operaia a disinteressarsi della lotta politica contro il regime zarista per impegnarsi esclusivamente nella lotta economica per la propria emancipazione – e la nuova corrente dell’«economismo imperialistico»; ma nella lotta contro la vecchia e la nuova corrente Lenin era guidato dalla stessa visione del rapporto tra democrazia e socialismo. Solo da questo punto di vista l’avvicinamento analogico tra le due correnti era tutt’altro che casuale e acquistava un preciso significato teorico. Come il vecchio «economismo» non era riuscito a collegare l’avvento del capitalismo in Russia alla lotta per la democrazia, così il nuovo «economismo imperialistico» si dimostrava incapace di «collegare l’avvento dell’imperialismo alla lotta per le riforme e alla lotta per la democrazia»5.
Lenin naturalmente non poteva non tener conto delle condizioni specifiche e delle fonti reali che spingevano a queste nuove forme di estremismo, ma ciò non lo portava in nessun modo ad attenuare la sua polemica. L’imperialismo e la guerra imperialistica: ecco la realtà con cui bisogna fare i conti, ma ciò diventa impossibile se il pensiero si lascia soffocare dagli orrori della guerra. Appunto «una di queste forme dell’oppressione e dello sfacelo del pensiero umano da parte della guerra è l’atteggiamento sprezzante dell’“economismo imperialistico” nei confronti della democrazia»6. Si può ritenere in tal modo di condurre una lotta intransigente contro l’opportunismo, ma in effetti lo si aiuta; perché «il marxismo insegna che “lottare contro l’opportunismo” rifiutando di utilizzare le istituzioni democratiche della società capitalistica attuale, create dalla borghesia e da essa snaturate, significa capitolare senza condizioni di fronte all’opportunismo»7. È vero che polemizzando contro una caricatura del marxismo Lenin rimaneva qui in qualche modo condizionato dai limiti dei suoi stessi avversari, e più volte era costretto, com’egli stesso riconosceva, a rifarsi all’abc del marxismo. Poteva così accadere che un problema così importante, come quello dello Stato, per approfondire la questione dei rapporti tra democrazia e socialismo, venisse soltanto sfiorato, anche se con accenni assai penetranti che dovevano trovare in seguito un più ampio svolgimento.
Rimaneva d’altra parte un limite più generale. Combattendo giustamente l’illusione che solo il socialismo avrebbe risolto dovunque tutti i problemi, Lenin aveva presente in particolare la situazione della Russia, dove allora vedeva preminenti e attuali solo i compiti di una rivoluzione democratica, nel quadro di una rivoluzione socialista mondiale. La legge dello sviluppo ineguale del capitalismo sembrava presentarsi ancora nella sua forma classica: da un lato «il socialismo sarà attuato dall’azione unita dei proletari, non di tutti i paesi, ma di una minoranza di paesi, giunti allo stadio di sviluppo del capitalismo avanzato», dall’altro «la rivoluzione sociale non può non avvenire se non nelle forme di un periodo che unisce la guerra civile del proletariato contro la borghesia nei paesi avanzati a tutta una serie di movimenti democratici e rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionali, nelle nazioni poco sviluppate, arretrate e oppresse»8. Per quanto riguarda la Russia il suo posto restava fissato secondo la strategia rivoluzionaria definita nel 1914-1915: «Il compito del proletariato russo è di condurre a termine la rivoluzione democratica borghese in Russia allo scopo di suscitare la rivoluzione socialista in Europa»9. Alcuni mesi dopo, scoppiata la rivoluzione di febbraio, Lenin dovrà polemizzare non con i giovani sostenitori dell’«economismo imperialistico», ma con i «vecchi bolscevichi» per convincerli che il proletariato russo non poteva più limitarsi a quel compito.
In questo sviluppo del pensiero di Lenin un momento assai importante è rappresentato dall’approfondimento del problema teorico dello Stato. Rifiutando di pubblicare l’articolo di Bucharin, Lenin aveva evitato di collegare questo nuovo dissenso con gli argomenti della polemica sull’«economismo imperialistico», anche per impedire che il suo rifiuto venisse attribuito a un deteriore «spirito di frazione»10. Scrivendo a Bucharin si era limitato a giudicare la parte più teorica dell’articolo, quella che trattava dello «Stato in generale», «non sufficientemente meditata», e lo consigliava a «lasciar maturare» le sue idee11. Bucharin però non seguì il consiglio, e alcuni mesi dopo l’articolo in questione apparve nella rivista della Internazionale giovanile socialista («Die Jugend-Internationale», n. 6) con lo pseudonimo di Nota-Bene12. A sua volta Lenin rispose pubblicamente, in una breve nota apparsa subito dopo sul n. 2 dello «Sbornik Social-Demokrata»13. Anche se non veniva sottolineato esplicitamente, il collegamento tra questa concezione di Bucharin sullo Stato e la generale svalutazione delle lotte democratiche, proprie dell’«economismo imperialistico», risultava ora abbastanza evidente. A differenza degli anarchici, scrive Lenin, «i socialisti vogliono utilizzare lo Stato moderno e le sue istituzioni nella lotta per l’emancipazione della classe operaia ed affermano anche la necessità di utilizzare lo Stato nella forma originale che assume durante il passaggio dal capitalismo al socialismo». La possibilità di utilizzare le istituzioni democratiche dello Stato moderno (borghese) era appunto, come s’è visto, uno dei temi principali della polemica contro l’«economismo imperialistico».
Il tono di questa critica a Bucharin appariva tutt’altro che duro, nella dichiarata volontà di non inasprire la polemica. Ma il giudizio di Lenin era intimamente assai severo, come si capisce anche da una lettera a Ines Armand in cui le segnalava questa sua nota dicendo di aver risposto alle «formidabili stupidaggini» dell’articolo di Bucharin14. Lenin comunque non riteneva di aver esaurito in questo modo la questione, e già del resto aveva annunciato pubblicamente, nella stessa nota dello «Sbornik», il suo proposito di approfondire maggiormente l’argomento: «su questa questione estremamente importante speriamo di poter ritornare in un prossimo articolo»15. Nei mesi successivi è proprio a questo progetto di articolo che Lenin lavora più intensamente, raccogliendo il materiale nel quaderno Il marxismo sullo Stato. Nel corso di questo lavoro la critica a Bucharin, che pure viene mantenuta, passa però in secondo piano ed è direttamente contro l’opportunismo kautskiano che viene spostata tutta la carica polemica di Lenin. In una lettera del 17 febbraio 1917 ad Aleksandra Kollontaj poteva già scrivere: «Sto preparando un articolo (ho quasi finito di raccogliere il materiale) sulla questione dell’atteggiamento del marxismo verso lo Stato. Sono giunto a conclusioni ancora più aspre contro Kautsky che contro Bucharin (…). La questione è arcimportante; Bucharin è molto migliore di Kautsky, ma gli errori di Bucharin possono rovinare questa “giusta causa” della lotta contro il kautskismo»16. Accennava inoltre all’intenzione di pubblicare in un prossimo numero dello «Sbornik» l’articolo di Bucharin, precedentemente respinto, insieme all’articolo che egli stesso stava preparando. Qualche giorno dopo, in un’altra lettera, indirizzata a Ines Armand, era ancora più esplicito: «In questi ultimi tempi mi sono occupato intensamente della questione relativa all’atteggiamento del marxismo verso lo Stato, ho raccolto molto materiale e son giunto, mi sembra, a conclusioni molto più interessanti e importanti assai più contro Kautsky che non contro N.Iv. Bucharin (il quale nondimeno ha sempre torto, benché si trovi più vicino alla verità che non Kautsky). Mi piacerebbe immensamente scrivere su questo: far uscire il n. 4 dello «Sbornik Social-Demokrata» con l’articolo di Bucharin e la mia analisi dei suoi piccoli errori e delle enormi falsificazioni e degradazioni del marxismo da parte di Kautsky»17. A distanza di pochi mesi, dopo uno studio più attento, le «formidabili stupidaggini» di Bucharin diventano «piccoli errori» di fronte all’opportunismo di Kautsky.
Ma Lenin non fece a tempo a scrivere l’articolo progettato, e il n. 4 dello «Sbornik» non vide mai la luce. Non uscì nemmeno il n. 3 della rassegna, sebbene il materiale fosse tutto pronto, con un articolo di Pjatakov in difesa della posizione dell’«economismo imperialistico» e la risposta di Lenin; la pubblicazione, già ritardata da difficoltà finanziarie, fu poi definitivamente impedita dallo scoppio della rivoluzione di febbraio che determinava tutta una nuova situazione politica. Pur non avendo nulla da rinnegare nella sostanza della sua polemica contro le posizioni estremistiche dell’«economismo imperialistico», Lenin doveva riconoscere che nella nuova situazione gli ostacoli maggiori allo sviluppo rivoluzionario venivano dalla parte opposta: non più dalla sottovalutazione delle rivendicazioni democratiche ma da una loro schematica sopravvalutazione attraverso cui si tendeva a rinviare e a perdere di vista gli obiettivi più avanzati che stavano già maturando. Con la rivoluzione di febbraio una parte essenziale del «programma minimo» per cui i bolscevichi lottavano dal 1903 veniva conquistata di colpo. A questo punto la tentazione di buttare a mare tutto il programma minimo come irrealizzabile nell’epoca dell’imperialismo18 veniva superata dai fatti. Appariva invece un’altra tentazione: quella di limitare la lotta allo sforzo di consolidare e completare le conquiste del programma minimo prima di passare ad obiettivi più avanzati, più vicini al socialismo. Da questa tentazione furono sviati, com’è noto, molti dirigenti bolscevichi prima del ritorno di Lenin in Russia e della vittoria delle sue Tesi di aprile19.
Nella sua lotta contro questa nuova tendenza Lenin appare ispirato non solo da un’analisi concreta dei nuovi rapporti di classe, ma in primo luogo da una concezione pienamente sviluppata dei rapporti tra democrazia e socialismo. Scompare ogni possibile interpretazione strumentale di tali rapporti, come se la lotta per le rivendicazioni democratiche potesse servire solo in una fase di preparazione e di avvicinamento alla lotta diretta per il socialismo; ma scompare anche l’illusione che sia indispensabile, per consolidare e completare le conquiste democratiche, rimanere nei limiti della rivoluzione democratico-borghese. È in questo senso che Lenin potrà poi dire che non esiste una «muraglia cinese» che separi la rivoluzione democratica borghese dalla rivoluzione socialista. In un momento di crisi rivoluzionaria non esiste un prima e un poi: «al fine di consolidare per i popoli della Russia le conquiste della rivoluzione democratico-borghese, noi dovevamo spingerci oltre e ci siamo spinti oltre. Abbiamo risolto i problemi della rivoluzione democratica borghese cammin facendo, come un “prodotto accessorio” del nostro lavoro vero ed essenziale, del nostro lavoro proletario-rivoluzionario, socialista. Le riforme – abbiamo sempre detto – sono un prodotto accessorio della lotta rivoluzionaria di classe. Le trasformazioni democratiche borghesi – abbiamo detto e dimostrato coi fatti – sono un prodotto accessorio della rivoluzione proletaria, cioè socialista. D’altronde, tutti i Kautsky, Hilferding, Martov, Cernov, Hillquit, Longuet, MacDonald, Turati e gli altri eroi del marxismo “due e mezzo” non hanno saputo comprendere tale nesso tra rivoluzione democratica borghese e rivoluzione socialista. La prima si trasforma nella seconda. La seconda risolve cammin facendo i problemi della prima. La seconda consolida l’opera della prima. La lotta e soltanto la lotta decide sino a qual punto la seconda riesce nel suo sviluppo a superare la prima»20.
Tutto ciò non riguarda soltanto la forma particolare assunta dal processo rivoluzionario in Russia. Se tale processo non fosse stato diretto e guidato da una teoria generale della rivoluzione, anziché realizzarsi in forme specifiche, condizionate dalle particolarità storiche di questo paese, si può pensare che anche qui avrebbe finito coll’abortire, com’è accaduto nello stesso periodo nei paesi capitalistici avanzati. È certo comunque che Lenin ha potuto elaborare una strategia rivoluzionaria efficace per la Russia solo sulla base di una teoria rivoluzionaria universale, valida nel suo nucleo essenziale per tutti i paesi implicati nella crisi mondiale della guerra imperialistica. Ciò è evidente soprattutto per la teoria leninista dello Stato, cardine di questa teoria generale della rivoluzione. Maturata nei mesi precedenti la rivoluzione di febbraio, anche se solo più tardi, nell’agosto-settembre 1917, potrà ricevere una forma compiuta (per quanto esteriormente affrettata), la teoria leninista dello Stato guida ogni passo dell’azione rivoluzionaria di Lenin ed è presente in tutti i principali momenti di questo periodo, dalle Lettere da lontano alle decisioni dell’Ottobre. Se non si scorge questo nesso tutta la concezione rivoluzionaria di Lenin rischia di essere deformata, rimane incomprensibile e misteriosa come un mito magico, e la stessa esaltazione della rivoluzione d’Ottobre resta affidata a un atto irrazionale di fede.
Vi è da dire ancora qualcosa sullo sbocco che ha in Stato e rivoluzione la polemica contro Bucharin e le posizioni dell’«economismo imperialistico». Come s’è visto, l’approfondimento teorico del problema dello Stato e il mutamento della situazione politica spostano questa polemica in secondo piano e sembra quasi che essa a poco a poco si smorzi; il suo fondo teorico però rimane acquisito anche in questa nuova fase del pensiero di Lenin e ne è parte integrante. Nel quaderno Il marxismo sullo Stato si accenna esplicitamente al precedente della polemica con Bucharin, ricordando anche il consiglio, inascoltato, di «lasciare maturare» le sue idee. Anche qui la critica è ridimensionata, come già si è visto nelle lettere del febbraio 1917 alla Kollontaj e a Ines Armand; si riconosce che «nella sostanza Bucharin è, rispetto a Kautsky, più vicino alla verità», ma si riconferma che gli errori di Bucharin favoriscono l’opportunismo dei kautskiani. In particolare si rimprovera a Bucharin di aver dimenticato che, nella teoria dello Stato, i marxisti si distinguono dagli anarchici su due punti («punti attuali importantissimi per la pratica»), sia per quanto riguarda «l’utilizzazione dello Stato» adesso (cioè nella società borghese), che nella fase della dittatura del proletariato. Questa posizione sarà sempre mantenuta da Lenin, e anche in seguito la si ritrova infatti più volte, dalle Lettere da lontano a Stato e rivoluzione21: si lascia però cadere il riferimento diretto a Bucharin, dato che in quel periodo sono venuti a mancare i motivi politici di una polemica personale22. La stessa cosa avviene anche per le altre posizioni dell’«economismo imperialistico». Sia nel quaderno Il marxismo sullo Stato che nel testo di Stato e rivoluzione ritornano e sono confermati esplicitamente alcuni motivi teorici della recente polemica di Lenin, ma si tacciono i nomi delle persone e della tendenza. In definitiva anche in questo periodo, pur rimanendo sullo sfondo, la polemica contro l’estremismo non è affatto dimenticata e continua ad essere presente. Di lì a poco, del resto, dovrà tornare di nuovo in primo piano, anche su scala internazionale, impegnando Lenin in un’altra delle sue opere fondamentali, L’estremismo malattia infantile del comunismo.
Fino al 1914 il pensiero di Lenin si era sviluppato in modo originale, ma ancora all’interno del marxismo della Seconda Internazionale. Anche dopo il fallimento della Seconda Internazionale, che lo convinse della necessità di una rottura definitiva non solo con l’opportunismo di destra, ma anche con il centrismo kautskiano. Lenin non si rese subito conto di tutte le implicazioni teoriche che questa rottura comportava. Fu solo attraverso lo studio approfondito dei problemi della teoria marxista dello Stato, tra la fine del 1916 e l’inizio del 1917, che maturò in lui la convinzione che proprio qui, nella teoria dello Stato, era la radice della degradazione a cui il marxismo era stato condotto dalla socialdemocrazia tedesca, il partito «guida» della Seconda Internazionale. Un indice significativo di questo sviluppo del pensiero di Lenin si può trovare nei suoi giudizi intorno ad un’opera del miglior Kautsky, La via del potere (Der Weg zur Macht), che è del 1909, quando ancora non era iniziato il grande spostamento dell’autore verso posizioni opportunistiche23. Su questo libro, che prevedeva nel 1909 come imminente la tragica crisi del capitalismo mondiale e giudicava già matura la rivoluzione socialista in Europa, Lenin aveva già avuto occasione di esprimere giudizi del tutto positivi, privi di ogni riserva, a volte perfino entusiastici, prima e anche dopo l’agosto 1914. Ad esempio, ancora nel dicembre del 1914 Lenin poteva ricordare Der Weg zur Macht come «l’esposizione più completa dei compiti della nostra epoca», aggiungendo: «ecco ciò che era, o piuttosto ciò che prometteva di essere, la socialdemocrazia tedesca. Ecco la socialdemocrazia che si poteva e si doveva rispettare»24. Un anno dopo questo giudizio è riconfermato in un accenno che definisce lo stesso libro di Kautsky «una certa opera in cui egli ha presentato per l’ultima volta delle conclusioni interamente marxiste»25. E ancora pochi mesi prima di impegnarsi nello studio del problema dello Stato, nel principale scritto di polemica contro l’«economismo imperialistico» (agosto-ottobre 1916), Lenin può scrivere che, prima della guerra «K. Kautsky era marxista, e a lui si devono tutta una serie di opere e di dichiarazioni della più grande importanza, che rimarranno per sempre dei modelli di marxismo»26. Ma dopo aver approfondito lo studio della teoria marxista dello Stato, la rilettura di Der Weg zur Macht appare a Lenin in una diversa luce, e può vederne infine, al di là dei pregi che continua a riconoscere, il grave limite, che è pure il vizio d’origine di tutto il marxismo della Seconda Internazionale27. Come può porsi concretamente, sul terreno pratico, il problema della rivoluzione socialista, che è il problema della trasformazione radicale della società attraverso una rivoluzione politica, senza porsi il problema della natura del potere politico? Dando per scontata, e proiettando nella società futura, un’idea dello Stato che è connaturata invece al funzionamento della società borghese che si pretende superare, è inevitabile che si rimanga prima o poi irretiti nelle insidie dell’opportunismo che paralizzano e deviano l’azione rivoluzionaria: è questa la forma convinzione che ispira Stato e rivoluzione.
Si comprende in tal modo il tono di riscoperta che circola in queste pagine di Lenin e si spiega anche l’impianto formalmente scolastico del libro, con la fitta rassegna di citazioni di Marx e di Engels, commentate e chiosate punto per punto. Lenin era ben consapevole che questo era un difetto della sua esposizione – e lo dice esplicitamente all’inizio del primo capitolo –, ma lo giudicava un difetto inevitabile di fronte alle deformazioni del marxismo che avevano messo radici profonde e si erano consolidate con la forza del luogo comune. Quando però più in là parla degli «scavi archeologici» a cui bisognava ricorrere per riportare alla luce la concezione marxista dello Stato, s’impone un motivo non formale di riflessione. Lenin, ad esempio, ha un bel protestare perché una lettera di Engels a Bebel in polemica coi pregiudizi opportunistici sullo Stato era stata rinchiusa in un cassetto per ben trentasei anni! Rimane da spiegare la circostanza per cui gran parte del materiale utilizzato da Lenin per ricostruire la teoria marxista dello Stato provenga da lettere e documenti non destinati immediatamente alla pubblicazione o consista in affermazioni incidentali estratte dalle più diverse pubblicazioni, mai però dedicate direttamente all’argomento. In realtà non vi è, si può dire, scritto di Marx e di Engels di qualche importanza, in cui non si tratti anche dello Stato, ma non ve n’è uno che tratti solo dello Stato, dove cioè il problema dello Stato sia l’oggetto principale della ricerca28.
Questo carattere apparentemente frammentario, formalmente non sistematico, della tradizione marxista intorno ai problemi teorici dello Stato, se ha indirettamente potuto favorire l’opera dell’opportunismo, non corrisponde certo a una disorganicità di pensiero o ad un interesse marginale per quest’ordine di problemi. Vi è qui al contrario una caratteristica essenziale di un metodo di pensiero la cui organicità non è costruita a tavolino ma si sviluppa e si espande, sulla base di un’ispirazione unitaria e dei dati costanti dell’analisi scientifica della società, in rapporto al maturare dell’esperienza storica. È questo un criterio d’interpretazione su cui Lenin insiste in modo particolare e che gli permette in definitiva di sfuggire, nonostante la forma esteriore dell’esposizione, al rischio di un appiattimento scolastico del pensiero di Marx ed Engels. Si possono così mettere in rilievo le diverse fasi di sviluppo attraverso cui la teoria marxista dello Stato, partendo da una prospettiva generale legata a una chiara impostazione scientifica del problema, si è venuta precisando nella sua articolazione storica concreta; e con ciò si chiarisce la linea di un metodo che non vale soltanto per l’interpretazione retrospettiva, non si ferma cioè a Marx e ad Engels, ma si applica ugualmente ai nuovi sviluppi che la teoria assume in Stato e rivoluzione, e che nemmeno questa opera, naturalmente, conclude una volta per tutte.
Ma Lenin ha saputo qui mostrare concretamente che cosa vuol dire sviluppo di una teoria: una crescita, una specificazione, un arricchimento, magari attraverso una sperimentazione provvisoria, mai in ogni caso un empirico voltar pagina (questo era vero ieri, oggi è vero quest’altro) con la disinvolta dimenticanza degli stessi fondamenti della teoria e l’inevitabile ripristino dei pregiudizi borghesi sullo Stato, in particolare di quella «fede superstiziosa nello Stato» che è il naturale aroma ideologico dello stesso potere borghese. Si deve aggiungere a questo punto che, almeno per tale aspetto, la necessità degli «scavi archeologici» deriva non dalle caratteristiche particolari della formazione storica della teoria marxista dello Stato, ma da una diffusa ignoranza del processo stesso di formazione del marxismo.
I primi presupposti del sorgere del marxismo, come concezione originale del mondo e scienza della società, sono intimamente legati a una radicale dissacrazione dell’idea dello Stato. Qualunque sia il posto che venga fatto alla religione e ai diversi culti religiosi nella moderna società borghese, sorge in essa un nuovo culto, il culto dello Stato, che tanto più si sviluppa e perfeziona quanto più lo Stato si laicizza e vengono meno e si dissolvono gli antichi attributi religiosi del potere politico. La «religione civile» non solo un’idea aberrante del pensatore democratico più avanzato nel quadro dell’ideologia borghese, quale fu Rousseau, ma è una spontanea pratica quotidiana nella società che vive producendo merci ed evocando con esse il feticismo della merce. La catena di alienazioni che si sprigiona da questo tipo di società fa dello Stato – che è un determinato prodotto sociale, organo del dominio di classe e come tale strumento necessario del meccanismo produttivo capitalistico – un ente indipendente e superiore rispetto alla società che lo ha prodotto, una divinità imparziale e sollecita al bene comune. Questo processo si perfeziona nello Stato rappresentativo della democrazia borghese, in cui la completa separazione dello Stato dalla società civile rende tutti gli uomini, disuguali nella loro terrestre vita reale, sfruttati e sfruttatori, perfettamente uguali nella vita celeste dell’illusoria comunità politica. Se lo Stato sorge e si sviluppa in ogni società divisa in classi, come necessario mediatore della lotta di classe, questo culto «laico» dello Stato può sorgere e svilupparsi solo nella società borghese, che portando all’estremo la dissociazione degli interessi ha bisogno di mediare la dura realtà dei rapporti economici nella pura idealità dei rapporti politici, il materialismo della società civile nell’idealismo dello Stato politico.
Come tutte le religioni, con le quali convive pacificamente, anche la religione dello Stato moderno ha i suoi misteri e i suoi dogmi, i suoi riti e i suoi sacerdoti, una teologica esoterica di cui sono depositari i giuristi e una fede essoterica diffusa tra le masse. Ha la sua ortodossia, che provoca, naturalmente, i fermenti di tendenze eterodosse e perfino di aperta ribellione. La dissacrazione di questo culto era già stata tentata, infatti, prima di Marx, dalla dottrina anarchica: ma in essa aveva conservato ancora un carattere religiosamente frenetico e non poteva quindi dar vita che a una nuova setta, la setta dei negatori dello Stato. Solo Marx, scoprendo le radici sociali dell’alienazione politica come dell’alienazione religiosa, poteva iniziare la dissoluzione di tutti i miti ideologici nella tranquilla miscredenza della scienza. Per questo, dopo l’acquisizione di queste basi filosofiche della sua concezione del mondo, non si preoccupa di svilupparle in un sistema dottrinario, ma ne affida la verifica agli strumenti dell’analisi scientifica della società e al controllo dell’esperienza concreta delle lotte politiche. Rovesciando anche qui il metodo dialettico di Hegel, Marx affronta il compito di dissacrare l’idea dello Stato cominciando dalla sua base reale: trasportando cioè il centro dell’analisi dallo Stato alla società civile, dal prodotto alle condizioni che lo generano, ne determinano le trasformazioni e ne preparano la scomparsa.
Nel marxismo della Seconda Internazionale le fonti di questo processo di formazione del pensiero di Marx sono generalmente trascurate e incomprese, e rimangono in gran parte inedite. Ma pur non potendo attingere ad esse direttamente, Lenin ne riscopre l’ispirazione fondamentale ed è essa che, in Stato e rivoluzione, anima la sua polemica contro i pregiudizi opportunistici sullo Stato. È vero che, per alcuni aspetti, sul modo di tradurre in concreti termini politici questa dissacrazione dello Stato, Lenin ritrova in alcuni testi divulgativi di Engels formulazioni che gli appaiono più incisive, più chiare ed efficaci di quelle che può trarre dagli stessi scritti di Marx29, ma è direttamente a Marx che deve rifarsi per approfondire l’impostazione teorica che lega la prospettiva dell’estinzione dello Stato a un processo oggettivo di trasformazioni economiche della società (cfr. soprattutto il V capitolo: «La basi economiche della estinzione dello Stato»). Non si può tuttavia non vedere che in Lenin il problema ha acquistato una diversa dimensione. Si tratta, non più soltanto della dissacrazione teorica dell’idea dello Stato, e nemmeno di studiare le nuove forme politiche sperimentate da un eroico movimento rivoluzionario di breve durata come la Comune di Parigi, ma di affrontare i problemi concreti di una rivoluzione che inizia praticamente una nuova epoca storica. Le questioni che in Marx ed Engels erano complessivamente rimaste sullo sfondo, o erano state da essi sottolineate episodicamente soprattutto in polemica con l’opportunismo teorico, diventavano ora vicine e urgenti, passavano al centro della strategia rivoluzionaria. Era venuto il momento dell’Hic Rhodus. Alcuni anni dopo Lenin poteva ripetere – e questo giudizio ha trovato nuove conferme in tutta l’esperienza successiva – che la questione dello Stato «è diventata l’argomento più spinoso, il centro di tutte le questioni politiche e di tutte le dispute politiche contemporanee»30.
(1/2. Segue)
Valentino Gerratana
(V. Gerratana, Introduzione al volume: V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1970 [III ed. 1980], pp. 16-36).
Note
1 Riproduciamo il testo di Gerratana omettendo – anche per ragioni di spazio – la prima parte, che si sofferma a lungo sulle interpretazioni a cui Stato e rivoluzione fu sottoposto dopo la morte di Lenin da parte di Stalin, specialmente ad uso strumentale nella lotta politica contro il trotskismo, cioè nell’ambito della lotta tra le diverse fazioni interne al Partito bolscevico russo e ai partiti comunisti del mondo intero [ndr].
2 Georgij Leonidovič Pjatakov (noto anche come Jurij e Grigorij Pjatakov, 1890-1937), dirigente rivoluzionario bolscevico ucraino, organizzatore dell’industria pesante sovietica, giustiziato durante le repressioni staliniane del 1937 [ndr].
3 Evgenija Bogdanovna Boš (1879-1925), attivista di primo piano del movimento rivoluzionario in Russia e in Ucraina [ndr].
4 Riferimenti frequenti alle vicende della polemica contro l’«economismo imperialistico» si trovano nel carteggio di Lenin del 1916; cfr. Lenin, Opere, vol. 35, tr. it., Roma, Editori Riuniti, 1955. Su questo argomento, tra l’agosto e l’ottobre 1916, Lenin scrisse tre articoli: i primi due, A proposito della tendenza nascente dell’«economismo imperialistico» e Risposta a P. Kievskij (J. Pjatakov), rimasti inediti fino al 1929, e il terzo, più ampio, Una caricatura del marxismo e a proposito dell’«economismo imperialistico», inedito fino al 1924; cfr. Lénine, Oeuvres, t. 23, Parigi-Mosca, 1959, pp. 9-83. Solo un paragrafo di quest’ultimo articolo è ora in traduzione italiana, in Lenin, La guerra imperialista, Roma, Ediz. Rinascita, 1950, pp. 195-204.
5 Cfr. Lénine, Oeuvres, t. 23, cit., p. 12. La definizione di «economismo imperialistico» era naturalmente contesta dagli interessati. Ad esempio, Ines Armand, che simpatizzava per questa tendenza, scriveva a Lenin: «Forse che perfino la completa rinuncia alle rivendicazioni democratiche significherebbe la rinuncia alla lotta politica? Forse che la lotta immediata per la conquista del potere non è lotta politica?». Al che Lenin rispondeva: «Qui precisamente sta il punto: in Bucharin (e in parte anche in Radek) troviamo appunto qualcosa di questo genere, ma qui si sbaglia. “La lotta immediata per la conquista del potere” con la “completa rinuncia alle rivendicazioni democratiche” è qualcosa di vago, avventato, confuso, ed è appunto per questo che Bucharin si sbaglia» (cfr. Lenin, Opere, vol. 35, tr. it. cit., p. 186).
6 Lénine, op. cit., p. 20.
7 Lénine, op. cit., pp. 24-25.
8 Lénine, op. cit., pp. 63-64 (cfr. anche La guerra imperialista, tr. it. cit., pp. 200-201).
9 Lenin, La guerra imperialista, cit., p. 143.
10 Cfr. la lettera di Lenin a Zino’ev dell’agosto 1916, in Lenin, Opere, vol. 35, tr. it. cit., pp. 156-157.
11 Cfr. Lenin, op. cit., pp. 158-159.
12 Lo stesso articolo, con qualche variante, fu pubblicato, con la firma di Bucharin, anche sulla «Arbeiterpolitik» (n. 25) del 2 dicembre 1916. Il testo, chiosato da Lenin anche con la segnalazione delle varianti, si può ora leggere, tra i materiali preparatori di Stato e rivoluzione, nella quinta edizione delle Opere complete di Lenin (Polnoe sobranie sočinenij, vol. 33, Mosca, 1962, pp. 331-338).
13 Con il titolo L’Internazionale giovanile; cfr. tr. it. in Lenin, La guerra imperialista, cit., pp. 160-165. Solo la seconda parte dell’articolo riguarda in particolare Bucharin.
14 La lettera è del 18 dicembre 1916. Cfr. Lenin, Opere, vol. 35, tr. it. cit., p. 183. Nella stessa lettera, oltre le notizie già ricordate, Lenin aggiunge: «Abbiamo ricevuto un altro numero del “Novyj Mir” da New York; c’è una critica – ahilmè! giusta: è un vero guaio che un menscevico abbia ragione contro Bucharin!! – evidentemente dello stesso articolo di Bucharin apparso in un numero precedente del “Novyj Mir”, che noi non abbiamo».
15 Lenin, La guerra imperialista, cit., p. 163.
16 Lenin, Opere, vol. 35, tr. it. cit., p. 203.
17 Op. cit., pp. 205-206.
18 La stessa tendenza estremistica Lenin aveva già notato in altri partiti socialisti, ad esempio nel Socialist Labour Party. A questo proposito, nella lettera già citata del 17 febbraio 1917, aggiungeva: «ecco una tentazione e un pericolo per Bucharin, che da noi inciampa “in questo benedetto punto” fin dal 1915!» (op. cit., p. 203).
19 Si ricordi l’obiezione di Kamenev (citata da Lenin nelle Lettere sulla tattica) alle Tesi di aprile: «Per ciò che concerne lo schema generale del compagno Lenin noi lo consideriamo inaccettabile in quanto parte dal preconcetto che la rivoluzione democratica borghese è compiuta e fa assegnamento sull’immediata trasformazione di questa rivoluzione in rivoluzione socialista…» (cfr. Lenin, La rivoluzione d’Ottobre, Roma, Editori Riuniti, 1956, pp. 44). Si comprende come d’altra parte la visione strategica di Lenin dopo la rivoluzione di febbraio si sia maturata attraverso successive approssimazioni tattiche. Così nella quinta delle Lettere da lontano, dove pure è anticipata la sostanza delle Tesi di aprile, si pone ancora l’obiettivo di un governo di transizione definito con la vecchia parola d’ordine della «dittatura democratica rivoluzionaria del proletariato e dei contadini» (cfr. Lenin, Lettere da lontano, tr. it., Roma, Samonà e Savelli, 1964, p. 106), mentre poco dopo, nelle Lettere sulla tattica, Lenin polemizza contro il mantenimento di quella parola d’ordine che considera già superata (cfr. Lenin, La rivoluzione d’Ottobre, cit., pp. 34-40).
20 La rivoluzione d’Ottobre, cit., pp. 460-461.
21 Cfr. Lettere da lontano, tr. it. cit., p. 84; Stato e rivoluzione […]. Nel passo citato del «quaderno» Lenin ricorda che gli opportunisti vedono solo il primo di questi due punti che differenziano i marxisti dagli anarchici: «Essi [gli opportunisti] hanno preso soltanto ciò che serviva alle necessità pratiche del momento: utilizzare la lotta politica, utilizzare lo Stato moderno per istruire, educare il proletariato, per “strappare concessioni”. Ciò è giusto (contro gli anarchici), ma è appena 1/100 del marxismo, se ci si può esprimere in questo modo aritmetico».
22 Ristampando nel 1925 il suo vecchio articolo del 1916 Bucharin scrisse che, appena tornato in Russia (luglio 1917), seppe dalla Krupskaja che Lenin considerava superate le vecchie divergenze sullo Stato. Nella stessa occasione Bucharin ebbe il torto di aggiungere che in quella polemica egli si era trovato dalla parte della ragione e Lenin dalla parte del torto, sfruttando pedantemente a questo scopo un errore filologico in cui era incorso allora Lenin a proposito dell’attribuzione del termine «sprengen» (cfr. Lenin, La guerra imperialista, cit., pp. 162-163). Alcuni anni dopo, nel 1929, Stalin utilizzò questo episodio, con tutta la vecchia polemica, per aggiungere anche questa colpa nella lunga requisitoria contro il destrismo di Bucharin (che in ogni caso, com’è evidente, non aveva nulla a che fare con le sue posizioni del 1916); cfr. Stalin, Questioni del leninismo, tr. it. cit., pp. 307-315.
23 Superficiale e schematica deve considerarsi l’idea di un kautskismo come sistema organico presente in tutti i momenti della lunga attività politica e teorica di Kautsky. Cfr. su ciò l’eccellente saggio di Giuliano Procacci, Studi sulla Seconda Internazionale e sulla socialdemocrazia tedesca, in «Annali» dell’Istituto G.G. Feltrinelli, A. I (1958), pp. 105-146. Si può dire tuttavia che in tutto Kautsky la parte più debole è quella filosofica, ispirata sempre, anche nelle opere migliori, a un metodo di piatte generalizzazioni positivistiche. Ciò vale anche per Der Weg zur Macht, che contiene nel quarto capitolo una positivistica disquisizione sul tema della volontà in rapporto al dilemma libertà-necessità.
24 Nell’articolo Sciovinismo morto e sciovinismo vivo, in Lénine, Oeuvres, cit., t. 21, p. 90 e sgg.
25 In una prefazione scritta nel dicembre 1915 per l’opuscolo di Bucharin, l’Economia mondiale e l’imperialismo; cfr. Lénine, Oeuvres, cit., t. 22, p. 112.
26 Lénine, Oeuvres, cit., t. 23, p. 35.
27 Cfr. il testo di Stato e rivoluzione. Dopo aver riconfermato che «questo opuscolo di Kautsky può servire come utile termine di confronto per vedere ciò che la socialdemocrazia tedesca prometteva di essere prima della guerra imperialistica e quanto in basso essa (e Kautsky con essa) sia caduta allo scoppio della guerra», Lenin osserva: «Tanto più caratteristico è il fatto che dopo aver proclamato in modo così categorico che l’era delle rivoluzioni incominciava, Kautsky, in un opuscolo dedicato, secondo le sue stesse parole, proprio all’analisi del problema “rivoluzione politica”, abbia ancora una volta completamente trascurato la questione dello Stato». Lo stesso giudizio è già nel quaderno Il marxismo sullo Stato.
28 Ciò si può dire anche per l’opera di Engels, L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato, dove anche le formulazioni più generali di teoria dello Stato sono soltanto il corollario di particolari indagini etnologiche.
29 Cfr. ad esempio l’appunto del quaderno Il marxismo sullo Stato in cui si cita Engels: «Il filisteo socialdemocratico recentemente si è sentito preso ancora una volta da salutare terrore sentendo l’espressione: dittatura del proletariato. Ebbene signori, volete sapere come è questa dittatura? Guardate la Comune di Parigi. Questa fu la dittatura del proletariato». Nel quaderno Il marxismo sullo Stato Lenin commenta: «Non si può non riconoscere che Engels, sia qui che nella lettera [a Bebel] del 18-28 marzo 1875, espone in modo molto più popolare di Marx le più importanti idee sulla dittatura del proletariato e sulla forma (o, più esattamente, sulla necessità di una nuova forma) di quel potere statale che il proletariato conquista. Per conquistare e mantenere il potere statale il proletariato deve non prendere nelle sue mani, trasferire da vecchie a nuove mani la vecchia macchina bella e pronta dello Stato, ma spezzare la vecchia macchina e crearne una nuova (neue geschichtliche Schöpfung: nuova creazione storica)» (vol. 33 della V edizione russa citata delle Opere complete di Lenin, p. 246). Lenin però nega che la diversità di alcune formulazioni possa ricondursi a una sostanziale diversità di posizioni in Marx e in Engels (cfr. a questo proposito il primo paragrafo del capitolo V di Stato e rivoluzione). Chi scrive era arrivato tempo addietro, su questo come su altri punti, a conclusioni affrettate, accentuando la differenza tra Marx ed Engels (cfr. La teoria marxista dello Stato e la via italiana al socialismo, in «Rinascita», 1956, n. 8-9, pp. 456-464). L’interpretazione di Lenin è la sola corretta, ove si guardi, al di là delle formule, alla sostanza del problema.
30 Cfr. Lenin, Sullo Stato, lezione tenuta all’Università Sverdlov l’11 luglio 1919, in Marx-Engels-marxismo, Roma, Editori Riuniti, 1952, p. 406.
Inserito il 15/4/2023.
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Valentino Gerratana
Introduzione a: V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1970 (III ed. 1981)
Seconda parte
L’interpretazione più diffusa di Stato e rivoluzione, sia tra coloro che difendono la validità di quest’opera che tra coloro che la contestano, considera come un suo perno e nucleo essenziale il principio della demolizione della macchina statale borghese. Non si può certo negare che tale concezioni abbia nell’analisi leniniana un particolare rilievo: e nessun giochetto dialettico potrebbe farla scomparire dalla teoria di Lenin, allo stesso modo con cui era riuscito agli opportunisti della Seconda Internazionale di farla scomparire dalla teoria di Marx. L’operazione comunque non si può ripetere proprio perché Lenin riporta in primo piano una conclusione che in Marx era già chiara ma aveva indubbiamente un rilievo minore, anche se lo stesso Lenin sottolinea polemicamente che «questa conclusione è la cosa principale, essenziale della dottrina marxista sullo Stato».
In quell’interpretazione tuttavia vi è un elemento di equivoco di cui è necessario rendersi conto. Stalin, ad esempio, di tutto Stato e rivoluzione salvava soltanto, o quasi, questa conclusione; ma ciò non gli impediva di tradire la teoria di Lenin, giacché giustificava la sostituzione della macchina demolita dello Stato borghese con un altro tipo di macchina dove si ritrovavano non solo alcune delle caratteristiche della vecchia macchina, ma proprio quelle maggiormente incompatibili con lo sviluppo della democrazia socialista. Ma, all’altro estremo, se il principio della rottura della macchina statale fosse veramente il perno della teoria leninista dello Stato, bisognerebbe in definitiva arrivare ad attenuare, come secondarie, le differenze tra marxisti e anarchici su questo problema. Già si è visto però che ciò non corrisponderebbe alla logica della teoria leninista. Alla fine di Stato e rivoluzione Lenin ritorna a insistere su tali differenze, proprio a questo proposito:
«“Bisogna pensare unicamente alla distruzione della vecchia macchina statale; è inutile approfondire gli insegnamenti concreti delle rivoluzioni proletarie passate e analizzare con che cosa e come sostituire ciò che si distrugge”: così ragiona l’anarchico (…); e l’anarchico arriva in tal modo alla tattica della disperazione, e non al lavoro rivoluzionario, risoluto, inesorabile, che però al tempo stesso si pone dei compiti concreti e tiene conto delle condizioni pratiche del movimento delle masse».
La verità è che non si può isolare questo aspetto della teoria leninista senza snaturarlo: si finirebbe così col trasformare una geniale strategia rivoluzionaria, che sa porsi dei compiti concreti e tener conto delle condizioni pratiche del movimento delle masse, in una banale tattica della disperazione. Preso a sé, isolato dal resto, il principio della demolizione della vecchia macchina statale non è il cardine di una teoria rivoluzionaria, ma diventa una di quelle parole d’ordine negative su cui vale sempre il giudizio di Lenin nella sua polemica contro l’estremismo dell’«economismo imperialistico»: «una parola d’ordine negativa, non collegata a una soluzione positiva determinata… è il nulla, un grido nel vuoto, una declamazione senza sostanza»31. Solo se non è preso a sé, se è collegato alla soluzione positiva, all’analisi del che cosa sostituire, e come, a ciò che si distrugge, il principio della demolizione della vecchia macchina statale acquista il suo preciso significato e risulta chiaro tutto il senso della concezione leniniana32.
Su questo complesso di problemi troviamo in Stato e rivoluzione delle precise risposte di principio, e insieme una serie di illustrazioni esemplificative. Non è certo possibile scorporare queste ultime dal testo per ritrovare solo nelle prime il nucleo vitale della teoria leninista dello Stato. Oltre tutto, a procedere in tal modo, anche la precisione delle stesse risposte di principio rischierebbe di sfumare: non si può capire, ad esempio, che cosa intende Lenin quando pone l’esigenza di sostituire la macchina spezzata dello Stato borghese con uno «Stato in via di estinzione», con uno Stato «che non è più propriamente uno Stato», senza rifarsi all’analisi della Comune di Parigi che è al centro di queste pagine. Ma qui appare evidente come una interpretazione letterale del testo, oltre a sollecitare una lettura piattamente scolastica, porterebbe inevitabilmente a una svalutazione del significato teorico generale delle conclusioni di Lenin. Scrivendo prima della rivoluzione d’Ottobre, Lenin poteva vedere nella Comune di Parigi la più importante esperienza rivoluzionaria, valida storicamente per delineare una teoria dello Stato socialista; ma a distanza di circa mezzo secolo, quando il processo della rivoluzione socialista ha investito quattro continenti, sarebbe assurdo fermarsi a quella prima esperienza, agli incunaboli della nostra storia. In definitiva una interpretazione letterale di Stato e rivoluzione non potrebbe che giustificare il giudizio che Stalin già ne dava nel 1939, come di un libro praticamente superato. La genialità scientifica di Lenin è invece proprio nella capacità di trarre da un’esperienza limitata gli elementi fondamentali di una teoria universale, che permette di affrontare i problemi nuovi che in essa non erano presenti. Saper sceverare questi elementi fondamentali dagli aspetti provvisori che riflettono i limiti dell’esperienza da cui sono ricavati è il compito di una lettura critica, che deve quindi saper guardare al di fuori e dentro il testo.
A questo stesso criterio Lenin s’ispira nel suo esame dei testi di Marx. Ciò gli permette non solo di collocarli storicamente, in relazione ad esperienze storiche concrete33, ma anche di rimanere sempre vigilante contro la seduzione degli schemi rigidi e delle prefigurazioni utopistiche della società futura. È significativa a questo proposito l’insistenza con cui si sottolinea ad ogni occasione il carattere non utopistico del marxismo in quanto scienza. Proprio nel momento in cui più si esalta la volontà rivoluzionaria, tanto più si tiene fermo l’ancoraggio materialistico del processo di trasformazione della società, come processo oggettivo, contro ogni velleitarismo volontaristico. Marx non scopre, non inventa nulla, ma piuttosto registra e interpreta scientificamente ciò che lo stesso processo storico via via va scoprendo, sia che si tratti delle forme politiche della rivoluzione socialista in atto che del futuro sviluppo della società comunista: è in questa chiave che Lenin legge testi fondamentali di Marx come La guerra civile in Francia e la Critica del programma di Gotha34.
Saltano in questo modo alcuni schemi tradizionali, frutto di una visione semplicistica del processo della rivoluzione socialista. La rivoluzione politica, nel campo delle sovrastrutture, non segue più, meccanicamente, il movimento delle trasformazioni strutturali, ma può perfino, per alcuni aspetti decisivi, precederlo e sollecitarlo. La crisi delle strutture economiche trascina con sé la crisi delle sovrastrutture politiche, ma quest’ultima acquista di volta in volta un valore risolutivo in quanto apre o chiude la strada a tutto il successivo sviluppo. È in questo quadro che ha risalto, al di là dei suoi limiti storici, tutta l’importanza esemplare della Comune di Parigi. Per i suoi diretti contenuti economico-sociali questa grande esperienza rivoluzionaria aveva ben poco da dire, non avendo avuto il tempo di svilupparsi in questa direzione, verso una trasformazione socialista delle strutture economiche della società. Assai modeste erano state le sue riforme sociali, e insufficiente, timida ed esitante la sua politica economica. Ma né Marx né Lenin insistono troppo su questi limiti della Comune, giacché non sono questi che la caratterizzano35. Ciò che la caratterizza è il contenuto specifico della sua lotta rivoluzionaria, che apre la strada al socialismo trovando le forme politiche in cui può avvenire la trasformazione radicale della società.
In primo luogo la Comune assolve il compito di demolire la macchina burocratica e militare dello Stato borghese. Non è un compito affrontato per una scelta volontaristica, legata a un disegno dottrinario della rivoluzione socialista: è piuttosto un compito imposto dall’evoluzione stessa del moderno Stato borghese, da una costante tendenza di sviluppo che porta a concentrare tutti i poteri di decisione nelle mani del potere esecutivo, trasformato sempre più in una mostruosa escrescenza parassitaria, incompatibile con lo sviluppo della società. Si può dire che questa tendenza sia successivamente caduta e quindi sia venuta meno l’esigenza oggettiva di spezzare quel tipo di macchina statale, di fronte allo sviluppo del moderno capitalismo di Stato che lega le funzioni statali direttamente all’apparato produttivo della società? È questa una delle questioni che la lettura di Stato e rivoluzione non può non proporre oggi. Già Lenin, in realtà, non ignorava che lo sviluppo del capitalismo monopolistico di Stato veniva preparando un meccanismo della gestione sociale che poteva essere direttamente utilizzato, una volta spezzate le escrescenze parassitarie della macchina burocratica dello Stato. Nell’odierno capitalismo di Stato lo stesso processo non ha fatto che progredire in tutte e due le direzioni: verso il perfezionamento del meccanismo della gestione sociale e verso una maggiore burocratizzazione e un più esteso e scandaloso parassitismo. E fino a quando non si venga a capo con altri mezzi di questo fenomeno costante nello sviluppo dello Stato moderno (il problema, com’è noto, è tuttora aperto), non si potrà dire che sia stato oggettivamente superato il bisogno di spezzare questa spirale del burocratismo, di «amputare il parassita».
Del resto, non è neanche vero, contrariamente a un’opinione diffusa, che il compito di demolire la macchina dello Stato borghese sia il contenuto specifico ed esclusivo di una rivoluzione proletaria, socialista. Lenin sottolinea, ad esempio, un passo di Marx in cui si dice che in quel compito «è la condizione preliminare di ogni reale rivoluzione popolare sul Continente». Questo concetto di rivoluzione popolare, commenta Lenin, può apparire strano in bocca a Marx, ma non è un «lapsus». Gli opportunisti «hanno deformato il marxismo in modo così piattamente liberale che nulla esiste per loro all’infuori dell’antitesi: rivoluzione borghese o rivoluzione proletaria, e anche questa antitesi è da essi concepita nel modo più scolastico che si possa immaginare». E già nella rivoluzione russa del febbraio 1917, che aveva ancora contenuti democratico-borghesi, ma era una rivoluzione popolare, Lenin aveva visto l’inizio della demolizione della vecchia macchina statale36. Poiché l’essenza della macchina statale è nella separazione degli organi del potere dal popolo, ogni rivoluzione veramente popolare non può non spezzare questa macchina abbattendo le barriere che separano il popolo dal potere. Dipenderà poi dagli sviluppi di questa rivoluzione se la vecchia macchina demolita sarà ancora una volta restaurata o se il nuovo potere potrà consolidarsi in forme nuove, al di là dei limiti della democrazia borghese.
L’importanza della Comune è, per Lenin, proprio in questo: nell’essere riuscita non solo a spezzare la vecchia macchina statale ma anche nell’averla sostituita con un nuovo tipo di Stato, in cui gli strumenti del potere non sono più separati organicamente dal popolo ed esprimono nuove forme, più avanzate, di democrazia. In queste forme prende avvio il processo stesso di estinzione dello Stato, che culmina nel complesso riassorbimento dello Stato nella società. Con particolare attenzione Lenin studia queste forme, cioè le misure politiche attraverso le quali la Comune costruisce questo Stato di tipo nuovo (sostituzione della polizia e dell’esercito permanente con la milizia popolare, abolizione del «parlamentarismo» e trasformazione del parlamento in organismo di lavoro, eleggibilità e revocabilità di tutti i funzionari, abolizione dei loro privilegi e limitazione dei loro stipendi a un normale salario di operai, ecc.), ed è qui difficile, in realtà, non guardare a questa parte dell’analisi con un certo distacco, di fronte alla natura e alla complessità dei problemi che la politica contemporanea pone oggi in discussione. Ma è piuttosto l’impostazione metodologica delle grandi questioni di principio che rivela anche qui tutto il suo significato originario. Difendendo, contro Bernstein, la necessità di certe forme di «democratismo primitivo», Lenin non si discosta dal fondamentale criterio materialistico che, come si è visto, regge tutta la sua analisi e fa qui affidamento sul processo di semplificazione delle funzioni statali avviato dagli stessi progressi della civiltà capitalistica37. Il successivo sviluppo ha però rivelato a tale proposito una tendenza contraddittoria: da un lato verso una ulteriore semplificazione (processi di meccanizzazione e di automazione), dall’altro verso nuove e più ramificate specializzazioni, che a loro volta rendono possibili le prime. Il presupposto reale da cui partiva Lenin non può essere quindi né abbandonato, né semplicemente acquisito come tale: si propongono in ogni caso problemi nuovi che richiedono l’elaborazione di nuove forme concrete di sviluppo.
Ma soprattutto un altro aspetto di questa analisi di Lenin è da sottolineare particolarmente per il suo chiaro valore di principio. Nei provvedimenti presi dalla Comune per creare le basi politiche di uno Stato di tipo nuovo Lenin non vede delle misure dirette di trasformazione socialista della società, ma «semplici e naturali provvedimenti democratici» che servono «da passerella tra il capitalismo e il socialismo». La democrazia quindi è qui concepita come via di passaggio al socialismo. È una democrazia che appare al limite tra la democrazia borghese e quella socialista: più semplicemente, secondo l’espressione di Lenin, è una «democrazia conseguente», che in quanto tale «da un lato si trasforma in socialismo, e dall’altro richiede il socialismo». Poco dopo, tale rapporto – con una allusiva polemica verso gli argomenti dell’«economismo imperialistico» – è chiarito in un passo spesso citato:
«Sviluppare la democrazia fino in fondo, ricercare le forme di questo sviluppo, metterle alla prova della pratica, ecc.: tutto ciò costituisce uno dei problemi fondamentali della lotta per la rivoluzione sociale. Preso a sé, nessun sistema democratico, qualunque esso sia, darà il socialismo; ma nella vita il sistema democratico non sarà mai “preso a sé”, sarà “preso nell’insieme” ed eserciterà la sua influenza anche sull’economia di cui stimolerà la trasformazione, mentre esso stesso subirà l’influenza dello sviluppo economico, ecc. È questa la dialettica della storia viva».38
Non vi è dubbio che una interpretazione estensiva di questo passo porterebbe a implicazioni opportunistiche, ove si dimentichi che la democrazia non si può sviluppare fino in fondo nei limiti della democrazia borghese. Non già pretendendo di sviluppare le forme tradizionali della democrazia borghese, ma solo ricercando le forme nuove di uno sviluppo democratico e sperimentando nella pratica la effettiva novità di tali forme, questo modo di concepire il rapporto tra democrazia e socialismo conserva tutta la sua importanza in una strategia rivoluzionaria di avanzata democratica verso il socialismo. Altrimenti riif evropa
torna la sostanza di tutto il vecchio opportunismo socialdemocratico, anche quando tenta di nascondersi dietro una formula isolata di Lenin.
Si collega a questo tema un’altra questione che è assai spesso trascurata o sottovalutata dagli interpreti di Stato e rivoluzione. Negando l’esistenza di una muraglia cinese tra democrazia borghese e democrazia socialista Lenin sa bene naturalmente ciò che gli opportunisti dimenticano: che tra le due vi è una differenza sostanziale, un salto di qualità. Sul modo però di rappresentarsi questo salto fioriscono le interpretazioni mitiche, in cui il salto è visto come passaggio dall’assolutamente negativo all’assolutamente positivo, da una democrazia illusoria, incompleta, imperfetta, a una democrazia reale, completa, perfetta. Di tutto ciò Lenin non è in alcun modo responsabile: come non ignora i momenti positivi, così sa riconoscere i momenti negativi, i limiti della democrazia socialista. Senza questo riconoscimento il processo stesso dell’estinzione dello Stato rimarrebbe incomprensibile, una utopia oltretutto superflua. Se fosse possibile una democrazia perfetta non si vede perché si dovrebbe andare oltre di essa: e infatti, accontentandosi di trasferire nella democrazia socialista quella perfezione dello Stato democratico, che è il principale dogma della democrazia borghese, ogni visione mitica del socialismo deve praticamente espungere dalla sua propaganda la prospettiva della estinzione dello Stato. Lenin invece, come si è visto, mentre esalta in tutte le sue forme lo sviluppo della democrazia, non arriva mai a idealizzarla miticamente. La radicale dissacrazione dello Stato esclude la possibilità di tornare a consacrare una delle sue forme. Giacché anche la democrazia più avanzata, la più sviluppata delle democrazie socialiste rimane sempre una forma di Stato. Ma lo Stato, anche lo Stato più democratico, necessario strumento di lotta per la libertà, è sempre coercizione organizzata, organizzazione della violenza sugli uomini, siano essi maggioranza o minoranza, è quindi sempre negazione e limitazione della libertà. Lenin non perde mai di vista questa radice della teoria marxista dello Stato, e ricorda quindi che «la soppressione dello Stato è anche la soppressione della democrazia, e che l’estinzione dello Stato è l’estinzione della democrazia».
Che non si tratti di un aspetto marginale della concezione leninista risulta dal fatto che dopo aver sottolineato più volte questo tema, anche in modo piuttosto esteso (cfr. l’ultimo paragrafo del quarto capitolo), Lenin vi ritorna nel quinto capitolo, dove, sulla base della classica analisi di Marx, l’argomento è approfondito in relazione alle «fonti della disuguaglianza sociale contemporanea». Siamo qui di fronte a un nodo di problemi che rinviano non solo, in modo diretto, alla Critica del programma di Gotha ma anche, indirettamente, a tutta l’analisi del Capitale. Nella nuova società uscita dal seno del capitalismo, anche dopo la socializzazione dei mezzi di produzione e la completa espropriazione dei capitalisti, le fonti della disuguaglianza sociale non possono essere ancora del tutto essiccate. Perché possa essere superato «l’angusto orizzonte giuridico borghese» anche nella distribuzione dei beni di consumo occorre che sia eliminata la possibilità che i consumi individuali entrino in contrasto tra di loro e debbano quindi essere regolati dal rigore coercitivo della norma giuridica. Certo questa prospettiva è inconcepibile nelle attuali condizioni della produzione ed è anche inapplicabile nella prima fase della società comunista, dove la distribuzione della ricchezza è ancora affidata alla misura formale del lavoro, prima di poter essere fondata sui bisogni naturali dei lavoratori. Il socialismo crea solo le prime condizioni fondamentali perché questa nuova prospettiva diventi possibile, eliminando gli antagonismi di classe che sbarrano la strada al consolidarsi dei presupposti di un nuovo tipo superiore di convivenza sociale. Non vi è quindi qui materia di rivendicazioni particolari, di promesse o di obiettivi concreti di lotta. Non vi è però nemmeno l’aspettazione sterile di un nuovo millennio, giacché al centro di tutto rimane una rivendicazione precisa, un concreto obiettivo di lotta: lo sviluppo e l’estinzione conseguente della democrazia. Ma questo obiettivo è rafforzato dalla convinzione che, nelle condizioni della società socialista «quanto più la democrazia è completa, tanto più vicino è il momento in cui essa diventa superflua».
Può sembrare a prima vista che questo tema, legato a una prospettiva dai contorni sfumati e per la quale comunque non sono maturate tutte le condizioni, non meriti in definitiva molta attenzione. Dimenticarne tuttavia l’esistenza non è privo di conseguenze immediate nell’impostazione pratica delle lotte concrete per il socialismo e per lo sviluppo della società socialista. Basti pensare alla dura lezione di un’esperienza che ha visto le peggiori degenerazioni della democrazia socialista coperte dall’esaltazione acritica della sua perfezione di principio. Poiché la socializzazione dei mezzi di produzione non basta a garantire la democrazia socialista, ma ne costituisce appena la premessa, solo un atteggiamento critico verso qualsiasi forma concreta di democrazia socialista può consentire una lotta efficace per la sua continua espansione e il progressivo superamento dei suoi inevitabili limiti storici. Solo la lucida consapevolezza della inconciliabilità di principio tra Stato e libertà permette un attegiamento profano verso lo Stato socialista e impedisce quel rispetto reverenziale per le istituzioni che è giustificato nella democrazia borghese, in quanto vuole conservarsi, ma è esiziale in un tipo di democrazia, come quella socialista, che deve perfezionarsi fino al punto di diventare superflua. Accettando l’identificazione di libertà e democrazia39, che è una finzione ideologica necessaria al democratico borghese, il marxista volgare non si accorge di recepire una premessa teorica che blocca l’effettivo sviluppo della libertà nella società socialista. L’insistenza di Lenin su questi problemi riacquista oggi una particolare attualità non solo di fronte alle conseguenze negative emerse da un lungo periodo di sopravvento del marxismo volgare, ma soprattutto in relazione alla nuova esigenza di sviluppo del pensiero marxista contemporaneo.
La stessa cosa è da dire in generale per tutta la tematica di Stato e rivoluzione. Anche per quei problemi che richiedono ggi, alla luce della successiva esperienza, una nuova rielaborazione, le conclusioni di Lenin rappresentano un sicuro punto di partenza da cui sarebbe impossibile prescindere; e nella pretesa di considerarle superate in virtù delle nuove condizioni storiche non si può che vedere un ripiegamento nell’empiria dell’opportunismo, che tanto più fa volentieri a meno dei principi in quanto è incapace di comprenderli e prefersice quindi attenersi inconsapevolmente a quelli consolidati dai pregiudizi borghesi. È superfluo d’altra parte ricordare che Stato e rivoluzione non è stato scritto come manuale della rivoluzione socialista e che non potrebbe mai diventarlo. Le rivoluzioni hanno bisogno dell’inventiva rivoluzionaria delle masse e non della diligenza dei pedanti: e infatti non si sono mai fatte applicando una teoria rivoluzionaria. Da simili illusioni sia Marx che Lenin hanno sempre messo in guardia40, e già il nostro Labriola ammoniva che il comunismo critico «non è, insomma, un seminario, in cui si formi lo stato maggiore dei capitani della rivoluzione proletaria; ma è solo la coscienza di tale rivoluzione, e soprattutto, in certe contingenze, la coscienza delle sue difficoltà»41. Per acquisire questa coscienza, e riuscire quindi ad affrontare tali difficoltà, questo libro di Lenin rimane tuttora fondamentale.
Una di queste difficoltà, che dalla pratica si riflette nella teoria, è quella sorta intorno alla concezione leninista della dittatura del proletariato. Nato come parola d’ordine di un movimento rivoluzionario in atto, intorno al 1848, il termine «dittatura del proletariato» fu impiegato da Marx sia come giustificazione della violenza rivoluzionaria sia, in un significato più generale, come definizione scientifica del potere politico necessario per tutta l’epoca storica del passaggio dal capitalismo al comunismo, fino alla completa estinzione dello Stato. In questi due sensi, che tendevano a coincidere, la nozione trapassò in Lenin, che di questa questione fece una discriminante fondamentale nella sua lotta contro l’opportunismo. Né poteva essere diversamente nel momento in cui la vittoria o la sconfitta del socialismo si decideva sul terreno della guerra civile. Anche in Stato e rivoluzione, che pur mette l’accento sull’elemento della violenza rivoluzionaria, Lenin non dimentica di ricordare la nozione più ampia, dove la dittatura del proletariato diventa soprattutto il contenuto di classe di tutto un periodo storico di transizione42. Successivamente, dopo la vittoria della rivoluzione, lo stesso Lenin spostava l’accento dalla violenza rivoluzionaria ai compiti costruttivi della classe operaia nella costruzione del socialismo43. Già a questo punto la questione rischiava di perdere in chiarezza ciò che acquistava in ricchezza di contenuti; ma la successiva esperienza ha reso il problema ancora più complesso. Se il concetto scientifico di dittatura del proletariato deve comprendere una esptrema varietà di forme politiche concrete, non più solo possibili ma già reali, – analogamente a quanto è avvenuto per la dittatura di classe della borghesia – ciò che di specifico esprime tale concetto dovrebbe arricchirsi di altre determinazioni ricavate dalla analisi delle sue particolari forme storiche che né Marx né Lenin hanno conosciuto. Ma un tale arricchimento ha trovato finora un ostacolo difficilmente superabile nelle anomalie di sviluppo che hanno contrassegnato le esperienze già compiute dalla dittatura del proletariato. Cosicché questa nozione o è stata svuotata di ogni contenuto reale o è apparsa caricata di significati contingenti – ed estranei alla sua natura – che avrebbero potuto compromettere la sua validità. La tendenza a liquidare tale nozione o ad accantonarla, oppure ancora a limitarne la portata, non può in ogni caso risolvere il problema. Il superamento di queste difficoltà teoriche è però legato evidentemente ai progressi pratici del movimento reale: non all’escogitazione di nuove formule verbali ma alle nuove esperienze di lotta che il socialismo contemporaneo è chiamato ad affrontare. È in relazione diretta con queste esperienze che deve essere soddisfatta l’esigenza – al di là dei semplici accenni che vi abbiamo qui dedicato – di un maggiore approfondimento teorico di questo come di altri problemi.
Scrivendo Stato e rivoluzione Lenin ha maturato una sicura visione strategica della rivoluzione socialista mondiale, che non è rimasta sulla carta. Con modalità e tempi diversi, con battute d’arresto prevedibili ed errori non prevedibili, attraverso eventi catastrofici e forme di sviluppo relativamente pacifiche, il processo rivoluzionario è andato avanti in maniera impetuosa, nelle direzioni fondamentali che l’analisi leninista aveva previsto. Dove non se n’è tenuto conto, se ne sono subite le conseguenze: ma non vi è stata crisi del movimento che non sia stata o non si avvii ad essere salutare. Già nelle prime rivoluzioni proletarie, relativamente modeste, del secolo decimonono, Marx aveva visto la loro forza principale nella più spregiudicata capacità di autocritica. Trasportandolo su una scala più vasta, nel quadro dei successi giganteschi e duraturi conseguiti da tutto il movimento, dalla rivoluzione d’Ottobre in poi, il giudizio di Marx (nel Diciotto Brumaio) può in una certa misura ripetersi ancor oggi, soprattutto per l’esperienza rivoluzionaria dell’Europa occidentale.
«Le rivoluzioni borghesi, come quelle del secolo decimottavo, passano tempestosamente di successo in successo; i loro effetti drammatici si sorpassano l’un l’altro; gli uomini le cose sembrano illuminati da fuochi di bengala; l’estasi è lo stato d’animo d’ogni giorno. Ma hanno una vita effimera, presto raggiungono il punto culminante: e allora una lunga nausea s’impadronisce della società, prima che essa possa rendersi freddamente ragione dei risultati del suo periodo di febbre e di tempesta. Le rivoluzioni proletarie invece, quelle del secolo decimonono, criticano continuamente se stesse; interrompono ad ogni istante il loro proprio corso; ritornano su ciò che già sembrava cosa compiuta per ricominciare daccapo; si fanno beffe in modo spietato e senza riguardi delle mezze misure, delle debolezze e delle miserie dei loro primi tentativi; sembra che abbattano il loro avversario solo perché questo attinga dalla terra nuove forze e si levi di nuovo più formidabile di fronte ad esse; si ritraggono continuamente, spaventate dall’infinita immensità dei loro propri scopi, sino a che si crea la situazione in cui è reso impossibile ogni ritorno indietro e le circostanze stesse gridano: Hic Rhodus, hic salta!».
(2/2. Fine)
Valentino Gerratana
(V. Gerratana, Introduzione al volume: V.I. Lenin, Stato e rivoluzione, Roma, Editori Riuniti, 1970 [III ed. 1980], pp. 37-52).
Note
31 Cfr. Lénine, Oeuvres, t. 23, cit., p. 78.
32 È vero che Lenin, nel suo sforzo di ricostruire il processo storico di sviluppo della teoria marxista dello Stato, indica un momento in cui Marx «non si domanda ancora in concreto che cosa si debba sostituire a questa macchina dello Stato che deve essere distrutta». Il riferimento riguarda l’analisi di Marx nel Diciotto Brumaio, in rapporto a un’esperienza che, osserva Lenin, «non aveva allora fornito degli esempi che potessero far sorgere questa questione, che solo più tardi, nel 1871, la storia mise all’ordine del giorno». Ma appunto in quell’opera Marx accenna appena, genericamente, al compito di distruggere la macchina statale; la questione però non ha per il momento alcun rilievo e sarà chiarita solo più tardi, quando, per la prima volta nel 1871, sarà posta dalla storia «all’ordine del giorno», anche nei suoi aspetti positivi.
33 Così si può dire, ad esempio, che nelle opere di Marx scritte alla vigilia del 1848 si ritrova «in una certa misura, accanto all’esposizione dei principi generali del marxismo, un riflesso della situazione rivoluzionaria concreta di quel tempo». La stessa cosa si può ripetere evidentemente anche per Stato e rivoluzione.
34 Cfr., nel testo, il passo a proposito dell’analisi marxista della Comune: «In Marx non vi è un briciolo di utopismo; egli non inventa, non immagina una società “nuova”. No, egli studia, come un processo di storia naturale, la genesi della nuova società che sorge dall’antica, le forme di transizione tra l’una e l’altra».
E ancora più avanti, a proposito della Critica del programma di Gotha, dove Marx pone il problema di una fase più avanzata dello sviluppo dei progressi della società comunista dopo la rivoluzione socialista: «Su quali dati ci si può dunque basare nel porre la questione del futuro sviluppo del futuro comunismo? Sul fatto che il comunismo è generato dal capitalismo, è il risultato dell’azione di una forza sociale prodotta dal capitalismo. In Marx non vi è traccia del tentativo d’inventare delle utopie e di fare varie congetture su quel che non si può sapere. Marx pone la questione del comunismo come un naturalista porrebbe, per esempio, la questione dell’evoluzione di una nuova specie biologica, una volta conosciuta la sua origine e la linea precisa della sua evoluzione».
Proprio per questo il rifiuto dell’utopismo non ha niente a che fare con l’accomodamento opportunistico alle forme politiche esistenti. «Gli utopisti si sono sempre sforzati di “scoprire” le forme politiche nelle quali doveva prodursi la trasformazione socialista della società. Gli anarchici si sono disinteressati alla questione delle forme politiche in generale. Gli opportunisti della odierna socialdemocrazia hanno accettato le forme politiche borghesi dello Stato democratico parlamentare come un limite al di là del quale è impossibile andare; si sono rotta la testa a furia di prosternarsi davanti a questo “modello” e hanno tacciato come anarchico ogni tentativo di demolire queste forme».
35 Anche nella polemica sulle Tesi di aprile Lenin aveva avuto occasione di insistere su questo punto: «Il compagno Kamenev, con una certa “impazienza”, ha ripetuto e accentuato il pregiudizio borghese che la Comune di Parigi voleva instaurare “immediatamente” il socialismo. No, non è così. La Comune, sfortunatamente, è stata un po’ troppo lenta nell’introdurre il socialismo. L’effettiva sostanza della Comune non è dove la cercano ordinariamente i borghesi, ma nella creazione di uno Stato di tipo speciale. Ed uno Stato simile è già nato in Russia ed è nato con i Soviet dei deputati degli operai e dei soldati!» (Lenin, La rivoluzione d’Ottobre, cit., p. 47).
36 Cfr. Lenin, Lettere da lontano, tr. it. cit., pp. 85-86.
37 Cfr. nel testo: «…il “democratismo primitivo” sulla base del capitalismo e della società capitalistica non è il democratismo primitivo delle epoche patriarcali e precapitalistiche. La civiltà capitalistica ha creato la grande produzione, le officine, le ferrovie, le poste, il telefono, ecc.; e su questa base l’immensa maggioranza delle funzioni del vecchio “potere statale” si sono a tal punto semplificate e possono essere ridotte a così semplici operazioni di registrazione, d’iscrizione, di controllo, da poter essere benissimo compiute da tutti i cittadini con un minimo di istruzione e per un normale “salario da operai”; si può (e si deve) quindi togliere a queste funzioni ogni minima ombra che dia loro qualsiasi carattere di privilegio e di “gerarchia”». Su questo motivo Lenin ritorna più volte, ma a un certo punto aggiunge anche: «Non bisogna confondere la questione del controllo e della registrazione con quella del personale tecnico scientificamente preparato, ingegneri, agronomi, ecc.; questi signori lavorano oggi agli ordini dei capitalisti, lavoreranno ancor meglio domani agli ordini degli operai armati».
38 Per rendere più scorrevole la traduzione, abbiamo reso in questo caso il termine «democratismo», usato spesso da Lenin e qui di solito conservato, con l’espressione più corrente di «sistema democratico».
39 Cfr., su questo punto, l’annotazione del quaderno Il marxismo sullo Stato: «Quando vi sarà la libertà allora non vi sarà più Stato. Di solito i concetti di “libertà” e “democrazia” sono considerati identici e vengono usati spesso l’uno in cambio dell’altro. Molto spesso i marxisti volgari (a cominciare da Kautsky, Plechanov e compagnia) ragionano proprio in questo modo. In realtà la democrazia esclude la libertà. La dialettica (il processo) dello sviluppo è la seguente: dall’assolutismo alla democrazia borghese, dalla democrazia borghese a quella proletaria, da quella proletaria a nessuna».
40 Cfr., ad esempio, Lenin, Lettere da lontano, trad. it. cit., p. 91.
41 Antonio Labriola, Saggi sul materialismo storico, Roma, Editori Riuniti, 1964, p. 40.
42 Cfr. nel testo: «L’essenza della dottrina dello Stato di Marx può essere compresa fino in fondo soltanto da colui che comprende che la dittatura di una sola classe è necessaria non solo per ogni società classista in generale, non solo per il proletariato dopo aver abbattuto la borghesia, ma per un intero periodo storico, che separa il capitalismo dalla “società senza classi”, dal comunismo. Le forme degli Stati borghesi sono straordinariamente varie, ma la loro sostanza è unica: tutti questi Stati sono in un modo o nell’altro, ma, in ultima analisi, necessariamente, una dittatura della borghesia. Il passaggio dal capitalismo al comunismo, naturalmente, non può non produrre un’enorme abbondanza e varietà di forme politiche, ma la sostanza sarà inevitabilmente una sola: la dittatura del proletariato».
43 Cfr., ad esempio, Lenin, Marx-Engels-marxismo, Roma, Editori Riuniti, 1952, pp. 373, 377-78.
Inserito il 23/4/2023.
di Luciano Gruppi
Che fare?, che nella versione originale russa aveva come sottotitolo Problemi scottanti del nostro movimento, richiama il celebre omonimo romanzo di Nikolaj Černyševskij. Lenin lo scrisse tra la fine del 1901 e l’inizio del 1902, e in quello anno fu pubblicato a Stoccarda.
Il dirigente di punta del Partito operaio socialdemocratico russo vi delineò in modo sistematico la sua teoria dell’organizzazione e la strategia del partito rivoluzionario del proletariato.
Lenin proponeva la formazione di un partito rivoluzionario composto dall’avanguardia della classe operaia, in cui partecipano rivoluzionari di professione.
Egli riteneva che la classe operaia, spontaneamente, sarebbe arrivata solo ad una coscienza tradunionista, e che solo un partito rivoluzionario avrebbe potuto dirigere una rivoluzione socialista “scientifica”: secondo Lenin «la coscienza politica può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi». Questa coscienza politica può essere portata cioè solo dal partito.
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Luciano Gruppi
Introduzione a: V.I. Lenin, Che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1969 (III ed. 1977)
Il Che fare? – il cui titolo è ripreso da quello del noto romanzo di Černyševskij, così caro a Lenin – è uno degli scritti che accompagnano la formazione del Partito operaio socialdemocratico russo (POSDR) e insieme il costituirsi della sua ala rivoluzionaria più conseguente – quella dei bolscevichi. (I bolscevichi poi, raggruppando attorno a sé la maggioranza del partito ed espellendo l’ala destra menscevica, si costituiranno in partito nel 1912, per assumere finalmente la denominazione di Partito comunista russo (bolscevico) nel 1918).
Il POSDR si era costituito nel 1898 a Minsk, raccogliendo l’eredità dell’Unione di lotta per l’emancipazione della classe operaia (fondata nel 1895), alla cui formazione Lenin aveva dato un contributo determinante. L’Unione proseguiva a sua volta l’opera del gruppo L’emancipazione del lavoro (fondato da Plechanov nel 1893).
La costituzione del POSDR obbedì ad un’esigenza fondamentale: superare l’organizzazione per circoli di diverso carattere e di diversa ispirazione ideologica – anche se in essi l’influenza del marxismo diveniva sempre più forte – che era caratteristica della prima fase del movimento operaio russo, per riuscire a dare alla classe operaia un’organizzazione unitaria nazionale, diretta da un unico centro, guidata da un programma e governata da uno statuto.
Ma proprio lo sforzo di uscire dai limiti del circolo, della organizzazione locale, poneva inevitabilmente a confronto più diretto – sia pur nelle condizioni di una durissima illegalità – orientamenti e concezioni diverse, un differente modo di intendere il partito e la sua funzione, sotto cui stava un diverso modo di interpretare il marxismo.
La fase che prepara il II Congresso del POSDR (Bruxelles-Londra, estate 1903) è precisamente contrassegnata dallo scontro di queste diverse posizioni e il Che fare? ne è una perspicua manifestazione.
Al II Congresso si troveranno di fronte due ali della socialdemocrazia russa: quella rivoluzionaria, che trova in Lenin la personalità di maggior rilievo, e quella moderata, che ha il suo esponente in Martov. Non a caso, il primo scontro avverrà su una questione apparentemente organizzativa, statuaria, ma tale in realtà da investire tutta la concezione del partito, il rapporto tra il partito e le masse, tra direzione e spontaneità, unità e democrazia. Ancor più, da investire la questione del rapporto tra iniziativa rivoluzionaria e situazione obiettiva e quindi il problema filosofico del rapporto tra soggetto e oggetto.
Per la corrente di Martov, è da ritenersi socialdemocratico ogni elemento che partecipi in qualche modo alle lotte del partito, che «le aiuti in un modo o in un altro». Per Lenin ciò non basta: può essere membro del partito solo chi milita attivamente e in modo permanente in una sua organizzazione di base. Alla concezione del partito come movimento, dove il limite tra il partito e la classe è indefinito dove non è chiara la distinzione tra il partito e le masse, e non precisato il rapporto tra direzione e spontaneità, Lenin contrappone un’altra concezione: «…Dico che il partito deve essere una somma (e non una semplice somma aritmetica, ma un complesso) d’organizzazioni…» «…Desidero, esigo che il partito, come reparto d’avanguardia della classe, sia un qualcosa il massimo del possibile organizzato, che il partito accetti nel suo seno soltanto quegli elementi che ammettono almeno un minimo di organizzazione».
L’organizzazione, l’unità, la disciplina, il legame indissolubile con la classe, ma la distinzione, rispetto alla classe, che è propria dell’avanguardia: questi sono i caratteri della concezione del partito che Lenin va definendo in quegli anni e che confluiranno a formare la concezione leninista del partito1.
Siamo ormai andati oltre al Che fare? e ad esso conviene ritornare, come al momento in cui si delineano i primi tratti essenziali di questa concezione.
Dopo la lotta contro i populisti e i marxisti legali, l’ala più conseguentemente rivoluzionaria del movimento operaio russo si trovava, in quegli anni, di fronte alle posizioni della corrente detta degli economisti. Gli economisti avevano in quel momento un’influenza preponderante nel movimento operaio russo. Essi affermavano: «Lotta per le condizioni economiche, lotta contro il capitale sul terreno dei vitali interessi quotidiani e scioperi come strumento per condurre tale lotta: questo deve essere il programma del movimento operaio».
Vi era qui una interpretazione del tutto meccanica del marxismo: in regime di autocrazia, prima che sia conquistata la democrazia borghese, tocca alla borghesia condurre la lotta politica; il proletariato deve limitarsi alla lotta economica.
Era già presente una posizione che poi tornerà, sia pure in modo meno schematico, nell’ala destra della socialdemocrazia russa di fronte alla rivoluzione borghese del 1905, quando questa affermerà che la egemonia del movimento spetta alla borghesia (poiché si tratta di una rivoluzione borghese). Sarà Lenin a rivendicare l’interesse della classe operaia per la lotta per la democrazia, il significato rivoluzionario di ogni conquista democratica, l’incapacità della borghesia di essere conseguente, nella propria rivoluzione medesima, e l’estrema capacità di coerenza democratica invece del proletariato, per il nesso che questo stabilisce tra la lotta democratica e la lotta per il socialismo. Di qui può derivare la sua capacità egemonica nel corso della stessa rivoluzione democratica borghese.
Per gli economisti valeva il principio: «Agli operai la lotta economica, ai liberali la lotta politica». Era perciò negata alla classe operaia qualsiasi funzione politica autonoma e con ciò anche la necessità di una sua concezione teorica rivoluzionaria. Era negato l’interesse della classe operaia alla lotta per la democrazia e il compito essenziale che le spetta in questa lotta.
Meccanico era il rapporto che si stabiliva tra lotta economica e lotta politica. Poiché l’economia è il momento di base e la politica la sovrastruttura, è nella lotta economica che si forma la coscienza politica della classe operaia. Una caricatura del marxismo, come si vede. Sollecitiamo dunque la lotta economica, favoriamo il processo spontaneo del formarsi di una coscienza politica. Gli economisti, ad esser precisi, non negano una politica per il movimento operaio: ma la politica è, per loro, l’espressione degli interessi economico-sindacali del movimento, non una concezione ed un programma che investa il problema del potere, la questione dello Stato.
Il movimento, la rivendicazione immediata, la spontaneità si presentava in primo piano: restava in ombra la direzione, l’elaborazione strategica e tattica unitaria, il programma politico, il partito, la teoria rivoluzionaria.
L’economismo non era che la variante russa – Lenin lo sottolinea fortemente – delle correnti opportunistiche che si erano diffuse in quegli anni nel movimento socialista internazionale e particolarmente nella socialdemocrazia tedesca. Tra il ‘96 e il ‘98, il leader socialdemocratico tedesco Bernstein aveva sottoposto la concezione di Marx ad una revisione teorica che colpiva i principi fondamentali della elaborazione marxiana. Veniva sviluppata una critica alla dialettica e proposto il ritorno al kantismo (in realtà si apriva il movimento operaio all’influenza del positivismo). Si negava la dittatura del proletariato e quindi la necessità dell’egemonia proletaria. Si proponeva una visione evolutiva, deterministico-meccanica della trasformazione della società, tale per cui lo stesso sviluppo delle forze produttive rende inevitabile il socialismo che deve essere il risultato di una successione di riforme, necessariamente evocate da quello stesso sviluppo delle forze produttive.
Veniva smarrito il contenuto di classe delle riforme, la coscienza che esse devono essere il risultato della lotta di classe. Lo Stato si presentava come neutro rispetto alla società e svaniva così la questione del potere. È celebre la proposizione del Bernstein: «Il fine è nulla, il movimento è tutto» – che cancella l’obiettivo di classe che si esprime nel fine, le contrapposizioni di classe, ed apre la strada ad una visione meramente tatticistica, amministrativa dell’azione politica (« la politica delle cose»). Si deve ancora notare che questa proposizione presenta un’interessante analogia con la esaltazione anarco-sindacalista (che pure vuole opporsi all’opportunismo) del movimento come fine a se stesso.
Lenin riprende, nella sua polemica contro gli economisti, le posizioni di Engels sul valore della lotta teorica che sempre deve accompagnare la lotta economica e politica. Per Lenin, come per Engels, i fronti della lotta sono tre: economico-sindacale, politico, ideologico. Egli afferma il valore e la funzione della teoria rivoluzionaria per la formazione di un partito rivoluzionario che non voglia limitarsi a modificare la società presente, ma voglia trasformarla radicalmente e perciò riesca a collegare gli obiettivi immediati con il fine generale di classe, secondo un disegno coerente che solo la teoria può rendere possibile e fondare. Sono le celebri proposizioni che il lettore incontrerà nel testo: «Senza teoria rivoluzionaria non ci può essere movimento rivoluzionario». «…Solo un partito guidato da una teoria di avanguardia può adempiere la funzione di combattente d’avanguardia».
Sono tesi, queste, a cui la nostra riflessione deve ridare tutta la loro freschezza, di fronte a tendenze che le correnti pragmatistiche e neopositivistiche del nostro tempo, ben aderenti al dominio del grande capitale, ereditano dalla socialdemocrazia, per presentare la teoria del partito rivoluzionario, la sua concezione del mondo come un’anticaglia ideologica da riporre nei reparti archeologici. Bisogna affermare invece, partendo da Lenin, che se al partito non conviene una metafisica (ma a chi conviene?), un corpo dottrinario chiuso, occorre però un metodo di indagine, di concezione e di azione, sempre aperto, in continuo progresso, per il suo costante ripiegarsi critico su se stesso. Tale metodo è metodo per l’elaborazione della teoria rivoluzionaria, della teoria dello sviluppo della società e della sua trasformazione rivoluzionaria, è «teoria della rivoluzione proletaria» – per dirla con Labriola. Ma non è soltanto questo, in quanto implica una concezione del mondo.
Infatti, una trasformazione radicale, economica e politica, della società, non può compiersi senza una critica altrettanto radicale della coscienza, delle idee che la governano. Il modo con cui può essere demistificata la falsa universalità delle idee tradizionali, che presiedono alla conservazione e al moderatismo, sta precisamente in quel collegamento della coscienza all’essere sociale, in quel rapporto tra le idee e la loro base di classe, i rapporti di produzione e di scambio, che il marxismo stabilisce. Questo è il nocciolo del metodo marxista che rivela l’origine e il limite di classe delle idee – e consente di demistificarne la falsa universalità. Ma qui, in questo rapporto che si costruisce tra la coscienza e l’essere sociale, sta la fondazione di un metodo di pensiero e il nucleo originario di una concezione del mondo (che spetta svolgere, secondo noi, in tutte le sue implicazioni più strettamente filosofiche, non al partito, ma ai filosofi, in libera discussione).
Bisogna perciò affermare che l’abbandono della concezione serve a chi vuole che i partiti operai si adagino nella prassi alla giornata, nella «politica delle cose», nel movimento, che sarebbe tutto, abbandonando la prospettiva del fine di classe. All’invito che viene dalla socialdemocrazia, dagli indirizzi pragmatisti, neopositivisti e tecnocratici, ad abbandonare la concezione del mondo, si accompagna oggi un invito dello stesso genere da parte di ambienti della sinistra cattolica, mosso con altro animo e con altre intenzioni (più meritevoli di rispetto), in quanto in questi ambienti si teme che il possesso di una concezione del mondo, da parte del partito operaio, renda più difficile l’incontro fra le forze progressive del movimento operaio e del movimento cattolico. Ma, nell’un caso come nell’altro, per le ragioni che abbiamo indicato ci pare che la posizione di Lenin – con tutti gli sviluppi che ha conosciuto e può conoscere – resti valida.
Rinunziare alla teoria significherebbe rinunziare dunque ad investire di una critica organica e coerente tutta la società, nel suo momento economico, politico e culturale; annacquare e gradatamente smarrire l’autonomia politica e la piattaforma rivoluzionaria del movimento operaio.
Il nesso che il marxismo, che Lenin stabilisce tra teoria e prassi collega in modo intrinseco la teoria e il partito. Se una concezione dimostra la sua validità nella prassi, essa deve costruire lo strumento della propria prassi; lo strumento che deve non soltanto interpretare ma cambiare il mondo: il partito. Il partito si presenta perciò come coscienza critica collettiva, e elaboratore della teoria in quanto protagonista della prassi. In esso vive, collettivamente, con una ricchezza che nessun altro istituto può conoscere, la coscienza critica dell’esperienza storica (la teoria, appunto). Il partito è il momento della sintesi critica delle molteplici esperienze del movimento.
Senza il partito, vale a dire senza quel processo per cui le esigenze, i risultati, le rivendicazioni del movimento – che il partito accoglie e suscita – passano per il setaccio del confronto critico, democratico, collettivo, il movimento stesso non può trovare la sua unità, definire i suoi ò obiettivi, disporli secondo una gerarchia di fini, fissarli in strategia, articolarli in tattica. Il movimento, abbandonato alla sua spontaneità, si frantuma, si disperde; si getta nell’avventura della ribellione disperata, o muore nella sfiducia e nell’apatia.
Il Che fare? è appunto la più ferma ed ampia critica che il marxismo abbia rivolto alla spontaneità. E la critica, rivolta allo spontaneismo degli economisti, acquista valore più generale, vale per lo spontaneismo del riformismo opportunista, che vede derivare la trasformazione socialista della società in modo meccanico dallo sviluppo delle forze produttive e da un processo evolutivo indolore; vale come critica alla spontaneità della politica spicciola, ma anche dell’anarcosindacalismo che – dall’altra sponda – privilegia il movimento e nega la funzione del partito.
Lenin afferma l’essenziale funzione della teoria rivoluzionaria, ma ciò non significa che egli stabilisca una meccanica identità tra teoria e programma politico e disconosca la necessaria articolazione tra i due momenti. In scritti di pochi anni posteriori al Che fare?, dirà che anche un prete può essere membro del partito socialdemocratico se ne accetta il programma e opera per la sua attuazione, perché «…un’organizzazione politica non può sottoporre i propri membri a un esame sull’assenza o meno di contraddizioni tra le loro opinioni e il programma del partito». Altrettanto, il modo con cui egli afferma con forza la funzione del partito non intende limitare l’ampiezza e l’articolazione del movimento e perciò dei vari istituti in cui esso si può esprimere (si pensi a come egli sviluppò la concezione dei soviet, l’attenzione che dedicò ai sindacati, alle cooperative e così via). Vi è in Lenin estrema attenzione alla spontaneità del movimento; non un rifiuto della spontaneità, ma dell’abbandonarsi ad essa. E ciò perché il movimento nel suo complesso, vivendo nelle sue diverse articolazioni, può trovare solo in un punto la sua piena consapevolezza e la sua unità: nella capacità di sintesi del partito. E’ proprio del partito, infatti, un carattere programmatico più generale (che investe tutto l’assetto della società e non solo alcuni suoi momenti); più avanzato (solo considerando tutto l’assetto della società ci si può proporre di trasformarla radicalmente). Del partito è proprio quel definirsi teorico che non può essere di nessuna altra organizzazione, senza che essa rinunzi alla sua natura e funzione (per esempio, un sindacato che si definisce per la sua ideologia non potrebbe realizzare la massima unità possibile dei lavoratori nella lotta sul piano economico e rinunzierebbe perciò alla propria natura).
La concezione del partito di Lenin si riallaccia a Marx: «I comunisti si distinguono dagli altri partiti proletari… per il fatto che, nei vari stadi di sviluppo che la lotta tra proletariato e borghesia va attraversando, rappresentano sempre l’interesse del movimento complessivo… dal punto di vista della teoria, essi hanno un vantaggio sulla restante massa del proletariato pel fatto che conoscono le condizioni, l’andamento e i risultati generali del movimento proletario»2. Altrettanto si riallaccia a Marx il rapporto che Lenin stabilisce tra il partito e la classe: «Il proletariato afferma la propria autonomia politica organizzandosi in partito».
Punto di partenza ed argomento centrale, in tutto il ragionamento che Lenin sviluppa sul partito e sul rapporto tra partito e classe, è il nesso che egli stabilisce tra lotta economica e lotta politica.
La classe operaia è spinta dalla propria condizione alla lotta economica. Ma la lotta economica, da sola, spontaneamente, non genera una coscienza politica. Lasciato alla sua spontaneità, il movimento resta in limiti sindacali – trade-unionisti, dice Lenin – ancora corporativi. Vi è un momento in cui, nella lotta sindacale, il movimento si avvia a rendersi conto che ogni conquista economica può essere vanificata da più complesse e raffinate forme di sfruttamento. Nella lotta per migliori condizioni di vita, il movimento sperimenta che la polizia, l’esercito, le leggi e i tribunali stanno dalla parte del padrone. Il movimento viene così a trovarsi di fronte alla questione del potere, dello Stato. Ma questo passaggio dalla lotta per la rivendicazione economica alla lotta politica, per il potere, esige una grande capacità di analisi. Si tratta di comprendere il rapporto delle classi sociali tra di loro; delle classi sociali con i partiti; il rapporto tra le classi sociali, i partiti e lo Stato. La classe operaia non può elevarsi spontaneamente, da sola, a questa capacità di analisi e a tale livello di sintesi teorica. Né basta, per portarla a questo livello, la sola organizzazione sindacale.
Riferendosi agli scioperi della fine del secolo, in Russia, Lenin scrive: «Presi in se stessi, questi scioperi costituivano una lotta trade-unionista, ma non ancora socialdemocratica [socialista]; essi annunciavano il risveglio dell’antagonismo tra operai e padroni, ma gli operai non avevano e non potevano ancora avere la coscienza dell’irriducibile antagonismo tra i loro interessi e tutto l’ordinamento politico e sociale contemporaneo, cioè la coscienza socialdemocratica [socialista]». Qui siamo a uno dei punti più delicati e pur decisivi della teoria di Lenin sul rapporto tra il partito e la classe. Questa coscienza – egli scrive – «…poteva essere loro apportata soltanto dall’esterno». In un altro passaggio precisa: «La coscienza politica può essere portata all’operaio solo dall’esterno, cioè dall’esterno della lotta economica, dall’esterno della sfera dei rapporti tra operai e padroni. Il campo dal quale soltanto è possibile attingere questa coscienza è il campo dei rapporti di tutte le classi e di tutti gli strati della popolazione con lo Stato e con il governo, il campo dei rapporti reciproci di tutte le classi». Questa coscienza politica può essere portata cioè solo dal partito. Lo stesso sindacato, pur elevando la classe operaia ad una visione più generale della società, non può porre, nei suoi termini specifici, il problema dello Stato e del suo assetto. Il partito è il momento della consapevolezza in cui si raccoglie la critica alla società presente degli intellettuali più avanzati, quelli che, per dirla con Marx, «…sono giunti a comprendere teoricamente il movimento storico nel suo insieme», e giungono cosi ad individuare la funzione storica, obiettivamente rivoluzionaria, del proletariato, come della sola classe capace di superare le contraddizioni della società capitalistica e di realizzare la liberazione dell’uomo.
Questa consapevolezza della funzione storica della classe operaia, che si forma negli intellettuali di avanguardia, sorge per la sollecitazione delle lotte e della ribellione degli operai, e porta il pensiero rivoluzionario a congiungersi con il movimento reale della classe operaia. Da questo incontro nasce la possibilità di superare la ribellione disperata, la lotta puramente corporativa, da un lato, e il momento dottrinario astratto, la setta utopistica, dall’altro. A contatto con il movimento reale, l’idea rivoluzionaria si matura, si definisce e prende forza impadronendosi delle masse, mentre il movimento reale supera lo spontaneismo, la chiusura corporativa e si porta al livello di una reale coscienza di classe.
Il partito è così intimamente collegato alla classe, ne è la sua espressione, ma, al tempo stesso, essendone l’avanguardia, non si identifica con essa.
Il partito, proprio perché è un fatto di coscienza, è anche un fatto di cultura: nasce, come partito rivoluzionario, dall’assimilazione e dal superamento critico della cultura che giustifica ideologicamente il regime da combattere. Ma il rapporto tra teoria rivoluzionaria e cultura, – cioè con l’enorme patrimonio culturale accumulatosi nel passato e particolarmente con alcuni suoi momenti, che costituiscono le fonti del marxismo (l’economia classica, l’hegelismo, il comunismo utopistico), – non è di contrapposizione astratta, di negazione totale, bensì un rapporto dialettico di assunzione, negazione, superamento. In questo superamento resta, portato ad un nuovo livello, quanto di valido, razionale, esisteva nelle precedenti concezioni ed espressioni culturali.
Il momento della coscienza, della razionalità, da cui deriva l’unità politico-ideale del partito, la sua disciplina consapevole, è perciò fortemente presente in Lenin. In Un passo avanti e due indietro egli scriverà che il partito si costruisce dall’alto in basso. Non vi è qui una concezione autoritaria del partito, in quanto per un’organizzazione rivoluzionaria che sorge non vi può essere alcuna autorità precostituita, ma l’alto, da cui si parte, è appunto dato dalla capacità di una visione politica generale del gruppo dirigente che promuove il costituirsi del partito. Lenin avrà, in quel testo, parole sprezanti per «l’anarchismo da gran signori», che rifiuta la disciplina (consapevole e democraticamente raggiunta), che rifiuta la sottomissione della parte al tutto, della minoranza alla maggioranza.
Lo stesso principio del centralismo democratico, che verrà sviluppato da Lenin in Un passo avanti e due indietro, riposa sul valore essenziale che per lui assume il momento della coscienza. Se infatti il partito si costruisce e vive quotidianamente e si sviluppa per mezzo di un costante processo di sintesi critica dell’insieme del movimento, e perciò superando le contraddizioni del movimento spontaneo, criticandole e unificandole in una sintesi conclusiva; se il partito è questo, un partito che non realizzi la sua unità (reale, s’intende, fatta di consapevolezza politica e non di disciplina formale), che continui ad essere diviso in correnti e frazioni, è in realtà un partito che non realizza pienamente la sua natura, che non riesce a compiere quella sintesi critica di cui egli deve essere il protagonista.
Si possono perciò scorgere le implicazioni filosofiche di questa concezione leniniana del partito. Deriva da essa un rapporto soggetto-oggetto, iniziativa rivoluzionaria e condizione obiettiva, che nulla ha in comune con una interpretazione meccanica del materialismo marxista. Si tratta invece di un rapporto dialettico, per cui l’iniziativa soggettiva è suscitata e si muove nell’ambito di una condizione obiettiva, ma di cui essa non è il meccanico riflesso perché sulla situazione obiettiva interviene attivamente in modo trasformatore. Lenin è qui del tutto vicino alle marxiane Tesi su Feuerbach: «Il difetto capitale d’ogni materialismo fino ad oggi (compreso quello di Feuerbach) è che l’oggetto, la realtà, la sensibilità, vengono concepiti solo sotto la forma dell’obietto o dell’intuizione; ma non come attività umana sensibile, prassi; non soggettivamente»3.
Lenin è più vicino qui a questa impostazione di Marx, di quanto non lo sia nel suo scritto espressamente filosofico, Materialismo ed empiriocriticismo. Si può anzi dire che la consapevolezza delle implicazioni filosofiche della sua teoria politica Lenin la raggiungerà più tardi, negli appunti dei Quaderni filosofici, dove il carattere dialettico del materialismo marxista, ben presente negli scritti politici, troverà espressione sul piano delle definizioni filosofiche.
Quanto si è detto prende rilievo, per contrasto, ove si consideri la polemica di Rosa Luxemburg contro la concezione leniniana del partito.
La Luxemburg accusa Lenin di concezione ultra-centralista ed autoritaria del partito. «Se la tattica socialdemocratica non è determinata da un comitato centrale, ma dall’insieme del partito, e ancor meglio dall’insieme del movimento, le singole organizzazioni di partito hanno evidentemente bisogno di quella libertà di azione che sola rende possibile la piena utilizzazione di tutti i mezzi offerti dalle circostanze per il potenziamento della lotta e lo sviluppo della iniziativa rivoluzionaria. Per contro, l’ultracentralismo raccomandato da Lenin ci sembra pervaso in tutto il suo essere non dallo spirito positivo e creatore, ma dallo spirito sterile del guardiano notturno. La sua concezione è fondamentalmente diretta a controllare la attività di partito e non a fecondarla, a restringere il movimento e non a svilupparlo, a soffocarlo e non a unificarlo»4. Siamo nel 1904 e la Luxemburg non può prevedere quali terribili prove saprà affrontare e superare quel partito così concepito e così diretto da Lenin. Vi è anche una accentuazione di posizione che deriva dalla diversa situazione storica in cui operano i due partiti: di rigorosa clandestinità, in regime autocratico, in un paese contadino, quello di Lenin; nella legalità, nella utilizzazione delle istituzioni democratiche, in un paese in cui il proletariato ha un forte peso specifico, la socialdemocrazia tedesca. Ma il discorso è di sostanza. Per la Luxemburg la tattica non è elaborata soltanto da tutto il partito, ma dall’insieme del movimento. Diventa in lei perciò imprecisa la distinzione, che Lenin tiene ben ferma, tra partito e classe, partito e movimento. L’affermazione della Luxemburg secondo cui la tattica viene elaborata dall’insieme del movimento presta il fianco ad obiezioni. Dal movimento, nel suo insieme, infatti, possono derivare sollecitazioni differenti di tattica, frammenti di tattica a volte tra loro contrastanti. L’elaborazione di una tattica rigorosa ed unitaria, valida per il movimento nel suo insieme, esige la definizione di un programma politico che colleghi, in un giusto rapporto, diversi obiettivi; esige un metodo di lotta ed una teoria. Il partito deve definire la tattica in stretto rapporto con il movimento, raccogliendo le sue indicazioni, ma la definizione della tattica rappresenta un momento di direzione precisa che, insieme al programma e alla teoria, è propriamente ciò che distingue il partito dal movimento. Nel limite non ben preciso che la Luxemburg traccia tra movimento e partito vi è un elemento non superato di spontaneismo. Sotto a ciò, poi, vi è ben altro: una diversa concezione del marxismo. La teoria luxemburghiana del crollo finale del capitalismo, conseguenza fatale dello stesso sviluppo capitalistico, attenua il momento dell’iniziativa rivoluzionaria, il valore della decisione politica, diminuisce la funzione attiva del partito, senza la quale, per Lenin, non può esservi il crollo del capitalismo. L’economia crea le condizioni, la lotta politica consapevole decide. È dunque diversa, nei due, la concezione del rapporto tra soggetto e oggetto. Nella Luxemburg persistono residui di meccanicismo che in Lenin sono nettamente superati.
Alla luce di questo confronto, si può meglio anche comprendere il valore che, per Lenin, assume quel dirigente di partito che egli definisce rivoluzionario professionale: il militante che dedica tutta la sua attività alla organizzazione del partito, ricevendo da questo i mezzi necessari alla sua esistenza. Si tratta del quadro dirigente, che deve formarsi nella esperienza viva della lotta, che deve maturarsi con lo studio per diventare in un certo senso uno specialista dell’azione politica, perché, senza possedere una serie di quadri di questo genere, un partito difficilmente esce dallo stato di movimento e può diventare un’organizzazione ben definita, ricca di una attività permanente.
La spontaneità non ha bisogno di specializzazione e di apparato permanente. La direzione consapevole, un partito, che voglia essere all’altezza della complessità dei problemi della società moderna e delle esigenze della lotta, deve essere invece fornito di un apparato, di una serie di quadri che diventano degli specialisti della lotta politica e dei vari problemi in cui essa si articola. Nel partito l’apparato è dato essenzialmente da organismi dirigenti eletti, che sono l’emanazione della democrazia di partito e sono sottoposti al suo controllo; l’apparato deve essere di tutti e controllato dagli organismi elettivi. L’enunciazione di principio è naturalmente più semplice che la pratica. Senza entrare nel merito dei problemi della democrazia socialista che la storia ha sollevato, e del complesso rapporto tra lo Stato, il suo apparato e la società civile, bisogna dire che anche nella vita dei partiti comunisti gli apparati hanno avuto e possono avere un peso che nuoce alla vita democratica del partito, che lo appesantisce e lo burocratizza, riducendo al contempo la funzione degli organismi democraticamente eletti. Ma, oggi più ancora che ai tempi di Lenin, la necessità di quadri che si specializzino nella politica e alla milizia di partito dedichino se stessi totalmente non è soltanto, come sempre, una necessità rivoluzionaria, ma un bisogno provocato dalla crescente complessità della società del nostro tempo. I problemi, dunque, del rapporto tra apparato ed organismi eletti, tra apparato e democrazia di partito vanno perciò considerati alla luce delle indicazioni di Lenin.
Il Che fare? si conclude indicando la necessità di un giornale rivoluzionario per tutta la Russia: l’«Iskra». È la conclusione della critica di Lenin allo spontaneismo, del modo in cui egli afferma la necessità della direzione unitaria. A chi contrappone al giornale nazionale la stampa locale, perché più vicina ai fatti e ai lettori, Lenin replica osservando, tra l’altro, che il giornale locale non può avere la visione complessiva e che un partito che si reggesse soltanto sulla stampa periferica non avrebbe la possibilità di esprimere la propria politica in una voce unitaria. Il giornale nazionale viene concepito da Lenin come momento essenziale della direzione, della unità del partito e come forza attiva, oltre che di orientamento, di organizzazione e di attivizzazione dei suoi aderenti.
Sottolineati questi elementi, merita fare un breve richiamo a come la concezione leninista del partito riviva in Gramsci e non per una semplice adesione, ma come risultato di una riflessione personale e di tutta una maturazione politica e teorica.
Vi è in Gramsci la ben nota polemica anticrociana, la proposta di uno storicismo conseguente che elimini ogni residuo teologico e metafisico (la crociana storia, come storia dello Spirito, ponendo alla base dello svolgimento storico un’entità astratta, implica un principio ancora teologico e metafisico) per fondarsi sulla base materiale dei rapporti di produzione e di scambio, di classe, della storia. Ma vi è anche la precisa consapevolezza che l’idealismo non può essere battuto dalla sponda del materialismo meccanico e da un marxismo che non abbia superato le influenze positivistiche di cui soffriva al tempo della Seconda Internazionale. Vi è perciò in lui una impostazione del rapporto tra situazione obiettiva ed iniziativa politica, tra oggetto e soggetto, che, pur collocando il soggetto e la sua iniziativa nella obiettività della situazione storica, non deriva affatto l’iniziativa soggettiva in modo meccanico dalla situazione obiettiva, ma sottolinea, del soggetto, l’iniziativa, la capacità creativa, di intervento trasformatore sulla realtà. Egli entra perciò in polemica con il Lenin di Materialismo ed empiriocriticismo, ma assume invece di Lenin la lezione delle opere in cui è posta chiaramente la funzione dell’iniziativa soggettiva (il Che fare?, Un passo avanti e due indietro, Le due tattiche della socialdemocrazia). È il Lenin che, rifiutando il rapporto meccanico tra situazione obiettiva ed iniziativa politica, afferma, ad esempio, la funzione dirigente della classe operaia nella stessa rivoluzione democratico-borghese e giunge al concetto di egemonia – la sua più grande scoperta filosofica», dice Gramsci.
Da questa impostazione filosofica deriva, per Gramsci, una concezione del partito in cui è fortemente sottolineato il momento della coscienza critica e della direzione. Il partito è l’intellettuale collettivo. «I partiti selezionano individualmente la massa operante e la selezione avviene sia nel campo pratico che in quello teorico congiuntamente… Perciò si può dire che i partiti sono gli elaboratori delle nuove intellettualità… cioè il crogiuolo della unificazione di teoria e pratica intesa come processo reale…»5.
Nel partito «…confluiscono tre elementi fondamentali…
«1) Un elemento diffuso, di uomini comuni, medi, la cui partecipazione è offerta dalla disciplina e dalla fedeltà, ma non dallo spirito creativo ed altamente organizzativo…
«2) L’elemento coesivo principale, che centralizza nel campo nazionale, che fa diventare efficienti e potenti un insieme di forze che lasciate a sé conterebbero zero o poco più…
«3) Un elemento medio, che articoli il primo col secondo elemento, che li metta a contatto…».
Questi tre elementi sono necessari alla vita del partito. Senza il primo elemento «…il partito non esisterebbe… ma è anche vero che il partito non esisterebbe neanche “solamente” con esso. Essi sono una forza in quanto c’è chi li centralizza, organizza, disciplina, ma in assenza di questa forza coesiva si sparpaglierebbero e si annullerebbero in un pulviscolo impotente». Il secondo elemento soltanto, quello «coesivo principale», non potrebbe formare il partito, «…tuttavia lo formerebbe più che non il primo elemento…». «Si parla di capitani senza esercito, ma in realtà è più facile formare un esercito che formare dei capitani. Tanto è vero che un esercito già esistente è distrutto se vengono a mancare i capitani, mentre l’esistenza di un gruppo di capitani affiatati, d’accordo tra di loro, con fini comuni, non tarda a formare un esercito anche dove non esiste»6.
Il principio leninista che il partito «si crea dall’alto», partendo cioè dalla consapevolezza, ritorna qui con vigore. Con vigore viene sottolineato il momento della coscienza, della razionalità, della volontà unificatrice. E non per un omaggio ad una visione autoritaria del partito (le pagine sul centralismo democratico, la critica al centralismo burocratico sono eloquenti), ma per una visione della vita democratica concepita come formazione e risultato della coscienza, capace di costruirsi solo se in essa è contemporaneamente presente la direzione e la disciplina consapevole.
Che Gramsci non faccia un mito della spontaneità, non indulga ad essa e neghi che, per un processo spontaneo, possa dal movimento crearsi la coscienza, appare del resto da questa pagina dedicata alle esperienze dell’«Ordine Nuovo»: «Questa direzione non era “astratta”, non consisteva nel ripetere meccanicamente delle formule scientifiche o teoriche: non confondeva la politica, l’azione reale con la disquisizione teorica, essa si applicava a uomini reali formatisi in determinati rapporti storici, con determinati sentimenti, modi di vedere, frammenti di concezione del mondo… questo elemento di “spontaneità” non fu trascurato e tanto meno disprezzato: fu educato, fu indirizzato, fu purificato da tutto ciò che di estraneo poteva inquinarlo, per renderlo omogeneo, ma in modo vivente, storicamente efficiente, con la teoria moderna [il marxismo]»7.
Il rapporto direzione-spontaneità non potrebbe essere indicato con maggiore equilibrio e meglio non si potrebbe chiarire e l’importanza del movimento spontaneo e la funzione di sintesi critica, unificatrice che il partito esercita nei confronti del movimento.
In questo rapporto tra direzione e spontaneità, tra situazione oggettiva ed iniziativa rivoluzionaria siamo lungi – in Gramsci come in Lenin – sia da una visione meccanicistica che da una concezione soggettivistica e volontaristica della funzione della avanguardia politica. Il partito non si identifica con la classe operaia, perché di essa è l’avanguardia, ma è una parte della classe ad essa indissolubilmente congiunta. Il partito opera in una situazione determinata. Deve comprenderla, cogliendone la struttura di base, i rapporti economici di classe, le manifestazioni politiche che la caratterizzano, altrimenti si muoverebbe in modo astratto, avventuristico, lancerebbe e ripeterebbe formule teoriche incapaci di agire sulla realtà, facendo dell’agitazione e della propaganda soltanto e non della politica. Muoverebbe avanguardie ristrette, non veramente legate alla classe operaia e alle masse, portandole allo sbaraglio in velleitarie avventure. Ma, al tempo stesso, il partito non è il riflesso meccanico della situazione, ma su di essa interviene, con la sua iniziativa.
A questa visione non meccanicistica e non volontaristica del rapporto tra situazione obiettiva ed iniziativa rivolutionaria risale la nozione del partito nuovo, elaborata da Togliatti. Si tratta di un partito che non si limiti alla critica, alla opposizione negativa, ma che sappia intervenire nelle diverse situazioni, con una precisa consapevolezza del loro carattere specifico, proponendo soluzioni positive dei problemi: quelle soluzioni che oggi sono possibili e che si iscrivono coerentemente nella prospettiva di una trasformazione rivoluzionaria della società, come momenti determinanti di tutto il processo della sua trasformazione. «Partito nuovo è un partito della classe operaia e del popolo il quale non si limita più soltanto alla critica e alla propaganda, ma interviene nella vita del paese con una attività positiva e costruttiva»8. Vi è una reciprocità tra il carattere costruttivo della politica del partito e il suo carattere di massa, in quanto, da un ampio e differenziato rapporto con le masse lavoratrici e popolari, il partito trae quella conoscenza delle situazioni e quella capacità di essere in esse presente senza cui la sua volontà di un intervento positivo e costruttivo non potrebbe realizzarsi, e perché, d’altro canto, è la capacità del partito di indicare soluzioni positive quella che gli consente di acquistare un carattere di massa. Così vi è un rapporto tra la capacità di intervento positivo del partito e il suo carattere nazionale. L’adesione alle situazioni specifiche, la capacità di indicare la soluzione dei problemi che esse pongono, rende il partito aderente alla situazione nazionale, interprete delle tradizioni tipiche, progressive della nazione, capace di svolgere una funzione dirigente nella nazione; al tempo stesso, è l’adesione alla tradizione e alla situazione nazionale quella che rende il partito capace di una funzione non semplicemente di opposizione negativa, ma di un intervento positivo. Dal carattere di massa e nazionale del partito deriva il rapporto più articolato che la concezione del partito nuovo stabilisce tra il partito, il suo programma politico e la concezione teorica che lo guida. Il partito è guidato da un metodo di indagine, di concezione e di azione, il marxismo e il leninismo, ma non impone ai suoi aderenti di aderire alla concezione. Sono tratti, questi, che innovano rispetto alla concezione leninista del partito, eppure ne mantengono saldi i principi fondamentali: il rapporto tra il partito e la classe, tra il programma politico e la concezione teorica che lo fonda, il rapporto tra democrazia e direzione (il centralismo democratico). Così innova rispetto all’internazionalismo del passato la concezione dell’unità internazionale del movimento comunista nella diversità, fondata sull’autonomia di ogni singolo partito, sull’elaborazione originale e indipendente della propria politica, sul carattere autonomo e specifico delle singole rivoluzioni socialiste e della costruzione e della vita del regime socialista nei singoli paesi. Ma l’unità nella diversità è il modo in cui soltanto oggi può essere affermato il principio leninista dell’internazionalismo.
Questa concezione del partito che, come in Gramsci e in Lenin, sottolinea la funzione del soggetto, dell’iniziativa politica costruttiva, trova in Togliatti radici lontane, nel movimento dell’«Ordine Nuovo», in quella che fu, per il gruppo torinese e per la giovane direzione del Partito comunista d’Italia, la faticosa conquista del leninismo.
Questa pagina del 1925, nel vivo della polemica contro il settarismo e il meccanicismo bordighiano e nel pieno dell’assimilazione del leninismo, ce lo dice: «…è il processo della rivoluzione qualcosa che sia determinato in modo non dipendente dalle volontà umane, oppure è qualcosa su cui la volontà organizzata degli uomini può e deve influire con efficacia e in modo continuo? Siamo noi qui soltanto ad attendere il movimento rivoluzionario, oppure la nostra preparazione, la nostra azione, e il grado di coscienza e di capacità che riusciamo con esso a fare acquistare alla classe operaia sono fattori che determinano lo sviluppo della rivoluzione in modo attivo? Posta così la questione, ogni buon rivoluzionario e marxista non deve esitare a dirsi volontarista9. È vero infatti che la molla dello svolgimento storico sta per noi nella modificazione dei rapporti di produzione, ma è vero altresì che i rapporti di produzione si traducono in rapporti di classe, e la classe è elemento che si organizza, che acquista una coscienza, che “vuole” e fa pesare la sua volontà, la sua coscienza e la sua organizzazione su tutto il processo della trasformazione sociale. Chi dà alla classe coscienza, organizzazione e volontà è il partito che si forma nel suo seno. Ora, per noi il partito non deve mai pensare di avere a che fare con una realtà che si sviluppi da sé in modo automatico e meccanico. Esso si trova di fronte sempre un sistema di forze in movimento, esso deve proporsi di modificare questo movimento e i suoi risultati, ma non può ottenere ciò se non inserendosi in esso in modo attivo»10.
Abbiamo cercato di indicare la continuità di una linea di sviluppo, dal lontano Che fare?, alla concezione del partito di Gramsci e a quella di Togliatti. Con ciò abbiamo anche cercato di far risaltare la profonda attualità del testo che presentiamo.
Luciano Gruppi
(Tratto da: L. Gruppi, Introduzione, in V.I. Lenin, Che fare?, Roma, Editori Riuniti, 1969 [III ed. 1977], pp. 7-27).
Note
1 Sulla questione statutaria in parola, la posizione di Lenin avrà la maggioranza dei voti e di qui deriverà la denominazione di bolscevichi da bol’šinstvo (maggioranza); alla corrente minoritaria di Martov toccherà l’appellativo di menscevichi, da men’šinstvo (minoranza).
2 K. Marx-F. Engels, Manifesto del partito comunista, in Opere scelte, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 305.
3 K. Marx-F. Engels, Opere scelte, cit., p. 187.
4 R. Luxemburg, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, 1967, p. 226.
5 A. Gramsci, Il materialismo storico e la filosofia di Benedetto Croce, Torino, Einaudi, 1948, p. 13.
6 A. Gramsci, Note sul Machiavelli, Torino, Einaudi, 1949, pp. 23. 24. Vedi anche A. Gramsci, Scritti politici, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 756-757.
7 A. Gramsci, Passato e presente, Torino, Einaudi, 1951, p. 57. Vedi anche A. Gramsci, Scritti politici, cit., p. 811.
8 Cfr. «La Rinascita», anno I, n. 4, ottobre-novembre-dicembre 1944, p. 25.
9 Togliatti polemizza contro l’accusa di «volontarismo» mossa all’«Ordine Nuovo» dai riformisti. Il termine di «volontarista» è perciò qui impiegato per ritorsione polemica e non sta ad affermare il principio di una volontà che possa determinare lo sviluppo rivoluzionario indipendentemente dalla situazione obiettiva e dalla coscienza che di essa bisogna avere. Ciò è chiarito del resto dalle affermazioni che seguono.
10 Cfr. La nostra ideologia, in «l’Unità», 7 luglio 1925, ora in P. Togliatti, Opere, I, Roma, Editori Riuniti, 1967, pp. 650-651.
Inserito il 22/08/2023.