Marxismo e letteratura
di Alexej Kusák
Il critico cecoslovacco Alexej Kusák nel suo intervento al convegno praghese su Franz Kafka del 1963 fa una rassegna delle interpretazioni che dell’opera dell’autore hanno dato vari critici marxisti, e contesta le analisi di molti di essi. Egli vede in definitiva in Kafka un grande interprete della realtà del suo tempo:
«Kafka è il maggior poeta dell’alienazione dell’uomo nella moderna società industriale e in questo sta il segreto della sua attualità e della sua universalità. Bisogna però spiegarlo, interpretarlo, capirlo. Fornire una chiave interpretativa in termini filosofici generali non è affatto sufficiente (su un vago giudizio filosofico si possono trovare d’accordo anche coloro che continuano a volgarizzarlo); bisogna penetrare a fondo in ognuno dei temi della sua opera, nei caratteri dei suoi personaggi e nel significato delle sue situazioni. Come marxisti non dobbiamo limitarci a studiare l’influenza che la realtà ha esercitato su di lui ma anche esaminare l’aiuto che egli ci può dare per risolvere l’enigma della realtà».
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Per una interpretazione marxista dell’opera di Kafka
di Alexej Kusák
Dedicherò il mio intervento al problema di una interpretazione marxista dell’opera di Kafka, vale a dire alla valutazione delle opinioni dei critici marxisti che si sono occupati di lui e alla esposizione dei miei personali punti di vista.
Considero Kafka come il più grande, il più monumentale realista del ventesimo secolo e ritengo che assai meglio di molti cosiddetti realisti egli abbia colto e tipizzato caratteri e situazioni di questo secolo, rispecchiandone i rapporti sociali, gli aspetti infernali, la disumanizzazione e al tempo stesso le tendenze opposte: la protesta, il grido di rivolta, il dolore carico di collera.
Per poter interpretare la sua opera occorre cogliere il carattere specifico della sua espressione del mondo, chiedersi se egli abbia saputo dire una suggestiva parola sugli uomini, se sia riuscito, e fino a che punto, a seguire il movimento della realtà nelle sue tendenze generali e nelle sue manifestazioni particolari. Come marxista, e ai fini di un giudizio complessivo, a me non interessa affatto sapere che cosa Kafka abbia pensato della propria opera, quali romanzi e quali racconti egli abbia destinato al fuoco e perché. Non sono e non posso essere d’accordo né con Paul Reimann, che considera importante questo giudizio dell’autore su se stesso, né con il critico tedesco Helmut Richter, che eleva addirittura il testamento di Kafka a fondamentale chiave interpretativa della sua opera. L’atteggiamento di Kafka non è affatto unico e eccezionale nella storia dell’arte. Se volessimo essere conseguenti dovremmo servirci dello stesso criterio per giudicare anche Gogol’ o Tolstoj che, alla fine della loro vita, condannarono anch’essi le proprie opere. E se volessimo essere ancora più conseguenti dovremmo giudicare tutte le opere in base alla stima che ne ebbero i loro autori arrivando infine a non tener conto di quelle che questi ultimi non vollero pubblicare, oppure – sul piano opposto – a considerare con attenzione tutta la carta stampata che molti fertili scribacchini fanno uscire ad ogni costo. Ho già detto che non è assolutamente legittimo interpretare un’opera attraverso un testamento. Ebbene, questo giudizio va esteso: non si può interpretare un’opera neppure attraverso le dichiarazioni del suo autore o con l’ausilio dei suoi diari. Non voglio negare che documenti di questo genere possano essere utilizzati come materiale illustrativo, come esempi per spiegare questo o quell’aspetto della vita di Kafka; intendo dire che non è lecito ricavare da essi alcun giudizio importante sui testi. A mio parere, un metodo di questo genere non è scientifico e in un modo o nell’altro sfocia in un atteggiamento idealistico. Compito di una scientifica analisi critica è invece scoprire le eventuali mistificazioni e deformate stilizzazioni che un autore può dare di se stesso.
Né il testamento né le dichiarazioni di Kafka ci aiutano dunque a chiarire la sua opera. Ma dov’è allora la chiave che può dischiudere il suo segreto? Forse nel suo essere nato e vissuto a Praga, come qualcuno ha sostenuto in questo convegno? Eduard Goldstücker ritiene che la parola decisiva su tutta una serie di importanti problemi della esegesi kafkiana possa essere detta solo da Praga. E con ciò egli non vuole certamente affermare che a Praga vivano germanisti o critici più bravi che altrove. Con questa affermazione (che ha ripetuto più volte) egli intende dire un’altra cosa, e cioè che Kafka deve essere riportato in terra, che bisogna spiegarlo geneticamente in base al suo milieu, che occorre studiare la sua vita e la sua opera mettendola in rapporto con tutti i fattori storici e sociali da cui è stata condizionata. Io sono perfettamente d’accordo su questa esigenza se la consideriamo come il presupposto ovvio e indispensabile di ogni analisi scientifica, la quale deve necessariamente partire dall’esame del materiale stesso, dell’ambiente e dell’epoca in cui l’opera è nata. Ma perché discutere tanto su questa esigenza, dal momento che una ricerca di questo genere la può fare benissimo anche un critico che viva ad esempio in Groenlandia, purché sia uno specialista della letteratura considerata e studi per qualche tempo in loco il materiale storico. Che cosa ha a che fare questa esigenza con l’affermazione di Goldstücker che Kafka può essere pienamente capito solo a Praga? Forse che a Praga c’è un fluido particolare, percepibile solo ai suoi abitanti? Si può dunque sperare di dischiudere il segreto di Kafka con le chiavi del Primator di Praga?
È interessante notare come Goldstücker sia vicinissimo all’opinione di un contemporaneo di Kafka, il giornalista Willy Haas che oggi vive ad Amburgo e che in uno suo recente libro di memorie, Il mondo letterario1, scrive: «Quando lessi per la prima volta le opere di Kafka mi sembrò di rivedere il mondo della mia giovinezza, di riconoscere gli angoli nascosti, i vicoli, i corridoi polverosi, i vizi della Praga di allora… Kafka ha certamente detto tutto ciò che noi avevamo sulla punta della lingua e non dicemmo mai, non riuscimmo a dire… Io credo di poter leggere i suoi libri come in sogno, e non capisco come siano necessarie tante parole per spiegarli visto che dietro alle cose che raccontano non vi è nient’altro. Ecco perché non riesco a comprendere nessuno dei mille saggi – esistenzialistici o no – che sono stati scritti sulle opere di Kafka. Perché ogni parola che vi si aggiunge è superflua e non fa che velare il contenuto che sta alla superficie, non meno che agli altri livelli del racconto.
«…Non riesco a immaginare come possa capire Kafka chi non è nato a Praga tra il 1880 e il 1890. I suoi significati allegorico-realistici, profondi ma anche singolarmente muti, impediscono a chi non conosca il suggestivo scenario reale dei suoi maggiori romanzi, Il processo e Il castello, di afferrarne tutta la selva di analogie e riferimenti metafisici che valgono soltanto in questo e per questo microcosmo locale. Di qui le più astruse misinterpretazioni.
«Coloro che sono nati nell’impero absburgico amano dire che lo spirito della vecchia Austria è realmente un mistero, un mistero che nessuno fuori dell’Austria può veramente capire… Ma Kafka mi sembra un mistero austriaco, ebraico, praghese ancora più fitto, un mistero di cui solo noi possediamo la chiave. E la mia massima aspirazione è che l’onda della “celebrità mondiale” di Kafka, che è fondata su un cumulo di equivoci, possa finalmente diminuire, restituendo a noi l’amico».
Senza volerlo Willy Haas ci dà un ottimo esempio dei risultati a cui si può giungere quando si attribuisce un valore assoluto alla praghesità di Kafka.
Se la formula «Kafka è lo specchio di Praga all’inizio del secolo» è risolutiva, allora per comprendere a fondo la sua opera basta conoscere la situazione storico-sociale di Praga. Tutto il resto è superfluo; superflua qualsiasi interpretazione della tipologia kafkiana, superflua l’indagine sui suoi metodi e così via. Il lettore ignaro dell’ambiente di Praga non sarà mai in grado di cogliere nulla dietro le sue favole e se qualcuno tenta di vederci qualcosa di diverso dalla semplice descrizione dell’atmosfera praghese, e cioè qualcosa di più universale, costui chiuda la bocca perché siamo qui noi a fare la guardia; noi, gli unici amici di Kafka, i praghesi di vecchia data, i compatrioti e i testimoni oculari, pronti a difendere gelosamente dal bisturi degli intrusi e degli interpreti aberranti, il suggestivo color locale e il mistero dell’impero austriaco.
A questo punto – è chiaro – siamo ormai usciti dall’ambito di una critica seria. Ma la stessa cosa succede quando si feticizza l’origine di Kafka. Una volgare analisi genetica dell’opera kafkiana non è in grado di risolvere il più importante problema critico e cioè non è in grado di spiegare la suggestione esercitata ancor oggi, anzi proprio oggi, da questo rispecchiamento della Praga 1910-20 sul lettore che non conobbe questa Praga e che non è affatto interessato a conoscerla. In che cosa si distingue la narrativa di Kafka dai quadri di maniera di un Ewer, di uno Strobl, di un Meyrink e dei numerosi scrittori che nello stesso periodo affrontarono il tema di Praga? Ecco la questione da cui bisogna partire. Attribuire una importanza assoluta ai condizionamenti sociali e al rispecchiamento locale nell’opera di Kafka equivale a declassarla al livello di un qualsiasi, manierato ritratto d’ambiente. Se si vuol comprenderne l’importanza e l’attualità bisogna invece procedere dallo studio della sua genesi all’indagine della sua struttura. In caso contrario si finisce in un positivismo alla Taine che, nella migliore delle ipotesi, può permetterci di scoprire qualcosa di interessante sulla storia culturale di Praga ma non di capire l’essenza dell’arte di Kafka, il segreto della sua durata, della sua efficacia attuale e futura.
Nel suo saggio Contro un realismo malinteso2, il critico e filosofo marxista György Lukács si serve appunto di questo metodo interpretativo collegandolo però in modo assai interessante all’esame degli aspetti formali dell’opera kafkiana. Nel punto centrale del suo lavoro Lukács dice: «La poesia di Kafka è un prodotto dell’infernale mondo capitalistico dei nostri giorni e della impotenza di tutto ciò che è umano di fronte al suo potere. La schiettezza e la sincerità della sua espressione sono – come sempre nell’arte – il prodotto di complesse tendenze contraddittorie e del loro incrocio. Voglio sottolineare solo un aspetto. Kafka ha scritto le sue opere in un periodo in cui il concreto oggetto sociale della sua angoscia non aveva ancora raggiunto il suo pieno sviluppo storico. Quindi egli illustra e solleva ad un livello demoniaco non il mondo concreto ed effettivamente infernale del fascismo, ma il vecchio impero absburgico, che alla luce della “profetica” angoscia kafkiana assume questa spettrale oggettività. L’indefinibile angoscia riceve così un oggetto artisticamente adeguato proprio grazie a questa mancanza di determinazioni psico-culturali, a questa atmosfera come fuori del tempo e al di sopra della storia ma tuttavia immersa nel color locale di Praga. Dalla sua situazione storica Kafka trae dunque un duplice vantaggio: da una parte egli può fare assumere un hic et nunc sensibili, e cioè l’apparenza di una vita sociale, ai singoli particolari concreti che si radicano direttamente nel vecchio impero austro-ungarico, mentre dall’altra può rappresentare l’indeterminatezza della realtà obiettiva più attuale in modo autenticamente naïve, perché egli si limita a presagirla e in effetti non la conosce. Questa indeterminata realtà può quindi svilupparsi organicamente fino a diventare una “eterna condition humaine”, come se si trattasse del rispecchiamento a posteriori di una realtà sociale infernale e angosciosa da cui siano state artificialmente eliminate tutte le determinazioni concrete (velandole con raffinati procedimenti formali) per rappresentare in termini generali l’universale soggezione dell’uomo al destino. Di qui l’insolita efficacia immediata, la grande forza di suggestione della prosa kafkiana, ma anche l’impossibilità del suo hic et nunc di superare il proprio carattere, in ultima analisi, allegorico. E infatti i potenti ed espressivi particolari si riferiscono sempre ad una realtà che li trascende, all’essenza, intuitivamente presagita e stilizzata in una dimensione atemporale, dell’epoca imperialistica. A differenza di quanto avviene nel realismo, questi particolari non sono dunque punti nodali delle tendenze e dei conflitti della realtà, ma, in ultima analisi, semplici segni cifrati di un incomprensibile aldilà. Quanto maggiore è la loro forza di evocazione diretta, tanto più profondo si fa questo abisso e tanto più forte la discrepanza allegorica tra essere e significato».
Lukács tocca qui alcuni problemi. Egli analizza Kafka sotto l’angolazione della psicologia sociale, considerandolo come una forte ma deformata personalità individuale, come un soggetto che crea il mondo circostante a sua immagine e somiglianza. L’angoscia del piccolo borghese è, secondo Lukács, la componente fondamentale della sua personalità. Che questo modo di concepire Kafka non sia che una ennesima variante della interpretazione sociologica risulta evidente se pensiamo che Lukács considera l’angoscia dello scrittore come l’espressione della sua posizione sociale e cioè come una conseguenza – sul piano dell’arte – delle sue determinazioni sociali.
Più stimolanti sono altri giudizi di Lukács, soprattutto quelli sul problema delle cosiddette “profezie” di Kafka e sugli aspetti formali della sua opera, toccati anche da altri critici marxisti.
Si tratta di due questioni strettamente connesse, ma in termini alquanto diversi da come ritiene Lukács. Devo dire francamente che tutte le interpretazioni che si fondano sulle facoltà intuitive e profetiche di Kafka e che riducono i suoi meriti all’aver saputo prevedere nell’aggrovigliata matassa del presente l’esplodere del meccanismo infernale, ossia – per essere chiari – il sopraggiungere dello stato hitleriano e degli orrori del fascismo, mi sembrano imprecise ed errate perché attribuiscono a Kafka intenzioni e capacità che egli non ebbe. Secondo me il problema è molto più semplice. Kafka non ebbe bisogno di prevedere l’orrore per il semplice fatto che ci visse in mezzo. Egli si limitò a percepire più intensamente ed acutamente degli altri la normale, quotidiana criminalità della società burocratica, perché le atrocità del fascismo non sono in fondo che gli orrori del pacifico mondo borghese e della sua routine, concentrati nel tempo e resi più espliciti. Sia il fascismo che la comune società borghese distruggono sempre qualcosa, annientano sempre vite umane (le forme possono essere diverse; l’essenziale rimane identico) ma la società burocratica sa nascondere assai meglio le mutilazioni che essa infligge alla vita, e offre inoltre minori occasioni alla ribellione diretta e alla lotta di quanto non faccia il fascismo in cui la violenza è assai più scoperta. Non è facile smascherare la violenza del capitalismo che trasforma la vita autentica in una esistenza larvale e alienata (se fosse tanto facile la lotta contro di esso sarebbe ormai un capitolo chiuso nel libro della storia) e il merito principale di Kafka non consiste nell’aver profetizzato un qualche orrore futuro, ma nell’aver identificato assai concretamente l’orrore della propria epoca.
Compito della esegesi kafkiana è ora di stabilire con quali mezzi si sia compiuta questa identificazione. Kafka si è servito del suo particolare metodo della parabola e una gran parte dei suoi interpreti vede in ciò un difetto, una infrazione al realismo. Io sono invece del parere contrario; credo cioè che Kafka abbia lavorato con questa formula perché ha voluto abbracciare una realtà più vasta, perché è stato più realista di quelli che lo rimproverano. Per lui la formula della parabola era un mezzo per tipizzare, condensare, demistificare fatti che viveva e osservava. Gli storici della letteratura possono ampiamente testimoniare sulla grande tradizione della parabola in letteratura e confermare come essa sia stata utilizzata sia prima che dopo Kafka: fra le opere più note e gli autori più celebri si possono citare, a questo proposito, la Bibbia, Swift, Cervantes, Brecht e Hemingway. Nel suo studio su Kafka Ernst Fischer3 ha affacciato l’ipotesi che l’impiego di questa forma in letteratura sia sempre connesso a determinate situazioni di crisi nella società e agli intensi fenomeni di alienazione che vi si producono (Kafka era chiaramente consapevole della crisi della sua società, tanto che in una lettera a Milena scrisse: «Il mio mondo sta crollando, il mio mondo sta sprofondando… Come sopravvivremo?»). Orbene, come deve reagire l’arte a questi fenomeni? Nella sua Dialettica del concreto4 Karel Kosík scrive: «Il mondo delle cose che ci sono quotidianamente note non è un mondo conosciuto e posseduto. Per poterne svelare la realtà bisogna privarlo del carattere familiare che esso ha per noi, togliendogli la maschera di una notorietà feticizzata e scoprendolo nella sua alienante brutalità… Per constatare l’alienazione della propria vita l’uomo deve poterla osservare ad una certa distanza, privarla della sua ovvietà: deve “violentare” la propria realtà quotidiana. Come dobbiamo giudicare una società e un mondo in cui gli uomini devono essere fatti “diventare” scarafaggi, cani e scimmie per poter esprimere la loro vera natura; un mondo in cui l’uomo e il suo ambiente devono essere presentati attraverso metafore e paragoni che li “violentano”, per consentire all’umanità di riconoscere il proprio volto e la propria realtà? A noi sembra che uno dei fondamentali principi dell’arte, della poesia, del teatro, delle arti figurative e del cinema moderni consista proprio in questa “violenza” che viene compiuta sulla vita quotidiana, in questa distruzione della sua falsa concretezza».
Io credo che queste parole definiscano in termini assai rigorosi l’essenza del metodo creativo di Kafka, che è analogo al cosiddetto “effetto di estraniazione” impiegato da Brecht come risposta aggressiva all’alienazione sociale. Da questo punto di vista le osservazioni di Lukács sugli aspetti formali di Kafka mi sembrano meno pertinenti. Lukács giudica Kafka con il metro del realismo critico; ad esempio, per definire il carattere del “particolare” kafkiano egli lo paragona a quello dei realisti critici, per concludere che quanto più esso è espressivo (e cioè potenzialmente realistico, almeno secondo i principi del realismo critico), tanto più Kafka si avvicina all’abisso senza fondo del nulla. L’esempio dimostra in generale quanto pericoloso sia trasportare i criteri letterari da un’epoca all’altra. Lukács non ha compreso che l’opera di Kafka è un grande esempio letterario, un modello perfetto, e che Kafka è riuscito a penetrare più a fondo e più efficacemente nella realtà di quanto non abbiano fatto molti autori del cosiddetto realismo critico. Per poter giungere ai livelli di realtà non più percepibili dai sensi la chimica e la fisica moderne devono servirsi di modelli e di formule. La stessa cosa devono fare l’arte e la letteratura moderne quando affrontano alcuni aspetti del mondo. Non si tratta di un capriccio di scrittori in cerca di originalità ma di una necessità assoluta, perché questo è appunto l’unico metodo che ci consenta di scoprire i lati occulti della realtà.
Invece di cogliere questi aspetti nuovi che si manifestano nell’opera di Kafka e che costituiscono i presupposti di una giusta partitarietà [(?) così nella traduzione italiana, ndr] fondata sulla vera funzione conoscitiva dell’arte, alcuni marxisti ostentano diffidenza nei suoi confronti e la giudicano sotto altri punti di vista. Ad esempio, nel libro Prospettive della letteratura del ventesimo secolo il critico letterario polacco Stefan Zólkiewski distingue, a seconda della tecnica della rappresentazione, un metodo creazionistico e un metodo realistico, attribuendo al primo Kafka, Camus, Dürrenmatt, Beckett ed altri scrittori d’avanguardia. Zólkiewski non rigetta in blocco questa corrente ed anzi raccomanda addirittura ai cosiddetti realisti di adottare alcune innovazioni formali dei cosiddetti creazionisti ritenendo che la tecnica di questi ultimi possa arricchire il realismo. E questa sua esortazione è paradossale.
Zólkiewski non tiene conto della trasformazione dei contenuti, che ha un’importanza rivoluzionaria in letteratura, e dà invece molta importanza alla tecnica, alla forma, che sono cose di second’ordine, strumenti sussidiari. Come se ciò non bastasse egli consiglia ai realisti (che dovrebbero proseguire la tradizione di Stendhal e di Balzac, e quindi come lui stesso afferma rappresentare con la massima fedeltà possibile le situazioni sociali, mediante l’inventario della particolarità di vita e di costume) di assimilare proprio gli aspetti tecnici e formali della cosiddetta arte d’avanguardia. In ogni modo Zólkiewski condanna la letteratura che si serve di simboli perché, a suo parere, essa porta su false strade, e a sostegno di questa tesi cita un critico noto per le sue simpatie verso il cattolicesimo, il francese Pierre de Boisdeffre, che naturalmente esprime giudizi analoghi ai suoi. Per Boisdeffre infatti il realismo borghese o socialista è espressione della volontà di vita della società, mentre il simbolismo sorge in società che non credono in sé stesse. Questo signore (che a quanto sembra anche Goldstücker ama e stima) ha il merito di presentare le cose in termini assai precisi e con i contorni nettissimi. Egli è un alfiere della letteratura prediletta dai pastori del gregge di Dio, e non lo nasconde.
Solo un passo separa Zólkiewski e la sua distinzione tra letteratura realista e letteratura simbolista, dalle più volgari interpretazioni di Kafka, come quella che a suo tempo Howard Fast ha offerto al mondo nel libro Letteratura e realtà5.
Per Fast Kafka è uno scrittore «appollaiato sul letamaio della cultura reazionaria, uno scrittore che con le sue parabole (egli cita La metamorfosi) mira soltanto a suscitare orrore e vergogna e che è arrivato alla conclusione che l’uomo e gli scarafaggi sono la stessa cosa». Secondo lui questa equazione è una componente di un mostruoso processo, messo in atto dalla classe dominante, un processo caratterizzato dallo sconvolgimento e dalla distorsione della realtà obiettiva. Cito Fast non per pietà postuma ma perché il suo modo di pensare non è ancora completamente morto e continua anzi a riemergere sotto travestimenti diversi (e non soltanto a proposito di Kafka). La sua concezione non si basa su una critica sociologica di Kafka, su una analisi dei suoi aspetti formali o infine sulla sua collocazione in una delle tante correnti della letteratura borghese, ma mira – giustamente – a valutare l’efficacia della sua opera. L’assurdo è che per una analisi così complessa egli si avvalga di strumenti degni di un museo archeologico. L’ingenuo semplicismo di Fast (che egli considera quasi come un merito propagandistico) lo porta quindi nella palude del soggettivismo e dell’idealismo perché, nel suo zelo, egli dimentica ad esempio che anche opere indiscusse come quelle della tragedia greca incutono orrore e vergogna (per tacere di inezie letterarie come la Bibbia o altre opere che rendono addirittura demoniaca la realtà) e si permette inoltre di ignorare un concetto che dopo Aristotele tutti dovrebbero conoscere: il concetto di catarsi, che definisce appunto il significato e la funzione dell’orrore suscitato dalle opere d’arte.
Concludo questo mio intervento esponendo la mia opinione sulla possibilità di elaborare una interpretazione veramente marxista dell’opera di Kafka. Kafka è per me il grande poeta tragico dell’età moderna, un tragico che però sa adoperare anche mezzi satirici. L’efficacia della sua opera non può essere spiegata soltanto in base all’ambiente in cui è nata, tenendo conto unicamente di Praga e delle sue caratteristiche. Kafka è il maggior poeta dell’alienazione dell’uomo nella moderna società industriale e in questo sta il segreto della sua attualità e della sua universalità. Bisogna però spiegarlo, interpretarlo, capirlo. Fornire una chiave interpretativa in termini filosofici generali non è affatto sufficiente (su un vago giudizio filosofico si possono trovare d’accordo anche coloro che continuano a volgarizzarlo); bisogna penetrare a fondo in ognuno dei temi della sua opera, nei caratteri dei suoi personaggi e nel significato delle sue situazioni. Come marxisti non dobbiamo limitarci a studiare l’influenza che la realtà ha esercitato su di lui ma anche esaminare l’aiuto che egli ci può dare per risolvere l’enigma della realtà. Bisogna insomma dischiudere la poetica kafkiana; e se sapremo leggerla in termini marxisti, non dovremo neppure impedirci di seguirla nella nostra vita. Il fuoco ottico dell’arte di Kafka sta nella sua capacità di tipizzare il sentimento dell’assurdità dell’esistenza e cioè di esprimere quel fenomeno che – con espressione tieckiana – Ernst Fischer ha definito “perdita della realtà”.
Nella nostra vita sta succedendo qualcosa di singolare che non riusciamo a definire con nessun aggettivo se non ricorrendo al nome di Kafka e dicendo che stiamo vivendo in una dimensione kafkiana. È come se dietro le nostre spalle le cose avessero congiurato contro di noi. Ma non è colpa della nostra inettitudine; non è che le cose ci siano sfuggite di mano semplicemente per la imperizia delle nostre dita; anzi è la nostra stessa abilità, è la nostra perfetta organizzazione che ci ha gettati in questa situazione assurda.
Spiegare l’attualità di Kafka semplicemente in base alla legge di sopravvivenza delle grandi opere d’arte è sbagliato perché nel fenomeno generale questa spiegazione ci fa perdere un fenomeno più particolare, e cioè l’importanza specifica di Kafka per il nostro tempo. Il fatto che egli sia anche il poeta delle nostre assurdità e che le situazioni kafkiane siano il simbolo di situazioni ben note anche nei paesi socialisti durante il periodo del culto della personalità, testimonia a favore della sua geniale facoltà di tipizzazione, e quindi del suo metodo artistico. Con le sue parabole Kafka ha dimostrato come un determinato grado di opacità nei rapporti sociali e l’assolutizzazione del potere istituzionale possano generare, giorno per giorno, situazioni assurde in cui innocenti vengono accusati di delitti che non hanno commesso, in cui non è necessario riconoscere come vero ma solo come “necessario” tutto ciò che accade e in cui la menzogna sale al trono come legge suprema della società.
Paul Reimann ha scritto: «Noi vediamo in Kafka non lo scopritore di nuovi mondi, ma un naufragio»6. Per me Kafka non è un naufrago, ma lo scopritore di nuovi mondi.
Alexej Kusák
(Tratto da: Alexej Kusák, Per una interpretazione marxista di Kafka, in AA.VV., Franz Kafka da Praga 1963. Una serie di rapporti della cultura marxista sulla vita e sull’opera di Kafka, Milano, Pgreco, 2024, pp. 175-187).
Note
1 Willy Haas, Die literarische Welt, Erinnerungen, München 1960.
2 Georgy Lukács, Wider den missverstandenen Realismus, Hamburg 1958.
3 Ernst Fischer, Von Grillparzer zu Kafka, Wien 1963.
4 Karel Kosík, Dialektika konkrétniho, Studie o problematice človeka a sveta (La dialettica del concreto, studio sul problema dell’uomo e del mondo), Praha 1963.
5 Howard Fast, Literature and Reality, New York 1950.
6 Paul Reimann, prefazione alla edizione cèca di America di Franz Kafka, Praga 1962.
(Milano, Pgreco, 2024)
Prefazione di Saverio Vertone
Nel maggio 1963, in occasione dell’ottantesimo anniversario della nascita di Franz Kafka (1883-1924), l’Accademia delle scienze cecoslovacca dedicò allo scrittore praghese un convegno che riunì germanisti, critici letterari, scrittori e intellettuali dei paesi del campo socialista e non solo.
Il fatto stesso che un’istituzione del genere promuovesse un convegno su Kafka era di per sé rivoluzionario, se si pensa che fino alla svolta del 1956 impressa dal XX Congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica l’autore praghese era stato ostracizzato in quanto considerato espressione del decadentismo borghese, e quindi non utile alla causa della costruzione del socialismo in Cecoslovacchia (stando all’elenco delle edizioni delle opere di Kafka presente sulla versione ceca di Wikipedia, dopo la rivoluzione comunista del 1948 la prima opera di Kafka ripubblicata in Cecoslovacchia fu Il processo nel 1958, e poi America nel 1962, La metamorfosi nel 1963, e così via; prima si potevano trovare le precedenti edizioni delle sue opere nelle librerie dell’usato e nelle biblioteche).
Già durante il convegno emersero polemiche e differenze di approccio e di interpretazione dell’opera di Kafka tra marxisti di varia provenienza e di varia estrazione, tra “ortodossi” e “innovatori”; ma anche dopo non mancarono echi polemici alla “riabilitazione” dell’autore del Processo e del Castello e ai tentativi di farlo rientrare in qualche modo nella tradizione della letteratura realista, tradizione più accettabile per una parte importante dell’estetica marxista.
In Italia gli atti del convegno furono pubblicati nel 1966 da De Donato, e oggi le Edizioni Pgreco hanno il merito di riproporre questo libro che mantiene integra la sua importanza e il suo interesse per chi – come noi – si occupa di letteratura e di arte partendo da determinate posizioni politiche e ideali.
Dopo la Prefazione che riprendiamo oggi, riproporremo su spaziocollettivo.org un paio di interventi al convegno che reputiamo più significativi, così come pubblicheremo articoli che su quell’evento comparvero a suo tempo su varie riviste europee.
Leandro Casini
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Franz Kafka da Praga 1963
Una serie di rapporti della cultura marxista sulla vita e sull’opera di Kafka
(Milano, Pgreco Edizioni, 2024)
Prefazione di Saverio Vertone
Il 27 e 28 maggio 1963, ricorrendo l’ottantesimo anniversario della nascita di Franz Kafka, si tenne a Liblice, nei pressi di Praga, un convegno di studi sulla sua opera.
Organizzata su iniziativa della Associazione dei germanisti dell’Accademia cecoslovacca delle scienze, la conferenza si avvalse della collaborazione dell’Istituto per la letteratura, della Facoltà di filosofia della Karlsuniversität e dell’Unione degli scrittori cecoslovacchi. Vi parteciparono numerosi critici letterari di orientamento marxista, alcuni dei quali stranieri, come Roger Garaudy (Francia), Ernst Fischer (Austria), Klaus Hermsdorf, Helmut Richter, Ernst Schumacher, Werner Mittenzwei, Kurt Krolop (Repubblica Democratica Tedesca), Roman Karst (Polonia), Jenö Krammer (Ungheria) e Dušan Ludvik (Jugoslavia). Si trattò del primo, grande dibattito pubblico tra studiosi di vari paesi socialisti su uno dei problemi centrali della critica marxista post-staliniana: quello dell’atteggiamento da assumere nei confronti di uno dei massimi rappresentanti della letteratura d’avanguardia del nostro secolo e, di riflesso, nei confronti della questione del realismo in arte.
L’importanza, certamente eccezionale, del convegno fu, a dire il vero, più politica e culturale che strettamente scientifica. Il tema era tale da far emergere, ove vi fossero state, le più sottili sfumature di pensiero e le più coperte contrapposizioni operanti in seno alla critica marxista dei paesi socialisti, da agire insomma come banco di prova per la valutazione e la classificazione delle sue eventuali differenziazioni interne. L’andamento e l’esito del dibattito rivelarono in effetti l’esistenza di forti, anzi addirittura clamorosi contrasti. Assieme al disorientamento che accompagna sempre i troppo rapidi e bruschi mutamenti di orientamento ideale, il convegno lasciò trasparire una tendenziale cristallizzazione di correnti attorno ad alcune posizioni fondamentali.
Il libro che presentiamo al pubblico italiano è la traduzione della edizione tedesca degli atti del convegno, pubblicata a cura dell’Accademia cecoslovacca delle scienze; sono stati esclusi soltanto gli interventi di importanza e significato marginale, e cioè: la relazione di Jenö Krammer sulla risonanza di Kafka in Ungheria, quella di Helmut Richter sugli epigoni di Kafka nella letteratura tedesca occidentale, quella di Dušan Ludvik su Kafka in Jugoslavia, quella di Josef B. Michl sui rapporti dell’avanguardismo scandinavo con Franz Kafka e quella di O.F. Babler sulle prime edizioni cèche delle opere di Kafka.
È forse la prima volta che il lettore italiano può seguire per intero, in tutti i suoi sviluppi e in tutte – o quasi – le sue sfumature, un importante, e soprattutto franco e aperto dibattito culturale tra intellettuali del mondo socialista.
Come qualcuno certamente ricorderà, numerosi giornali e riviste occidentali dedicarono all’avvenimento ampi reportages, anche perché, poco dopo la sua chiusura, il convegno ebbe un forte strascico polemico provocato dal violento attacco che un critico della Germania orientale, Kurella, indirizzò a Kafka e all’arte di avanguardia. Si parlò allora di uno scontro aperto tra i conservatori (individuati soprattutto tra i critici della RDT) e gli innovatori (prevalentemente cecoslovacchi e polacchi). Oggi, a qualche anno di distanza, l’avvenimento ci appare sotto una luce diversa e assai meno drammatica. Lo scontro effettivamente ci fu, ma leggendo attentamente i testi della discussione non è difficile notare come l’interesse fondamentale stia forse altrove e come il convegno si presti a osservazioni meno scandalistiche ma in compenso più sostanziali.
In primo luogo, da tutto l’andamento del dibattito emerge non solo l’esistenza di due correnti ben distinte e bruscamente contrastanti, ma anche il profilarsi di una vasta gamma di posizioni critiche intermedie e ben definite che fanno pensare ad un retroterra culturale non improvvisato dall’oggi al domani, ma operante da tempo e quindi fin dal periodo staliniano. In secondo luogo, stupisce l’atteggiamento della maggior parte degli studiosi nei confronti del più importante – o meglio – del più noto teorizzatore di estetica marxista del mondo contemporaneo: Georgy Lukács. Lukács viene di solito ignorato: sia direttamente, nel nome, che indirettamente, nelle idee; e quando viene citato subisce attacchi non di rado sprezzanti anche se formalmente ossequiosi. Data la diffidenza con cui per tanti anni il critico ungherese è stato considerato dalla cultura staliniana, non è il fatto in sé a stupire, quanto piuttosto la circostanza che gli attacchi o l’indifferenza provengano generalmente dalle correnti più avanzate e non – come sarebbe lecito attendersi – dai settori più retrivi e chiusi della critica marxista. Si direbbe dunque che la cultura cecoslovacca si sia sviluppata, negli ultimi anni, con una rapidità sorprendente, saltando a piè pari quella che poteva essere una prevedibile fase di transizione tra lo zdanovismo e le più moderne concezioni marxiste: l’assestamento, cioè, sul decorso livello intellettuale dell’estetica lukácsiana. E si direbbe inoltre che, al di sotto delle divisioni politiche, economiche e sociali del mondo, e quindi in condizioni generali diversissime, l’evoluzone ideologica segua vie analoghe, tendenti ovunque al superamento non solo delle deformazioni più appariscenti e triviali del marxismo, ma anche delle sistemazioni più solide e acute da cui è stata caratterizzata una fase, forse ormai sorpassata, della sua storia.
Più ancora che sottolineare il contrasto (che pure indubbiamente vi è stato) tra i critici tedeschi e i più avanzati intellettuali cecoslovacchi, conta quindi definire il piano su cui questo contrasto si è manifestato e sviluppato costringendo i marxisti della RDT a sostenere la polemica da posizioni non tanto criticamente arretrate quanto ideologicamente, politicamente e umanamente assurde. Il lettore non si lasci ingannare dall’apparente asprezza della polemica tra il gruppo dei vecchi germanisti cecoslovacchi (soprattutto Reimann e Goldstücker) e i giovani e agguerriti marxisti arrabbiati alla Alexej Kusák. Il vero contrasto non si è sviluppato a questo livello. In Reimann e Goldstücker (che si sono assunta la parte di conservatori equilibrati, comprensivi e illuminati) non si avverte alcun residuo di posizioni staliniane e zdanoviane, quanto piuttosto l’ancoraggio ad un accademico umanismo ottocentesco, francamente ingenuo e sprovveduto nel primo, rispettabile e aggiornato nel secondo. Il loro conservatorismo è comunque assai simile a quello di non poche personalità ufficiali della cultura universitaria occidentale, specialmente italiana, e si basa su un inconfondibile miscuglio di positivismo critico (un po’ alla Carducci, per intenderci), di generica enfasi umanistica (ma ancora una volta occorre distinguere nettamente tra Reimann e Goldstücker), e infine di paternalistica e lievemente gigionesca presunzione professionale, narcisistica ingenuità e bonaria invadenza soggettiva. Il tentativo di Reimann di rivendicare alla propria generazione l’esclusiva nella interpretazione delle opere kafkiane (data la conoscenza specifica che questa generazione avrebbe delle condizioni della Praga dei primi anni del secolo) e di ricavare un giudizio negativo sull’arte di Kafka (tributando però, secondo uno schema scontato, un fervido omaggio al suo eroismo etico) dalla decisione finale dello scrittore di distruggere la propria opera, è di una ingenuità sconcertante, ma è anche, probabilmente, sincero e senza secondi fini. Se mai, vien fatto di notare come lo stalinismo abbia favorito nei paesi socialisti la sopravvivenza di un antiquato accademismo universitario che da noi almeno in quella forma è stato relegato ai margini della cultura ufficiale.
La vera battaglia è divampata comunque tra altri uomini e su altre posizioni. Ne è stato protagonista, in campo conservatore, il tedesco Ernst Schumacher, che ha tentato di rintuzzare le offensive innovatrici dei giovani intellettuali cecoslovacchi valendosi di strumenti critici moderni e dando prova di una preparazione tecnico-culturale certamente solida, aggiornata e vasta anche se avvelenata da una vena di pedanteria teutonica e di gesuitismo staliniano. Il suo è stato l’intervento centrale del dibattito e forse, ma immeritatamente, il più importante, in quanto involontaria rivelazione interna della crisi del marxismo cosiddetto ortodosso. Vale quindi la pena soffermarsi su di lui, rinunciando ad esaminare più attentamente le posizioni degli innovatori che, sostanzialmente, non si sono discostati (a parte una certa, comprensibile, rigidità teorica) dai risultati cui è pervenuto il più aperto e spregiudicato pensiero marxista occidentale.
Tentando di presentarsi come mediatore dei contrasti e di risolvere la disputa con un giudizio salomonico, Schumacher rovescia i termini con cui la critica staliniana aveva giustificato in passato l’ostracismo a Kafka e all’arte di avanguardia. Kafka, egli afferma, è indubbiamente un grande scrittore, un grande creatore di simboli, insomma un artista nel senso pieno del termine. Malgrado ciò, ed anzi appunto per questo, i sospetti e le riserve che le autorità culturali socialiste nutrono nei suoi confronti sono più che giustificati. La tesi è paradossale, ma con una audacia che sfiora l’incoscienza Schumacher vi si inoltra sostenendosi sui trampoli di dotte argomentazioni e di un complicato armamentario critico. Il realismo, egli dice, non è che un compromesso tra arte e politica. Esso obbliga l’artista a minuziosi inventarii e a troppo fedeli riproduzioni della realtà, tarpandogli le ali della creazione autentica. L’arte invece, la vera arte, è fondata (e più ancora lo sarà in futuro) sulla capacità di ricreare il mondo, di trasformarlo, di coglierlo per scorci e angolazioni deformanti, ad esempio attraverso il cosiddetto ‘effetto di estraniazione’ (‘semplice’, come in Brecht, o ‘doppio’, come in Kafka), insomma sulla facoltà di astrarre, selezionare e irrigidire gli elementi della realtà, trasponendoli su un piano diverso, ideale, rarefatto. Solo questa trasposizione nel simbolo consente all’artista di sentirsi veramente creatore e al lettore cólto (la precisazione è importante) di gustare le sue opere in tutte le loro sottigliezze. Ma – ed ecco il punto – quando si avvale del simbolo (e a questo proposito Schumacher coinvolge nell’accusa oltre a Kafka anche Brecht, seppure più velatamente) l’arte non media al lettore comune (anche questa precisazione è importante) conoscenze utili alla sua azione politica, non gli permette di individuare i «complessi di cause sociali » su cui deve influire con la sua attività. Alla letteratura della trasparenza, e cioè alla letteratura fondata su questa sottile selezione e trasposizione dei fenomeni, sulla rarefazione del reale, Schumacher preferisce quindi, per ragioni politiche contingenti, la letteratura trasparente del realismo, e cioè la letteratura fondata sulla rarefazione dell’arte; non senza ricordare però, come, una volta compiuta in tutti i campi la rivoluzione socialista, quest’obbligo morale dell’arte a mediare conoscenze utili verrà meno, e tutti i lettori potranno godere finalmente dei giochi raffinati e dell’inutile lusso dei prodotti della fantasia creatrice. Il rovesciamento è sbalorditivo. L’avanguardismo artistico non viene dunque più respinto per ragioni estetiche (come, in omaggio ad una concezione unitaria del marxismo, si era tentato di fare in passato ai più diversi livelli culturali: da quello, assai rozzo, di Zdanov a quello più raffinato e colto di Lukács) ma semplicemente e esplicitamente per ragioni politiche o, più esattamente, pedagogiche.
Siamo di fronte ad una versione burocratizzata del discorso del Grande Inquisitore di Dostoevskij, tenuto però con tono più dimesso e casalingo, di fronte alla rivelazione di una profonda frattura nell’ideologia, frattura che non si tenta nemmeno più di velare o di saldare con disperati tentativi di unificazione in extremis.
L’approdo teorico di Shumacher è tra i più curiosi cui si potesse pervenire partendo da posizioni marxiste. La sua concezione dell’arte è tutta una concessione al formalismo, ma poiché non è sincera (o meglio, poiché egli sacrifica a teorie di cui fraintende lo spirito), supera decisamente il segno e si sperde nel vuoto. In sostanza è una concessione a posizioni inesistenti. L’arte è per lui uno strumento atto a soddisfare il narcisismo creativo dell’uomo, un mezzo per consentirgli di travestirsi da demiurgo, un conato di autodivinizzazione. Essa si fonda su una sorta di connivenza tra ‘iniziati’, sulla complicità tra lettore e creatore che vengono chiamati non a giudicare la realtà attraverso le sue trasposizioni artistiche, ma semplicemente a gustare l’angolo di deviazione con cui le trasposizioni artistiche si discostano dalla realtà. In questa deviazione, e nella capacità di coglierla, di misurarla e di assaporarla, si esaurisce il godimento estetico.
Per Schumacher dunque l’arte può stabilire un rapporto con la realtà soltanto a patto di rinnegare se stessa in uno slancio di pedantesca rinuncia pedagogica, e la realtà può accettare l’arte soltanto ove abbia esaurito i suoi problemi pratici, vale a dire si sia placata nel nulla. Quella che abbiamo delineato è beninteso una radicalizzazione teorica delle tesi di Schumacher, tesi che egli cerca di mantenere sul piano più domestico e vago del buon senso (o meglio dell’opportunismo politico) ma non è una radicalizzazione illegittima. Nel critico tedesco, la dissociazione tra teoria e pratica, tra ideologia e politica (tipica dello stalinismo) giunge infatti quasi alla soglia della coscienza e subisce una sorta di informe teorizzazione.
Lukács aveva ancora cercato di salvare l’unità, e proprio per questo, malgrado i suoi disperati ‘distinguo’, aveva finito col ridurre la conoscenza artistica alla semplice conoscenza razionale, o meglio scientifica, della realtà storico-sociale (riservando all’arte la funzione specifica di rivestimento inconscio e psicologico dello scheletro logico, insomma facendo del conoscere estetico null’altro che la carne affettiva e irrazionale di un’ossatura razionale). Schumacher fa addirittura scomparire il problema. L’arte, per lui, non conosce; semplicemente deforma. Dove c’è realtà non c’è arte (ma mera pedagogia artistica); e dove c’è arte non c’è più realtà (ma raffinato arbitrio creativo). A questo punto però è chiaro che quello di Schumacher non è tanto il rovesciamento, quanto lo sfilacciamento dell’artificioso tentativo unitario di Lukács. Sia la riduzione della conoscenza estetica alla conoscenza storico-sociale, sia l’estromissione della conoscenza dalla sfera dell’arte denunciano un errore che sembra radicarsi non tanto nell’ambito – più ristretto e derivato – della teoria estetica, quanto in quello – più vasto e centrale – della ideologia e della weltanschauung filosofica. Insomma, si direbbe che la strozzatura che impedisce di cogliere in termini più verisimili il nesso tra conoscenza e realtà non stia nel modo di concepire l’arte, ma nel modo di considerare la realtà. E infatti, quando si sa già in anticipo (o si crede di sapere) ciò che l’arte deve conoscere e ‘rispecchiare’, non c’è più nessuna ragione di guardare lo specchio invece che l’immagine reale, il riflesso invece della sorgente, la copia anziché l’originale. In questo caso, al cosiddetto rispecchiamento artistico non possono venire accordate che due funzioni: quella della intensificazione luminosa, della chiarificazione del reale, intensificazione e chiarificazione che riducono, lukacsianamente, il conoscere estetico a semplice riconoscere; oppure quella della deformazione, della complicazione, della deviazione, più o meno volontaria e consapevole, dalla realtà. Ma, a questo punto – e siamo a Schumacher – non si può più parlare di conoscenza, giacché il paragone tra realtà ed arte (paragone che malgrado tutto sussiste) non porta a precisare nulla sulla prima ma solo a isolare la ‘deformazione’ operata dalla seconda, la quale diventa pertanto l’unico oggetto della conoscenza, o meglio, della degustazione estetica (sicché se mai si conosce qualcosa, questo qualcosa è l’arte attraverso la realtà e non la realtà attraverso l’arte).
Più che rovesciare le posizioni di Lukács, Schumacher sviluppa quindi l’altro corno del dilemma lasciato segretamente aperto dal critico ungherese, ne rivela la faccia nascosta e rompe l’illusoria unità dell’estetica marxista fondata su quel criterio metodologico che potremmo definire come «ottica statica e simmetrica del rispecchiamento».
Di qui l’importanza del suo intervento, importanza che tuttavia non deve far dimenticare al lettore le voci nuove apparse al convegno, voci di marxisti impegnati non nella difesa incoerente ma nel coerente rinnovamento dell’ideologia.
Interessante, a questo proposito, è che le concezioni più avanzate e accettabili in campo estetico siano state presentate proprio da coloro che hanno rivelato una sensibilità più aperta ed elastica nei confronti della realtà prima ancora che dell’arte; e cioè dai marxisti che hanno dimostrato di aver recuperato il senso della relativa indeterminatezza della vita e della storia e di aver sostituito all’«ottica frontale e simmetrica» di Lukács un’«ottica dinamica e asimmetrica», o, se si vuole (il termine è arrischiato ma forse non del tutto improprio), un’«ottica dell’invisibile». In questi critici ci è sembrato di scorgere il profilarsi di una nuova concezione marxista dell’arte, una concezione che fa di quest’ultima non più una lente deformante o una lente di ingrandimento, ma uno specchio destinato a riflettere le immagini di una realtà che normalmente non vediamo (o perché troppo lontana e spostata, o perché troppo vicina, al punto da confondersi con noi stessi), uno specchio che coglie e rimanda «di sbieco» e secondo le inclinazioni più varie ciò che sfugge alla nostra visione razionale e che ci permette quindi di percepire non solo quello che i nostri occhi non vedono ma anche e contemporaneamente l’atto stesso del vedere: i nostri occhi.
Si tratta di posizioni che rimangono spesso allo stato potenziale, nascoste tra le pieghe di una vivace e spesso significativa denuncia dell’alienazione cui soggiace tutto il mondo contemporaneo, ma che alludono abbastanza chiaramente all’inquietudine con cui la parte più avanzata degli intellettuali marxisti del mondo socialista guarda ad un problema dato ormai per risolto e addirittura sepolto dal marxismo dei decenni trascorsi: il problema dell’irrazionale e del suo peso nella vita, nella storia e nella conoscenza umana.
Saverio Vertone
(Tratto da: Saverio Vertone, Prefazione, in Franz Kafka da Praga 1963. Una serie di rapporti della cultura marxista sulla vita e sull’opera di Kafka, Milano, Pgreco Edizioni, 2024, pp. 7-15).
Inserito il 20/07/2025.
Franz Kafka (1883-1924).
Fonte della foto: https://upload.wikimedia.org/wikipedia/commons/9/93/Kafka1906.jpg
Leggendo l’odierna edizione (n. 26, 5-11 luglio 2023) del giornale letterario russo «Literaturnaja gazeta» mi è saltato all’occhio questo articolo dedicato al 140° anniversario della nascita di Franz Kafka, uno dei pilastri della letteratura mondiale. L’autore del brevissimo saggio parla di Kafka ma anche di noi, delle nostre debolezze di uomini e dei nostri disastri di popoli, e parla da un luogo che è proiettato davvero in una realtà kafkiana: Sebastopoli, Crimea, Ucr…? Rus…?
Ecco, leggiamo Kafka attraverso la lente di Platon Besedin, uno scrittore di lingua russa proveniente da una città contesa tra due nazioni slave, e percepiremo tutta l’assurdità del nostro esistere su questo pianeta disperato.
Leandro Casini
di Platon Besedin
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Un secolo all’insegna dell’assurdo
3 luglio 2023: 140 anni dalla nascita di Franz Kafka
E nel 2024 ricorreranno i 100 anni dalla sua morte. Sì, questo secolo l’abbiamo vissuto sotto il segno di Kafka. Lui è giunto al lettore dopo l’attacco chimico vicino a Ypres ed è diventato ancor più significativo dopo la seconda guerra mondiale.
Theodor Adorno scrive: «Dopo Auschwitz ogni poesia è impossibile». Ed è vero, è possibile parlare di cose elevate dopo che tutte quelle persone sono state arse nei forni crematori? Ma cos’è in fondo la guerra se non una follia kafkiana?
Orwell, Huxley, Zamjatin hanno descritto il lato esteriore della distopia: come è strutturata amministrativamente, economicamente, politicamente, socialmente. Franz Kafka ha mostrato la distopia interiore dell’indivduo: il suo essere prigioniero della confusione, della paura, della solitudine. E, come ha notato Hesse, il problema principale di Kafka è il conflitto tra il desiderio appassionato di comprendere il senso della vita e il dubbio su qualsiasi tentativo di darle un senso. Ma in fin dei conti questo diventa anche il nostro problema.
Tra i predecessori di Kafka, Borges nomina Kierkegaard. Timore e tremore è un’opera fondamentale al centro della quale c’è la storia di Abramo e Isacco. Anche Kafka a volte prende come base alcune storie bibliche, anche se poi le cambia al punto da non poterle più riconoscere. Il processo è uno sguardo al passato, all’Apocalisse di san Giovanni, ma è anche un ponte verso il futuro, verso gli esperimenti di David Lynch.
Negando l’immortalità e la religiosità, Kafka in realtà cercava Dio in modo stravagante. Lo cercava non attraverso delle trame edificanti o tramite delle qualità come la bontà e la bellezza, ma, come scrive Camus, attraverso i volti vuoti e deformi della Sua indifferenza, della Sua ingiustizia e del Suo odio. Il testo di Kafka è una specie di Urlo di Edvard Munch, però in prosa.
Dostoevskij diceva che non c’è niente di più fantastico della realtà che ci circonda. Kafka porta questa frase all’estremo e, come osserva il critico Komarov, mostra che l’assurdità esistenziale che è alla base della vita non è affatto innocua: condanna l’individuo all’incubo materializzato della disperazione. E infatti, entrando in un’istituzione statale, non ci imbattiamo forse anche noi nel Castello kafkiano? Non ci sentiamo anche noi come agrimensori che vagano tra gabinetti e uffici? Chi siamo noi davanti al volto granitico di un sistema spietato? Degli imputati come Josef K.?
Ecco che anche il commesso viaggiatore Gregor Samsa, diventato un insetto (con tutta evidenza uno scarafaggio), è l’immagine viva di quanto sia facile perdere l’essenza umana e di quanto sia importante lottare per la propria personalità e identità. Anzi, spesso, schiavizzati da mammona, ci trasformiamo davvero in insetti. Ma Samsa è uomo dentro, e le persone intorno a lui lo sono soltanto esteriormente. Certo, lo scarafaggio provoca disgusto, ma allo stesso tempo è sempre accanto a noi. Solo di una cosa Kafka non ha tenuto conto in questo racconto intitolato La metamorfosi: molte persone del futuro non hanno affatto paura degli insetti, di vivere come parassiti.
Perché al mondo è stato tolto il nucleo vitale. «Dio è morto», e gli europei lo hanno sostituito o con un superuomo, o con un’essenza universale, o con un’installazione, o con un algoritmo onnipotente. L’opera di Kafka è una reazione al mondo senza Dio, quando gli uomini si uccidono a vicenda perché non possono fare a meno di uccidere. E col passare del tempo – e lo si mostra nel film di Haneke Funny Games – iniziano a uccidere perché semplicemente piace loro, li diverte. E per uccisione qui si deve intendere non solo l’eliminazione fisica, ma anche la soppressione morale, psicologica, socio-economica.
Per molto tempo tali problemi sono stati più attuali per l’Europa che per la Russia. L’assurdo russo, come ha notato il critico Kolobrodov, è una costruzione verticale che presuppone un collegamento di ritorno, un legame all’indietro. È sempre il frutto di una coscienza religiosa. Nella tradizione occidentale, invece, il subconscio si proietta orizzontalmente sul mondo materiale circostante. Così è stato, sì, ma fino a un certo momento.
L’attuale esistenza russa si è chiusa sul materiale, sull’orizzontale: ecco perché siamo nella “kafka-realtà”. La trasformazione è avvenuta, siamo prigionieri del Castello. Come evadere e salvarci? Per fortuna Kafka non priva il suo mondo della speranza: al contrario, più evidente è la disperazione, più il mondo esterno opprime, più forte è l’uomo interiore, più forte è la sua speranza. Sì, sembrerebbe assurdo, ma è proprio questa l’essenza e la grandezza di Kafka.
Platon Besedin
scrittore, Sebastopoli
(Traduzione di Leandro Casini)
(Tratto da P. Besedin, Vek pod znakom absurda, in «Literaturnaja gazeta», n. 26, 5-11 luglio 2023; https://lgz.ru/article/-26-6891-05-07-2023/vek-pod-znakom-absurda/).
Inserito il 05/07/2023.